PERCORSO La παιδεία in Grecia e a Roma

18
1 © 2021 by SEI - Società Editrice Internazionale - Torino PERCORSO 2 La παιδεία in Grecia e a Roma La scuola in Grecia Preceduto da un periodo in cui il bambino (παιδίον) è affidato alla madre o alla nutrice, il percorso scolasti- co in Grecia iniziava a 7 anni, con l’insegnamento elementare tenuto dal γραμματιστής; l’insegnamento secondario, fino ai 14, era invece impartito al ragazzo (μειράκιον) dal γραμματικός; infine, guidato dal σοφιστής, il giovane attendeva all’insegnamento superiore, tra i 18 e i 20 anni, nel corso dei quali si dedi- cava anche all’allenamento militare e sportivo (efebia). Non esistevano scuole di stato, furono istituiti tuttavia centri municipali, finanziati per lo più da benefattori (se ne ha notizia a Teos e a Mileto, nel III secolo a.C.; a Delfi e a Rodi, nel II a.C.). Un’eccezione è rappresen- tata dal collegio di Diogene (Διογένειον) costituitosi ad Atene in età imperiale a cura dello stato. Le lezioni erano tenute in una stanza dotata semplicemente di una scranna per il maestro (θρόνος) e di sga- belli (βάθρα) per gli allievi, i quali non disponevano di un tavolino e poggiavano le loro tavolette (gli equiva- lenti dei moderni quaderni) sulle ginocchia. L’attività educativa si protraeva fino al pomeriggio, con un intervallo per il pranzo, e aveva inizio molto presto al mattino (i ragazzi di alto rango venivano accompagnati da uno schiavo con la lucerna, il παιδαγωγός); non prevedeva lunghi periodi di sospensione, ma nel corso del mese erano celebrati numerosi giorni festivi (nel mese di Artamisio, a Cos, intorno alla metà del II secolo a.C., si avevano 8 giorni di feste e 2 di esame, nei quali ovviamente non si faceva lezione). L’insegnamento era estremamente personalizzato, pertanto il maestro con molta probabilità conosceva sufficientemente i singoli alunni. Gli studi si suddividevano in tre gradi ben distinti. Istruzione primaria – Si cominciava dall’alfabeto, si attendeva allo studio della scrittura e al calcolo. Il bam- bino era un recettore passivo e in nessun modo ne erano sollecitate fantasia e sensibilità. Istruzione secondaria – Si studia- vano gli autori più rappresentativi, indicati dal canone. Il più letto era di gran lunga Omero (specie per l’Ilia‑ de); poi Euripide e Menandro (che nel basso Impero fu sostituito da Aristofane), ma anche gli altri gran- di (fino a Callimaco e ad Apollonio Rodio). Lo studio prevedeva quattro momenti: l’accertamento del testo (διόρθωσις), allo scopo di unifor- mare quello in possesso agli allievi e al maestro; la lettura (ἀνάγνωσις), pratica declamatoria particolarmente Scene di scuola, decorazione a figure rosse su kylix, 480 a.C., Berlino, Antikensammlung.

Transcript of PERCORSO La παιδεία in Grecia e a Roma

PERCORSO 2 La παιδεα in Grecia e a Roma
La scuola in Grecia Preceduto da un periodo in cui il bambino (παιδον) è affidato alla madre o alla nutrice, il percorso scolasti- co in Grecia iniziava a 7 anni, con l’insegnamento elementare tenuto dal γραμματιστς; l’insegnamento secondario, fino ai 14, era invece impartito al ragazzo (μειρκιον) dal γραμματικς; infine, guidato dal σοφιστς, il giovane attendeva all’insegnamento superiore, tra i 18 e i 20 anni, nel corso dei quali si dedi- cava anche all’allenamento militare e sportivo (efebia). Non esistevano scuole di stato, furono istituiti tuttavia centri municipali, finanziati per lo più da benefattori (se ne ha notizia a Teos e a Mileto, nel III secolo a.C.; a Delfi e a Rodi, nel II a.C.). Un’eccezione è rappresen- tata dal collegio di Diogene (Διογνειον) costituitosi ad Atene in età imperiale a cura dello stato. Le lezioni erano tenute in una stanza dotata semplicemente di una scranna per il maestro (θρνος) e di sga- belli (βθρα) per gli allievi, i quali non disponevano di un tavolino e poggiavano le loro tavolette (gli equiva- lenti dei moderni quaderni) sulle ginocchia. L’attività educativa si protraeva fino al pomeriggio, con un intervallo per il pranzo, e aveva inizio molto presto al mattino (i ragazzi di alto rango venivano accompagnati da uno schiavo con la lucerna, il παιδαγωγς); non prevedeva lunghi periodi di sospensione, ma nel corso del mese erano celebrati numerosi giorni festivi (nel mese di Artamisio, a Cos, intorno alla metà del II secolo a.C., si avevano 8 giorni di feste e 2 di esame, nei quali ovviamente non si faceva lezione). L’insegnamento era estremamente personalizzato, pertanto il maestro con molta probabilità conosceva sufficientemente i singoli alunni.
Gli studi si suddividevano in tre gradi ben distinti. Istruzione primaria – Si cominciava dall’alfabeto, si attendeva allo studio della scrittura e al calcolo. Il bam- bino era un recettore passivo e in nessun modo ne erano sollecitate fantasia e sensibilità. Istruzione secondaria – Si studia- vano gli autori più rappresentativi, indicati dal canone. Il più letto era di gran lunga Omero (specie per l’Ilia de); poi Euripide e Menandro (che nel basso Impero fu sostituito da Aristofane), ma anche gli altri gran- di (fino a Callimaco e ad Apollonio Rodio). Lo studio prevedeva quattro momenti: l’accertamento del testo (διρθωσις), allo scopo di unifor- mare quello in possesso agli allievi e al maestro; la lettura (νγνωσις), pratica declamatoria particolarmente
Scene di scuola, decorazione a figure rosse su kylix, 480 a.C., Berlino, Antikensammlung.
PERCORSO 2 La παιδεα in Grecia e a Roma
2© 2021 by SEI - Società Editrice Internazionale - Torino
difficile a causa della scriptio continua e dell’assenza di segni di interpunzione; la spiegazione (ξγησις), specie dei termini rari (γλσσαι); infine il commento (κρσις), allo scopo di veicolare insegnamenti morali. Solo nel I secolo a.C. si affermarono studi grammaticali, che attendevano all’analisi approfondita delle struttu- re linguistiche, con esercizi di composizione (parafrasi, riassunti ecc.). Gli studi scientifici, invece, non ebbero mai grande peso: erano considerate dottrine specialistiche, pertanto non necessarie alla formazione spirituale dell’educando. Istruzione superiore – All’apice degli studi era collocata la retorica. Alcune discipline, come la medicina, preve- devano una sorta di apprendistato; certamente meno spazio era lasciato agli studi tecnici (ingegneria, diritto ecc.).
Dall’ρετ all’educazione del cittadino Sono stati senza dubbio i Greci a gettare le basi della nostra idea di educazione e di cultura. In età ar- caica al centro della questione educativa si pone l’ρετ, un ideale di perfezionamento dell’individuo che mira al conseguimento delle sue migliori qualità fisiche e morali. In Omero l’ρετ è una prerogativa dell’aristocrazia guerriera e si esprime attraverso qualità supreme che contemperano il corpo e lo spirito, secondo l’ideale della καλοκαγαθα («l’essere bello e buono»): for- za, intelligenza, avvedutezza e un allenamento a di- venire «buon parlatore e operatore di opere», come sostiene nell’Iliade l’anziano principe Fenice, tutore di Achille:
Fanciullo, che non sapevi ancora la guerra crudele, non i consigli, dove gli uomini nobilmente si affermano. E mi mandò per questo, perché te li apprendessi, e buon parlatore tu fossi e operatore di opere.
(Il. 9, 440-43; trad. a cura di R. Calzecchi Onesti)
Questi versi hanno un commentatore d’eccezione, Cicerone stesso:
Presso gli antichi, a quanto sembra, il medesimo ammaestramento insegnava sia ad agire onestamente sia a parlare correttamente, e gli insegnamenti non erano distinti: gli stessi uomini erano maestri di vita e di oratoria. Per esempio, in Omero troviamo Fenice che narra di essere stato assegnato come compagno d’armi al giovane Achille dal padre di questi Peleo, perché ne facesse «un oratore e un uomo d’azione nello stesso tempo».
