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Cosmologia
La cosmologia era un tempo una dottrina filosofica e teologica, oggi è a pie- no titolo una specialità scientifica. Questa ha prodotto un modello standard di Universo1, chiamato ΛCDM (dove Λ indica una costante cosmologica e CDM una componente di materia oscura fredda), che verrà presentato in questo e nel successivo capitolo; questo modello riproduce bene tutte le evidenze osserva- tive su grande scala, al costo di richiedere l’introduzione di un settore oscuro, e di sollevare diversi problemi fondamentali. La cosmologia infatti pone ancora una volta problemi nuovi, non solo dal punto di vista osservativo e strumentale, ma anche epistemologico. Dal punto di vista osservativo, gli sforzi formidabili per osservare oggetti sempre più deboli e lontani, sfruttando tutte le lunghezze d’onda disponibili della radiazione elettromagnetica e gravitazionale, stanno dando risultati entusiasmanti. Oggi riusciamo ad osservare galassie e quasar fino a distanze corrispondenti a tempi in cui l’età dell’Universo era il ∼5 % dell’età attuale, mentre il fondo cosmico nelle microonde ci permette di osser- vare l’Universo appena ∼380,000 anni dopo il big bang. Queste osservazioni permettono di vincolare in modomolto preciso i parametri del modello; si parla oramai di cosmologia di precisione. Dal punto di vista epistemologico, la cosmologia presenta delle interessan-
tissime peculiarità. In astrofisica l’impossibilità di fare esperimenti con le stelle o con le galassie è compensata dall’abbondanza di oggetti osservabili, che in qualchemodo possono essere considerati realizzazioni dello stesso sistema fisi- co in condizioni ed età diverse. L’Universo invece è per definizione un evento unico, osservabile da una sola posizione (che assumiamo essere non privile- giata); possiamo osservarne direttamente l’evoluzione nel tempo, ma con l’e- sclusione dei primi ∼380,000 anni, che sono per molti versi i più interessanti.
1Analogamente a quanto si fa con la Via Lattea, si usa chiamare Universo, maiuscolo, quello in cui viviamo, riservando la dizione di universo, minuscolo, a generici modelli.
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192 Introduzione all’Astrofisica
Per questo motivo, alcuni aspetti teorici della cosmologia si ritrovano al limite tra teoria scientifica e speculazione, in quanto sono impossibili da verificare osservativamente. Inoltre, forse nessuna scienza come la cosmologia per esse- re compresa richiede il contributo di tantissime evidenze indipendenti, che da sole possono risultare poco convincenti ma combinate con le altre producono argomenti forti. Dato che la luce ha una velocità finita, le galassie o i quasar vengono vi-
sti da noi non al tempo attuale ma al tempo di emissione della luce. Andando sempre più lontano potremmo spingerci ad osservare le primissime fasi del- l’Universo, immediatamente successive al big bang. Per questo, anche se il nostro Universo fosse infinito, ne possiamo osservare solo una porzione limi- tata, corrispondente alla distanza che la luce ha percorso dalle primissime fasi dell’Universo fino ad adesso. In altre parole, le nostre osservazioni sono limita- te da un orizzonte cosmologico (o orizzonte delle particelle): due zone diverse del nostro Universo che distano più dell’orizzonte non possono essersi ancora scambiate nessun tipo di informazione, perché non ce n’è stato il tempo. Di fat- to, sfruttando la radiazione elettromagnetica non possiamo spingere le nostre osservazioni oltre il fondo cosmico nelle microonde, poiché fino a ∼380,000 yr dopo il big bang l’Universo è molto denso e completamente ionizzato e, analogamente all’interno delle stelle, opaco alla radiazione. Questo definisce il nostro orizzonte visibile.
5.1 La scala delle distanze cosmiche e la legge di Hubble-Lemaitre
Abbiamo già visto come le distanze degli oggetti astrofisici siano determinate attraverso una serie di indicatori di distanza organizzati in una scala di calibra- zioni. Le stelle variabili, soprattutto le Cefeidi, sono il gradino della scala che permette di andare oltre la Galassia. Grazie alle Cefeidi riusciamo a stimare la distanza delle galassie più vicine, fino a qualche decina di Mpc. Questi indica- tori, calibrati all’interno della Galassia o delle galassie vicinissime (per le quali si riesce ad osservare il diagramma HR delle stelle), vengono detti indicatori primari. Gli indicatori secondari di distanza sono calibrati sulle galassie vicine, la
cui distanza è determinata tramite gli indicatori primari. Si basano principal- mente sulle relazioni strutturali delle galassie (Sez. 4.4. I più importanti sono i seguenti:
i) Per le spirali viene sfruttata la relazione Tully–Fisher tra la luminosità e la velocità di rotazione del disco galattico.
V. Cosmologia 193
ii) Per le ellittiche si usa il piano fondamentale, la relazione che lega bril- lanza superficiale, raggio effettivo e dispersione di velocità.
iii) Ancora per le ellittiche, distanze accurate si ottengono tramite il metodo delle fluttuazioni di brillanza superficiale: se in un pixel di un CCD cade la luce contribuita da N stelle, la fluttuazione tra pixel e pixel sarà
√ N .
Siccome N ∝ d2, questa relazione può essere usata come indicatore di distanza.
Un discorso a parte meritano le supernove di tipo Ia, che sono un’ottima candela standard, o meglio standardizzabile: la loro luminosità al picco non è esattamente costante, ma correla con la curva di luce in modo tale che è pos- sibile ricavarla dalle osservazioni. Queste supernove sono rare, tanto da non essere utilizzabili per stimare la distanza di grandi campioni di galassie, e so- no difficili da osservare, in quanto la loro identificazione richiede un continuo monitoraggio del cielo. D’altra parte sono così luminose da essere visibili fino a distanze cosmologiche. Ne parleremo diffusamente in seguito. Già prima di capire la natura extra-galattica delle nebulose, era stato notato
un fatto peculiare: i loro spettri mostrano quasi sempre uno spostamento verso il rosso, ma molto raramente verso il blu. In altri termini la popolazione delle nebulose risultava in media allontanarsi da noi (dalla Via Lattea). Nel dibattito tra Shapley e Curtis, questa evidenza venne utilizzata dal primo come argomen-
Figura 5.1. Diagramma di Hubble originale, che riporta in ascissa la distanza delle galassie, in milioni di pc, e in ordinata la velocità di recessione, in km s−1.
194 Introduzione all’Astrofisica
to contrario alla natura extra-galattica delle nebulose: il disco galattico esercita qualche forma ignota di repulsione nei loro confronti, il che ha senso solo se le nebulose sono interne alla Galassia. Come già accennato, la discussione fu risolta da Hubble, il quale misurò la distanza di Andomeda (M31) tramite le stelle Cefeidi. Il passo successivo da parte di Hubble fu quello di stimare la distanza di un campione più grande di galassie. Nel 1929 venne resa pubblica una correlazione, anticipata da Lemaitre nel 1927, tra la distanza della galassia e la sua velocità di recessione (Fig. 5.1):
v = cz = H0d (5.1)
Questa è nota come legge di Hubble, ma per riconoscere il ruolo dell’astronomo belga l’International Astronomical Union ha recentemente deciso di chiamarla legge di Hubble-Lemaitre. In questa formula la velocità di recessione v è anche espressa in termini del redshift z = Δλ/λ. La costante H0 è detta costante di Hubble. La Fig. 5.2 mostra lo stesso diagramma ottenuto da una compilazione di dati di SN Ia nei primi anni 2000; l’area in rosso corrisponde alle distanze campionate ai tempi di Hubble e Lemaitre. La scoperta della recessione delle galassie, già prevista da Friedmann e Le-
maitre, era destinata a sconvolgere completamente la cosmologia dell’epoca. Infatti, l’esperienza della fisica quantistica aveva insegnato l’importanza della simmetria dei sistemi fisici. Questa visione era legata anche ad un pregiudi- zio “estetico”, di cui Einstein e Dirac erano maestri, secondo il quale la chiave per trovare una teoria fondamentale era quella di farsi ispirare da principi di estetica matematica: la teoria più elegante è quella più promettente. Applicato all’Universo, questo pregiudizio suggeriva un principio di massima simmetria, detto principio cosmologico perfetto. Un universo massimamente simmetrico è tale che, una volta mediate le irregolarità locali, la distribuzione della materia è indipendente dalla posizione (omogeneità), dalla direzione (isotropia) e dal- l’istante temporale (staticità). Ma se l’Universo si espande, non è simmetrico nella componente temporale. L’espansione dell’Universo va intesa come un’espansione dello spazio stes-
so: due osservatori (opportunamente lontani) in caduta libera si allontanano tra loro per effetto di questa espansione. Questa è facile da visualizzare in 2D come l’espansione di una membrana di gomma, come potrebbe essere un palloncino che si gonfia; in questo caso bisogna fare lo sforzo mentale di immaginarsi in un mondo bidimensionale, cioè di dimenticarsi dell’esistenza di una terza di- mensione. In 3D l’espansione può essere visualizzata come la lievitazione di una torta, naturalmente infinita. Con una differenza importante: non esiste uno spazio esterno, Euclideo e statico, in cui l’Universo si espande (come nel caso
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della torta); per esempio, se l’Universo è infinito rimane tale anche quando si espande o si contrae. L’espansione dell’Universo non implica l’esistenza di un osservatore privi-
legiato, che vede tutte le galassie allontanarsi radialmente. Infatti, la velocità con cui due galassie si allontanano tra di loro cresce con la distanza, qualsia- si sia il punto preciso in cui ci poniamo. Questo è semplice da dimostrare (vedi la Fig. 5.3): se A vede B e C allontanarsi a velocità vAB = H0rAB e vAC = H0rAC , la velocità con cui B vede A allontanarsi sarà naturalmente vBA = −vAB = H0rBA, mentre la velocità di C rispetto a B sarà vBC = vAC − vAB = H0(rAC − rAB) = H0rBC . Il principio Copernicano di non centralità dell’osservatore trova in questo
caso una rinnovata formulazione nel cosiddetto principio cosmologico:
i) Nell’Universo non esistono osservatori privilegiati. In altre parole, una volta mediate le fluttuazioni locali, l’Universo appare omogeneo e iso- tropo su grande scala da qualsiasi punto venga osservato.
Figura 5.2. Diagramma di Hubble ottenuto nei primi anni 2000 da una compilazione di distanze e redshift di SN Ia. La zona in rosso in basso a sinistra corrisponde alla regione campionata originariamente da Hubble.
196 Introduzione all’Astrofisica
In altre parole si postula che l’Universo sia su grande scala massimamente sim- metrico nelle dimensioni spaziali. Osservatori situati in punti diversi, che os- servino allo stesso istante, misureranno in media gli stessi valori dei i parametri cosmologici, come la densità di materia, la temperatura della radiazione di fon- do, la costante di Hubble e così via. Il principio cosmologico può essere testato osservativamente sulla distribuzione delle galassie, ma il test è tutt’altro che facile. Molto più facile è dimostrare l’isotropia dell’Universo tramite il fondo cosmico nelle microonde, che verrà descritto nella Sez. 5.4. La costante di Hubble H0 ha le dimensioni dell’inverso di un tempo. Que-
sto implica l’esistenza di un tempo caratteristico, in contraddizione con l’as- sunzione di staticità: l’Universo osservato ad istanti diversi appare diverso. In particolare, definiamo il tempo di Hubble come l’inverso di H0:
tHubble = 1/H0 (5.2)
Facendo opportune ipotesi sulle componenti che permeano l’Universo, ne pos- siamo tracciare l’espansione all’indietro nel tempo. Come vedremo nella pros- sima sezione, andando indietro di un tempo∼ tHubble troviamo che la densità in tutto l’Universo va all’infinito. L’istante in cui questo accade viene chiamato big bang, l’età dell’Universo si misura a partire da questo.
