Transcript of PERCORSO La παιδεία in Grecia e a Roma
PERCORSO 2 La παιδεα in Grecia e a Roma
La scuola in Grecia Preceduto da un periodo in cui il bambino
(παιδον) è affidato alla madre o alla nutrice, il percorso
scolasti- co in Grecia iniziava a 7 anni, con l’insegnamento
elementare tenuto dal γραμματιστς; l’insegnamento secondario, fino
ai 14, era invece impartito al ragazzo (μειρκιον) dal γραμματικς;
infine, guidato dal σοφιστς, il giovane attendeva all’insegnamento
superiore, tra i 18 e i 20 anni, nel corso dei quali si dedi- cava
anche all’allenamento militare e sportivo (efebia). Non esistevano
scuole di stato, furono istituiti tuttavia centri municipali,
finanziati per lo più da benefattori (se ne ha notizia a Teos e a
Mileto, nel III secolo a.C.; a Delfi e a Rodi, nel II a.C.).
Un’eccezione è rappresen- tata dal collegio di Diogene (Διογνειον)
costituitosi ad Atene in età imperiale a cura dello stato. Le
lezioni erano tenute in una stanza dotata semplicemente di una
scranna per il maestro (θρνος) e di sga- belli (βθρα) per gli
allievi, i quali non disponevano di un tavolino e poggiavano le
loro tavolette (gli equiva- lenti dei moderni quaderni) sulle
ginocchia. L’attività educativa si protraeva fino al pomeriggio,
con un intervallo per il pranzo, e aveva inizio molto presto al
mattino (i ragazzi di alto rango venivano accompagnati da uno
schiavo con la lucerna, il παιδαγωγς); non prevedeva lunghi periodi
di sospensione, ma nel corso del mese erano celebrati numerosi
giorni festivi (nel mese di Artamisio, a Cos, intorno alla metà del
II secolo a.C., si avevano 8 giorni di feste e 2 di esame, nei
quali ovviamente non si faceva lezione). L’insegnamento era
estremamente personalizzato, pertanto il maestro con molta
probabilità conosceva sufficientemente i singoli alunni.
Gli studi si suddividevano in tre gradi ben distinti. Istruzione
primaria – Si cominciava dall’alfabeto, si attendeva allo studio
della scrittura e al calcolo. Il bam- bino era un recettore passivo
e in nessun modo ne erano sollecitate fantasia e sensibilità.
Istruzione secondaria – Si studia- vano gli autori più
rappresentativi, indicati dal canone. Il più letto era di gran
lunga Omero (specie per l’Ilia de); poi Euripide e Menandro (che
nel basso Impero fu sostituito da Aristofane), ma anche gli altri
gran- di (fino a Callimaco e ad Apollonio Rodio). Lo studio
prevedeva quattro momenti: l’accertamento del testo (διρθωσις),
allo scopo di unifor- mare quello in possesso agli allievi e al
maestro; la lettura (νγνωσις), pratica declamatoria
particolarmente
Scene di scuola, decorazione a figure rosse su kylix, 480 a.C.,
Berlino, Antikensammlung.
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difficile a causa della scriptio continua e dell’assenza di segni
di interpunzione; la spiegazione (ξγησις), specie dei termini rari
(γλσσαι); infine il commento (κρσις), allo scopo di veicolare
insegnamenti morali. Solo nel I secolo a.C. si affermarono studi
grammaticali, che attendevano all’analisi approfondita delle
struttu- re linguistiche, con esercizi di composizione (parafrasi,
riassunti ecc.). Gli studi scientifici, invece, non ebbero mai
grande peso: erano considerate dottrine specialistiche, pertanto
non necessarie alla formazione spirituale dell’educando. Istruzione
superiore – All’apice degli studi era collocata la retorica. Alcune
discipline, come la medicina, preve- devano una sorta di
apprendistato; certamente meno spazio era lasciato agli studi
tecnici (ingegneria, diritto ecc.).
Dall’ρετ all’educazione del cittadino Sono stati senza dubbio i
Greci a gettare le basi della nostra idea di educazione e di
cultura. In età ar- caica al centro della questione educativa si
pone l’ρετ, un ideale di perfezionamento dell’individuo che mira al
conseguimento delle sue migliori qualità fisiche e morali. In Omero
l’ρετ è una prerogativa dell’aristocrazia guerriera e si esprime
attraverso qualità supreme che contemperano il corpo e lo spirito,
secondo l’ideale della καλοκαγαθα («l’essere bello e buono»): for-
za, intelligenza, avvedutezza e un allenamento a di- venire «buon
parlatore e operatore di opere», come sostiene nell’Iliade
l’anziano principe Fenice, tutore di Achille:
Fanciullo, che non sapevi ancora la guerra crudele, non i consigli,
dove gli uomini nobilmente si affermano. E mi mandò per questo,
perché te li apprendessi, e buon parlatore tu fossi e operatore di
opere.
(Il. 9, 440-43; trad. a cura di R. Calzecchi Onesti)
Questi versi hanno un commentatore d’eccezione, Cicerone
stesso:
Presso gli antichi, a quanto sembra, il medesimo ammaestramento
insegnava sia ad agire onestamente sia a parlare correttamente, e
gli insegnamenti non erano distinti: gli stessi uomini erano
maestri di vita e di oratoria. Per esempio, in Omero troviamo
Fenice che narra di essere stato assegnato come compagno d’armi al
giovane Achille dal padre di questi Peleo, perché ne facesse «un
oratore e un uomo d’azione nello stesso tempo».
(Cic. Or. 3, 57, 3 ss.; trad. a cura di E. Narducci)
La nascita e l’affermazione della πλις segnano un mutamento di
rotta: la figura del guerriero cede il passo al quella del
cittadino e la πλις diviene la sede del dibattito sul sistema
educativo ideale, in cui la piena realiz- zazione dell’individuo
coincida con il bene della comunità. A tal proposito Werner Jaeger,
il maggiore teorico della παιδεα greca, sostiene che per i Greci
«l’educazione non è faccenda individuale, ma, per sua natura, è
cosa della comunità […]. L’edificio di ogni comunità riposa sulle
leggi e norme, scritte e non scritte, in essa vigenti, le quali
vincolano essa medesima e i suoi membri. Ogni educazione è perciò
emanazione diretta della viva coscienza normativa di una comunità
umana».
Combattimento di due guerrieri armati di lancia, decorazione a
figure nere su hydria,
560 a.C. circa, Parigi, Musée du Louvre.
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Nel corso del V secolo a.C., a seguito del costituirsi di forme di
governo democratico nella πλις, l’accesso alla classe dirigente
smette di essere un privilegio esclusivo della nobiltà di sangue.
La vecchia formazione ari- stocratica riteneva che l’educazione di
uno dei suoi membri fosse finalizzata alla piena realizzazione
della sua ρετ, ammettendone una attitudine innata al governo che
occorreva semplicemente coltivare. Nella πλις, invece, educazione e
inclinazioni naturali diventano temi di un vivo dibattito, volto a
definire in quale misura le due componenti contribuiscano a
delineare il profilo del perfetto reggitore dello stato. La prima
risposta a tale questione proviene dai sofisti, i «maestri di ρετ»,
che pretendono di insegnare l’arte della politica affinando le
abilità intellettuali e retoriche di ciascun allievo, con
l’obiettivo di renderlo idoneo all’amministrazione della città. I
sofisti operano una vera e propria rivoluzione pedagogica,
attribuen- do al sapere un valore formativo ineliminabile e
introducendo, di fatto, una nuova accezione di παιδεα. Le fonti
letterarie anteriori al V secolo a.C., infatti, testimoniano come,
fino a questo periodo, il termine παιδεα assumesse il significato
letterale di «guida, allevamento del fanciullo» (da πας «bambino»,
«fanciullo»). Nel corso del secolo, invece, la παιδεα diventa un
ideale di perfezione, di piena realizzazione umana, cui tendere
mediante l’educazione. Nel mondo ellenico questo ideale si esprime
e si elabora attraverso opere letterarie, filosofiche, artistiche,
le quali per l’appunto tracciano le tappe formative del percorso di
perfezio- namento. Come ancora una volta afferma Jaeger, «vero
strumento della παιδεα secondo i Greci non sono le mute arti dello
scultore, del pittore e dell’architetto, bensì il poeta e il
musico, il filosofo e il retore, cioè l’uomo politico».