(Cic. Or. 3, 57, 3 ss.; trad. a cura di E. Narducci)
La nascita e l’affermazione della πλις segnano un mutamento di rotta: la figura del guerriero cede il passo al quella del cittadino e la πλις diviene la sede del dibattito sul sistema educativo ideale, in cui la piena realiz- zazione dell’individuo coincida con il bene della comunità. A tal proposito Werner Jaeger, il maggiore teorico della παιδεα greca, sostiene che per i Greci «l’educazione non è faccenda individuale, ma, per sua natura, è cosa della comunità […]. L’edificio di ogni comunità riposa sulle leggi e norme, scritte e non scritte, in essa vigenti, le quali vincolano essa medesima e i suoi membri. Ogni educazione è perciò emanazione diretta della viva coscienza normativa di una comunità umana».
Combattimento di due guerrieri armati di lancia, decorazione a figure nere su hydria,
560 a.C. circa, Parigi, Musée du Louvre.
PERCORSO 2 La παιδεα in Grecia e a Roma
3© 2021 by SEI - Società Editrice Internazionale - Torino
Nel corso del V secolo a.C., a seguito del costituirsi di forme di governo democratico nella πλις, l’accesso alla classe dirigente smette di essere un privilegio esclusivo della nobiltà di sangue. La vecchia formazione ari- stocratica riteneva che l’educazione di uno dei suoi membri fosse finalizzata alla piena realizzazione della sua ρετ, ammettendone una attitudine innata al governo che occorreva semplicemente coltivare. Nella πλις, invece, educazione e inclinazioni naturali diventano temi di un vivo dibattito, volto a definire in quale misura le due componenti contribuiscano a delineare il profilo del perfetto reggitore dello stato. La prima risposta a tale questione proviene dai sofisti, i «maestri di ρετ», che pretendono di insegnare l’arte della politica affinando le abilità intellettuali e retoriche di ciascun allievo, con l’obiettivo di renderlo idoneo all’amministrazione della città. I sofisti operano una vera e propria rivoluzione pedagogica, attribuen- do al sapere un valore formativo ineliminabile e introducendo, di fatto, una nuova accezione di παιδεα. Le fonti letterarie anteriori al V secolo a.C., infatti, testimoniano come, fino a questo periodo, il termine παιδεα assumesse il significato letterale di «guida, allevamento del fanciullo» (da πας «bambino», «fanciullo»). Nel corso del secolo, invece, la παιδεα diventa un ideale di perfezione, di piena realizzazione umana, cui tendere mediante l’educazione. Nel mondo ellenico questo ideale si esprime e si elabora attraverso opere letterarie, filosofiche, artistiche, le quali per l’appunto tracciano le tappe formative del percorso di perfezio- namento. Come ancora una volta afferma Jaeger, «vero strumento della παιδεα secondo i Greci non sono le mute arti dello scultore, del pittore e dell’architetto, bensì il poeta e il musico, il filosofo e il retore, cioè l’uomo politico».
Così ancora, nell’Atene di IV secolo a.C., l’educazione dei giovani è oggetto di contesa tra le varie scuole di filosofia e retorica, che gareggiano per procacciarsi quanti più allievi, proponendo modelli di insegnamento anche molto diversi tra loro. In particolare, la scuola di Isocrate si oppone nettamente all’Accademia di Pla- tone. Nel suo programma educativo, Isocrate attribuisce un ruolo determinante alla retorica, il cui scopo tuttavia non è solamente quello di far valere la propria tesi in una contesa verbale, ma soprattutto quello di promuovere la crescita morale dell’individuo: in contrasto con la tesi platonica, come osserveremo più sotto, Isocrate ritiene che la virtù non possa essere insegnata (γομαι δ τοιατην μν τχνην, τις τος κακς πεφυκσιν πρς ρετν σωφροσνην νεργσαιτ’ ν κα δικαιοσνην, οτε πρτερον οτε νν οδεμαν εναι); tuttavia, attraverso il logos, il maestro può trasferire agli alunni principi mo- rali quali la giustizia e la saggezza. Pertanto, l’autore muove obiezioni sia alla dottrina platonica, che pone al centro la ricerca filosofica a discapito dell’eloquenza, sia all’oratoria giudiziaria, esclusivamente pratica.
γομαι δ τοιατην μν τχνην, τις τος κακς πεφυκσιν πρς ρετν σωφροσνην νεργσαιτ ν κα δικαιοσνην, οτε πρτερον οτε νν οδεμαν εναι, τος τε τς ποσχσεις ποιουμνους περ ατν πρτερον περεν κα πασεσθαι ληροντας πρν ερεθνα τινα παιδεαν τοιατην, ο μν λλ ατος γ ατν βελτους ν γγνεσθαι κα πλεονος ξους ε πρς τε τ λγειν ε φιλοτμως διατεθεεν κα το πεθειν δνασθαι τος κοοντας ρασθεεν κα πρς τοτοις τς πλεονεξας πιθυμσαιεν, μ τς π τν νοτων νομιζομνης, λλ τς ς ληθς τν δναμιν τατην χοσης. Κα ταθ ς οτω πφυκεν ταχως ομαι δηλσειν. Πρτον μν γρ λγειν γρφειν προαιρομενος λγους ξους πανου κα τιμς οκ στιν πως ποισεται τς ποθσεις δκους μικρς περ τν δων συμβολαων, λλ μεγλας κα καλς κα φιλανθρπους κα περ τν κοινν πραγμτων μ γρ τοιατας ερσκων οδν διαπρξεται τν δεντων. πειτα τν πρξεων τν συντεινουσν πρς τν πθεσιν κλξεται τς πρεπωδεσττας κα μλιστα συμφεροσας δ τς τοιατας συνεθιζμενος θεωρεν κα δοκιμζειν ο μνον περ τν νεσττα λγον, λλ κα περ τς λλας πρξεις τν ατν ξει τατην δναμιν, σθ μα τ λγειν ε κα τ φρονεν παραγενσεται τος φιλοσφως κα φιλοτμως πρς τος λγους διακειμνοις.
(Isocr. 15, 274-277)
4© 2021 by SEI - Società Editrice Internazionale - Torino
Come si può osservare, Isocrate ritiene che colui che ambisce a formulare discorsi «degni di lode e di ono- re» ( λγειν γρφειν προαιρομενος λγους ξους πανου κα τιμς) predilige argomenti nobili, ispirati «al bene dell’umanità e all’interesse generale» (φιλανθρπους κα περ τν κοινν πραγμτων) e, tra i fatti, «quelli più appropriati e più utili» (τς πρεπωδεσττας κα μλιστα συμφεροσας): il rife- rimento è ai sermoni di stampo panellenico, politico e panegirico, la cui composizione richiede un rigoroso esercizio meditativo e selettivo, pratica destinata a consolidarsi come modus operandi dell’oratore in ogni altro genere di attività. Tale disposizione morale guadagnerà a chi la assume la stima dei concittadini, con- tribuendo al suo successo nelle dinamiche sociali e politiche. Prosegue ancora il sofista:
Resta la questione della superiorità, che è la più difficile da trattare tra quelle anzidet- te. Se qualcuno pensa che chi defrauda, inganna e fa del male sia superiore agli altri, è in errore. Nessuno, durante tutto il corso della vita, resta di sotto a gente simile, né si trova in maggiori difficoltà, né vive in modo più ignominioso, né insomma è più infelice. Bisogna, dunque, credere che la superiorità, così nel presente come nel futuro, sia concessa agli dei a chi è più pio e più devoto al loro culto, dagli uomini a chi è meglio disposto verso i familiari e i concittadini, e gode la migliore reputazione. Questa è la verità ed è utile che se ne parli così, perché oggi molte cose nella città sono così sconvolte e confuse che alcuni neppure usano più le parole nel loro senso naturale, ma le trasferiscono dalle azioni più nobili a quelle più vili. I buffoni e le persone capaci di motteggiare e parodiare li chiamano «begli spiriti», mentre questo termine si dovrebbe riservare a chi ha le migliori disposi- zioni naturali per la virtù; coloro che praticano il malcostume e il delitto e che per magri guadagni si procurano cattiva fama li ritengono «uomini superiori», anziché dar questo nome agli uomini più pii e più giusti, cioè a quelli superiori nel bene e non nel male; e chi trascura le cose necessarie per andar dietro alle mostruose invenzioni degli antichi sofisti dicono che è «filosofo», senza curarsi di chi impara e applica principi con cui amministrerà bene il suo patrimonio e gl’interessi comuni delle città, scopo al quale bisogna dedicare fatica, studio e ogni nostra attività. Ma voi già da molto tempo distogliete i giovani da queste occupazioni approvando le parole di chi denigra questo sistema educativo. Così avete fatto sì che i più onesti di loro passino la giovinezza nel bere, nelle combriccole, nell’indolenza e nei divertimenti, senza curarsi di di- ventare migliori, e che quelli d’indole peggiore trascorrano le giornate in tali disordini a cui un tempo neppure un servo onesto avrebbe osato abbandonarsi.