A
B
v AB
r BC
v AC
v BC
v BA
Figura 5.3. L’espansione dell’Universo non implica l’esistenza di un centro di espansione: se l’osservatore A vede B e C allontanarsi seguendo la legge di Hubble-Lemaitre, B vede A e C allontanarsi nello stesso modo.
V. Cosmologia 197
Non è corretto affermare che al big bang l’Universo era concentrato “in un punto”. In altre parole, il big bang non è un’esplosione che avviene “in un punto” dell’Universo: l’Universo stesso inizia ad espandersi da quell’istante. Notare anche che l’Universo se è infinito rimane sempre tale a tutti gli istanti successivi al big bang. Per cercare di capire la natura geometrica di questa espansione è utile lasciare da parte l’esistenza di una singolarità iniziale e tenere conto che la fisica che conosciamo comincia ad essere valida (ottimisticamente) 10−43 s “dopo il big bang”. L’istante del big bang, t = 0, va inteso come l’istante a cui l’estrapolazione della fisica nota produce una singolarità. Oltre a fornire una stima dell’età dell’Universo, la legge di Hubble-Lemaitre
dà la possibilità di misurare in modo “economico” la distanza degli oggetti ex- tragalattici. Basta infatti misurare uno spettro e riconoscere alcune righe di assorbimento o emissione per avere il redshift di una galassia, e attraverso la legge di Hubble-Lemaitre la distanza. In effetti la legge di Hubble-Lemaitre vale in senso stretto solo nell’ipotesi in cui le galassie non abbiano altri moti al di là dell’espansione cosmologica. Vedremo nel seguito che questo non è vero, ma i moti “peculiari” delle galassie sono indipendenti dalla distanza e relati- vamente modesti, raramente superano i 1000 km s−1. Quindi, per le galassie sufficientemente lontane (cz 1000, z 0.003) la distanza data dalla legge di Hubble-Lemaitre risulta accurata. La costante di Hubble regola quindi le dimensioni spaziali e temporali del-
l’Universo. La sua misura è di grande importanza, e si basa principalmente sulla determinazione diretta di velocità di recessione e distanza di grandi cam- pioni di galassie o supernove. Il problema osservativo principale non sta tanto nella misura di un grande numero di galassie, quanto nella calibrazione degli indicatori di distanza, che induce errori sistematici. Data la difficoltà nel misurare le distanze delle galassie, non risulta sorpren-
dente che il suo valore sia rimasto per anni al centro di un acceso dibattito. La costante di Hubble viene di solito misurata in km s−1 Mpc−1, ed il suo valore ha oscillato per anni tra 50 e 100. Per non dovere attendere la misura precisa della costante di Hubble, i cosmologi l’hanno parametrizzata come segue:
H0 = h× 100 km s−1 Mpc−1 (5.3)
Il valore del tempo di Hubble è quindi:
tHubble = 9.78× 109 h−1 yr (5.4)
Per anni la comunità dei cosmologi si è divisa tra due correnti, una (capeg- giata da de Vaucouleurs e poi più tardi da Tully e collaboratori) in favore di un valore alto della costante di Hubble, con h ∼ 0.8 − 1, ed un’altra (capeggiata
198 Introduzione all’Astrofisica
da Sandage e Tammann) in favore di h ∼ 0.5. La differenza tra le due stime era dovuta essenzialmente ad una diversa calibrazione degli indicatori di distanza, e spesso all’uso di indicatori poi rivelatisi inaffidabili. Anche in questo campo i satelliti Hypparcos e Hubble (non per caso dedicato all’astronomo) hanno dato un contributo importante nel raffinare la calibrazione della scala di distanze. Oggi, con la cosmologia di precisione, il valore della costante di Hubble si
può determinare con un errore del 2%. Con la calibrazione più recente delle Cefeidi fatta con Hubble Space Telescope e usando le SNe Ia si ottiene:
H0 = 74.0± 1.4 km s−1 Mpc−1 (5.5)
Una misura indipendente ed ancora più precisa della costante di Hubble vie- ne dall’analisi delle fluttuazioni del fondo cosmico nelle microonde, che verrà descritto nella Sez. 5.4. Il metodo ha il grande vantaggio di essere completa- mente indipendente dalla scala delle distanze cosmiche, e di potere raggiunge- re precisione elevata; la sua correttezza dipende dalla correttezza del modello cosmologico utilizzato per riprodurre i dati. Con i risultati finali del satellite Planck si ottiene:
H0 = 67.4± 0.5 km s−1 Mpc−1 (5.6)
con un errore relativo dello 0.8%. Questi due valori sono in tensione a 4.4σ; in linea di principio, questa tensione potrebbe essere dovuta ad errori di ca- librazione ancora da identificare. Alternativamente, questa potrebbe essere il segnale di nuova fisica: la prima delle due misure infatti è basata su osservazio- ni di oggetti locali dal punto di vista cosmologico2; la seconda misura si basa sul fondo cosmico delle microonde, che come vedremo costituisce il nostro orizzonte visibile, e la consistenza delle due misure dipende dalla validità del modello cosmologico, basato sulla fisica nota. Va anche detto che nessuna delle estensioni ovvie del modello cosmologico sembra produrre questa differenza. Malgrado l’evoluzione nella misura della costante di Hubble, l’uso di h
rimane. Le distanze sono quindi date spesso in h−1 Mpc, cioè relative ad H0 = 100 km s−1 Mpc−1, e in modo simile le luminosità (in h−2 L), la massa delle galassie (in h−1 M)3, le densità (in h2 M Mpc−3), e così via. A volte queste quantità sono riferite ad h70, cioè ad un valore della costante di Hubble di 70 km s−1 Mpc−1.
2Il valore alto della costante di Hubble è stato confermato da misure indipendenti basate sull’effetto di lente gravitazionale. 3Ricordiamo che le masse delle galassie sono stimate come ∝ rv2/G, e v non dipende dalla costante di Hubble.
V. Cosmologia 199
Per conoscere l’età dell’Universo non basta sapere il tempo di Hubble; come vedremo nella prossima sezione, è necessario sapere come si espande l’Univer- so, e questo dipende da quante sorgenti di massa-energia esso contiene. In casi plausibili, l’età dell’Universo è simile o poco minore del tempo di Hubble, il rapporto tra i due tempi può variare tra 2/3 a poco più di 1. Per h che va da 0.5 ad 1 otteniamo un’età dell’Universo che va da ∼6.5 a ∼20 Gyr. Naturalmente vorremmo che quest’età fosse maggiore dell’età di qualsiasi astro osservato, poiché gli oggetti astrofisici nascono dopo il big bang. In questo senso risulta di estrema importanza la stima dell’età degli am-
massi globulari, i quali sono tra gli oggetti più antichi che conosciamo. Questa stima viene naturalmente dalla misura del MSTO, il punto in cui le stelle si distaccano dalla sequenza principale, e dipende dalla validità dei modelli di struttura stellare applicati al caso di stelle di bassa metallicità (Sez. 2.6). Nel periodo in cui era più accesa la discussione tra le correnti H0 = 50 e 100 km s−1 Mpc−1, l’età degli ammassi globulari veniva stimata di∼ 15−20 Gyr. Se quindi h = 0.5 l’età dell’Universo risultava marginalmente compatibile con quella degli ammassi globulari, mentre se h = 1 il modello cosmologico en- trava in crisi. Oggi la miglior stima dell’età dell’Universo (data di nuovo dalle misure del satellite Planck, Sez. 5.4) è 13.805± 0.023 Gyr, mentre l’età degli ammassi globulari più antichi si va assestando su 13 Gyr. Il problema dell’età dell’Universo si può dire superato.
5.2 I modelli di Friedmann-Robertson-Walker
Già dai tempi della nascita dell’astronomia scientifica, l’applicazione dei prin- cipi astrofisici ad un universo infinito poneva dei problemi, ben illustrati dal cosiddetto paradosso di Olbers. Se l’universo fosse eterno, infinito e statico, e fosse riempito uniformemente di stelle, ogni linea di vista finirebbe presto o tardi per intersecare la superficie di una stella. Di conseguenza, il cielo la notte non sarebbe buio, ma luminoso e caldo più o meno come la superficie del Sole (che è una stella media). Detto in altri termini, l’intensità della luce decresce come r−2, ma se le stelle entro un raggio r crescono come r2 i due andamenti si compensano, e il cielo notturno dovrebbe mostrare una brillanza superficiale simile a quella del disco del Sole4. Questo provocherebbe effet- ti tanto disastrosi quanto irrealistici. È proprio l’espansione dell’Universo a disinnescare questo paradosso, spostando la radiazione delle stelle molto lon-
4Questo paradosso ha un’interpretazione termodinamica abbastanza semplice: un universo eterno ha avuto tutto il tempo per raggiungere l’equilibrio termodinamico.