Così ancora, nell’Atene di IV secolo a.C., l’educazione dei giovani
è oggetto di contesa tra le varie scuole di filosofia e retorica,
che gareggiano per procacciarsi quanti più allievi, proponendo
modelli di insegnamento anche molto diversi tra loro. In
particolare, la scuola di Isocrate si oppone nettamente
all’Accademia di Pla- tone. Nel suo programma educativo, Isocrate
attribuisce un ruolo determinante alla retorica, il cui scopo
tuttavia non è solamente quello di far valere la propria tesi in
una contesa verbale, ma soprattutto quello di promuovere la
crescita morale dell’individuo: in contrasto con la tesi platonica,
come osserveremo più sotto, Isocrate ritiene che la virtù non possa
essere insegnata (γομαι δ τοιατην μν τχνην, τις τος κακς πεφυκσιν
πρς ρετν σωφροσνην νεργσαιτ’ ν κα δικαιοσνην, οτε πρτερον οτε νν
οδεμαν εναι); tuttavia, attraverso il logos, il maestro può
trasferire agli alunni principi mo- rali quali la giustizia e la
saggezza. Pertanto, l’autore muove obiezioni sia alla dottrina
platonica, che pone al centro la ricerca filosofica a discapito
dell’eloquenza, sia all’oratoria giudiziaria, esclusivamente
pratica.
γομαι δ τοιατην μν τχνην, τις τος κακς πεφυκσιν πρς ρετν σωφροσνην
νεργσαιτ ν κα δικαιοσνην, οτε πρτερον οτε νν οδεμαν εναι, τος τε τς
ποσχσεις ποιουμνους περ ατν πρτερον περεν κα πασεσθαι ληροντας πρν
ερεθνα τινα παιδεαν τοιατην, ο μν λλ ατος γ ατν βελτους ν γγνεσθαι
κα πλεονος ξους ε πρς τε τ λγειν ε φιλοτμως διατεθεεν κα το πεθειν
δνασθαι τος κοοντας ρασθεεν κα πρς τοτοις τς πλεονεξας πιθυμσαιεν,
μ τς π τν νοτων νομιζομνης, λλ τς ς ληθς τν δναμιν τατην χοσης. Κα
ταθ ς οτω πφυκεν ταχως ομαι δηλσειν. Πρτον μν γρ λγειν γρφειν
προαιρομενος λγους ξους πανου κα τιμς οκ στιν πως ποισεται τς
ποθσεις δκους μικρς περ τν δων συμβολαων, λλ μεγλας κα καλς κα
φιλανθρπους κα περ τν κοινν πραγμτων μ γρ τοιατας ερσκων οδν
διαπρξεται τν δεντων. πειτα τν πρξεων τν συντεινουσν πρς τν πθεσιν
κλξεται τς πρεπωδεσττας κα μλιστα συμφεροσας δ τς τοιατας
συνεθιζμενος θεωρεν κα δοκιμζειν ο μνον περ τν νεσττα λγον, λλ κα
περ τς λλας πρξεις τν ατν ξει τατην δναμιν, σθ μα τ λγειν ε κα τ
φρονεν παραγενσεται τος φιλοσφως κα φιλοτμως πρς τος λγους
διακειμνοις.
(Isocr. 15, 274-277)
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Come si può osservare, Isocrate ritiene che colui che ambisce a
formulare discorsi «degni di lode e di ono- re» ( λγειν γρφειν
προαιρομενος λγους ξους πανου κα τιμς) predilige argomenti nobili,
ispirati «al bene dell’umanità e all’interesse generale»
(φιλανθρπους κα περ τν κοινν πραγμτων) e, tra i fatti, «quelli più
appropriati e più utili» (τς πρεπωδεσττας κα μλιστα συμφεροσας): il
rife- rimento è ai sermoni di stampo panellenico, politico e
panegirico, la cui composizione richiede un rigoroso esercizio
meditativo e selettivo, pratica destinata a consolidarsi come modus
operandi dell’oratore in ogni altro genere di attività. Tale
disposizione morale guadagnerà a chi la assume la stima dei
concittadini, con- tribuendo al suo successo nelle dinamiche
sociali e politiche. Prosegue ancora il sofista:
Resta la questione della superiorità, che è la più difficile da
trattare tra quelle anzidet- te. Se qualcuno pensa che chi
defrauda, inganna e fa del male sia superiore agli altri, è in
errore. Nessuno, durante tutto il corso della vita, resta di sotto
a gente simile, né si trova in maggiori difficoltà, né vive in modo
più ignominioso, né insomma è più infelice. Bisogna, dunque,
credere che la superiorità, così nel presente come nel futuro, sia
concessa agli dei a chi è più pio e più devoto al loro culto, dagli
uomini a chi è meglio disposto verso i familiari e i concittadini,
e gode la migliore reputazione. Questa è la verità ed è utile che
se ne parli così, perché oggi molte cose nella città sono così
sconvolte e confuse che alcuni neppure usano più le parole nel loro
senso naturale, ma le trasferiscono dalle azioni più nobili a
quelle più vili. I buffoni e le persone capaci di motteggiare e
parodiare li chiamano «begli spiriti», mentre questo termine si
dovrebbe riservare a chi ha le migliori disposi- zioni naturali per
la virtù; coloro che praticano il malcostume e il delitto e che per
magri guadagni si procurano cattiva fama li ritengono «uomini
superiori», anziché dar questo nome agli uomini più pii e più
giusti, cioè a quelli superiori nel bene e non nel male; e chi
trascura le cose necessarie per andar dietro alle mostruose
invenzioni degli antichi sofisti dicono che è «filosofo», senza
curarsi di chi impara e applica principi con cui amministrerà bene
il suo patrimonio e gl’interessi comuni delle città, scopo al quale
bisogna dedicare fatica, studio e ogni nostra attività. Ma voi già
da molto tempo distogliete i giovani da queste occupazioni
approvando le parole di chi denigra questo sistema educativo. Così
avete fatto sì che i più onesti di loro passino la giovinezza nel
bere, nelle combriccole, nell’indolenza e nei divertimenti, senza
curarsi di di- ventare migliori, e che quelli d’indole peggiore
trascorrano le giornate in tali disordini a cui un tempo neppure un
servo onesto avrebbe osato abbandonarsi.
(Isocr. 15, 281-286; trad. a cura di M. Manzi)
Grazie al dono naturale della parola, gli uomini sono usciti dalla
stato di ferinità, hanno instaurato re- lazioni sociali via via più
complesse, hanno formulato leggi e reperito tecniche. Il λγος ha
definito e codificato, in ambito legislativo, ciò che è giusto e
ciò che è ingiusto, gettando le basi del vivere civile; la parola
educa, denuncia il vizio, elogia la virtù. Un λγος opportuno –
secondo i criteri definiti sopra – assurge a guida morale, dà voce
ad animi virtuosi e sinceri, è esso stesso emanazione della
saggezza. Isocrate denuncia di converso un impiego improprio e
degenerato delle parole: spogliate del loro «sen- so naturale»,
veicolano ormai valori negativi e caldeggiano comportamenti dannosi
per l’individuo e la società. Occorre dunque ribadire la funzione
del λγος come strumento della παιδεα, segnata- mente della classe
dirigente.
Statua di letterato (forse Isocrate), copia augustea di originale
greco del IV-III secolo a.C, proveniente
da Ercolano, Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
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A differenza di Isocrate, Platone ritiene che il conseguimento
della virtù non dipenda dall’abitudine e dall’e- sercizio ma da
qualcosa di cui già l’anima dispone; di conseguenza, obiettivo
precipuo della παιδεα non sarà tanto l’insegnamento della virtù,
equiparabile allo sforzo vano di chi tenti di infondere «la vista
in occhi ciechi», quanto l’indirizzamento delle «nature più dotate»
alla contemplazione del Bene, da cui consegue la capacità di
amministrare lo stato con giustizia. Prerogativa, quest’ultima,
riservata ai filosofi, gli «amanti del sapere» (dal greco φλος e
σοφα), di cui lo stato deve farsi carico e che ha il compito di
educare perché possano governare rettamente. La città, con il suo
sistema di leggi, delinea le modalità pedagogiche che rea- lizzano
l’uomo nella sua dimensione politica e comunitaria, fine ultimo
dell’individuo per i Greci di età classica. In particolare, lo
stato ha il compito di selezionare i custodi (coloro cui, secondo
Platone, spetta l’amministra- zione e la difesa della πλις) e di
individuare tra essi i filosofi, che accederanno alle cariche
massime.