(Isocr. 15, 281-286; trad. a cura di M. Manzi)
Grazie al dono naturale della parola, gli uomini sono usciti dalla stato di ferinità, hanno instaurato re- lazioni sociali via via più complesse, hanno formulato leggi e reperito tecniche. Il λγος ha definito e codificato, in ambito legislativo, ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, gettando le basi del vivere civile; la parola educa, denuncia il vizio, elogia la virtù. Un λγος opportuno – secondo i criteri definiti sopra – assurge a guida morale, dà voce ad animi virtuosi e sinceri, è esso stesso emanazione della saggezza. Isocrate denuncia di converso un impiego improprio e degenerato delle parole: spogliate del loro «sen- so naturale», veicolano ormai valori negativi e caldeggiano comportamenti dannosi per l’individuo e la società. Occorre dunque ribadire la funzione del λγος come strumento della παιδεα, segnata- mente della classe dirigente.
Statua di letterato (forse Isocrate), copia augustea di originale greco del IV-III secolo a.C, proveniente
da Ercolano, Napoli, Museo Archeologico Nazionale.
PERCORSO 2 La παιδεα in Grecia e a Roma
5© 2021 by SEI - Società Editrice Internazionale - Torino
A differenza di Isocrate, Platone ritiene che il conseguimento della virtù non dipenda dall’abitudine e dall’e- sercizio ma da qualcosa di cui già l’anima dispone; di conseguenza, obiettivo precipuo della παιδεα non sarà tanto l’insegnamento della virtù, equiparabile allo sforzo vano di chi tenti di infondere «la vista in occhi ciechi», quanto l’indirizzamento delle «nature più dotate» alla contemplazione del Bene, da cui consegue la capacità di amministrare lo stato con giustizia. Prerogativa, quest’ultima, riservata ai filosofi, gli «amanti del sapere» (dal greco φλος e σοφα), di cui lo stato deve farsi carico e che ha il compito di educare perché possano governare rettamente. La città, con il suo sistema di leggi, delinea le modalità pedagogiche che rea- lizzano l’uomo nella sua dimensione politica e comunitaria, fine ultimo dell’individuo per i Greci di età classica. In particolare, lo stato ha il compito di selezionare i custodi (coloro cui, secondo Platone, spetta l’amministra- zione e la difesa della πλις) e di individuare tra essi i filosofi, che accederanno alle cariche massime.
SOCRATE: Conviene ritenere – dissi io – che, se quanto si è detto è vero, l’educazione non sia quale la dipingono alcuni che ne fanno professione. Dicono, infatti, che pur non essendoci nell’anima la cono- scenza, essi ve la immettono, come se immettessero la vista in occhi ciechi. GLAUCONE: Effettivamente lo sostengono – ammise. SOCRATE: Invece – continuai – il mio ragionamento mostra che questa facoltà presente nell’animo di ognuno e l’organo con cui ognuno apprende, proprio come l’occhio, non sarebbe possibile rivolgerli dalla tenebra alla luce se non insieme con tutto il corpo, così bisogna girarlo via dal divenire con tutta intera l’anima, fino a che non risulti capace di pervenire alla contemplazione dell’essere e al fulgore supremo dell’essere: ossia questo che diciamo essere Bene. O no? GLAUCONE: Sì. SOCRATE: Di ciò, ossia di questa conversione – dissi io – ci può essere un’arte, che insegni in che modo l’anima possa essere più facilmente ed efficacemente girata. E, quindi, non si tratta dell’arte di immet- tervi la vista, ma di metterci mano «per orientarla», tenuto conto che essa già la possiede, ma non riesce a volgerla nella giusta direzione, né a vedere quel che dovrebbe. GLAUCONE: Così sembra – disse. SOCRATE: Dunque, le altre virtù che sono dette dell’anima può darsi che si avvicinino a quelle del corpo – esse, infatti, non preesistono al corpo, ma vi vengono in seguito infuse attraverso l’abitudine e l’eser- cizio –, invece la virtù dell’intelligenza più di ogni altra, a quanto pare, è connessa a qualcosa di molto più divino, che non perde mai la propria potenza, ma diventa utile o giovevole o, al contrario, inutile o dannosa, a seconda della piega che le si dà. […]
E che? – dissi – Non ti sembra che sia na- turale e che sia strettamente connesso con quello che si è detto che gente ignorante e senza alcuna esperienza della verità non potrebbe mai amministrare in modo decen- te uno stato; e che neppure lo potrebbero coloro che sono stati lasciati fino alla fine a studiare? I primi, in effetti, non hanno nella vita neppure un ideale, ispirandosi al quale poter conformare tutto il proprio comporta- mento sia in pubblico sia in privato; gli altri, invece, fosse per loro, non prenderebbero alcuna iniziativa, ritenendo di essere migra- ti, ancora in vita, nelle isole dei beati. GLAUCONE: È vero – ammise.Statua di Socrate, Atene.
PERCORSO 2 La παιδεα in Grecia e a Roma
6© 2021 by SEI - Società Editrice Internazionale - Torino
SOCRATE: Pertanto – continuai – sarà nostro preciso dovere di fondatori dello stato costringere le nature più dotate a indirizzarsi verso quella che prima avevamo definito conoscenza massima – ossia la visione del Bene – e a incamminarsi per quella erta salita. Però sarà anche nostro dovere, una volta che siano arrivati in cima e abbiano contemplato quanto basta, non permettere loro ciò che oggi è concesso. GLAUCONE: E che cosa è concesso? SOCRATE: Di starsene lassù – risposi – e di non voler più saperne di tornare […]. […] Diremo che quelli che sono come loro negli altri stati non partecipano alla vita della città, e con tutte le ragioni, perché si sono fatti da sé, senza l’intervento del loro stato; e chi si è fatto da sé e non deve nulla a nessuno per la sua formazione ha ogni diritto di non sentirsi vincolato a risarcire alcuna delle spese di mantenimento. Voi invece siete stati formati da noi, perché foste, come avviene negli alveari, per voi stessi e per l’intera comunità guide e sovrani: per questo avete avuto una formazione più elevata e più completa degli altri, per essere in grado di partecipare dell’una o dell’altra scienza.
(Plat. Rp. 518b-520b; trad. a cura di R. Radice)
L’educazione si delinea come un processo costrittivo, in cui, come si evince dal seguente passo del Protagora, il padre e il precettore, al fine di rendere eccellente il ragazzo e di insegnargli ciò che è giusto, «lo raddrizzano a suon di minacce e percosse» (εθνουσιν πειλας κα πληγας) se si mostra ostile agli insegnamenti. A scuola, i fanciulli apprendono a memoria le opere dei grandi poeti, si esercitano nella musica e nella ginna- stica. A conclusione dell’istruzione scolastica, la città «li costringe a imparare le leggi e a conformarsi al loro modello» ( πλις α τος τε νμους ναγκζει μανθνειν κα κατ τοτους ζν κατ παρδειγμα).