200 Introduzione all’Astrofisica
tane verso il rosso e, soprattutto, ponendo un limite all’Universo osservabile, l’orizzonte cosmologico. La forza di gravità, contrariamente alle altre forze fondamentali, è una forza
a lungo range, ovvero una forza che, in mancanza dell’analogo gravitazionale della “carica negativa”, non può essere schermata in alcun modo. Ripetendo l’argomento di prima, se la forza di gravità decresce come r−2 ma la massa (in condizioni di omogeneità) cresce come r2, tutto l’Universo esercita attrazio- ne gravitazionale su ogni sua particella. L’evoluzione dell’Universo è quindi determinata dall’attrazione gravitazionale che la materia esercita su sé stessa, rallentando l’espansione. Purtroppo è impossibile costruire un modello consistente di Universo a par-
tire dalla legge della gravitazione universale di Newton. Infatti il potenziale gravitazionale Φ(r) si ottiene dall’equazione di Poisson:
∇2Φ(r) = 4πGρ(r) (5.7)
dove ρ(r) è la densità di materia. Per una densità di materia omogenea, il potenziale gravitazionale è (a meno di costanti e con opportune condizioni al contorno) Φ(r) ∝ r2, in chiara violazione del principio cosmologico, a meno che non sia ρ(r) = 0. Un’altro modo di vedere la questione è il seguente: in un Universo isotropo il campo gravitazionale g, essendo vettoriale, deve essere nullo per simmetria, infatti se non fosse nullo definirebbe una direzione privilegiata. L’unico modo di avere un universo Newtoniano consistente con il principio cosmologico è di averlo completamente vuoto. La cosmologia scientifica nasce dall’applicazione dell’equazione di Ein-
stein all’Universo, considerato come uno spazio-tempo dinamico. Come già accennato in precedenza, prima della scoperta dell’espansione dell’Universo Einstein era convinto che questo dovesse essere (su grande scala) massimamen- te simmetrico nello spazio e nel tempo. Ma l’applicazione della sua equazione della relatività generale non sembrava dargli ragione: il sistema non ammette- va soluzioni costanti nel tempo. Alla scoperta dell’espansione dell’Universo, Einstein si arrese all’evidenza e si dedicò allo studio dei modelli in espansio- ne. Nel frattempo Friedmann e Lemaitre avevano già trovato e studiato delle soluzioni non statiche delle equazioni di Einstein. Questi studi furono successi- vamente ripresi da Robertson eWalker, che esaminarono in dettaglio la metrica degli universi in espansione o in collasso. I modelli di universo oggi utilizzati prendono quindi il nome di modelli di Friedmann-Robertson-Walker. Malgrado quanto detto sopra, è possibile ricavare (con una procedura che
ha valore puramente didattico) le equazioni di Friedmann a partire dalla di- namica Newtoniana, a patto di prendere in prestito un risultato della relatività
V. Cosmologia 201
generale. Questo è basato sul teorema di Birkhoff, ed è una generalizzazione relativistica del teorema di Gauss. Per i nostri scopi possiamo formularlo co- me segue: in condizioni di simmetria sferica (valide per una distribuzione di materia omogenea ed isotropa), l’evoluzione all’interno di una sfera di raggio r non è influenzata dalla materia al di fuori di r. Consideriamo una sfera di raggio r e densità ρ, in espansione secondo la
legge di Hubble-Lemaitre, e chiamiamo t0 l’istante a cui la osserviamo. Una galassia di massa m posta al raggio r obbedisce alla legge di conservazione dell’energia: E = mv2/2−GmM/r = costante. Per l’ipotesi di omogeneità, la galassia va considerata come un semplice tracciante della dinamica del siste- ma. Il moto della galassia dipende dalla sua energia totale: seE > 0 la galassia non è legata e si allontana indefinitamente, mentre se E < 0 la galassia finisce per collassare al centro della sfera. Se v = Hr eM = ρ× 4πr3/3, possiamo definire una densità critica a cui E = 0:
ρc = 3H2
8πG (5.8)
Notare come questa densità non dipenda da r. In altre parole, se ρ > ρc l’Uni- verso è destinato a collassare su sé stesso, se ρ ≤ ρc l’Universo si espande in- definitamente. PerH = 100 h km s−1 Mpc−1 il valore numerico della densità critica è
ρc = 2.778× 1011 h2 M Mpc−3 (5.9)
Espressa in g cm−3 si tratta di appena 1.9 × 10−29 h2; eppure vedremo che tutta la materia dell’Universo non riesce a raggiungere questa densità, ma si ferma al 31%. Avendo definito una densità di riferimento, è comodo esprimere tutte le
densità cosmologiche in funzione di questa. Per una componente che ha una certa densità ρ definiamo il parametro di densità Ω come:
Ω = ρ
3H2 ρ (5.10)
Utilizzeremo il simbolo ΩM per indicare il parametro di densità di materia al tempo attuale. Inoltre, è conveniente definire un fattore di scala, che descrive come l’U-
niverso si espande. Se la nostra sfera ha raggio r0 ad un certo tempo t0, che identifichiamo col tempo attuale, il fattore di scala a(t) è:
a(t) = r
r0 (5.11)
202 Introduzione all’Astrofisica
Il fattore di scala risulta determinato a meno di una normalizzazione arbitraria. Risulta utile normalizzarlo ad 1 al tempo attuale t0: a(t0) = 1. Notiamo che la costante di Hubble èH = v/r. In termini del fattore di sca-
la, si haH = da/dt×1/a. Ma questa è una funzione del tempo: la costante di Hubble non è costante nel tempo. Questo è naturale: la gravità, essendo attrat- tiva, rallenta l’espansione, e quindiH non può rimanere costante. Chiamiamo parametro di Hubble la quantità:
H(t) = 1
dt (5.12)
riservando il nome di costante (nello spazio) di Hubble per il valore di H al tempo attuale t0, H0 = H(t0). Notare che anche ρc (Eq. 5.8), essendo proporzionale ad H2, dipende dal tempo. L’energia E della galassia di massa m al tempo t0 si può scrivere come
E = mH2 0r
2 0(1 − ΩM)/2. Durante l’espansione la massa entro il raggio r a
cui si trova la galassia rimane costante, perchè la legge di Hubble-Lemaitre impedisce che le traiettorie di elementi di massa diversi possano attraversarsi. Sfruttando la conservazione dell’energia e la costanza della massa, e usando le definizioni date sopra, con un po’ di algebra si ottiene:
H
H0
2
= ΩM a3
+ 1− ΩM
a2 (5.13)
Questa è la seconda equazione di Friedmann per l’evoluzione dell’Universo5, ed è valida nel caso in cui l’Universo sia dominato dalla materia, la quale esercita una pressione trascurabile ai fini cosmologici. La seconda equazione di Friedmann è facile da risolvere nel caso ΩM =
1, utilizzando un ansatz per cui il fattore di scala evolve come una legge di potenza del tempo. Nel caso generale si ottiene un’equazione simile a quella della cicloide, risolvibile quindi analiticamente. Si trovano tre tipi diversi di soluzione (rappresentati in Fig. 5.4 insieme ad altri):
i) Se ΩM < 1 l’universo non è legato, e si espande in eterno, seguendo una legge simile alla cicloide ma con funzioni trigonometriche iperboliche.
ii) Se ΩM = 1 l’universo è critico, o di Einstein-de Sitter. In questo caso a(t) = (t/t0)
2/3, e l’espansione è ancora eterna. iii) Se ΩM > 1 la soluzione è quella di una cicloide, per cui l’universo è
legato e ricollassa su sé stesso in un Big Crunch.
5La seconda equazione di Friedmann si ottiene dalle componenti spaziali dell’equazione di Ein- stein, mentre la prima, che presenteremo nella prossima sezione senza dimostrarla, si ottiene dalla componente temporale.
V. Cosmologia 203
Troviamo quindi che, in presenza di sola materia, ΩM è l’elemento chiave per determinare il destino ultimo dell’Universo: espansione eterna o ricollasso in una singolarità. Secondo la chiave di lettura della lotta tra termodinamica e gravità, introdotta parlando della fine delle stelle, l’espansione infinita segne- rebbe la vittoria definitiva della termodinamica (c’è tutto il tempo per stabilire l’equilibrio termodinamico), mentre il collasso segnerebbe la vittoria definitiva della gravità. A questo punto siamo in grado di calcolare l’età dell’Universo in modo più
preciso di quanto fatto in precedenza. Se la gravità rallenta l’espansione dell’U- niverso, ne consegue che le galassie nel passato recedevano più velocemente di come fanno adesso. In questo caso il tempo di Hubble t0 = tHubble = H−1
0 , valido nell’ipotesi di velocità di espansione costante, sovrastima l’età dell’U- niverso: questo, espandendosi più in fretta nel passato, ha fatto prima a rag- giungere le dimensioni attuali (Fig. 5.4). Questa sovrastima sarà maggiore se l’espansione è più rallentata, e quindi se la densità totale di materia è maggio- re. Di conseguenza, più bassa è la densità dell’Universo, più grande è l’età del nostro Universo a parità di costante di Hubble; per ΩM 1 si ha t0 tHubble. Per ΩM = 1 si ha che a(t) = (t/t0)
2/3, da cui si ottiene:
Figura 5.4. Evoluzione del fattore di scala per diversi universi, vincolati ad avere a(t0) = 1 e H(t0) = H0 misurata.
204 Introduzione all’Astrofisica
a
da
dt =
2
3t0
t
t0
−1
(5.14)
Ponendo H(t0) = H0 otteniamo t0 = 2tHubble/3. La trattazione Newtoniana ci permette di ricavare la seconda equazione di
Friedmann, ma non ci permette di capire la struttura globale del nostro Uni- verso. Secondo la relatività generale, la gravità è dovuta alla curvatura del- lo spazio-tempo causata dalla presenza di massa-energia. La differenza fon- damentale tra la gravità Newtoniana e quella relativistica sta nel fatto che lo spazio-tempo non è un palcoscenico rigido in cui le particelle si muovono eser- citando una mutua forza di attrazione, ma una variabile dinamica, che viene distorta dalla materia e determina il moto della materia stessa. Applicata all’U- niverso, la relatività generale si pone il problema di determinarne la geometria globale. La nostra capacità di visualizzare uno spazio curvo è purtroppo limitata a
superfici (2D) immerse in uno spazio esterno (3D) Euclideo e statico. Di con- seguenza cercheremo di sfruttare questa nostra capacità per descrivere spazi curvi. Vale la pena di ricordare che la geometria di uno spazio è del tutto indipendente dal suo essere immerso (o meno) in uno spazio Euclideo di di- mensionalità maggiore; la geometria dello spazio si determina completamente a partire da misure fatte al suo interno.
Chiuso
Aperto
Chiuso
Piatto
Figura 5.5. Geometria ed evoluzione del fattore di scala per universi chiusi, aperti e piatti.
V. Cosmologia 205
Uno spazio curvo è caratterizzato da un raggio di curvatura. Consideriamo tre esempi di superfici curve (Fig. 5.5):
i) La superficie di una sfera è caratterizzata da un raggio di curvatura R positivo, che non è altro che il raggio della sfera. Possiamo accorgerci di essere su una superficie sferica (come la Terra) per esempio misuran- do π: per circonferenze di raggio simile a R otterremo dei valori minori di 3.14. Per esempio, se prendiamo l’equatore terrestre come circonfe- renza, il suo raggio sarà uguale a mezzo meridiano, per cui misuriamo π = 2. Analogamente, per un triangolo rettangolo non vale il teorema di Pitagora, in quanto l’ipotenusa al quadrato è minore della somma dei quadrati dei cateti. Infine, la somma degli angoli interni di un triangolo è maggiore di π radianti.
ii) Un piano è caratterizzato da un raggio di curvatura infinito; stare su un piano è come essere su una sfera di raggiomolto maggiore della più gran- de distanza che siamo in grado di compiere. Per il piano π = 3.14 . . ., la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a π radianti, e vale il teorema di Pitagora. In un piano la geometria è Euclidea.
iii) Non è possibile fare un esempio di superficie con curvatura costante e globalmente negativa immersa in uno spazio Euclideo, ma è possibile vi- sualizzare una superficie in cui la curvatura è localmente negativa. Con- sideriamo una sella, ovvero un punto che è un massimo lungo una dire- zione ed un minimo lungo la direzione perpendicolare. In questo caso la misura di π dà valori maggiori di 3.14, il quadrato di un ipotenusa è maggiore della somma dei quadrati dei cateti, e la somma degli angoli interni di un triangolo è minore di π radianti.
Le soluzioni dell’equazione di Friedmann, viste in precedenza, hanno in relatività generale un significato geometrico preciso:
i) Se ΩM < 1 l’Universo è aperto, caratterizzato da curvatura negativa. ii) Se ΩM = 1 l’Universo è piatto, ovvero Euclideo, con curvatura infinita. iii) Se ΩM > 1 l’Universo è chiuso, caratterizzato da curvatura positiva e da
un volume totale infinito.