SOCRATE: Conviene ritenere – dissi io – che, se quanto si è detto è
vero, l’educazione non sia quale la dipingono alcuni che ne fanno
professione. Dicono, infatti, che pur non essendoci nell’anima la
cono- scenza, essi ve la immettono, come se immettessero la vista
in occhi ciechi. GLAUCONE: Effettivamente lo sostengono – ammise.
SOCRATE: Invece – continuai – il mio ragionamento mostra che questa
facoltà presente nell’animo di ognuno e l’organo con cui ognuno
apprende, proprio come l’occhio, non sarebbe possibile rivolgerli
dalla tenebra alla luce se non insieme con tutto il corpo, così
bisogna girarlo via dal divenire con tutta intera l’anima, fino a
che non risulti capace di pervenire alla contemplazione dell’essere
e al fulgore supremo dell’essere: ossia questo che diciamo essere
Bene. O no? GLAUCONE: Sì. SOCRATE: Di ciò, ossia di questa
conversione – dissi io – ci può essere un’arte, che insegni in che
modo l’anima possa essere più facilmente ed efficacemente girata.
E, quindi, non si tratta dell’arte di immet- tervi la vista, ma di
metterci mano «per orientarla», tenuto conto che essa già la
possiede, ma non riesce a volgerla nella giusta direzione, né a
vedere quel che dovrebbe. GLAUCONE: Così sembra – disse. SOCRATE:
Dunque, le altre virtù che sono dette dell’anima può darsi che si
avvicinino a quelle del corpo – esse, infatti, non preesistono al
corpo, ma vi vengono in seguito infuse attraverso l’abitudine e
l’eser- cizio –, invece la virtù dell’intelligenza più di ogni
altra, a quanto pare, è connessa a qualcosa di molto più divino,
che non perde mai la propria potenza, ma diventa utile o giovevole
o, al contrario, inutile o dannosa, a seconda della piega che le si
dà. […]
E che? – dissi – Non ti sembra che sia na- turale e che sia
strettamente connesso con quello che si è detto che gente ignorante
e senza alcuna esperienza della verità non potrebbe mai
amministrare in modo decen- te uno stato; e che neppure lo
potrebbero coloro che sono stati lasciati fino alla fine a
studiare? I primi, in effetti, non hanno nella vita neppure un
ideale, ispirandosi al quale poter conformare tutto il proprio
comporta- mento sia in pubblico sia in privato; gli altri, invece,
fosse per loro, non prenderebbero alcuna iniziativa, ritenendo di
essere migra- ti, ancora in vita, nelle isole dei beati. GLAUCONE:
È vero – ammise.Statua di Socrate, Atene.
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SOCRATE: Pertanto – continuai – sarà nostro preciso dovere di
fondatori dello stato costringere le nature più dotate a
indirizzarsi verso quella che prima avevamo definito conoscenza
massima – ossia la visione del Bene – e a incamminarsi per quella
erta salita. Però sarà anche nostro dovere, una volta che siano
arrivati in cima e abbiano contemplato quanto basta, non permettere
loro ciò che oggi è concesso. GLAUCONE: E che cosa è concesso?
SOCRATE: Di starsene lassù – risposi – e di non voler più saperne
di tornare […]. […] Diremo che quelli che sono come loro negli
altri stati non partecipano alla vita della città, e con tutte le
ragioni, perché si sono fatti da sé, senza l’intervento del loro
stato; e chi si è fatto da sé e non deve nulla a nessuno per la sua
formazione ha ogni diritto di non sentirsi vincolato a risarcire
alcuna delle spese di mantenimento. Voi invece siete stati formati
da noi, perché foste, come avviene negli alveari, per voi stessi e
per l’intera comunità guide e sovrani: per questo avete avuto una
formazione più elevata e più completa degli altri, per essere in
grado di partecipare dell’una o dell’altra scienza.
(Plat. Rp. 518b-520b; trad. a cura di R. Radice)
L’educazione si delinea come un processo costrittivo, in cui, come
si evince dal seguente passo del Protagora, il padre e il
precettore, al fine di rendere eccellente il ragazzo e di
insegnargli ciò che è giusto, «lo raddrizzano a suon di minacce e
percosse» (εθνουσιν πειλας κα πληγας) se si mostra ostile agli
insegnamenti. A scuola, i fanciulli apprendono a memoria le opere
dei grandi poeti, si esercitano nella musica e nella ginna- stica.
A conclusione dell’istruzione scolastica, la città «li costringe a
imparare le leggi e a conformarsi al loro modello» ( πλις α τος τε
νμους ναγκζει μανθνειν κα κατ τοτους ζν κατ παρδειγμα).
κ παδων σμικρν ρξμενοι, μχρι οπερ ν ζσι, κα διδσκουσι κα
νουθετοσιν. πειδν θττον συνι τις τ λεγμενα, κα τροφς κα μτηρ κα
παιδαγωγς κα ατς πατρ περ τοτου διαμχονται, πως ς βλτιστος σται
πας, παρ καστον κα ργον κα λγον διδσκοντες κα νδεικνμενοι τι τ μν
δκαιον, τ δ δικον, κα τδε μν καλν, τδε δ ασχρν, κα τδε μν σιον, τδε
δ νσιον, κα τ μν ποει, τ δ μ ποει. Κα ν μν κν πεθηται ε δ μ, σπερ
ξλον διαστρεφμενον κα καμπτμενον εθνουσιν πειλας κα πληγας. Μετ δ
τατα ες διδασκλων πμποντες πολ μλλον ντλλονται πιμελεσθαι εκοσμας
τν παδων γραμμτων τε κα κιθαρσεως ο δ διδσκαλοι τοτων τε
πιμελονται, κα πειδν α γρμματα μθωσιν κα μλλωσιν συνσειν τ
γεγραμμνα σπερ ττε τν φωνν, παρατιθασιν ατος π τν βθρων ναγιγνσκειν
ποιητν γαθν ποιματα κα κμανθνειν ναγκζουσιν, ν ος πολλα μν
νουθετσεις νεισιν πολλα δ διξοδοι κα παινοι κα γκμια παλαιν νδρν
γαθν, να πας ζηλν μιμται κα ργηται τοιοτος γενσθαι. Ο τ α
κιθαριστα, τερα τοιατα, σωφροσνης τε πιμελονται κα πως ν ο νοι μηδν
κακουργσιν πρς δ τοτοις, πειδν κιθαρζειν μθωσιν, λλων α ποιητν γαθν
ποιματα διδσκουσι μελοποιν, ες τ κιθαρσματα ντενοντες, κα τος υθμος
τε κα τς ρμονας ναγκζουσιν οκειοσθαι τας ψυχας τν παδων, να μερτερο
τε σιν, κα ερυθμτεροι κα εαρμοσττεροι γιγνμενοι χρσιμοι σιν ες τ
λγειν τε κα πρττειν πς γρ βος το νθρπου ερυθμας τε κα εαρμοστας
δεται. τι τονυν πρς τοτοις ες παιδοτρβου πμπουσιν, να τ σματα βελτω
χοντες πηρετσι τ διανο χρηστ οσ, κα μ ναγκζωνται ποδειλιν δι τν
πονηραν τν σωμτων κα ν τος πολμοις κα ν τας λλαις πρξεσιν. Κα τατα
ποιοσιν ο μλιστα δυνμενοι μλιστα δ δνανται ο πλουσιτατοι, κα ο
τοτων ες, πρατατα ες διδασκλων τς λικας ρξμενοι φοιτν, ψιατατα
παλλττονται. πειδν δ κ διδασκλων παλλαγσιν, πλις α τος τε νμους
ναγκζει μανθνειν κα κατ τοτους ζν κατ παρδειγμα, να μ ατο φ ατν εκ
πρττωσιν.