κ παδων σμικρν ρξμενοι, μχρι οπερ ν ζσι, κα διδσκουσι κα νουθετοσιν. πειδν θττον συνι τις τ λεγμενα, κα τροφς κα μτηρ κα παιδαγωγς κα ατς πατρ περ τοτου διαμχονται, πως ς βλτιστος σται πας, παρ καστον κα ργον κα λγον διδσκοντες κα νδεικνμενοι τι τ μν δκαιον, τ δ δικον, κα τδε μν καλν, τδε δ ασχρν, κα τδε μν σιον, τδε δ νσιον, κα τ μν ποει, τ δ μ ποει. Κα ν μν κν πεθηται ε δ μ, σπερ ξλον διαστρεφμενον κα καμπτμενον εθνουσιν πειλας κα πληγας. Μετ δ τατα ες διδασκλων πμποντες πολ μλλον ντλλονται πιμελεσθαι εκοσμας τν παδων γραμμτων τε κα κιθαρσεως ο δ διδσκαλοι τοτων τε πιμελονται, κα πειδν α γρμματα μθωσιν κα μλλωσιν συνσειν τ γεγραμμνα σπερ ττε τν φωνν, παρατιθασιν ατος π τν βθρων ναγιγνσκειν ποιητν γαθν ποιματα κα κμανθνειν ναγκζουσιν, ν ος πολλα μν νουθετσεις νεισιν πολλα δ διξοδοι κα παινοι κα γκμια παλαιν νδρν γαθν, να πας ζηλν μιμται κα ργηται τοιοτος γενσθαι. Ο τ α κιθαριστα, τερα τοιατα, σωφροσνης τε πιμελονται κα πως ν ο νοι μηδν κακουργσιν πρς δ τοτοις, πειδν κιθαρζειν μθωσιν, λλων α ποιητν γαθν ποιματα διδσκουσι μελοποιν, ες τ κιθαρσματα ντενοντες, κα τος υθμος τε κα τς ρμονας ναγκζουσιν οκειοσθαι τας ψυχας τν παδων, να μερτερο τε σιν, κα ερυθμτεροι κα εαρμοσττεροι γιγνμενοι χρσιμοι σιν ες τ λγειν τε κα πρττειν πς γρ βος το νθρπου ερυθμας τε κα εαρμοστας δεται. τι τονυν πρς τοτοις ες παιδοτρβου πμπουσιν, να τ σματα βελτω χοντες πηρετσι τ διανο χρηστ οσ, κα μ ναγκζωνται ποδειλιν δι τν πονηραν τν σωμτων κα ν τος πολμοις κα ν τας λλαις πρξεσιν. Κα τατα ποιοσιν ο μλιστα δυνμενοι μλιστα δ δνανται ο πλουσιτατοι, κα ο τοτων ες, πρατατα ες διδασκλων τς λικας ρξμενοι φοιτν, ψιατατα παλλττονται. πειδν δ κ διδασκλων παλλαγσιν, πλις α τος τε νμους ναγκζει μανθνειν κα κατ τοτους ζν κατ παρδειγμα, να μ ατο φ ατν εκ πρττωσιν.
(Plat. Prot. 325c-326d)
7© 2021 by SEI - Società Editrice Internazionale - Torino
Si delinea per così dire un movimento dalla città all’individuo: la prima orienta il secondo, imprimendogli saldamente il proprio modello educativo. Particolarmente interessante appare tuttavia un passo dell’Alcibiade I, in cui si definisce invece un movimen- to in senso opposto, dal singolo alla comunità. Il maestro invita il discepolo a prendersi cura di sé, ossia a comprendere la propria soggettività responsabile e il senso della propria vita, individuabile nella pratica di azioni morali e nella proficua relazione con la comunità. Il singolo è posto al centro del progetto pedagogico e la cura di sé diventa una condizione ineliminabile perché si realizzi l’obiettivo primario di ogni individuo: esserci, essere-nel-mondo, costruire il proprio ben-essere nella relazione con l’altro. Una scienza pedagogica che caldeggia la cura di sé, mediante la pratica della σοφα, promuove una cittadinanza responsabile all’inter- no di una comunità armonica, fondata su relazioni di φιλα. Certo, il modello socratico è destinato alla classe dirigente, eppure si presta perfettamente a un’attualizzazione nella contemporaneità. Da un’educazione fon- data sulla cura di sé può nascere una nuova politica, in cui ciascuno, realizzando se stesso nella virtù, attui il proprio ben-essere nella comunità e si affranchi dalla schiavitù dell’interesse individualistico.
SOCRATE: Questa parte [dell’anima in cui risiedono il conoscere e il pensare] di essa, infatti, somiglia al dio; e uno, guardando a essa e conoscendo anche tutto il divino, dio e pensiero, in questo modo potreb- be avere anche la più grande conoscenza di se stesso. ALCIBIADE: È evidente. SOCRATE: E come gli specchi, più chiari, più puri e più luminosi dello specchio dell’occhio, così anche il dio non è forse più puro e più luminoso della parte migliore che si trova nella nostra anima? ALCIBIADE: Sembra di sì, o Socrate. SOCRATE: Guardando allora al dio, ci serviremmo dello specchio migliore, precisamente lo specchio delle cose umane che sono rivolte alla virtù dell’anima, e in questo modo vedremmo nel modo migliore e conosceremmo noi stessi. ALCIBIADE: Sì. SOCRATE: Ma non abbiamo convenuto che conoscere se stessi è saggezza? ALCIBIADE: Perfettamente. SOCRATE: Se dunque non conosciamo noi stessi e non siamo saggi, potremmo conoscere ciò che noi abbiamo di cattivo e di buono? ALCIBIADE: E in che modo questo potrebbe accadere, o Socrate? […] SOCRATE: Ma analogamente chi ignora ciò che gli appartiene dovrebbe in qualche modo ignorare ciò che appartiene agli altri. ALCIBIADE: Certo. SOCRATE: E se ignora ciò che appartiene agli altri ignorerà anche ciò che appartiene alla città. ALCIBIADE: Necessariamente. SOCRATE: Un tal uomo non dovrebbe dunque diventare un politico. ALCIBIADE: No davvero. SOCRATE: E neppure un amministratore della casa. ALCIBIADE: No davvero. SOCRATE: Non saprà nemmeno ciò che sta facendo. ALCIBIADE: No, infatti. SOCRATE: E colui che non sa non commetterà degli errori? ALCIBIADE: Garantito. SOCRATE: E sbagliando non avrà una pessima riuscita sia in privato sia in pubblico? ALCIBIADE: Come no? SOCRATE: E riuscendo male non sarà uno sventurato?
PERCORSO 2 La παιδεα in Grecia e a Roma
8© 2021 by SEI - Società Editrice Internazionale - Torino
ALCIBIADE: Molto, certo. SOCRATE: E che ne è di coloro ai quali costui destina le sue azioni? ALCIBIADE: Sventurati anche loro. SOCRATE: Non è dunque possibile, se non si è saggi e virtuosi, essere felici. ALCIBIADE: No, non è possibile. SOCRATE: I cattivi tra gli uomini sono dunque sventurati. ALCIBIADE: Molto, certo. SOCRATE: Non è certo colui che è diventato ricco che si libera dall’infelicità, ma colui che è diventato saggio. ALCIBIADE: È evidente. SOCRATE: Non è dunque di mura né di triremi né di cantieri navali ciò di cui hanno bisogno le città, o Alcibiade, se vogliono essere felici, né di popolazione né di grandezza, se manca la virtù. ALCIBIADE: No, certamente. SOCRATE: Se allora vuoi gestire gli affari della città in modo retto e onorevole, devi trasmettere ai cit- tadini la virtù. ALCIBIADE: Certo, come no? SOCRATE: Ma in che modo si può trasmettere ciò che non si ha? ALCIBIADE: E come? SOCRATE: Bisogna per prima cosa che tu ti renda padrone della virtù e così deve fare chiunque altro voglia stare al governo e curarsi non soltanto privatamente di se stesso e dei propri interessi, ma della città e degli interessi della città. ALCIBIADE: Quel che dici è vero. SOCRATE: Non devi procurare libertà d’azione né il potere di fare ciò che vuoi, a te stesso e neppure alla città; devi invece procurare giustizia e saggezza. ALCIBIADE: È chiaro. SOCRATE: Agendo infatti con giustizia e con saggezza tu e la città agirete in modo gradito agli dei. ALCIBIADE: È naturale. SOCRATE: E, cosa che appunto dicevamo nei precedenti discorsi, agirete tenendo sempre davanti agli occhi ciò che è divino e lumi- noso. ALCIBIADE: È chiaro. SOCRATE: Ma appunto con lo sguardo rivolto a questo, voi vedrete e conoscerete voi stessi e il vostro bene. […] SOCRATE: Ma prima di avere raggiunto la virtù è meglio essere gui- dati da una persona migliore piuttosto che comandare, anche per un uomo, non solo per un fanciullo. ALCIBIADE: È evidente. SOCRATE: E ciò che è meglio non è anche più bello? ALCIBIADE: Sì. SOCRATE: E ciò che è più bello anche più conveniente? ALCIBIADE: E come no? […] ALCIBIADE: Allora dico così. Ma oltre a ciò io dico questo, che rischieremo di scambiarci il ruolo, o So- crate, io il tuo e tu il mio; infatti a partire da questo giorno non è possibile che io non ti segua come un pedagogo segue un bambino, mentre tu sarai seguito da vicino da me come dal maestro.
Platone, ritratto di età romana su probabile modello greco,
Monaco, Glyptothek.