Nel caso Newtoniano i vari universi corrispondono alla stessa classe di so- luzioni con energie diverse, e se non è possibile passare da un tipo di univer- so all’altro è solo per la conservazione dell’energia; aggiungendo o togliendo energia si può passare da una soluzione all’altra. Nel caso relativistico, le tre soluzioni corrispondono a classi di soluzioni diverse con geometrie diverse, e non c’è modo di passare da una geometria ad un’altra per evoluzione gravita- zionale. Per esempio, un universo chiuso, che è un analogo 3D della superficie
206 Introduzione all’Astrofisica
di una sfera, ha un volume finito, mentre gli universi piatti e aperti hanno un volume infinito. Secondo la relatività generale, la legge di Hubble-Lemaitre non descrive un
semplice allontanarsi delle galassie tra di loro, ma è causata dal fatto che tutto lo spazio si espande. Questo implica la necessità di una reinterpretazione del redshift cosmologico. Un fotone viene emesso ad una lunghezza d’onda λem al tempo t, quando il fattore di scala era a(t), e viene rivelato dal un telescopio al tempo attuale t0, quando a(t0) = 1. La sua lunghezza d’onda è soggetta all’espansione, per cui al momento della rivelazione sarà:
λoss a(t0)
= λem a(t)
(1 + z) = a(t0)
a(t) (5.16)
dove abbiamo fatto di nuovo uso della normalizzazione a(t0) = 1. Il redshift quindi non è dovuto all’effetto Doppler, ma è un effetto puramente gravitazio- nale dovuto dell’espansione dell’Universo, analogo al redshift gravitazionale nei pressi di un buco nero. L’espansione dell’Universo non influenza materia e radiazione in modo
uguale. La densità di massa-energia della materia, se questa non è ultrarelativi- stica, decresce semplicemente come a(t)−3, cioè viene semplicemente diluita dall’espansione:
ρm = ρm0(1 + z)3 (5.17)
Le particelle relativistiche come i fotoni oltre all’effetto di diluizione subiscono una perdita di energia, ∝ a(t)−1, dovuta al redshift cosmologico. Si ha quin- di che la densità di massa-energia di una componente di fotoni (espressa per comodità in termini di massa per unità di volume6) evolve come segue:
ργ = ργ0(1 + z)4 (5.18)
Dal punto di vista termodinamico, questa evoluzione non viola la legge di conservazione dell’energia, anzi è una conseguenza della prima legge della ter- modinamica, ovvero della terza equazione di Friedmann, che esprime la con-
6Se ρc2 rappresenta la densità di energia di una componente, la quantità ρ ha le dimensioni di una densità di massa, identificabile come tale per una componente di particelle massive e non relativistiche.
V. Cosmologia 207
servazione dell’energia. Supponiamo che l’Universo sia permeato di una com- ponente di densità di energia ρc2 e pressione P . Per un tale sistema adiabati- co dU + PdV = 0; considerando un volume che si espande con l’Universo, V ∝ a3, e ponendo U = ρc2V , si ottiene (esprimendo il differenziale come derivata temporale):
dρ
= 0 (5.19)
Per P = 0 (materia) si ottiene d(ρma3)/dt = 0, che implica ρm ∝ a−3, mentre per P = ργc
2/3 (radiazione) si ottiene d ln ργ/dt + 4 d ln a/dt = 0, ovvero ργ ∝ a−4. Come vedremo nella Sez. 5.5, nei primi istanti l’Universo era dominato da
particelle ultrarelativistiche in equilibrio termico (l’energia termica era molto maggiore della massa a riposo di quasi tutte le particelle), che si comportano a tutti gli effetti come radiazione. È utile quindi modificare l’equazione di Fried- mann (Eq. 5.13) in modo da descrivere l’evoluzione di un universo dominato dalla radiazione. Ripercorrendo i passaggi fatti in precedenza, notiamo che la massa M racchiusa entro la sfera di raggio r corrisponde alla massa-energia dei fotoni,M = ρradV . Poiché ρrad ∝ a−4, mentre V ∝ a3, si ha che la mas- saM “diminuisce” col tempo per effetto dell’espansione: M = M1/a, dove il pedice 1 indica le quantità riferite ad un opportuno tempo t1 (non ha senso riferire il tutto al tempo attuale t0, dove questa equazione non vale). Imponen- do la conservazione dell’energia e manipolando algebricamente l’equazione si ottiene:
H
H1
2
= Ω1
a4 +
1− Ω1
a2 (5.20)
Notiamo che per amolto piccolo, il termine di curvatura al secondomembro dell’Eq. 5.20 risulta trascurabile. In questo caso l’Universo è approssimativa- mente piatto (Ω 1), per cui l’equazione diventa:
H
H1
2
1
a4 (5.21)
La soluzione di questa equazione dà a(t) = (t/t1) 1/2, ρrad ∝ t−2. Se la ra-
diazione è composta da fotoni che, essendo in equilibrio termico, hanno uno spettro di corpo nero, si ha che ρradc2 = aT 4
rad (dove qui a è la costante di Stefan-Boltzmann), per cui Trad ∝ t−1/2, ovvero Trad ∝ a−1.
208 Introduzione all’Astrofisica
Un’altra conseguenza dell’espansione dell’Universo sta nella non univocità della definizione di distanza delle sorgenti cosmologiche. Consideriamo una sorgente osservata al redshift z; al tempo attuale questa si sarà allontanata da noi a causa dell’espansione. Possiamo definire un sistema di coordinate sfe- riche comoventi, che si espande con l’universo, tale che (in un universo omo- geneo) le galassie stanno sempre nella stessa posizione. Definiamo r(z) come la distanza di coordinate che c’è tra noi e la galassia, definita utilizzando il si- stema di coordinate comoventi. La relazione tra la distanza di coordinate e la distanza fisica dipende dalla geometria; nel caso di un universo piatto la di- stanza di coordinate è uguale alla distanza fisica tra noi e la galassia, misurata a tempo costante, detta distanza comovente dC. Queste due distanze non sono misurabili in pratica. La stima delle distanze extragalattiche viene fatta tramite candele o regoli
standard. Per una candela standard, per esempio una supernova, se f è il flusso misurato ed L la luminosità intrinseca, definiamo distanza di luminosità dL la distanza per la quale vale la relazione:
f = L
4πd2L (5.22)
L’espansione dell’Universo ha un duplice effetto sui fotoni: incrementandone la lunghezza d’onda ne degrada l’energia, e contemporaneamente ne rallenta il ritmo di arrivo. Il flusso di una sorgente risulta quindi inferiore di un fattore (1 + z)2 rispetto a quello che si misurerebbe in assenza di espansione. Risulta infatti f = L/[4π(1 + z)2r(z)2] e
dL = (1 + z)r(z) (5.23)
Si definisce distanza di diametro dD la distanza per la quale vale la relazione Δθ = D0/dD. Come illustrato in Fig. 5.6, il regolo emette al tempo t un fotone che l’osservatore riceve al tempo attuale t0; nel frattempo l’espansione ha allontanato il regolo di un fattore a(t0)/a(t) = (1 + z), ma l’espansione lascia invariati gli angoli, per cui il regolo appare più grande (più vicino) di come apparirebbe in assenza di espansione. Si ricava:
dD = r(z)/(1 + z) (5.24)
Va notato che la figura 5.6 è valida solo a piccole distanze dall’osservatore, la traiettoria dei fotoni infatti è influenzata dall’espansione dell’Universo, ma questo aspetto è al di là dei nostri interessi. Se l’Universo decelera, la legge di Hubble-Lemaitre a distanze grandi, e
quindi ad epoche precedenti, sarà diversa da quella attuale. In altre parole,
V. Cosmologia 209
per un campione di galassie lontane il grafico della distanza di luminosità con- tro il redshift (il diagramma di Hubble) mostrerà una pendenza non costante. Approssimando la vera relazione con una serie di Taylor, ci aspettiamo che il discostamento dalla relazione lineare sia per redshift moderati:
dL = H−1 0 c
z − 1− q0
(5.25)
Il parametro q0 così definito viene chiamato parametro di decelerazione, ed è legato alla derivata seconda del fattore di scala:
q0 = −d2a
dt2 (t0)
t 0
Figura 5.6. Calcolo della distanza di diametro. L’osservatore è a riposo nel sistema di riferimento, la posizione occupata dal regolo è descritta dalla linea spessa, che evolve col tempo come il fattore di scala. In questo grafico i fotoni viaggiano su linee inclinate di 45; questo è vero solo a piccole distanze dall’osservatore, il grafico ha quindi una validità limitata.
210 Introduzione all’Astrofisica
La decelerazione dell’Universo dipende dalla quantità di materia in esso contenuta; non è quindi sorprendente il risultato che si ottiene dai modelli di Friedmann-Robertson-Walker per universi dominati dalla materia: q0 = ΩM/2. Unamisura della deviazione delle galassie lontane dalla legge di Hubble- Lemaitre ci permetterebbe quindi di stimare quanta materia c’è nell’Univer- so. Questo programma osservativo è ostacolato dalla difficoltà nel misurare le distanze delle galassie lontane. Questo problema può essere in linea di principio aggirato sfruttando la tec-
nica dei conteggi di galassie: andando a flussi sempre più bassi il numero di galassie osservate, nell’ipotesi di distribuzione omogenea e di funzione di lu- minosità costante, dipende dal volume sotteso dal campo osservato, e quindi da q0. Nel caso di un Universo piatto, vale la stessa legge che avevamo trovato per le stelle della Galassia, N(f > f0) ∝ f
−3/2 0 (Sez. 4.2). Ma le deviazio-
ni rispetto a questa legge possono essere dovute alla geometria non piatta o a un’evoluzione della funzione di luminosità delle galassie. Infatti, le galassie che vediamo ad alto redshift sono significativamente più giovani di quelle vi- cine, e sono quindi diverse. Questi effetti di evoluzione galattica, che verranno descritti nel prossimo capitolo, danno un errore sistematico che domina il se- gnale della misura di q0. Con i quasar la situazione è ancora peggiore, perché la loro evoluzione è ancora più marcata di quella delle galassie. Il miglior mo- do per misurare q0 consiste nello sfruttare le supernove Ia lontane, che sono candele standard.
5.3 Le supernove lontane e l’energia oscura
Nel tentativo di ottenere un universo statico, che obbedisse al principio cosmo- logico perfetto, Einstein tentò di manipolare la sua equazione aggiungendo un termine, perfettamente consistente dal punto di vista matematico, contenente una costante, che chiamò costante cosmologica. Questa costante, indicata con il simbolo Λ, quando ha segno positivo crea una forma di repulsione. Si otte- neva in questo modo una soluzione statica a patto che la densità di materia, la curvatura e la costante Λ avessero valori legati tra di loro, in modo da compen- sare esattamente l’attrazione gravitazionale della materia su sé stessa. Perché le tre quantità dovessero essere in quella relazione risultava non motivato; inoltre, la soluzione così ottenuta era instabile, nel senso che una perturbazione anche infinitesima avrebbe finito per amplificarsi e fare allontanare sempre di più la soluzione da quella statica. Quando fu scoperta la legge di Hubble-Lemaitre, Einstein affermò che con la costante cosmologica aveva preso la più grande cantonata della sua vita.