(Plat. Prot. 325c-326d)
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Si delinea per così dire un movimento dalla città all’individuo: la
prima orienta il secondo, imprimendogli saldamente il proprio
modello educativo. Particolarmente interessante appare tuttavia un
passo dell’Alcibiade I, in cui si definisce invece un movimen- to
in senso opposto, dal singolo alla comunità. Il maestro invita il
discepolo a prendersi cura di sé, ossia a comprendere la propria
soggettività responsabile e il senso della propria vita,
individuabile nella pratica di azioni morali e nella proficua
relazione con la comunità. Il singolo è posto al centro del
progetto pedagogico e la cura di sé diventa una condizione
ineliminabile perché si realizzi l’obiettivo primario di ogni
individuo: esserci, essere-nel-mondo, costruire il proprio
ben-essere nella relazione con l’altro. Una scienza pedagogica che
caldeggia la cura di sé, mediante la pratica della σοφα, promuove
una cittadinanza responsabile all’inter- no di una comunità
armonica, fondata su relazioni di φιλα. Certo, il modello socratico
è destinato alla classe dirigente, eppure si presta perfettamente a
un’attualizzazione nella contemporaneità. Da un’educazione fon-
data sulla cura di sé può nascere una nuova politica, in cui
ciascuno, realizzando se stesso nella virtù, attui il proprio
ben-essere nella comunità e si affranchi dalla schiavitù
dell’interesse individualistico.
SOCRATE: Questa parte [dell’anima in cui risiedono il conoscere e
il pensare] di essa, infatti, somiglia al dio; e uno, guardando a
essa e conoscendo anche tutto il divino, dio e pensiero, in questo
modo potreb- be avere anche la più grande conoscenza di se stesso.
ALCIBIADE: È evidente. SOCRATE: E come gli specchi, più chiari, più
puri e più luminosi dello specchio dell’occhio, così anche il dio
non è forse più puro e più luminoso della parte migliore che si
trova nella nostra anima? ALCIBIADE: Sembra di sì, o Socrate.
SOCRATE: Guardando allora al dio, ci serviremmo dello specchio
migliore, precisamente lo specchio delle cose umane che sono
rivolte alla virtù dell’anima, e in questo modo vedremmo nel modo
migliore e conosceremmo noi stessi. ALCIBIADE: Sì. SOCRATE: Ma non
abbiamo convenuto che conoscere se stessi è saggezza? ALCIBIADE:
Perfettamente. SOCRATE: Se dunque non conosciamo noi stessi e non
siamo saggi, potremmo conoscere ciò che noi abbiamo di cattivo e di
buono? ALCIBIADE: E in che modo questo potrebbe accadere, o
Socrate? […] SOCRATE: Ma analogamente chi ignora ciò che gli
appartiene dovrebbe in qualche modo ignorare ciò che appartiene
agli altri. ALCIBIADE: Certo. SOCRATE: E se ignora ciò che
appartiene agli altri ignorerà anche ciò che appartiene alla città.
ALCIBIADE: Necessariamente. SOCRATE: Un tal uomo non dovrebbe
dunque diventare un politico. ALCIBIADE: No davvero. SOCRATE: E
neppure un amministratore della casa. ALCIBIADE: No davvero.
SOCRATE: Non saprà nemmeno ciò che sta facendo. ALCIBIADE: No,
infatti. SOCRATE: E colui che non sa non commetterà degli errori?
ALCIBIADE: Garantito. SOCRATE: E sbagliando non avrà una pessima
riuscita sia in privato sia in pubblico? ALCIBIADE: Come no?
SOCRATE: E riuscendo male non sarà uno sventurato?
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ALCIBIADE: Molto, certo. SOCRATE: E che ne è di coloro ai quali
costui destina le sue azioni? ALCIBIADE: Sventurati anche loro.
SOCRATE: Non è dunque possibile, se non si è saggi e virtuosi,
essere felici. ALCIBIADE: No, non è possibile. SOCRATE: I cattivi
tra gli uomini sono dunque sventurati. ALCIBIADE: Molto, certo.
SOCRATE: Non è certo colui che è diventato ricco che si libera
dall’infelicità, ma colui che è diventato saggio. ALCIBIADE: È
evidente. SOCRATE: Non è dunque di mura né di triremi né di
cantieri navali ciò di cui hanno bisogno le città, o Alcibiade, se
vogliono essere felici, né di popolazione né di grandezza, se manca
la virtù. ALCIBIADE: No, certamente. SOCRATE: Se allora vuoi
gestire gli affari della città in modo retto e onorevole, devi
trasmettere ai cit- tadini la virtù. ALCIBIADE: Certo, come no?
SOCRATE: Ma in che modo si può trasmettere ciò che non si ha?
ALCIBIADE: E come? SOCRATE: Bisogna per prima cosa che tu ti renda
padrone della virtù e così deve fare chiunque altro voglia stare al
governo e curarsi non soltanto privatamente di se stesso e dei
propri interessi, ma della città e degli interessi della città.
ALCIBIADE: Quel che dici è vero. SOCRATE: Non devi procurare
libertà d’azione né il potere di fare ciò che vuoi, a te stesso e
neppure alla città; devi invece procurare giustizia e saggezza.
ALCIBIADE: È chiaro. SOCRATE: Agendo infatti con giustizia e con
saggezza tu e la città agirete in modo gradito agli dei. ALCIBIADE:
È naturale. SOCRATE: E, cosa che appunto dicevamo nei precedenti
discorsi, agirete tenendo sempre davanti agli occhi ciò che è
divino e lumi- noso. ALCIBIADE: È chiaro. SOCRATE: Ma appunto con
lo sguardo rivolto a questo, voi vedrete e conoscerete voi stessi e
il vostro bene. […] SOCRATE: Ma prima di avere raggiunto la virtù è
meglio essere gui- dati da una persona migliore piuttosto che
comandare, anche per un uomo, non solo per un fanciullo. ALCIBIADE:
È evidente. SOCRATE: E ciò che è meglio non è anche più bello?
ALCIBIADE: Sì. SOCRATE: E ciò che è più bello anche più
conveniente? ALCIBIADE: E come no? […] ALCIBIADE: Allora dico così.
Ma oltre a ciò io dico questo, che rischieremo di scambiarci il
ruolo, o So- crate, io il tuo e tu il mio; infatti a partire da
questo giorno non è possibile che io non ti segua come un pedagogo
segue un bambino, mentre tu sarai seguito da vicino da me come dal
maestro.
Platone, ritratto di età romana su probabile modello greco,
Monaco, Glyptothek.
9© 2021 by SEI - Società Editrice Internazionale - Torino
SOCRATE: Nobile Alcibiade, il mio amore non differirà allora in
nulla da quello della cicogna, se dopo aver allevato nel tuo animo
un amore alato, sarà a sua volta oggetto delle cure di
quest’ultimo. ALCIBIADE: Ebbene, le cose stanno così e comincerò
fin d’ora a prendermi cura della giustizia. SOCRATE: Vorrei che tu
proseguissi su questa strada: tuttavia temo, e non perché in
qualche modo io dubiti delle tue doti naturali, ma perché vedo la
forza della città, che possa averla vinta su me e su te.
(Plat. Alc. 1, 113b-135e; trad. a cura di G. Giardini)
Una interessante testimonianza della concezione pedagogica greca è
il De liberis educandis, opera at- tribuita a Plutarco, databile
grosso modo al II secolo d.C. Si tratta della lezione pubblica di
un maestro (l’autore allude frequentemente alla sua esperienza in
ambito didattico), che scandaglia brevemente alcu- ni capisaldi
della precettistica pedagogica, indugiando su quelli che ritiene
più significativi. L’argomento dell’intervento è chiaro: come
educare i ragazzi di condizione libera e di buona famiglia. Alcuni
suoi spunti non sembrano così distanti dai principi della pedagogia
moderna: il ruolo della famiglia e in particolar modo della figura
paterna (i padri devono farsi carico dell’educazione dei propri
ragazzi, sele- zionando oculatamente i maestri, osservandone
strategie e metodi educativi, vigilando sui progressi dei figli);
la necessità di infondere nell’animo dei giovani un forte rigore
morale; la tolleranza verso gli errori, la dubbia efficacia
educativa dei rimproveri eccessivi e delle punizioni corporali;
l’utilità dello svago come ricompensa dell’impegno e l’importanza
riconosciuta in tal senso alle attività ginniche. Stupisce
l’attenzio- ne verso i bambini e i ragazzi, non più discepoli da
istruire con metodi costrittivi e autoritari ma anime da guidare
con attenzione e amore.