9© 2021 by SEI - Società Editrice Internazionale - Torino
SOCRATE: Nobile Alcibiade, il mio amore non differirà allora in nulla da quello della cicogna, se dopo aver allevato nel tuo animo un amore alato, sarà a sua volta oggetto delle cure di quest’ultimo. ALCIBIADE: Ebbene, le cose stanno così e comincerò fin d’ora a prendermi cura della giustizia. SOCRATE: Vorrei che tu proseguissi su questa strada: tuttavia temo, e non perché in qualche modo io dubiti delle tue doti naturali, ma perché vedo la forza della città, che possa averla vinta su me e su te.
(Plat. Alc. 1, 113b-135e; trad. a cura di G. Giardini)
Una interessante testimonianza della concezione pedagogica greca è il De liberis educandis, opera at- tribuita a Plutarco, databile grosso modo al II secolo d.C. Si tratta della lezione pubblica di un maestro (l’autore allude frequentemente alla sua esperienza in ambito didattico), che scandaglia brevemente alcu- ni capisaldi della precettistica pedagogica, indugiando su quelli che ritiene più significativi. L’argomento dell’intervento è chiaro: come educare i ragazzi di condizione libera e di buona famiglia. Alcuni suoi spunti non sembrano così distanti dai principi della pedagogia moderna: il ruolo della famiglia e in particolar modo della figura paterna (i padri devono farsi carico dell’educazione dei propri ragazzi, sele- zionando oculatamente i maestri, osservandone strategie e metodi educativi, vigilando sui progressi dei figli); la necessità di infondere nell’animo dei giovani un forte rigore morale; la tolleranza verso gli errori, la dubbia efficacia educativa dei rimproveri eccessivi e delle punizioni corporali; l’utilità dello svago come ricompensa dell’impegno e l’importanza riconosciuta in tal senso alle attività ginniche. Stupisce l’attenzio- ne verso i bambini e i ragazzi, non più discepoli da istruire con metodi costrittivi e autoritari ma anime da guidare con attenzione e amore.
Κκεν φημι, δεν τος παδας π τ καλ τν πιτηδευμτων γειν παραινσεσι κα λγοις, μ μ Δα πληγας μηδ ακισμος. Δοκε γρ που τατα τος δολοις μλλον τος λευθροις πρπειν ποναρκσι γρ κα φρττουσι πρς τος πνους, τ μν δι τς λγηδνας τν πληγν, τ δ κα δι τς βρεις. παινοι δ κα ψγοι πσης εσν ακας φελιμτεροι τος λευθροις, ο μν π τ καλ παρορμντες ο δ π τν ασχρν νεργοντες. Δε δ ναλλξ κα ποικλως χρσθαι τας πιπλξεσι κα τος πανοις, κπειδν ποτε θρασνωνται, τας πιπλξεσιν ν ασχν ποιεσθαι, κα πλιν νακαλεσθαι τος πανοις κα μιμεσθαι τς ττθας, ατινες πειδν τ παιδα κλαυθμυρσωσιν, ες παρηγοραν πλιν τν μαστν πχουσι. Δε δ ατος μηδ τος γκωμοις παρειν κα φυσν χαυνονται γρ τας περβολας τν πανων κα θρπτονται. δη δ τινας γ εδον πατρας, ος τ λαν φιλεν το μ φιλεν ατιον κατστη. Τ ον στιν βολομαι λγειν, να τ παραδεγματι φωτειντερον ποισω τν λγον Σπεδοντες γρ τος παδας ν πσι τχιον πρωτεσαι πνους ατος περμτρους πιβλλουσιν, ος παυδντες κππτουσι, κα λλως βαρυνμενοι τας κακοπαθεαις ο δχονται τν μθησιν εηνως. σπερ γρ τ φυτ τος μν μετροις δασι τρφεται, τος δ πολλος πνγεται, τν ατν τρπον ψυχ τος μν συμμτροις αξεται πνοις, τος δ περβλλουσι βαπτζεται. Δοτον ον τος παισν ναπνον τν συνεχν πνων, νθυμουμνους τι πς βος μν ες νεσιν κα σπουδν διρηται. Κα δι τοτ ο μνον γργορσις λλ κα πνος ερθη, οδ πλεμος λλ κα ερνη, οδ χειμν λλ κα εδα, οδ νεργο πρξεις λλ κα ορτα. Συνελντι δ επεν νπαυσις τν πνων στν ρτυμα. Κα οκ π τν ζων μνων τοτ ν δοι τις γιγνμενον, λλ κα π τν ψχων κα γρ τ τξα κα τς λρας νεμεν, ν πιτεναι δυνηθμεν. Καθλου δ σζεται σμα μν νδε κα πληρσει, ψυχ δ νσει κα πν.
(Plut. 1, 8F – 9C)
10© 2021 by SEI - Società Editrice Internazionale - Torino
Roma: l’educazione come humanitas Nella cultura romana, la riflessione sull’educazione pone al centro il concetto di humanitas. Quest’ultimo – inteso come compimento dell’essenza più autentica dell’uomo, della sua «umanità», appunto, attraverso le arti «liberali» (ovvero quei saperi cui accedono gli uomini «liberi» da occupazioni materiali) – procede di pari passo con l’ideale dell’oratore, il quale a sua volta subisce un forte in- flusso da parte delle teorie formulate nella Grecia del IV secolo a.C. I mem- bri dell’aristocrazia latina a partire dal II secolo a.C. riflettono sulle interconnessioni tra la propria cultura e quella greca e provano a delineare un modello educativo che contemperi carriera po- litica, valori morali e formazione culturale e retorica. Que- sto tentativo, a cui accenna il pensiero di Catone (III-II secolo a.C.), sarà compiutamente realizzato nell’Oratore di Cicerone (106-43 a.C.). L’opera tuttavia più pregnante a questo riguardo, anche per l’ab- bondanza di riflessioni che forniranno spunti significativi alla mo- derna pedagogia, è l’Institutio oratoria («La formazione dell’oratore») di Marco Fabio Quintiliano, un ampio trattato in 12 libri dedicato alla formazione dell’oratore ideale. L’autore prende le mosse dalla riflessio- ne sull’educazione dei fanciulli, convinto che la professione di oratore debba avere alle spalle un solido percorso formativo. Nei primi libri dell’opera, infatti, è trattato con estrema cura il problema dell’insegnamento elementare, che secondo Quintiliano deve rifuggire austerità e rigore e fondarsi piuttosto sulla complicità tra insegnante e discente, con il ricorso, all’occorrenza, di dinamiche mutuate dal gioco; qui la materia ludica, seppur indirizzata a ragazzi, riprende quel delectando docere, «insegnare dilettando», e quel miscere utile dulci, «mischiare l’utile al dolce», del poeta Orazio, ingredienti fondamentali per una più efficace trasmissione del sapere finalizzata alla formazione dell’in- dividuo. Nei libri seguenti dell’opera quintilianea vengono analizzati i successivi stadi del percorso di istruzione. Sorprende come un pensiero dell’autore, ossia che il greco e il latino debbano essere studiati in parallelo, abbia influenzato i moderni pedagogisti (per esempio Giovanni Gentile) e abbia ancor prima portato all’istituzione del Liceo Classico. Ma quali erano le tappe di un giovane studente nell’antica Roma? Tra le scuole pubbliche anzitutto figurava il ludus litterarius, corrispondente alla nostra scuola elementare (per bambini dai 6 agli 11 anni), i cui maestri erano cavalieri e senatori; seguiva il ludus grammaticae (per ragazzi dai 12 ai 16 anni) affidato a un grammaticus che aveva il preciso compito di insegnare la letteratura greca e latina, la storia, la ge- ografia, la fisica e l’astronomia; infine vi era la rhetoris schola (per adolescenti dai 17 anni in poi, attratti dalla carriera giuridica o politica), in cui gli studenti si esercitavano principalmente nelle suasoriae e nelle controversiae. Le prime scuole (il ludus litterarius) erano frequentate in particolar modo da membri di famiglie meno ab- bienti, dal momento che i ricchi preferivano ricorrere a un precettore privato. Spesso, infatti, i maestri del ludus litterarius tenevano le proprie lezioni all’aperto, esposti insieme agli alunni alle intemperie, o sotto un loggiato (nei casi più fortunati) o nei crocicchi (detti compita); in alternativa, se il maestro non era di estra- zione sociale così bassa, teneva a casa propria le lezioni, data l’assenza di strutture pubbliche. Nel periodo imperiale, inoltre, si sviluppò il pedagogium, una struttura che sembra essere stata esclusiva delle casate ricche: qui venivano istruiti e formati sia i paggi sia gli schiavi bambini che avrebbero servito la nobiltà del tempo.
Marco Tullio Cicerone, I secolo a.C., Firenze, Uffizi.