V. Cosmologia 211
Può una costante del genere, matematicamente consistente, avere un qua- lunque significato fisico? Un universo in espansione, dominato da materia o da radiazione, tende a decelerare (d2a/dt2 < 0) per effetto dell’attrazione gravita- zionale che la massa/energia esercita su sé stessa; per contrastare questa dece- lerazione ci vuole un termine, una sorta di “antigravità”, che provochi un’ac- celerazione dell’espansione dell’universo. La derivata seconda del fattore di scala viene determinata dalla prima equazione di Friedmann:
1
a
d2a
P
c2
(5.27)
Questa equazione si può facilmente ottenere derivando la seconda equazione di Friedmann, Eq. 5.13, ed utilizzando la terza equazione di Friedmann, Eq. 5.19, per semplificare alcuni termini. La prima equazione di Friedmann ci mostra che la causa dell’accelerazione non è solo la materia-energia, ma anche la pres- sione. Questo è caratteristico della relatività generale: nella Sez. 2.7 abbiamo visto che è il termine di pressione responsabile per il collasso delle stelle in buchi neri. Un valore negativo del termine ρ + 3P/c2 avrebbe come risulta- to quello di accelerare l’espansione dell’universo. Non conosciamo particelle che abbiano massa o energia negativa, per cui ρ > 0, ma è possibile ottene- re pressioni negative in ambito quantistico. Si può dimostrare inoltre che un termine di costante cosmologica è indistinguibile da un fluido omogeneo che abbia un’equazione di stato peculiare: P = −ρc2. Quindi la repulsione causa- ta da una costante cosmologica può essere vista come l’effetto di una pressione negativa. Dalla teoria delle particelle elementari sappiamo che una coppia di lastre di
metallo immerse nel vuoto vincolano gli stati quantici del campo elettromagne- tico, e sono quindi in grado di alterarne lo stato fondamentale. L’energia dello stato fondamentale sarà minore se le lastre vengono avvicinate, perché dimi- nuisce il numero di stati quantici eccitabili. Siccome una variazione di energia corrisponde ad una forza, le lastre saranno attratte per effetto di questa “pola- rizzazione del vuoto”. Questo viene chiamato effetto Casimir, ed è stato veri- ficato sperimentalmente. L’effetto Casimir, che dipende solo dall’esistenza del campo elettromagnetico quantistico, genera quindi un’attrazione tra due lastre di metallo che può essere interpretata come una pressione negativa. L’energia del vuoto quantistico, generando pressione negativa, entra nelle equazioni di Einstein come un termine di costante cosmologica, e potrebbe quindi fornire l’antigravità che cerchiamo. Otteniamo un limite superiore per Λ imponendo che la densità totale di
massa-energia (inclusa quella di vuoto) non sia molto maggiore del valore della
212 Introduzione all’Astrofisica
densità critica; se così non fosse, l’Universo sarebbe in espansione ad un ritmo accelerato tale da impedire la formazione delle galassie. Possiamo esprimere questo limite come ΩΛ <∼ 1, dove il parametro ΩΛ dà il rapporto tra la densità di energia in costante cosmologica (divisa per c2) e la densità critica. Dalla teoria delle particelle elementari si può calcolare il valore atteso del-
la costante cosmologica, dato un campo quantistico. Si tratta di sommare su tutti i modi di oscillazione di tutti i campi, concedendo ad ognuno di essi un’e- nergia hν/2. L’integrale ovviamente diverge, perché il numero dei modi di oscillazione di un campo infinito è infinito. Ma sappiamo che le nostre teorie quantistiche non possono valere a tutte le energie. Possiamo per esempio tron- care l’integrale all’energia di Planck EPl = MPlc
2 1.22 × 1019 GeV, dove la massa di Planck èMPl =
c/G 2.18 × 10−5 g; a queste energie non
possiamo descrivere la gravità come una forza classica. Otteniamo qualcosa comeΩΛ ∼ 10120. Confrontando il valore ottenuto dall’energia di vuoto con il limite superiore dato dalla cosmologia, otteniamo un risultato sorprendente: il primo supera il secondo per ben 120 ordini di grandezza! Probabilmente il di- saccordo più disastroso mai trovato tra teoria ed osservazione. È chiaro che la fisica delle particelle che non conosciamo deve fornire dei termini che rendono quell’integrale nullo (o quasi). Dal punto di vista cosmologico, il problema principale non consiste nel di-
mostrare che la costante cosmologica non è 120 ordini di grandezza più grande di quello che dovrebbe essere (l’evidenza osservativa ci basta), ma nel fatto se essa possa o meno essere diversa da zero. Infatti, per ottenere un valore di una costante che non sia nullo ma sia enormemente più piccolo del valore “natura- le” è necessario che i parametri della teoria siano regolati in modo tanto fine (fine tuning) quanto innaturale. A questo punto è di gran lunga più naturale pensare che la costante cosmologica sia nulla, anche se non capiamo perché. Una spiegazionemolto interessante della piccolezza innaturale della costan-
te cosmologica, a cavallo tra la filosofia e la cosmologia scientifica, viene data dal principio antropico. Fu Dirac a notare una strana coincidenza numerica: il rapporto tra forza elettrostatica e forza gravitazionale tra un protone ed un elettrone, elevato al quadrato, è circa uguale al numero di particelle contenu- te nel nostro Universo osservabile. Questa equivalenza potrebbe essere una strana coincidenza, ma potrebbe sottointendere una legge fondamentale della fisica che ancora ci sfugge. Ma mentre il primo numero (rapporto tra forza elettrica e gravitazionale) è costante nel tempo, il secondo (numero di parti- celle osservabili) cambia nel tempo: più passa il tempo, più particelle entrano nel nostro orizzonte. La nuova legge fondamentale implicherebbe quindi la variazione della forza di gravità o di quella elettromagnetica. Questa variazio-
V. Cosmologia 213
ne è oggi esclusa dalle osservazioni. Dicke propose una soluzione ben diversa per questa coincidenza: l’uguaglianza di Dirac risulta valida nell’epoca in cui le stelle bruciano idrogeno in elio, che è l’epoca in cui viviamo. Ma questo non è un caso: l’esistenza di esseri biologici come noi richiede che le stelle abbiano già sintetizzato abbastanza carbonio, ossigeno ed elementi pesanti da permettere l’esistenza di un pianeta solido con atmosfera e acqua, in cui si possa sviluppare la vita biologica basata sul carbonio. Molto prima di questo perio- do non potremmo esistere perché non sono stati prodotti abbastanza metalli, successivamente le stelle si spengono e l’Universo va verso la morte termica. Questa spiegazione “antropica” ispirò alcuni cosmologi ad introdurre il co-
siddetto principio antropico, che, nella sua forma “debole”, richiede che una teoria cosmologica per essere accettabile debba produrre un universo in cui è possibile la vita biologica, e quindi la presenza di un osservatore. Perché que- sto avvenga è necessario che l’universo contenga abbastanza materia “barioni- ca’ (protoni, neutroni ed elettroni7 ) a densità sufficientemente alta da formare stelle, e che duri abbastanza a lungo in modo che si generino stelle di seconda generazione (cioè di composizione non primordiale, arricchite di metalli), at- torno alle quali si possano formare pianeti ricchi di metalli, ed in essi la vita. Se il valore delle costanti della natura non è fissato dalla fisica ma è assegnato secondo una certa distribuzione di probabilità, la condizione di ospitare la vita biologica selezionerà particolari combinazione di “costanti della natura”. Tornando alla costante cosmologica, gli universi in cui essa assume il suo
valore “naturale” non sono idonei ad ospitare la vita, poiché si espandono trop- po in fretta, impedendo la formazione delle galassie e quindi di qualsiasi stella. Questo giustifica un valore molto basso diΛ senza bisogno di fine tuning. Que- sti argomenti sono spesso stati accolti in modo ostile: se i modelli cosmologici predicono un’ampia distribuzione dei valori possibili delle costanti, assoluta- mente non osservabile, si perde del tutto il potere predittivo e la possibilità di testare osservativamente i modelli. Vi è una qualche evidenza osservativa a favore di una costante cosmologi-
ca? Fino al 1998 fa la risposta sarebbe stata “no”, a parte per un aspetto a prima vista secondario. Alcune argomentazioni teoriche, basate sulla teoria dell’in- flazione che descriveremo nel seguito, portano a pensare che l’Universo sia piatto. Questo “pregiudizio teorico” rischiava nei primi anni ’90 di andare in crisi su tre fronti:
i) l’età dell’Universo per un possibile valore alto della costante di Hubble
7Nel gergo cosmologico la materia ordinaria viene genericamente indicata come “barioni”, in- cludendo anche gli elettroni che sono di fatto leptoni. Il motivo è che quando la materia è non relativistica, la densità di energia è∼ mc2, per cui i leptoni sono trascurabili rispetto ai barioni.
214 Introduzione all’Astrofisica
appariva in contrasto con l’età degli ammassi globulari (per ΩM = 1 abbiamo t0 6.5h−1 Gyr);
ii) alcune misure dinamiche di ΩM davano un valore di ∼0.3; iii) le misure di fluttuazioni nella distribuzione spaziale delle galassie erano
in disaccordo con la misura delle fluttuazioni del fondo cosmico (questi aspetti saranno discussi nella prossima sezione e nel prossimo capitolo).
Tutti questi problemi venivano risolti o assumendo un’universo aperto oppure supponendo che l’Universo fosse sì piatto, ma pervaso al 70% di un termine di costante cosmologica, qualsiasi cosa essa fosse. In questo caso t0 9h−1
Gyr, ΩM può essere minore di uno perchè ΩM + ΩΛ = 1, e la predizione delle fluttuazioni torna in accordo coi dati. La proposta non era stata accolta con molta convinzione perché sembrava un tentativo artificiale di salvare un pregiudizio teorico. La costante cosmologica sembrava quindi una delle più grosse sciocchez-
ze mai inventate: introdotta da Einstein per salvare il suo pregiudizio estetico, era stata accantonata alla scoperta dell’espansione dell’Universo. Reintrodotta dai cosmologi teorici come termine di energia di vuoto, risultava in disaccordo con il limite osservativo per 120 ordini di grandezza, a meno di non metterla a zero per motivi ignoti o di appellarsi ad argomenti incerti basati sul princi- pio antropico. Infine, era stata reintrodotta con valori ad-hoc sostanzialmente per salvare il pregiudizio teorico sulla piattezza dell’Universo, che appariva in contrasto con l’evidenza osservativa. Molte persone rimasero soprese quando si dimostrò, nel 1998, che il ∼70% della massa-energia dell’Universo (oggi) è sotto forma di costante cosmologica. La dimostrazione venne dal diagramma di Hubble delle supernove di tipo Ia
lontane osservate da due gruppi indipendenti. Questo è mostrato in Fig. 5.7 in termini di modulo di distanza (Eq. 1.6); nel pannello interno vengono mostrate le differenze, rispetto alle predizioni di un modello vuoto, per i dati (mediati su bin di redshift) e per vari modelli. Le supernove hanno magnitudini apparenti superiori a quelle che ci si aspetta in un universo con ΩM = 1, la differenza ammonta in termini di luminosità a circa mezza magnitudine. Questo vuol dire che le supernove sono più lontane di quanto ci si aspetti, e che quindi l’Uni- verso si è espanso di più di quanto faccia per ΩM = 1. Siccome l’attrazione gravitazionale della materia è responsabile per il rallentamento dell’espansione cosmica, questo vuol dire cheΩM < 1. Ma perfino un universo vuoto,ΩM = 0, in cui d2a/dt2 = 0, non riesce a riprodurre la minore luminosità apparente del- le supernove fino a z ∼ 1. Questo vuol dire che l’espansione dell’universo è accelerata; in altri termini il parametro di decelerazione q0 è negativo. Per ave- re un’espansione accelerata c’è bisogno di una sorgente che causi repulsione;
V. Cosmologia 215
ovvero di un termine di costante cosmologica. La scoperta è stata premiata con il Nobel per la fisica, nel 2011, agli astronomi Perlmutter, Schmidt e Riess. Una possibile spiegazione alternativa potrebbe essere data dal fatto che le
SNe lontane si comportano diversamente da quelle vicine (modello Evolution ∼z nella Fig. 5.7), ma non ci sono forti evidenze a favore di questa ipotesi. Op- pure la presenza di polvere intergalattica potrebbe fare apparire le supernove più deboli di quanto siano veramente (il corrispondente modello nella figura è chiamato high-z gray dust); ma il comportamente delle SNe a z > 1 porta ad escludere questa possibilità. Inoltre, la presenza di un termine di costante cosmologica viene oggi confermata dall’analisi delle fluttuazioni del fondo co- smico nelle microonde (Sez. 5.4) e della struttura a grande scala tracciata dalle galassie. A quanto pare, viviamo in un Universo che ha appena iniziato una fase di espansione accelerata, e per il quale ΩM = 0.315 e ΩΛ = 0.685. È im- portante notare che la presenza di un termine di costante cosmologica rompe la corrispondenza tra geometria e fato dell’universo (Fig. 5.5); un universo chiuso
0.5 1.0 1.5 2.0 z
30
35
40
45
μ
-0.5
0.0
0.5
(m
-M ) (
Empty (Ω=0) ΩM=0.29, ΩΛ=0.71
ΩM=1.0, Ω Λ=0.0
high-z gray dust
pure acceleration: q(z)=-0.5
~ pure deceleration: q(z)=0.5
Evolution ~ zBinned Gold data
Figura 5.7. Diagramma di Hubble per le supernove lontane, in termini di redshift e di modulo di distanza. Il pannello interno mostra la differenza tra il modulo di distanza misurato e quello previsto per un universo vuoto; le misure sono mediate su intervalli di redshift, e sono mostrate le predizioni per diversi modelli cosmologici.