Κκεν φημι, δεν τος παδας π τ καλ τν πιτηδευμτων γειν παραινσεσι κα
λγοις, μ μ Δα πληγας μηδ ακισμος. Δοκε γρ που τατα τος δολοις μλλον
τος λευθροις πρπειν ποναρκσι γρ κα φρττουσι πρς τος πνους, τ μν δι
τς λγηδνας τν πληγν, τ δ κα δι τς βρεις. παινοι δ κα ψγοι πσης εσν
ακας φελιμτεροι τος λευθροις, ο μν π τ καλ παρορμντες ο δ π τν
ασχρν νεργοντες. Δε δ ναλλξ κα ποικλως χρσθαι τας πιπλξεσι κα τος
πανοις, κπειδν ποτε θρασνωνται, τας πιπλξεσιν ν ασχν ποιεσθαι, κα
πλιν νακαλεσθαι τος πανοις κα μιμεσθαι τς ττθας, ατινες πειδν τ
παιδα κλαυθμυρσωσιν, ες παρηγοραν πλιν τν μαστν πχουσι. Δε δ ατος
μηδ τος γκωμοις παρειν κα φυσν χαυνονται γρ τας περβολας τν πανων
κα θρπτονται. δη δ τινας γ εδον πατρας, ος τ λαν φιλεν το μ φιλεν
ατιον κατστη. Τ ον στιν βολομαι λγειν, να τ παραδεγματι φωτειντερον
ποισω τν λγον Σπεδοντες γρ τος παδας ν πσι τχιον πρωτεσαι πνους
ατος περμτρους πιβλλουσιν, ος παυδντες κππτουσι, κα λλως βαρυνμενοι
τας κακοπαθεαις ο δχονται τν μθησιν εηνως. σπερ γρ τ φυτ τος μν
μετροις δασι τρφεται, τος δ πολλος πνγεται, τν ατν τρπον ψυχ τος μν
συμμτροις αξεται πνοις, τος δ περβλλουσι βαπτζεται. Δοτον ον τος
παισν ναπνον τν συνεχν πνων, νθυμουμνους τι πς βος μν ες νεσιν κα
σπουδν διρηται. Κα δι τοτ ο μνον γργορσις λλ κα πνος ερθη, οδ
πλεμος λλ κα ερνη, οδ χειμν λλ κα εδα, οδ νεργο πρξεις λλ κα ορτα.
Συνελντι δ επεν νπαυσις τν πνων στν ρτυμα. Κα οκ π τν ζων μνων τοτ
ν δοι τις γιγνμενον, λλ κα π τν ψχων κα γρ τ τξα κα τς λρας νεμεν,
ν πιτεναι δυνηθμεν. Καθλου δ σζεται σμα μν νδε κα πληρσει, ψυχ δ
νσει κα πν.
(Plut. 1, 8F – 9C)
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Roma: l’educazione come humanitas Nella cultura romana, la
riflessione sull’educazione pone al centro il concetto di
humanitas. Quest’ultimo – inteso come compimento dell’essenza più
autentica dell’uomo, della sua «umanità», appunto, attraverso le
arti «liberali» (ovvero quei saperi cui accedono gli uomini
«liberi» da occupazioni materiali) – procede di pari passo con
l’ideale dell’oratore, il quale a sua volta subisce un forte in-
flusso da parte delle teorie formulate nella Grecia del IV secolo
a.C. I mem- bri dell’aristocrazia latina a partire dal II secolo
a.C. riflettono sulle interconnessioni tra la propria cultura e
quella greca e provano a delineare un modello educativo che
contemperi carriera po- litica, valori morali e formazione
culturale e retorica. Que- sto tentativo, a cui accenna il pensiero
di Catone (III-II secolo a.C.), sarà compiutamente realizzato
nell’Oratore di Cicerone (106-43 a.C.). L’opera tuttavia più
pregnante a questo riguardo, anche per l’ab- bondanza di
riflessioni che forniranno spunti significativi alla mo- derna
pedagogia, è l’Institutio oratoria («La formazione dell’oratore»)
di Marco Fabio Quintiliano, un ampio trattato in 12 libri dedicato
alla formazione dell’oratore ideale. L’autore prende le mosse dalla
riflessio- ne sull’educazione dei fanciulli, convinto che la
professione di oratore debba avere alle spalle un solido percorso
formativo. Nei primi libri dell’opera, infatti, è trattato con
estrema cura il problema dell’insegnamento elementare, che secondo
Quintiliano deve rifuggire austerità e rigore e fondarsi piuttosto
sulla complicità tra insegnante e discente, con il ricorso,
all’occorrenza, di dinamiche mutuate dal gioco; qui la materia
ludica, seppur indirizzata a ragazzi, riprende quel delectando
docere, «insegnare dilettando», e quel miscere utile dulci,
«mischiare l’utile al dolce», del poeta Orazio, ingredienti
fondamentali per una più efficace trasmissione del sapere
finalizzata alla formazione dell’in- dividuo. Nei libri seguenti
dell’opera quintilianea vengono analizzati i successivi stadi del
percorso di istruzione. Sorprende come un pensiero dell’autore,
ossia che il greco e il latino debbano essere studiati in
parallelo, abbia influenzato i moderni pedagogisti (per esempio
Giovanni Gentile) e abbia ancor prima portato all’istituzione del
Liceo Classico. Ma quali erano le tappe di un giovane studente
nell’antica Roma? Tra le scuole pubbliche anzitutto figurava il
ludus litterarius, corrispondente alla nostra scuola elementare
(per bambini dai 6 agli 11 anni), i cui maestri erano cavalieri e
senatori; seguiva il ludus grammaticae (per ragazzi dai 12 ai 16
anni) affidato a un grammaticus che aveva il preciso compito di
insegnare la letteratura greca e latina, la storia, la ge- ografia,
la fisica e l’astronomia; infine vi era la rhetoris schola (per
adolescenti dai 17 anni in poi, attratti dalla carriera giuridica o
politica), in cui gli studenti si esercitavano principalmente nelle
suasoriae e nelle controversiae. Le prime scuole (il ludus
litterarius) erano frequentate in particolar modo da membri di
famiglie meno ab- bienti, dal momento che i ricchi preferivano
ricorrere a un precettore privato. Spesso, infatti, i maestri del
ludus litterarius tenevano le proprie lezioni all’aperto, esposti
insieme agli alunni alle intemperie, o sotto un loggiato (nei casi
più fortunati) o nei crocicchi (detti compita); in alternativa, se
il maestro non era di estra- zione sociale così bassa, teneva a
casa propria le lezioni, data l’assenza di strutture pubbliche. Nel
periodo imperiale, inoltre, si sviluppò il pedagogium, una
struttura che sembra essere stata esclusiva delle casate ricche:
qui venivano istruiti e formati sia i paggi sia gli schiavi bambini
che avrebbero servito la nobiltà del tempo.
Marco Tullio Cicerone, I secolo a.C., Firenze, Uffizi.
PERCORSO 2 La παιδεα in Grecia e a Roma
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In una società incentrata sull’eloquenza, non sorprende l’ampio
spazio riservato alla riflessione sul ruolo del magister. Nella sua
Institutio Oratoria Quintiliano delinea il modello ideale del
maestro di ars rhetorica, ugualmente valido per i precettori di
altre discipline. Quale condotta dovrà dunque assumere un
insegnante? Si distin- guerà per un’incrollabile integrità,
necessaria ad arginare il carattere impetuoso e corruttibile di
ciascun giovane (ideoque maior adhi benda tum cura est, ut et
teneriores annos ab iniuria sanctitas docentis custodiat et
ferociores a licentia gravitas deterreat); il magister sarà come un
padre, senza tuttavia eccedere in austerità o amabilità. Non
esiterà a fornire risposte agli incerti e a solleticare le
coscienze dei pigri; nel giudicare sarà equo e imparziale e non
umi- lierà lo studente in errore, perché modi burberi ed
eccessivamente arcigni attirano le avversioni dei discepoli.