PERCORSO 2 La παιδεα in Grecia e a Roma
11© 2021 by SEI - Società Editrice Internazionale - Torino
In una società incentrata sull’eloquenza, non sorprende l’ampio spazio riservato alla riflessione sul ruolo del magister. Nella sua Institutio Oratoria Quintiliano delinea il modello ideale del maestro di ars rhetorica, ugualmente valido per i precettori di altre discipline. Quale condotta dovrà dunque assumere un insegnante? Si distin- guerà per un’incrollabile integrità, necessaria ad arginare il carattere impetuoso e corruttibile di ciascun giovane (ideoque maior adhi benda tum cura est, ut et teneriores annos ab iniuria sanctitas docentis custodiat et ferociores a licentia gravitas deterreat); il magister sarà come un padre, senza tuttavia eccedere in austerità o amabilità. Non esiterà a fornire risposte agli incerti e a solleticare le coscienze dei pigri; nel giudicare sarà equo e imparziale e non umi- lierà lo studente in errore, perché modi burberi ed eccessivamente arcigni attirano le avversioni dei discepoli. Infine, strumento educa- tivo insostituibile saranno le vivae voces del maestro: gli studenti tendono a imitare quanti acquistano valore e credibilità ai loro occhi e la parola, più della lettura di modelli esemplari, nutre e forgia gli animi (Licet enim satis exemplorum ad imitandum ex lectione suppeditet, tamen viva illa, ut dicitur, vox alit plenius praeci pueque praeceptoris).
Ergo cum ad eas in studiis vires pervenerit puer ut quae prima esse praecepta rhetorum dixi mus mente consequi possit, tradendus eius artis magistris erit. Quorum in primis inspici mores oportebit: quod ego non idcirco potissimum in hac parte tractare sum adgressus quia non in ce teris quoque doctoribus idem hoc examinandum quam diligentissime putem, sicut testatus sum libro priore, sed quod magis necessariam eius rei mentionem facit aetas ipsa discentium. Nam et adulti fere pueri ad hos praeceptores transferuntur et apud eos iuvenes etiam facti perseve rant, ideoque maior adhibenda tum cura est, ut et teneriores annos ab iniuria sanctitas docentis custodiat et ferociores a licentia gravitas deterreat. Neque vero sat est summam praestare absti nentiam, nisi disciplinae severitate convenientium quoque ad se mores adstrinxerit.
Ordunque, innanzi tutto il precettore assuma nei confronti dei discepoli la disposizione d’animo di un padre e pensi di aver preso il posto dei genitori che glieli hanno affidati. Non abbia né sopporti difetti. Sia austero ma non arcigno, cordiale ma non in misura esagerata, per evitare, nel primo caso, l’antipatia e, nel secondo, la mancanza di riguardo. I suoi argomenti preferiti siano l’onestà e il bene, ché, quanto più spesso avrà dato consigli, tanto meno spesso dovrà infliggere castighi. Sia pochissimo irascibile, ma non chiuda gli occhi di fronte ai difetti da correggere; il suo insegnamento sia chiaro e semplice, molta la resistenza alla fatica; pretenda quanto è giusto e sempre, piuttosto che molto e a sbalzi.
Interrogantibus libenter respondeat, non interrogantes percontetur ultro. In laudandis discipulo rum dictionibus nec malignus nec effusus, quia res altera taedium laboris, altera securitatem pa rit. In emendando quae corrigenda erunt non acerbus minimeque contumeliosus; nam id quidem multos a proposito studendi fugat, quod quidam sic obiurgant quasi oderint. Ipse aliquid, immo multa cotidie dicat quae secum auditores referant. Licet enim satis exemplorum ad imitandum ex lectione suppeditet, tamen viva illa, ut dicitur, vox alit plenius praecipueque praeceptoris, quem discipuli, si modo recte sunt instituti, et amant et verentur. Vix autem dici potest quanto libentius imitemur eos quibus favemus.
(Quint. inst. 2, 2, 1-8; trad. a cura di R. Faranda e P. Pecchiura)
Giovane che scrive su una tavoletta, età imperiale, Klagenfurt, Landesmuseum.
PERCORSO 2 La παιδεα in Grecia e a Roma
12© 2021 by SEI - Società Editrice Internazionale - Torino
In un altro passo dell’Institutio oratoria, Quintiliano difen- de la scuola pubblica, ritenuta spesso una delle cause della degenerazione morale dei giovani. L’autore sostiene che l’in- segnamento domestico non è esente da errori: genitori indolenti e ignobili precettori possono allevare, in privato come in pubblico, bambini sordi a ogni imperativo morale; se invece il ragazzo ha alle spalle una famiglia onesta e vigile, avrà per sé un maestro integerrimo e un fidato liberto che gli insegni a non lasciarsi intimorire dai compagni (si bona ipsius indo les, si non caeca ac sopita parentium socordia est, et prae ceptorem eligere sanctissimum […] licet et nihilo minus amicum gravem virum aut fidelem libertum lateri filii sui
adiungere). Questi timori nascono dall’eccessiva indulgenza dei genitori, i quali rammolliscono i figli a tal punto che già da bambini si intendono di porpore e ostriche e, avvezzi alla lettiga, detestano servirsi dei propri piedi. Così tra le mura domestiche praticano il vizio prima ancora che abbiano imparato a identificarlo e inconsapevolmente lo introducono in classe (inde soluti ac fluentes non accipiunt ex scholis mala ista, sed in scholas adferunt). Quintiliano, infine, confuta la tesi secondo cui il maestro pubblico non può occuparsi di tutti gli studenti allo stesso modo e afferma che egli preferirebbe senza dubbio la mera compagnia dei compagni di classe a una buia e triste solitudine.
Corrumpi mores in scholis putant: nam et corrumpuntur interim, sed domi quoque, et sunt multa eius rei exempla, tam hercule quam conservatae sanctissime utrubique opinionis. Natura cuiusque totum curaque distat. Da mentem ad peiora facilem, da neglegentiam formandi custodiendique in aetate prima pudoris, non minorem flagitiis occasionem secreta praebuerint. Nam et potest turpis esse domesticus ille praeceptor, nec tutior inter servos malos quam ingenuos parum modestos conversatio est. At si bona ipsius indoles, si non caeca ac sopita parentium socordia est, et praeceptorem eligere sanctissimum quemque, cuius rei praecipua prudentibus cura est, et disciplinam quae maxime severa fuerit licet, et nihilo minus amicum gravem virum aut fidelem libertum lateri filii sui adiungere, cuius adsiduus comitatus etiam illos meliores faciat qui timebantur. Facile erat huius metus remedium. Utinam liberorum nostrorum mores non ipsi perderemus! Infantiam statim deliciis solvimus. Mollis illa educatio, quam indulgentiam vocamus, nervos omnis mentis et corporis frangit. Quid non adultus concupiscet qui in purpuris repit? Nondum prima verba exprimit, iam coccum intellegit, iam conchylium poscit. Ante palatum eorum quam os instituimus. In lecticis crescunt: si terram attigerunt, e manibus utrimque sustinentium pendent. Gaudemus si quid licentius dixerint: verba ne Alexandrinis quidem permittenda deliciis risu et osculo excipimus. Nec mirum: nos docuimus, ex nobis audierunt; nostras amicas, nostros concubinos vident; omne convivium obscenis canticis strepit, pudenda dictu spectantur. Fit ex his consuetudo, inde natura. Discunt haec miseri antequam sciant vitia esse: inde soluti ac fluentes non accipiunt ex scholis mala ista, sed in scholas adferunt.
Dicono: «Per quanto, però, riguarda gli studi, un solo precettore potrà meglio dedicarsi a un solo allievo». Innanzi tutto, nulla impedisce che egli, chiunque sia, si tenga vicino all’alunno della scuola pubblica. Ma, pure se non si potessero realizzare l’una e l’altra cosa, preferirei sempre la luce di una decorosa compagnia a un ambiente tenebroso e solitario: infatti, i migliori maestri godono se l’uditorio è numeroso e si ritengono degni di un pubblico più folto. Ma i meno valenti, per così dire, consapevoli dei loro limiti culturali, non disdegnano di dedicarsi strettamente al singolo ragazzo e di compiere in qualche modo l’ufficio di pedagoghi.
(Quint. inst. 1, 2, 4-9; trad. a cura di R. Faranda e P. Pecchiura)
Stili, calamaio e vasetti, I secolo a.C., Aquileia, Museo Archeologico.