216 Introduzione all’Astrofisica
si può espandere in eterno, e un universo aperto può collassare se la costante cosmologica assume un valore negativo. Questa scoperta ha dato nuovo impulso alla ricerca teorica sulla natura della
costante cosmologica. Oggi si preferisce parlare di energia oscura, una com- ponente che si comporta in modo simile ad una costante cosmologica e che potrebbe essere spiegata fisicamente in almeno due modi. La maggior parte dell’energia dell’Universo potrebbe essere immagazzinata in un campo quanti- stico scalare, detto “quintessenza”, il quale non è in una configurazione di equi- librio ma evolve lentamente verso l’equilibrio. In queste condizioni il campo non può oscillare, dando così origine a particelle osservabili. Alternativamen- te, la teoria corretta della gravità non sarebbe la relatività generale; piuttosto, calcolando il limite di basse energie di una teoria più generale, che descrive tutte le interazioni fondamentali, si otterrebbe la relatività generale incluso un termine che si comporta, in prima approssimazione, come una costante cosmo- logica. Sono in corso diversi esperimenti per determinare l’equazione di stato dell’energia oscura con grande accuratezza e a vari redshift, nella speranza di misurare deviazioni da P = −ρc2; ne accenneremo nel prossimo capitolo.
5.4 Il fondo cosmico nelle microonde
L’espansione dell’Universo implica una fase iniziale in cui il fattore di scala era molto piccolo, e quindi la densità molto elevata. In quelle condizioni la mate- ria era molto calda e completamente ionizzata, anche se in espansione molto veloce. È ragionevole aspettarsi che tutte le specie di particelle in grado di inte- ragire significativamente, fotoni inclusi, fossero in equilibrio termodinamico. La situazione era in qualche modo analoga a quella degli interni stellari, dove la radiazione è in equilibrio termodinamico (locale in questo caso) con la mate- ria. Di conseguenza nei primi istanti della sua vita l’Universo era opaco, e non possiamo sperare di misurare alcuna radiazione elettromagnetica proveniente da quelle epoche. Successivamente l’espansione raffreddò il plasma cosmologico, ed elettro-
ni e nuclei si combinarono in atomi, disaccoppiandosi finalmente dai fotoni. È possibile osservare questo mare di fotoni primordiali sotto forma di fondo cosmico, caratterizzato da un elevato grado di isotropia. Quale fosse la den- sità di fotoni a quei tempi dipende da molti dettagli del primo Universo, ma lo spettro doveva essere di corpo nero. Una prima stima, prodotta da Alpher e Gamow sulla base dei primi calcoli di nucleosintesi primordiale (Sez. 5.6), dava un valore di∼5 K per la temperatura del fondo osservato al tempo attuale.
V. Cosmologia 217
Nel 1965 Penzias e Wilson, due tecnici dei Bell Laboratories che stavano stilando un inventario delle sorgenti di rumore nelle telecomunicazioni, mi- surarono un fondo di radiazione nelle microonde che appariva assolutamente isotropo. Confrontandosi con Dicke e Peebles, che nel frattempo stavano co- struendo un’antenna per rivelare la radiazione di fondo, capirono di avere mi- surato le ultime vestigia di quel mare di fotoni che aveva dominato l’Universo per alcune centinaia di migliaia di anni. La scoperta fu premiata nel 1978 con il premio Nobel a Penzias e Wilson, mentre Peebles ha appena ricevuto (nel 2019) il premio Nobel per il suo contributo alla cosmologia. Questo Cosmic Microwave Background (CMB) ha uno spettro di corpo nero con una tempe- ratura Tγ0 = 2.73 K, ed è il corpo nero più accurato che si trovi in natura: la Fig. 5.8 mostra il fit ottenuto con i dati del satellite COBE (che descriveremo a breve), le barre di errore sono così piccole da essere inferiori allo spessore della linea usata nel grafico. Come abbiamo visto nella Sez. 5.2, la densità di energia di una componente
Figura 5.8. Spettro del CMB secondo le osservazioni di COBE. La linea mostra il fit dei punti osservativi, le barre di errore sono minori dello spessore della linea nera usata per il fit.
218 Introduzione all’Astrofisica
di fotoni evolve come (1+z)4. Si può dimostrare che l’espansione non cambia la forma dello spettro della radiazione, che rimane sempre di corpo nero. Poi- ché per una radiazione termica la densità di energia è aT 4, è facile dimostrare che (vedi anche la Sez. 5.2) la temperatura del CMB evolve come:
Tγ = Tγ0(1 + z) (5.28)
La densità di materia a sua volta evolve come (1 + z)3 (Sez. 5.2). Di con- seguenza, il rapporto tra densità di radiazione e di materia cresce col redshift, ργ/ρm ∝ (1+z): ad alto redshift l’Universo era dominato dalla radiazione. La densità di energia in radiazione è oggi ργ0 = aT 4
γ0/c 2 4.7× 10−34 g cm−3
(per comodità la esprimiamo in termini di densità di massa equivalente), corri- spondente a Ωγ 2.5×10−5 h−2. Se oggi ργ0/ρm0 2.5×10−5 (ΩMh
2)−1, questo vuol dire che, per ΩM = 0.315, ΩΛ = 0.685 e h = 0.674 al redshift z 5570 le densità di energia in materia e in radiazione erano uguali. Questo evento è detto equivalenza, ed il redshift a cui avviene è indicato come zeq. Pri- ma dell’equivalenza la densità di massa-energia è dominata dalla radiazione, dopo l’equivalenza è dominata dalla materia. Questo calcolo trascura la presen- za di una componente di neutrini cosmici, legati alla sintesi degli elementi leg- geri (Sez. 5.6), che ha una densità di circa il 60% di quella dei fotoni; in questo caso il redshift di equivalenza risulta (risultati di Planck) zeq = 3402± 26. Se la densità di energia dei fotoni evolve come (1 + z)4, la loro densità in
numero evolve come quella della materia, cioè come (1 + z)3. Ne consegue che, in assenza di reazioni nucleari capaci di creare fotoni, il rapporto tra nu- mero di barioni e di fotoni rimane costante. Possiamo calcolare questa quantità all’epoca attuale; la densità in numero di fotoni nγ0 = 412 cm−3 si ottiene dal- le leggi del corpo nero e dal valore Tγ0 = 2.73 K, mentre la densità in numero di barioni si ottiene dividendo la corrispondente densità di massa, esprimibile come Ωbρc, per la massa del protone mp. Il risultato si scrive usualmente in termini del fattore Ωbh2:
η ≡ nb nγ
2.68× 10−8Ωbh 2 (5.29)
Da questo calcolo, e dal valore diΩbh2 0.0224 che verrà discusso in seguito, emerge che η 5.97 × 10−10: ci sono circa due miliardi di fotoni del CMB per ogni barione. Va anche notato che i fotoni del CMB sono anche molto più numerosi dei fotoni di origine astrofisica. Quando la temperatura diventa sufficientemente bassa, l’idrogeno può ri-
combinarsi (l’elio si ricombina a temperatura un po’ più alta, sottraendo però solo una piccola frazione di elettroni). A quel punto, chiamato ricombinazio-
V. Cosmologia 219
ne (anche se sarebbe più corretto chiamarlo “combinazione”) la sezione d’urto tra barioni e radiazione crolla e il tempo medio tra due scattering diventa mol- to maggiore dell’età dell’Universo, che diviene finalmente trasparente. La ri- combinazione è un processo graduale anche se rapido; nelle tipiche condizioni dell’ISM, l’idrogeno si ricombina a temperature di ∼104 K, ma il grande nu- mero di fotoni del CMB rende probabile la presenza di fotoni ionizzanti, con energie > 13.6 eV, anche a temperature più basse e quindi impedisce all’idro- geno neutro di accumularsi finchè la temperatura non crolla a circa 3000 K. Il CMB ci dà un’istantanea dell’Universo alla ricombinazione, più precisamente alla superficie di ultimo scattering tra fotone ed elettrone. Per i parametri co- smologici già citati in precedenza si ha che la superficie di ultimo scattering è in media a zrec = 1089.92± 0.25, circa 380,000 anni dopo il big bang. Il CMB è la radiazione primordiale che ci giunge dalla ricombinazione, af-
fievolita da un fattore ∼1000 in redshift. L’interesse nei suoi confronti è mol- teplice. La sua presenza conferma in modo convincente la teoria del big bang caldo, secondo la quale il primo Universo era un luogo estremamente denso, caldo ed energetico (nel senso che le particelle erano estremamente energeti- che). La sua temperatura, che viene misurata oggi con una grande precisione, ci dà informazioni sulla storia termica dell’Universo. Il suo spettro ci confer- ma che l’Universo giovane era in equilibrio termodinamico. Ma soprattutto, la misura delle sue fluttuazioni di temperatura dà informazioni preziosissime sui modelli di formazione delle strutture cosmiche. Se l’Universo fosse perfettamente omogeneo ed isotropo, non ci sarebbero
le galassie e noi non saremmo qui a parlarne. Su piccola scala, l’Universo mo- stra grandi disomogeneità, che diventano sempre più piccole mano mano che la scala si allarga, fino a giungere sulle grandissime scale ad una condizione di omogeneità in accordo con il principio cosmologico. La scala più grande che vediamo corrisponde alla radiazione del CMB, che ci giunge dai 4π steradianti del cielo. Al momento della ricombinazione, radiazione e materia barionica sono accoppiate, e quindi soggette alle stesse perturbazioni. Su grandi sca- le, appena più piccole dell’orizzonte visibile, queste perturbazioni inducono fluttuazioni nella temperatura del CMB, pari a:
δT
T =
1
3
δΦ
Φ (5.30)
dove δΦ/Φ è la fluttuazione del potenziale gravitazionale. La misura del- le fluttuazioni di temperatura del CMB ci dà quindi una misura diretta del- le perturbazioni primordiali; queste successivamente crescono per instabilità gravitazionale fino a formare le strutture cosmiche a noi note.