Infine, strumento educa- tivo insostituibile saranno le vivae voces
del maestro: gli studenti tendono a imitare quanti acquistano
valore e credibilità ai loro occhi e la parola, più della lettura
di modelli esemplari, nutre e forgia gli animi (Licet enim satis
exemplorum ad imitandum ex lectione suppeditet, tamen viva illa, ut
dicitur, vox alit plenius praeci pueque praeceptoris).
Ergo cum ad eas in studiis vires pervenerit puer ut quae prima esse
praecepta rhetorum dixi mus mente consequi possit, tradendus eius
artis magistris erit. Quorum in primis inspici mores oportebit:
quod ego non idcirco potissimum in hac parte tractare sum adgressus
quia non in ce teris quoque doctoribus idem hoc examinandum quam
diligentissime putem, sicut testatus sum libro priore, sed quod
magis necessariam eius rei mentionem facit aetas ipsa discentium.
Nam et adulti fere pueri ad hos praeceptores transferuntur et apud
eos iuvenes etiam facti perseve rant, ideoque maior adhibenda tum
cura est, ut et teneriores annos ab iniuria sanctitas docentis
custodiat et ferociores a licentia gravitas deterreat. Neque vero
sat est summam praestare absti nentiam, nisi disciplinae severitate
convenientium quoque ad se mores adstrinxerit.
Ordunque, innanzi tutto il precettore assuma nei confronti dei
discepoli la disposizione d’animo di un padre e pensi di aver preso
il posto dei genitori che glieli hanno affidati. Non abbia né
sopporti difetti. Sia austero ma non arcigno, cordiale ma non in
misura esagerata, per evitare, nel primo caso, l’antipatia e, nel
secondo, la mancanza di riguardo. I suoi argomenti preferiti siano
l’onestà e il bene, ché, quanto più spesso avrà dato consigli,
tanto meno spesso dovrà infliggere castighi. Sia pochissimo
irascibile, ma non chiuda gli occhi di fronte ai difetti da
correggere; il suo insegnamento sia chiaro e semplice, molta la
resistenza alla fatica; pretenda quanto è giusto e sempre,
piuttosto che molto e a sbalzi.
Interrogantibus libenter respondeat, non interrogantes percontetur
ultro. In laudandis discipulo rum dictionibus nec malignus nec
effusus, quia res altera taedium laboris, altera securitatem pa
rit. In emendando quae corrigenda erunt non acerbus minimeque
contumeliosus; nam id quidem multos a proposito studendi fugat,
quod quidam sic obiurgant quasi oderint. Ipse aliquid, immo multa
cotidie dicat quae secum auditores referant. Licet enim satis
exemplorum ad imitandum ex lectione suppeditet, tamen viva illa, ut
dicitur, vox alit plenius praecipueque praeceptoris, quem
discipuli, si modo recte sunt instituti, et amant et verentur. Vix
autem dici potest quanto libentius imitemur eos quibus
favemus.
(Quint. inst. 2, 2, 1-8; trad. a cura di R. Faranda e P.
Pecchiura)
Giovane che scrive su una tavoletta, età imperiale, Klagenfurt,
Landesmuseum.
PERCORSO 2 La παιδεα in Grecia e a Roma
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In un altro passo dell’Institutio oratoria, Quintiliano difen- de
la scuola pubblica, ritenuta spesso una delle cause della
degenerazione morale dei giovani. L’autore sostiene che l’in-
segnamento domestico non è esente da errori: genitori indolenti e
ignobili precettori possono allevare, in privato come in pubblico,
bambini sordi a ogni imperativo morale; se invece il ragazzo ha
alle spalle una famiglia onesta e vigile, avrà per sé un maestro
integerrimo e un fidato liberto che gli insegni a non lasciarsi
intimorire dai compagni (si bona ipsius indo les, si non caeca ac
sopita parentium socordia est, et prae ceptorem eligere
sanctissimum […] licet et nihilo minus amicum gravem virum aut
fidelem libertum lateri filii sui
adiungere). Questi timori nascono dall’eccessiva indulgenza dei
genitori, i quali rammolliscono i figli a tal punto che già da
bambini si intendono di porpore e ostriche e, avvezzi alla lettiga,
detestano servirsi dei propri piedi. Così tra le mura domestiche
praticano il vizio prima ancora che abbiano imparato a
identificarlo e inconsapevolmente lo introducono in classe (inde
soluti ac fluentes non accipiunt ex scholis mala ista, sed in
scholas adferunt). Quintiliano, infine, confuta la tesi secondo cui
il maestro pubblico non può occuparsi di tutti gli studenti allo
stesso modo e afferma che egli preferirebbe senza dubbio la mera
compagnia dei compagni di classe a una buia e triste
solitudine.
Corrumpi mores in scholis putant: nam et corrumpuntur interim, sed
domi quoque, et sunt multa eius rei exempla, tam hercule quam
conservatae sanctissime utrubique opinionis. Natura cuiusque totum
curaque distat. Da mentem ad peiora facilem, da neglegentiam
formandi custodiendique in aetate prima pudoris, non minorem
flagitiis occasionem secreta praebuerint. Nam et potest turpis esse
domesticus ille praeceptor, nec tutior inter servos malos quam
ingenuos parum modestos conversatio est. At si bona ipsius indoles,
si non caeca ac sopita parentium socordia est, et praeceptorem
eligere sanctissimum quemque, cuius rei praecipua prudentibus cura
est, et disciplinam quae maxime severa fuerit licet, et nihilo
minus amicum gravem virum aut fidelem libertum lateri filii sui
adiungere, cuius adsiduus comitatus etiam illos meliores faciat qui
timebantur. Facile erat huius metus remedium. Utinam liberorum
nostrorum mores non ipsi perderemus! Infantiam statim deliciis
solvimus. Mollis illa educatio, quam indulgentiam vocamus, nervos
omnis mentis et corporis frangit. Quid non adultus concupiscet qui
in purpuris repit? Nondum prima verba exprimit, iam coccum
intellegit, iam conchylium poscit. Ante palatum eorum quam os
instituimus. In lecticis crescunt: si terram attigerunt, e manibus
utrimque sustinentium pendent. Gaudemus si quid licentius dixerint:
verba ne Alexandrinis quidem permittenda deliciis risu et osculo
excipimus. Nec mirum: nos docuimus, ex nobis audierunt; nostras
amicas, nostros concubinos vident; omne convivium obscenis canticis
strepit, pudenda dictu spectantur. Fit ex his consuetudo, inde
natura. Discunt haec miseri antequam sciant vitia esse: inde soluti
ac fluentes non accipiunt ex scholis mala ista, sed in scholas
adferunt.
Dicono: «Per quanto, però, riguarda gli studi, un solo precettore
potrà meglio dedicarsi a un solo allievo». Innanzi tutto, nulla
impedisce che egli, chiunque sia, si tenga vicino all’alunno della
scuola pubblica. Ma, pure se non si potessero realizzare l’una e
l’altra cosa, preferirei sempre la luce di una decorosa compagnia a
un ambiente tenebroso e solitario: infatti, i migliori maestri
godono se l’uditorio è numeroso e si ritengono degni di un pubblico
più folto. Ma i meno valenti, per così dire, consapevoli dei loro
limiti culturali, non disdegnano di dedicarsi strettamente al
singolo ragazzo e di compiere in qualche modo l’ufficio di
pedagoghi.
(Quint. inst. 1, 2, 4-9; trad. a cura di R. Faranda e P.
Pecchiura)
Stili, calamaio e vasetti, I secolo a.C., Aquileia, Museo
Archeologico.
PERCORSO 2 La παιδεα in Grecia e a Roma
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Quintiliano non cela le sue simpatie per l’istruzione pubblica a
discapito di quella privata e ne spiega scrupolosamente le ragioni.
In primo luogo, a scuola lo studente apprende sia dagli
insegnamenti che il maestro gli impartisce sia da quelli che
destina ai compagni. La scuola, inoltre, genera una sana
competizione, fonte di virtuosa ambizione. Quintiliano ricorda a
tal proposito che i suoi maestri, nelle declamazioni pubbliche,
solevano stabili- re un ordine di esibizione sulla base delle
abilità di ciascuno studente; tale consuetudine, più degli
ammonimenti da par- te dei maestri e dei genitori, faceva da sprone
all’allievo: si tende infatti a imitare i propri pari con maggiore
naturalez- za di quella con cui si emula l’insegnante
(incipientibus at que adhuc teneris condiscipulorum quam
praeceptoris iucundior hoc ipso quod facilior imitatio est).