PERCORSO 2 La παιδεα in Grecia e a Roma
13© 2021 by SEI - Società Editrice Internazionale - Torino
Quintiliano non cela le sue simpatie per l’istruzione pubblica a discapito di quella privata e ne spiega scrupolosamente le ragioni. In primo luogo, a scuola lo studente apprende sia dagli insegnamenti che il maestro gli impartisce sia da quelli che destina ai compagni. La scuola, inoltre, genera una sana competizione, fonte di virtuosa ambizione. Quintiliano ricorda a tal proposito che i suoi maestri, nelle declamazioni pubbliche, solevano stabili- re un ordine di esibizione sulla base delle abilità di ciascuno studente; tale consuetudine, più degli ammonimenti da par- te dei maestri e dei genitori, faceva da sprone all’allievo: si tende infatti a imitare i propri pari con maggiore naturalez- za di quella con cui si emula l’insegnante (incipientibus at que adhuc teneris condiscipulorum quam praeceptoris iucundior hoc ipso quod facilior imitatio est). Occorre infine che il buon maestro dispensi oculatamente il proprio sapere, poiché, come un recipiente dal collo stretto si ri- empie a piccole gocce, così la mente del fanciullo, ancora poco allenata, assimila solo gradualmente (maiora intel lectu velut parum apertos ad percipiendum animos non subibunt).
Si aggiunga il fatto che, a casa sua, egli può apprendere solo quanto sarà insegnato a lui, nella scuola, anche quanto sarà insegnato agli altri. Sentirà ogni giorno molte cose approvare, altre correggere, gli sarà un’utile lezione il rimprovero della pigrizia, l’elogio della diligenza, la lode ne susciterà l’emulazione, si convincerà che è vergognoso restare indietro a un suo pari e che dà soddisfazione l’aver superato i migliori. Tutto ciò accende di entusiasmo l’animo, ed è vero che l’ambizione, malgrado sia un difetto, è tuttavia spesso uno stimolo alle virtù.
Non inutilem scio servatum esse a praeceptoribus meis morem, qui, cum pueros in classis distribuerant, ordinem dicendi secundum vires ingenii dabant, et ita superiore loco quisque declamabat ut praecedere profectu videbatur: huius rei iudicia praebebantur. Ea nobis ingens palma, ducere vero classem multo pulcherrimum. Nec de hoc semel decretum erat: tricesimus dies reddebat victo certaminis potestatem. Ita nec superior successu curam remittebat et dolor victum ad deponendam ignominiam concitabat. Id nobis acriores ad studia dicendi faces subdidisse quam exhortationem docentium, paedagogorum custodiam, vota parentium, quantum animi mei coniectura colligere possum, contenderim. Sed sicut firmiores in litteris profectus alit aemulatio, ita incipientibus atque adhuc teneris condiscipulorum quam praeceptoris iucundior hoc ipso quod facilior imitatio est. Vix enim se prima elementa ad spem tollere effingendae quam summam putant eloquentiae audebunt: proxima amplectentur magis, ut vites arboribus adplicita e inferiores prius adprendendo ramos in cacumina evadunt. Quod adeo verum est ut ipsius etiam magistri, si tamen ambitiosis utilia praeferet, hoc opus sit, cum adhuc rudia tractabit ingenia, non statim onerare infirmitatem discentium, sed temperare vires suas et ad intellectum audientis descendere. Nam ut vascula oris angusti superfusam umoris copiam respuunt, sensim autem influentibus vel etiam instillatis complentur, sic animi puerorum quantum excipere possint videndum est: nam maiora intellectu velut parum apertos ad percipiendum animos non subibunt.
(Quint. inst. 1, 2, 21-28; trad. a cura di R. Faranda e P. Pecchiura)
Istitutore con allievi, II-III secolo, bassorilievo di un sarcofago, Roma, Musei Vaticani.
PERCORSO 2 La παιδεα in Grecia e a Roma
14© 2021 by SEI - Società Editrice Internazionale - Torino
Molto significativo, infine, risulta un brano di Seneca tratto dal dialogo De ira, in cui il filosofo sostiene l’importanza di un’educazione mite, che tenga gli allievi lontano dall’ira. Compito difficile, perché lo spirito cresce nella libertà concessa, nella schiavitù si fiacca (crescit licentia spiritus, servitute comminuitur). Occorre moderare anche l’entusiasmo dello studente, specie dopo che ab- bia conseguito la vittoria in una competizione: è bene che intrecci con i suoi avversari rapporti di socialità, così da sfidarli solamente per il gusto del trionfo, rifiutando ogni accanimento; se prevarrà, gli sia permesso di esultare, non di gloriarsi, affinché la gioia non si muti in arroganza (gaudium enim exultatio, exultationem tumor et nimia aestimatio sui sequitur). Potrà concedersi momenti di svago, ma sarà necessario bandire l’ozio, perché un’educazio- ne eccessivamente morbida induce all’ira, come accade spesso con i figli unici o gli orfani adottati. In generale, una vita agiata è più incline a reazioni incontrollate: i ricchi, per esempio, tendono ad accendersi per ogni capriccio, pertanto è oppor- tuno che il giovane venga associato a coetanei dallo stesso tenore di vita, cosicché non si adiri quando venga comparato agli altri. Il fanciullo deve apprendere il rispetto verso chi è più grande e autorevole di lui; occorre che abbia riguardo nei confronti dei genitori e del maestro e che impari a riverire gli anziani (et timeat interim, vereatur sem per, maioribus adsurgat).
Plurimum, inquam, proderit pueros statim salubriter institui; difficile autem regimen est, quia dare debemus operam ne aut iram in illis nutriamus aut indolem retundamus. Diligenti ob servatione res indiget; utrumque enim, et quod extollendum et quod deprimendum est, simili bus alitur, facile autem etiam adtendentem similia decipiunt. Crescit licentia spiritus, servitute comminuitur; adsurgit si laudatur et in spem sui bonam adducitur, sed eadem ista insolentiam et iracundiam generant: itaque sic inter utrumque regendus est ut modo frenis utamur modo stimulis. Nihil humile, nihil servile patiatur; numquam illi necesse sit rogare suppliciter nec prosit rogasse, potius causae suae et prioribus factis et bonis in futurum promissis donetur. In certaminibus aequalium nec vinci illum patiamur nec irasci; demus operam ut familiaris sit iis cum quibus contendere solet, ut in certamine adsuescat non nocere velle sed vincere; quo tiens superaverit et dignum aliquid laude fecerit, attolli non gestire patiamur; gaudium enim exultatio, exultationem tumor et nimia aestimatio sui sequitur. Dabimus aliquod laxamentum, in desidiam vero otiumque non resolvemus et procul a contactu deliciarum retinebimus; nihil enim magis facit iracundos quam educatio mollis et blanda. Ideo unicis quo plus indulgetur, pu pillisque quo plus licet, corruptior animus est. Non resistet offensis cui nihil umquam negatum est, cuius lacrimas sollicita semper mater abstersit, cui de paedagogo satisfactum est. Non vides ut maiorem quamque fortunam maior ira comitetur? In divitibus et nobilibus et magistratibus praecipue apparet, cum quidquid leve et inane in animo erat secunda se aura sustulit. Felicitas iracundiam nutrit, ubi aures superbas adsentatorum turba circumstetit: «Tibi enim ille respon deat? Non pro fastigio te tuo metiris; ipse te proicis», et alia quibus vix sanae et ab initio bene fundatae mentes restiterunt. Longe itaque ab adsentatione pueritia removenda est: audiat ve rum. Et timeat interim, vereatur semper, maioribus adsurgat. Nihil per iracundiam exoret: quod flenti negatum fuerit quieto offeratur. Et divitias parentium in conspectu habeat, non in usu.
Doppia erma di Seneca e di Socrate, II secolo d.C., Berlino, Staatliche Museen.
PERCORSO 2 La παιδεα in Grecia e a Roma
15© 2021 by SEI - Società Editrice Internazionale - Torino
Exprobrentur illi perperam facta. Pertinebit ad rem praeceptores paedagogosque pueris placidos dari: proximis adplicatur omne quod tenerum est et in eorum similitudinem crescit; nutricum et paedagogorum rettulere mox adulescentium mores.
Un fanciullo, educato in casa di Platone, quando, restituito ai genitori, sentì il padre gridare: «Mai – disse – ho visto cose del genere in casa di Platone». Io però sono sicuro che passò ben presto dall’imitazione di Platone a quella del padre. E, prima di tutto, il vitto sia misurato, i vestiti non siano costosi, il tenore di vita sia uguale a quello dei coetanei: non si adirerà d’essere paragonato con gli altri se, fin dall’inizio, lo avrai messo alla pari con molti.