220 Introduzione all’Astrofisica
Negli anni ’80 iniziò la grande corsa alla misura delle fluttuazioni del CMB: queste costituivano un test fondamentale per la teoria del big bang caldo. Mi- surare le fluttuazioni del fondo cosmico è un problema formidabile dal punto di vista strumentale, si tratta di misurare differenze di temperatura dell’ordine del µK. Questo rende necessario l’uso di palloni o di satelliti, dato che l’atmosfera assorbe e quindi disturba la radiazione millimetrica (alle frequenze più basse è possibile osservare il CMB anche da terra). Inoltre, la Galassia emette ra- diazione alle stesse lunghezze d’onda, anche se con uno spettro molto diverso: emissione FIR da polvere ed emissione radio di sincrotrone. Per sottrarre que- sta radiazione è necessario misurare la temperatura del fondo in diverse bande, per poi combinare i segnali in modo opportuno così da sottrarre qualsiasi con- tributo che abbia uno spettro diverso da quello di un corpo nero a 2.73 K. I primi esperimenti, su pallone, non riuscirono a rivelare le fluttuazioni del CMB, ma produssero un limite superiore di δT/T < 10−4. L’universo formato da barioni e da fotoni però, per produrre la struttura a
grande scala osservata nella distribuzione delle galassie, richiedeva δT/T ∼ 10−3 − 10−4. Infatti, perturbazioni di questa ampiezza hanno il tempo, dalla ricombinazione ad oggi, di crescere fino a formare la struttura a grande scala (Sez. 6.2). Le misure del CMB mandavano quindi in crisi il modello barionico dell’Universo. A questa crisi si sommavano le evidenze del basso valore di Ωb ottenuto dalla nucleosintesi primordiale (Sez. 5.6), e della presenza di una componente di materia “oscura” ottenuta dalle curve di rotazione delle galassie a spirale (Sez. 4.4). Se, come vedremo meglio in seguito, i barioni non pos- sono essere più del ∼16% della massa dell’Universo, l’Universo è dominato dalla materia oscura, in forma di un’ignota particella che non interagisce con la radiazione elettromagnetica. La presenza di materia oscura permette di conciliare la struttura a grande
scala con il basso valore delle fluttuazioni di temperatura del CMB. Infatti, la radiazione, che ha un termine di pressione molto importante, non permette alle fluttuazioni di crescere. La materia barionica, anche quando diventa gravita- zionalmente dominante, rimane accoppiata alla radiazione fino alla ricombina- zione; le fluttuazioni hanno quindi occasione di crescere solo a partire da zrec. La materia oscura invece, non interagendo con i fotoni, permette alle fluttua- zioni di crescere a partire dall’equivalenza, dove zeq > zrec. Le fluttuazioni di temperatura misurano le perturbazioni “congelate” del plasma fotoni-barioni a zrec, ma i barioni, una volta disaccoppiati dalla radiazione, possono “cadere” nelle buche di potenziale della materia oscura, che nel frattempo hanno avuto tempo di crescere da zeq. Di conseguenza, a parità di fluttuazioni di materia a z = 0, ci aspettiamo nel caso di materia oscura fluttuazioni di temperatura
V. Cosmologia 221
Figura 5.9. Mappa delle fluttuazioni di temperatura misurate dal satellite COBE.
del CMB più basse di un fattore ∼38. Questi concetti verranno ripresi nella Sez. 6.2. Fu il satellite COBE (COsmic Background Explorer) nel 1992 a misurare
per primo le fluttuazioni del fondo cosmico, su scale angolari di 7, ottenendo: δT/T 1.8× 10−5 (Fig. 5.9). La misura di COBE segnò la terza rivoluzione nella cosmologia moderna, dopo la misura dell’espansione dell’Universo e la rivelazione del CMB (e in attesa dell’evidenza di espansione accelerata). An- che questa scoperta, insieme alla misura di precisione dello spettro di corpo nero del CMB, è stata premiata nel 2006 con il Nobel a Mather e Smoot. La misura delle fluttuazioni su una scala molto grande è solo il primo passo
in un campo, la cosmologia di precisione, che è giunto alla alla piena maturi- tà in questi anni. Abbiamo già introdotto la nozione di orizzonte cosmologico come la distanza a cui due osservatori possono scambiarsi informazione, data l’età dell’Universo. All’epoca della ricombinazione, l’orizzonte cosmologico era piccolo, corrispondente ad un angolo di ∼1. Le fluttuazioni misurate da COBE sono quindi genuinamente primordiali, visto che si riferiscono a regioni più grandi dell’orizzonte di allora. A scale più piccole di∼1 intervengono pro- cessi causali molto importanti, che determinano la forma specifica dello spettro delle fluttuazioni di temperatura. Questo si ottiene come segue. Una volta ot- tenuta una mappa di temperatura del cielo (o di una sua parte), si scompone questo campo di fluttuazioni in armoniche sferiche:
8Il fattore 3 diventa un fattore 10 seΩM = 1, che come abbiamo visto era il valore di riferimento negli anni ’80 tra i cosmologi teorici.
222 Introduzione all’Astrofisica
Figura 5.10. Predizioni per lo spettro delle fluttuazioni di temperatura del CMB in funzione del multipolo , confrontate con i dati finali dell’esperimento Planck.
δT
amY m (θ,φ) (5.31)
Chiamiamo spettro di potenza delle fluttuazioni C il valore quadratico medio (su m ed in un piccolo intervallo di ) dei coefficienti am. Questo ci dice quanto sono grandi in media le fluttuazioni sulla scala angolare θ ∼ 1/l. Lo spettro delle fluttuazioni viene predetto dai modelli cosmologici, e di-
pende da alcuni parametri, i cui principali sono:
i) ΩM, la densità di materia totale (oscura più barionica) a z = 0; ii) Ωb, la densità di materia barionica a z = 0; iii) ΩΛ, la densità di massa-energia in forma di costante cosmologica a z =
0; iv) ΩK = 1 − ΩM − ΩΛ, detta densità di curvatura perché determina la
geometria dell’Universo (se ΩK = 0 l’Universo è piatto)9; v) h, la costante di Hubble; vi) l’indice spettrale ns delle fluttuazioni primordiali (vedi Sez. 6.2); vii) un’opportuna normalizzazione dello spettro delle perturbazioni.
La Fig. 5.10 mostra lo spettro delle fluttuazioni di temperatura predetto dal modello cosmologico best-fit in funzione del multipolo , sovrapposto ai dati osservativi di cui parleremo tra breve. Notiamo come questa curva contenga molta informazione; una misura accurata dello spettro almeno fino ad ∼2000
9Alla materia e alla costante cosmologica andrebbero aggiunti radiazione e neutrini, che però hanno densità di massa trascurabili.
V. Cosmologia 223
è capace quindi di vincolare i parametri cosmologici in modo molto preciso. Si nota la presenza di picchi, detti picchi acustici. Questi sono generati dalle onde acustiche che si propagano nel plasma di barioni e fotoni accoppiati. Queste oscillazioni si propagano alla velocità cs del suono in un plasma ionizzato, che è pari a c/
√ 3.
Analogamente alla definizione di orizzonte cosmologico, possiamo definire l’orizzonte sonoro alla ricombinazione come ds = cstrec, cioè la distanza che un’onda sonora riesce a percorrere dal big bang fino alla ricombinazione. Si può dimostrare che la posizione del primo picco acustico misura l’angolo sot- teso dall’orizzonte sonoro alla ricombinazione. Dati i parametri cosmologici, la lunghezza dell’orizzonte sonoro si può facilmente calcolare, e quindi usare come regolo standard. L’angolo sotteso dall’orizzonte sonoro, ovvero l’angolo a cui misureremo il primo picco, dipende soprattutto dalla geometria globale dell’Universo, ovvero da Ωtot = 1− ΩK: se l’Universo è piatto, ci aspettiamo il picco centrato su ∼ 200, mentre se l’Universo è aperto l’angolo sotteso dall’orizzonte sonoro sarà minore e il primo picco si sposterà a maggiori. I picchi secondari, corrispondenti ad oscillazioni armoniche, sono importanti sia perché sono assenti in alcuni scenari cosmologici alternativi, sia perché per- mettono di vincolare Ωb; il rapporto tra la prima oscillazione armonica e le successive dipende infatti in modo critico dalla densità di barioni. Dopo i risultati di COBE, molti progetti furono dedicati alla misura sempre
più accurata delle fluttuazioni del fondo cosmico. Il primo picco acustico fu osservato per la prima volta inmodo convincente dall’esperimento Boomerang,
Figura 5.11. Mappa delle fluttuazioni della temperatura del CMBmisurata dal satellite Planck.
224 Introduzione all’Astrofisica
su pallone aerostatico, mentre le misure più complete sono state fornite prima dal satellite NASA WMAP e poi dal satellite ESA Planck; quest’ultimo ha prodotto la migliore mappa di temperatura su tutto il cielo (Fig. 5.11), con una risoluzione di 5 arcominuti. La Fig. 5.10 mostra lo spettro delle fluttuazioni angolari di temperatura misurato da Planck; i picchi acustici sono determinati in modo molto accurato, e la loro posizione risulta perfettamente compatibile con un Universo piatto. Sono chiaramente visibili i picchi secondari fino al settimo. Queste misure hanno permesso di giungere alle seguenti conclusioni (basate sui risultati definitivi della missione):
i) Le fluttuazioni del CMB sono ben riprodotte dal modello ΛCDM basato sumateria oscura fredda, che definiremomeglio nella Sez. 6.2, e costante cosmologica.
ii) Dalla posizione del primo picco acustico si ottiene la stima più precisa mai ottenuta per la densità totale dell’Universo:
ΩK = 1− Ωtot = 0.001± 0.002. (5.32)
iii) Si ottiene inoltre una stima della densità di materia barionica:
Ωbh 2 = 0.02237± 0.00015 (5.33)
iv) Risultano del tutto esclusi i modelli con ΩM = 1, mentre il modello di best-fit ha parametri ΩM = 0.315 ± 0.007 e ΩΛ = 0.685 ± 0.007, compatibile con i risultati delle SNe lontane.
v) Come già discusso, la costante di Hubble risulta H0 = 67.4 ± 0.5 km s−1 Mpc−3, in tensione con la determinazione basata sugli indicatori di distanza.
Un risultato molto interessante della misura delle fluttuazioni del CMB è la misura dell’indice spettrale delle fluttuazioni primordiali. Questa quantità verrà definita nella Sez. 6.2, adesso ci limitiamo a notare che la predizione più “naturale” dello spettro di perturbazioni primordiali, corrispondente ad un rumore bianco nelle perturbazioni del potenziale, darebbe un indice spettrale ns uguale ad uno. Con Planck si ottiene:
ns = 0.9649± 0.0042 (5.34)
significativamente diverso dal valore naturale. Questa evidenza ci dà informa- zioni molto preziose sull’Universo primordiale. La luce del CMB ci arriva con un piccolo grado di polarizzazione, che con-
tiene molte informazioni; lo studio dello spettro di potenza delle componenti
V. Cosmologia 225
polarizzate è la nuova frontiera delle misure del CMB. Questa polarizzazione permette da una parte di sondare il comportamento delle sorgenti che influen- zano il CMB dopo la ricombinazione (“foregrounds”); permette per esempio di vincolare la reionizzazione dell’idrogeno che avviene a redshift z ∼ 8, di cui parleremo nella Sez. 6.5. Una parte di questo segnale, difficilissima da misura- re, permette invece di rivelare un’eventuale fondo cosmico di onde gravitazio- nali. Come vedremo in seguito, questo fondo di onde gravitazionali potrebbe rivelare particolari cruciali per la fisica dei primissimi istanti dell’Universo.