Occorre infine che il buon maestro dispensi oculatamente il proprio
sapere, poiché, come un recipiente dal collo stretto si ri- empie a
piccole gocce, così la mente del fanciullo, ancora poco allenata,
assimila solo gradualmente (maiora intel lectu velut parum apertos
ad percipiendum animos non subibunt).
Si aggiunga il fatto che, a casa sua, egli può apprendere solo
quanto sarà insegnato a lui, nella scuola, anche quanto sarà
insegnato agli altri. Sentirà ogni giorno molte cose approvare,
altre correggere, gli sarà un’utile lezione il rimprovero della
pigrizia, l’elogio della diligenza, la lode ne susciterà
l’emulazione, si convincerà che è vergognoso restare indietro a un
suo pari e che dà soddisfazione l’aver superato i migliori. Tutto
ciò accende di entusiasmo l’animo, ed è vero che l’ambizione,
malgrado sia un difetto, è tuttavia spesso uno stimolo alle
virtù.
Non inutilem scio servatum esse a praeceptoribus meis morem, qui,
cum pueros in classis distribuerant, ordinem dicendi secundum vires
ingenii dabant, et ita superiore loco quisque declamabat ut
praecedere profectu videbatur: huius rei iudicia praebebantur. Ea
nobis ingens palma, ducere vero classem multo pulcherrimum. Nec de
hoc semel decretum erat: tricesimus dies reddebat victo certaminis
potestatem. Ita nec superior successu curam remittebat et dolor
victum ad deponendam ignominiam concitabat. Id nobis acriores ad
studia dicendi faces subdidisse quam exhortationem docentium,
paedagogorum custodiam, vota parentium, quantum animi mei
coniectura colligere possum, contenderim. Sed sicut firmiores in
litteris profectus alit aemulatio, ita incipientibus atque adhuc
teneris condiscipulorum quam praeceptoris iucundior hoc ipso quod
facilior imitatio est. Vix enim se prima elementa ad spem tollere
effingendae quam summam putant eloquentiae audebunt: proxima
amplectentur magis, ut vites arboribus adplicita e inferiores prius
adprendendo ramos in cacumina evadunt. Quod adeo verum est ut
ipsius etiam magistri, si tamen ambitiosis utilia praeferet, hoc
opus sit, cum adhuc rudia tractabit ingenia, non statim onerare
infirmitatem discentium, sed temperare vires suas et ad intellectum
audientis descendere. Nam ut vascula oris angusti superfusam umoris
copiam respuunt, sensim autem influentibus vel etiam instillatis
complentur, sic animi puerorum quantum excipere possint videndum
est: nam maiora intellectu velut parum apertos ad percipiendum
animos non subibunt.
(Quint. inst. 1, 2, 21-28; trad. a cura di R. Faranda e P.
Pecchiura)
Istitutore con allievi, II-III secolo, bassorilievo di un
sarcofago, Roma, Musei Vaticani.
PERCORSO 2 La παιδεα in Grecia e a Roma
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Molto significativo, infine, risulta un brano di Seneca tratto dal
dialogo De ira, in cui il filosofo sostiene l’importanza di
un’educazione mite, che tenga gli allievi lontano dall’ira. Compito
difficile, perché lo spirito cresce nella libertà concessa, nella
schiavitù si fiacca (crescit licentia spiritus, servitute
comminuitur). Occorre moderare anche l’entusiasmo dello studente,
specie dopo che ab- bia conseguito la vittoria in una competizione:
è bene che intrecci con i suoi avversari rapporti di socialità,
così da sfidarli solamente per il gusto del trionfo, rifiutando
ogni accanimento; se prevarrà, gli sia permesso di esultare, non di
gloriarsi, affinché la gioia non si muti in arroganza (gaudium enim
exultatio, exultationem tumor et nimia aestimatio sui sequitur).
Potrà concedersi momenti di svago, ma sarà necessario bandire
l’ozio, perché un’educazio- ne eccessivamente morbida induce
all’ira, come accade spesso con i figli unici o gli orfani
adottati. In generale, una vita agiata è più incline a reazioni
incontrollate: i ricchi, per esempio, tendono ad accendersi per
ogni capriccio, pertanto è oppor- tuno che il giovane venga
associato a coetanei dallo stesso tenore di vita, cosicché non si
adiri quando venga comparato agli altri. Il fanciullo deve
apprendere il rispetto verso chi è più grande e autorevole di lui;
occorre che abbia riguardo nei confronti dei genitori e del maestro
e che impari a riverire gli anziani (et timeat interim, vereatur
sem per, maioribus adsurgat).
Plurimum, inquam, proderit pueros statim salubriter institui;
difficile autem regimen est, quia dare debemus operam ne aut iram
in illis nutriamus aut indolem retundamus. Diligenti ob servatione
res indiget; utrumque enim, et quod extollendum et quod deprimendum
est, simili bus alitur, facile autem etiam adtendentem similia
decipiunt. Crescit licentia spiritus, servitute comminuitur;
adsurgit si laudatur et in spem sui bonam adducitur, sed eadem ista
insolentiam et iracundiam generant: itaque sic inter utrumque
regendus est ut modo frenis utamur modo stimulis. Nihil humile,
nihil servile patiatur; numquam illi necesse sit rogare suppliciter
nec prosit rogasse, potius causae suae et prioribus factis et bonis
in futurum promissis donetur. In certaminibus aequalium nec vinci
illum patiamur nec irasci; demus operam ut familiaris sit iis cum
quibus contendere solet, ut in certamine adsuescat non nocere velle
sed vincere; quo tiens superaverit et dignum aliquid laude fecerit,
attolli non gestire patiamur; gaudium enim exultatio, exultationem
tumor et nimia aestimatio sui sequitur. Dabimus aliquod laxamentum,
in desidiam vero otiumque non resolvemus et procul a contactu
deliciarum retinebimus; nihil enim magis facit iracundos quam
educatio mollis et blanda. Ideo unicis quo plus indulgetur, pu
pillisque quo plus licet, corruptior animus est. Non resistet
offensis cui nihil umquam negatum est, cuius lacrimas sollicita
semper mater abstersit, cui de paedagogo satisfactum est. Non vides
ut maiorem quamque fortunam maior ira comitetur? In divitibus et
nobilibus et magistratibus praecipue apparet, cum quidquid leve et
inane in animo erat secunda se aura sustulit. Felicitas iracundiam
nutrit, ubi aures superbas adsentatorum turba circumstetit: «Tibi
enim ille respon deat? Non pro fastigio te tuo metiris; ipse te
proicis», et alia quibus vix sanae et ab initio bene fundatae
mentes restiterunt. Longe itaque ab adsentatione pueritia removenda
est: audiat ve rum. Et timeat interim, vereatur semper, maioribus
adsurgat. Nihil per iracundiam exoret: quod flenti negatum fuerit
quieto offeratur. Et divitias parentium in conspectu habeat, non in
usu.
Doppia erma di Seneca e di Socrate, II secolo d.C., Berlino,
Staatliche Museen.
PERCORSO 2 La παιδεα in Grecia e a Roma
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Exprobrentur illi perperam facta. Pertinebit ad rem praeceptores
paedagogosque pueris placidos dari: proximis adplicatur omne quod
tenerum est et in eorum similitudinem crescit; nutricum et
paedagogorum rettulere mox adulescentium mores.
Un fanciullo, educato in casa di Platone, quando, restituito ai
genitori, sentì il padre gridare: «Mai – disse – ho visto cose del
genere in casa di Platone». Io però sono sicuro che passò ben
presto dall’imitazione di Platone a quella del padre. E, prima di
tutto, il vitto sia misurato, i vestiti non siano costosi, il
tenore di vita sia uguale a quello dei coetanei: non si adirerà
d’essere paragonato con gli altri se, fin dall’inizio, lo avrai
messo alla pari con molti.
(Sen. dial. 4, 21; trad. a cura di A. Marastoni)
Accanto alla riflessione sulla pratica educativa ideale, si
sviluppa un’indagine sulle ragioni della degenera- zione culturale.