(Sen. dial. 4, 21; trad. a cura di A. Marastoni)
Accanto alla riflessione sulla pratica educativa ideale, si sviluppa un’indagine sulle ragioni della degenera- zione culturale. Questo tema è alla base di una presunta opera di Tacito, il Dialogus de oratoribus, in cui l’autore riflette sulle cause del declino dell’eloquenza. Messalla, uno dei protagonisti dell’opera, sostiene che nessuno può ignorare la decadenza dell’oratoria, esito ineluttabile della regressione culturale dei giova- ni, della negligenza dei genitori e, non per ultima, dell’ignoranza dei maestri. Aggiunge inoltre che questi mali sono sì nati a Roma, ma successivamente sono dilagati in tutte le province: un’ondata di inerzia e negligenza che ha colpevolmente bandito il rigore e la disciplina degli antichi. Messalla illustra quindi alcune pratiche educative attuate nel passa- to: un tempo il neonato di un certo rango veniva accudito e allattato non da una balia ma dalla madre stessa (non in cellula emptae nutricis, sed gremio ac sinu matris educabatur); era quin- di affidato a un’anziana parente, tenuta in gran conto per i suoi severi costumi: era lei ad alternare sessioni didattiche con momenti più prettamente ludici e il bambino le riservava somma riverenza. Messalla menziona in seguito personaggi ragguardevoli del passato, educati dalle madri con ferrea disciplina: i Gracchi figli di Cornelia, Giulio Cesare figlio di Aurelia Cotta, Augusto figlio di Azia. Ma perché un’educazione così rigorosa? Per un preciso scopo, spiega Messalla: occorreva allevare e formare i giovani perché diventassero uomini in grado di giovare alla società (quae disciplina ac severitas eo pertinebat, ut sincera et integra et nullis pravitatibus detorta unius cuiusque natura toto statim pectore arriperet artis honestas). Questo era il fine pedagogico perseguito dagli antichi Romani e rammentato da Tacito, scopo ultimo che sembra sia andato tristemente a perdersi nei secoli.
Messalla rispose: «Materno, le cause che tu mi chiedi non sono difficili da scoprire, e non sono ignote a te, a Secondo e ad Apro, anche se avete affidato a me il compito di esporre con chiarezza quanto tutti sentiamo. Infatti, chi ignora che l’eloquenza e le altre arti sono decadute dalla loro antica gloria, non per mancanza di uomini, ma per la pigrizia dei giovani, la negligenza dei genitori, l’ignoranza dei maestri, e perché si sono dimenticate le usanze antiche?
Jules Cavelier, Cornelia madre dei Gracchi, 1861, marmo, Parigi, Musée d’Orsay.
PERCORSO 2 La παιδεα in Grecia e a Roma
16© 2021 by SEI - Società Editrice Internazionale - Torino
Quae mala primum in urbe nata, mox per Italiam fusa, iam in provincias manant. Quamquam vestra vobis notiora sunt: ego de urbe et his propriis ac vernaculis vitiis loquar, quae natos sta tim excipiunt et per singulos aetatis gradus cumulantur, si prius de severitate ac disciplina ma iorum circa educandos formandosque liberos pauca praedixero. Nam pridem suus cuique filius, ex casta parente natus, non in cellula emptae nutricis, sed gremio ac sinu matris educabatur, cuius praecipua laus erat tueri domum et inservire liberis. Eligebatur autem maior aliqua natu propinqua, cuius probatis spectatisque moribus omnis eiusdem familiae suboles committeretur; coram qua neque dicere fas erat quod turpe dictu, neque facere quod inhonestum factu videretur. Ac non studia modo curasque, sed remissiones etiam lususque puerorum sanctitate quadam ac verecundia temperabat. Sic Corneliam Gracchorum, sic Aureliam Caesaris, sic Atiam Augusti praefuisse educationibus ac produxisse principes liberos accepimus. Quae disciplina ac severi tas eo pertinebat, ut sincera et integra et nullis pravitatibus detorta unius cuiusque natura toto statim pectore arriperet artis honestas, et sive ad rem militarem sive ad iuris scientiam sive ad eloquentiae studium inclinasset, id solum ageret, id universum hauriret.
(Tac. dial. 28; trad. a cura di F. Dessì)
Il cristianesimo e l’educazione La diffusione del cristianesimo mina l’impianto teorico su cui si fondava la pratica educativa dell’antichità. È tut- tavia solo sul finire del II secolo e più ancora all’inizio del III secolo che i cristiani elaborano un modello culturale alternativo a quello pagano. La sede di questa riflessione è il Didaskaleion, scuola catechetica di Alessandria. Clemente Alessandrino, nel suo Pedagogo, si occupa per la prima volta della formazione del cristiano, il quale partecipa del Logos divino e consegue la gnosi, una forma di conoscenza religiosa che attinge alla tra- dizione culturale greca (ritenuta partecipe anch’essa del Logos divino in quanto depositaria di alcune verità) e la concilia con gli insegnamenti del messaggio ebraico-cristiano.
Πρξεν τε πασν λγος πιστατε ποθετικς, τ δ πθη παραμυθητικς ται, ες ν πς ατς οτος λγος, τς συντρφου κα κοσμικς συνηθεας ξαρπζων τν νθρωπον, ες δ τν μοντροπον τς ες τν θεν πστεως σωτηραν παιδαγωγν. γον ορνιος γεμν, λγος, πηνκα μν π σωτηραν παρεκλει, προτρεπτικς νομα ατ ν – δως οτος παρορμητικς κ μρους τ πν προσαγορευμενος λγος προτρεπτικ γρ πσα θεοσβεια, ζως τς νν κα τς μελλοσης ρεξιν γγεννσα τ συγγενε λογισμ – νυν δ θεραπευτικς τε ν κα ποθετικς μα μφω, πμενος ατς ατ, παραινε τν προτετραμμνον, κεφλαιον τν ν μν παθν πισχνομενος τν ασιν. Κεκλσθω δ μν ν προσφυς οτος νματι παιδαγωγς, προακτικς, ο μεθοδικς ν παιδαγωγς, κα τ τλος ατο βελτισαι τν ψυχν στιν, ο διδξαι, σφρονς τε, οκ πιστημονικο καθηγσασθαι βου. Κατοι κα διδασκαλικς ατς στι λγος, λλ ο νν μν γρ ν τος δογματικος δηλωτικς κα ποκαλυπτικς, διδασκαλικς, πρακτικς δ ν παιδαγωγς πρτερον μν ες διθεσιν θοποιας προτρψατο, δη δ κα ες τν τν δεντων νργειαν παρακαλε, τς ποθκας τς κηρτους παρεγγυν κα τν πεπλανημνων πρτερον τος στερον πιδεικνς τς εκνας. μφω δ φελιμτατα, τ μν ες πακον, τ παραινετικν εδος, τ δ ν εκνος μρει παραλαμβανμενον διττν κα ατ παραπλησως τ προτρ συζυγ, τ μν ατο να μιμμεθα αρομενοι τ γαθν, τ δ πως κτρεπμεθα παραιτομενοι τ φαλον τς εκνος.
La guarigione dalle passioni segue da ciò: il pedagogo con il conforto degli esempi rinvigorisce le anime e usando benigne ammonizioni come miti farmachi conduce gli infermi nell’anima alla perfetta cono- scenza della verità. Non sono uguali la sanità e la conoscenza della verità, infatti questa proviene dallo
PERCORSO 2 La παιδεα in Grecia e a Roma
17© 2021 by SEI - Società Editrice Internazionale - Torino
studio, quella dalla guarigione. Uno che sia ancora malato nell’anima non può imparare nulla delle cose che insegna il maestro se prima non sia completamente guarito. Infatti ogni ordine non è dato allo stes- so modo a coloro che sono discepoli e a coloro che sono malati, ma a quelli è dato perché li conduca alla gnosi, a questi perché li guidi alla guarigione. Come dunque quelli che sono malati nel corpo hanno bisogno del medico, così agli infermi nell’anima occorre il Pedagogo che guarisca le nostre passioni; poi ci guiderà al maestro preparando la nostra anima pura per l’acquisto della gnosi, e così la nostra anima potrà comprendere lo svelarsi del Logos. Studiandosi dunque di perfezionarci nel cammino della sal- vezza, il benignissimo Logos usa un bel metodo, conveniente a darci un’educazione efficace: dapprima converte, poi educa come pedagogo, infine insegna.
(Clem. Paed. 1,1; trad. a cura di P. Rossano)
Il Logos si pone a fondamento della παιδεα cristiana come di quella classica; tuttavia,