Questo tema è alla base di una presunta opera di Tacito, il
Dialogus de oratoribus, in cui l’autore riflette sulle cause del
declino dell’eloquenza. Messalla, uno dei protagonisti dell’opera,
sostiene che nessuno può ignorare la decadenza dell’oratoria, esito
ineluttabile della regressione culturale dei giova- ni, della
negligenza dei genitori e, non per ultima, dell’ignoranza dei
maestri. Aggiunge inoltre che questi mali sono sì nati a Roma, ma
successivamente sono dilagati in tutte le province: un’ondata di
inerzia e negligenza che ha colpevolmente bandito il rigore e la
disciplina degli antichi. Messalla illustra quindi alcune pratiche
educative attuate nel passa- to: un tempo il neonato di un certo
rango veniva accudito e allattato non da una balia ma dalla madre
stessa (non in cellula emptae nutricis, sed gremio ac sinu matris
educabatur); era quin- di affidato a un’anziana parente, tenuta in
gran conto per i suoi severi costumi: era lei ad alternare sessioni
didattiche con momenti più prettamente ludici e il bambino le
riservava somma riverenza. Messalla menziona in seguito personaggi
ragguardevoli del passato, educati dalle madri con ferrea
disciplina: i Gracchi figli di Cornelia, Giulio Cesare figlio di
Aurelia Cotta, Augusto figlio di Azia. Ma perché un’educazione così
rigorosa? Per un preciso scopo, spiega Messalla: occorreva allevare
e formare i giovani perché diventassero uomini in grado di giovare
alla società (quae disciplina ac severitas eo pertinebat, ut
sincera et integra et nullis pravitatibus detorta unius cuiusque
natura toto statim pectore arriperet artis honestas). Questo era il
fine pedagogico perseguito dagli antichi Romani e rammentato da
Tacito, scopo ultimo che sembra sia andato tristemente a perdersi
nei secoli.
Messalla rispose: «Materno, le cause che tu mi chiedi non sono
difficili da scoprire, e non sono ignote a te, a Secondo e ad Apro,
anche se avete affidato a me il compito di esporre con chiarezza
quanto tutti sentiamo. Infatti, chi ignora che l’eloquenza e le
altre arti sono decadute dalla loro antica gloria, non per mancanza
di uomini, ma per la pigrizia dei giovani, la negligenza dei
genitori, l’ignoranza dei maestri, e perché si sono dimenticate le
usanze antiche?
Jules Cavelier, Cornelia madre dei Gracchi, 1861, marmo, Parigi,
Musée d’Orsay.
PERCORSO 2 La παιδεα in Grecia e a Roma
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Quae mala primum in urbe nata, mox per Italiam fusa, iam in
provincias manant. Quamquam vestra vobis notiora sunt: ego de urbe
et his propriis ac vernaculis vitiis loquar, quae natos sta tim
excipiunt et per singulos aetatis gradus cumulantur, si prius de
severitate ac disciplina ma iorum circa educandos formandosque
liberos pauca praedixero. Nam pridem suus cuique filius, ex casta
parente natus, non in cellula emptae nutricis, sed gremio ac sinu
matris educabatur, cuius praecipua laus erat tueri domum et
inservire liberis. Eligebatur autem maior aliqua natu propinqua,
cuius probatis spectatisque moribus omnis eiusdem familiae suboles
committeretur; coram qua neque dicere fas erat quod turpe dictu,
neque facere quod inhonestum factu videretur. Ac non studia modo
curasque, sed remissiones etiam lususque puerorum sanctitate quadam
ac verecundia temperabat. Sic Corneliam Gracchorum, sic Aureliam
Caesaris, sic Atiam Augusti praefuisse educationibus ac produxisse
principes liberos accepimus. Quae disciplina ac severi tas eo
pertinebat, ut sincera et integra et nullis pravitatibus detorta
unius cuiusque natura toto statim pectore arriperet artis honestas,
et sive ad rem militarem sive ad iuris scientiam sive ad
eloquentiae studium inclinasset, id solum ageret, id universum
hauriret.
(Tac. dial. 28; trad. a cura di F. Dessì)
Il cristianesimo e l’educazione La diffusione del cristianesimo
mina l’impianto teorico su cui si fondava la pratica educativa
dell’antichità. È tut- tavia solo sul finire del II secolo e più
ancora all’inizio del III secolo che i cristiani elaborano un
modello culturale alternativo a quello pagano. La sede di questa
riflessione è il Didaskaleion, scuola catechetica di Alessandria.
Clemente Alessandrino, nel suo Pedagogo, si occupa per la prima
volta della formazione del cristiano, il quale partecipa del Logos
divino e consegue la gnosi, una forma di conoscenza religiosa che
attinge alla tra- dizione culturale greca (ritenuta partecipe
anch’essa del Logos divino in quanto depositaria di alcune verità)
e la concilia con gli insegnamenti del messaggio
ebraico-cristiano.
Πρξεν τε πασν λγος πιστατε ποθετικς, τ δ πθη παραμυθητικς ται, ες ν
πς ατς οτος λγος, τς συντρφου κα κοσμικς συνηθεας ξαρπζων τν
νθρωπον, ες δ τν μοντροπον τς ες τν θεν πστεως σωτηραν παιδαγωγν.
γον ορνιος γεμν, λγος, πηνκα μν π σωτηραν παρεκλει, προτρεπτικς
νομα ατ ν – δως οτος παρορμητικς κ μρους τ πν προσαγορευμενος λγος
προτρεπτικ γρ πσα θεοσβεια, ζως τς νν κα τς μελλοσης ρεξιν γγεννσα
τ συγγενε λογισμ – νυν δ θεραπευτικς τε ν κα ποθετικς μα μφω,
πμενος ατς ατ, παραινε τν προτετραμμνον, κεφλαιον τν ν μν παθν
πισχνομενος τν ασιν. Κεκλσθω δ μν ν προσφυς οτος νματι παιδαγωγς,
προακτικς, ο μεθοδικς ν παιδαγωγς, κα τ τλος ατο βελτισαι τν ψυχν
στιν, ο διδξαι, σφρονς τε, οκ πιστημονικο καθηγσασθαι βου. Κατοι κα
διδασκαλικς ατς στι λγος, λλ ο νν μν γρ ν τος δογματικος δηλωτικς
κα ποκαλυπτικς, διδασκαλικς, πρακτικς δ ν παιδαγωγς πρτερον μν ες
διθεσιν θοποιας προτρψατο, δη δ κα ες τν τν δεντων νργειαν
παρακαλε, τς ποθκας τς κηρτους παρεγγυν κα τν πεπλανημνων πρτερον
τος στερον πιδεικνς τς εκνας. μφω δ φελιμτατα, τ μν ες πακον, τ
παραινετικν εδος, τ δ ν εκνος μρει παραλαμβανμενον διττν κα ατ
παραπλησως τ προτρ συζυγ, τ μν ατο να μιμμεθα αρομενοι τ γαθν, τ δ
πως κτρεπμεθα παραιτομενοι τ φαλον τς εκνος.
La guarigione dalle passioni segue da ciò: il pedagogo con il
conforto degli esempi rinvigorisce le anime e usando benigne
ammonizioni come miti farmachi conduce gli infermi nell’anima alla
perfetta cono- scenza della verità. Non sono uguali la sanità e la
conoscenza della verità, infatti questa proviene dallo
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studio, quella dalla guarigione. Uno che sia ancora malato
nell’anima non può imparare nulla delle cose che insegna il maestro
se prima non sia completamente guarito. Infatti ogni ordine non è
dato allo stes- so modo a coloro che sono discepoli e a coloro che
sono malati, ma a quelli è dato perché li conduca alla gnosi, a
questi perché li guidi alla guarigione. Come dunque quelli che sono
malati nel corpo hanno bisogno del medico, così agli infermi
nell’anima occorre il Pedagogo che guarisca le nostre passioni; poi
ci guiderà al maestro preparando la nostra anima pura per
l’acquisto della gnosi, e così la nostra anima potrà comprendere lo
svelarsi del Logos. Studiandosi dunque di perfezionarci nel cammino
della sal- vezza, il benignissimo Logos usa un bel metodo,
conveniente a darci un’educazione efficace: dapprima converte, poi
educa come pedagogo, infine insegna.
(Clem. Paed. 1,1; trad. a cura di P. Rossano)
Il Logos si pone a fondamento della παιδεα cristiana come di quella
classica; tuttavia,