5.5 Il primo Universo
Seguiamo adesso l’evoluzione dell’Universo a partire dal big bang. È utile ricordare che non possiamo fare nessuna osservazione diretta di quelle epoche. Tuttavia la configurazione di Universo che osserviamo dipende in modo critico da quello che è accaduto nei primi istanti, e questo ci permette di vincolare in modo indiretto alcune predizioni del modello cosmologico. Come già accennato in precedenza, non possiamo partire da t = 0: in quel-
l’istante la densità dell’Universo risulta infinita, e così la sua temperatura; con- sidereremo il big bang come l’estrapolazione della fisica che conosciamo al- l’istante in cui il fattore di scala diventa a = 0, estrapolazione che porta a conseguenze chiaramente non fisiche. Per energie E > 1.22 × 1019 GeV per particella ha luogo l’epoca della gravità quantistica, la quale termina (formal- mente) al tempo di Planck, tPl =
G/c5 5.39× 10−44 s dopo il big bang.
Sono state sviluppate teorie che tentano di descrivere l’Universo in queste con- dizioni, con conclusioni a volte affascinanti ma in nessun modo vincolabili dalle osservazioni. Ad energie più basse, tra 1019 e ∼1016 GeV, si ritiene che tre forze fon-
damentali (elettromagnetica, nucleare forte e debole) siano unificate secondo una Teoria della Grande Unificazione (Grand Unification Theory, GUT). Sono state proposte diverse GUT, ma le loro predizioni riguardano energie che so- no completamente al di fuori di quelle accessibili in laboratorio, ben superiori perfino ai raggi gamma di energia più alta. Una conclusione sembra inevita- bile, a quelle energie le particelle erano soggette a simmetrie maggiori delle particelle a noi note oggi. Per esempio, esistevano due sole forze fondamentali (gravità e forza unificata), e possibilmente vigeva la supersimmetria tra bosoni e fermioni. L’elevato grado di simmetria della GUT non si riscontra nella fisica attuale.
Infatti, ad energie più basse di quelle in cui vige la GUT assistiamo alla rottura spontanea delle simmetrie. Questo processo viene ben illustrato dal seguen-
226 Introduzione all’Astrofisica
te esempio (Fig. 5.12). Consideriamo un sistema φ soggetto ad un potenziale V (φ), dipendente dalla temperatura T , che ha un minimo a φ = 0 ed è sim- metrico attorno a quel punto. Il sistema potrà oscillare liberamente attorno a φ = 0, la simmetria impedisce di distinguere tra φ positivi e φ negativi. Que- sta configurazione può essere quella di un campo quantistico (per semplicità scalare); i modi normali di oscillazione corrisponderanno allora alle particel- le elementari che il campo può generare. Supponiamo adesso che, quando la temperatura diminuisce, il potenziale evolva in modo da presentare due mini- mi simmetrici a valori −φ0 e φ0. Il campo si sposterà dalla sua posizione di equilibrio precedente e si porrà in uno dei due nuovi min
La cosmologia era un tempo una dottrina filosofica e teologica, oggi è a pie- no titolo una specialità scientifica. Questa ha prodotto un modello standard di Universo1, chiamato ΛCDM (dove Λ indica una costante cosmologica e CDM una componente di materia oscura fredda), che verrà presentato in questo e nel successivo capitolo; questo modello riproduce bene tutte le evidenze osserva- tive su grande scala, al costo di richiedere l’introduzione di un settore oscuro, e di sollevare diversi problemi fondamentali. La cosmologia infatti pone ancora una volta problemi nuovi, non solo dal punto di vista osservativo e strumentale, ma anche epistemologico. Dal punto di vista osservativo, gli sforzi formidabili per osservare oggetti sempre più deboli e lontani, sfruttando tutte le lunghezze d’onda disponibili della radiazione elettromagnetica e gravitazionale, stanno dando risultati entusiasmanti. Oggi riusciamo ad osservare galassie e quasar fino a distanze corrispondenti a tempi in cui l’età dell’Universo era il ∼5 % dell’età attuale, mentre il fondo cosmico nelle microonde ci permette di osser- vare l’Universo appena ∼380,000 anni dopo il big bang. Queste osservazioni permettono di vincolare in modomolto preciso i parametri del modello; si parla oramai di cosmologia di precisione. Dal punto di vista epistemologico, la cosmologia presenta delle interessan-
tissime peculiarità. In astrofisica l’impossibilità di fare esperimenti con le stelle o con le galassie è compensata dall’abbondanza di oggetti osservabili, che in qualchemodo possono essere considerati realizzazioni dello stesso sistema fisi- co in condizioni ed età diverse. L’Universo invece è per definizione un evento unico, osservabile da una sola posizione (che assumiamo essere non privile- giata); possiamo osservarne direttamente l’evoluzione nel tempo, ma con l’e- sclusione dei primi ∼380,000 anni, che sono per molti versi i più interessanti.
1Analogamente a quanto si fa con la Via Lattea, si usa chiamare Universo, maiuscolo, quello in cui viviamo, riservando la dizione di universo, minuscolo, a generici modelli.
191
192 Introduzione all’Astrofisica
Per questo motivo, alcuni aspetti teorici della cosmologia si ritrovano al limite tra teoria scientifica e speculazione, in quanto sono impossibili da verificare osservativamente. Inoltre, forse nessuna scienza come la cosmologia per esse- re compresa richiede il contributo di tantissime evidenze indipendenti, che da sole possono risultare poco convincenti ma combinate con le altre producono argomenti forti. Dato che la luce ha una velocità finita, le galassie o i quasar vengono vi-
sti da noi non al tempo attuale ma al tempo di emissione della luce. Andando sempre più lontano potremmo spingerci ad osservare le primissime fasi del- l’Universo, immediatamente successive al big bang. Per questo, anche se il nostro Universo fosse infinito, ne possiamo osservare solo una porzione limi- tata, corrispondente alla distanza che la luce ha percorso dalle primissime fasi dell’Universo fino ad adesso. In altre parole, le nostre osservazioni sono limita- te da un orizzonte cosmologico (o orizzonte delle particelle): due zone diverse del nostro Universo che distano più dell’orizzonte non possono essersi ancora scambiate nessun tipo di informazione, perché non ce n’è stato il tempo. Di fat- to, sfruttando la radiazione elettromagnetica non possiamo spingere le nostre osservazioni oltre il fondo cosmico nelle microonde, poiché fino a ∼380,000 yr dopo il big bang l’Universo è molto denso e completamente ionizzato e, analogamente all’interno delle stelle, opaco alla radiazione. Questo definisce il nostro orizzonte visibile.
5.1 La scala delle distanze cosmiche e la legge di Hubble-Lemaitre
Abbiamo già visto come le distanze degli oggetti astrofisici siano determinate attraverso una serie di indicatori di distanza organizzati in una scala di calibra- zioni. Le stelle variabili, soprattutto le Cefeidi, sono il gradino della scala che permette di andare oltre la Galassia. Grazie alle Cefeidi riusciamo a stimare la distanza delle galassie più vicine, fino a qualche decina di Mpc. Questi indica- tori, calibrati all’interno della Galassia o delle galassie vicinissime (per le quali si riesce ad osservare il diagramma HR delle stelle), vengono detti indicatori primari. Gli indicatori secondari di distanza sono calibrati sulle galassie vicine, la
cui distanza è determinata tramite gli indicatori primari. Si basano principal- mente sulle relazioni strutturali delle galassie (Sez. 4.4. I più importanti sono i seguenti:
i) Per le spirali viene sfruttata la relazione Tully–Fisher tra la luminosità e la velocità di rotazione del disco galattico.
V. Cosmologia 193
ii) Per le ellittiche si usa il piano fondamentale, la relazione che lega bril- lanza superficiale, raggio effettivo e dispersione di velocità.
iii) Ancora per le ellittiche, distanze accurate si ottengono tramite il metodo delle fluttuazioni di brillanza superficiale: se in un pixel di un CCD cade la luce contribuita da N stelle, la fluttuazione tra pixel e pixel sarà
√ N .
Siccome N ∝ d2, questa relazione può essere usata come indicatore di distanza.
Un discorso a parte meritano le supernove di tipo Ia, che sono un’ottima candela standard, o meglio standardizzabile: la loro luminosità al picco non è esattamente costante, ma correla con la curva di luce in modo tale che è pos- sibile ricavarla dalle osservazioni. Queste supernove sono rare, tanto da non essere utilizzabili per stimare la distanza di grandi campioni di galassie, e so- no difficili da osservare, in quanto la loro identificazione richiede un continuo monitoraggio del cielo. D’altra parte sono così luminose da essere visibili fino a distanze cosmologiche. Ne parleremo diffusamente in seguito. Già prima di capire la natura extra-galattica delle nebulose, era stato notato
un fatto peculiare: i loro spettri mostrano quasi sempre uno spostamento verso il rosso, ma molto raramente verso il blu. In altri termini la popolazione delle nebulose risultava in media allontanarsi da noi (dalla Via Lattea). Nel dibattito tra Shapley e Curtis, questa evidenza venne utilizzata dal primo come argomen-
Figura 5.1. Diagramma di Hubble originale, che riporta in ascissa la distanza delle galassie, in milioni di pc, e in ordinata la velocità di recessione, in km s−1.
194 Introduzione all’Astrofisica
to contrario alla natura extra-galattica delle nebulose: il disco galattico esercita qualche forma ignota di repulsione nei loro confronti, il che ha senso solo se le nebulose sono interne alla Galassia. Come già accennato, la discussione fu risolta da Hubble, il quale misurò la distanza di Andomeda (M31) tramite le stelle Cefeidi. Il passo successivo da parte di Hubble fu quello di stimare la distanza di un campione più grande di galassie. Nel 1929 venne resa pubblica una correlazione, anticipata da Lemaitre nel 1927, tra la distanza della galassia e la sua velocità di recessione (Fig. 5.1):
v = cz = H0d (5.1)
Questa è nota come legge di Hubble, ma per riconoscere il ruolo dell’astronomo belga l’International Astronomical Union ha recentemente deciso di chiamarla legge di Hubble-Lemaitre. In questa formula la velocità di recessione v è anche espressa in termini del redshift z = Δλ/λ. La costante H0 è detta costante di Hubble. La Fig. 5.2 mostra lo stesso diagramma ottenuto da una compilazione di dati di SN Ia nei primi anni 2000; l’area in rosso corrisponde alle distanze campionate ai tempi di Hubble e Lemaitre. La scoperta della recessione delle galassie, già prevista da Friedmann e Le-
maitre, era destinata a sconvolgere completamente la cosmologia dell’epoca. Infatti, l’esperienza della fisica quantistica aveva insegnato l’importanza della simmetria dei sistemi fisici. Questa visione era legata anche ad un pregiudi- zio “estetico”, di cui Einstein e Dirac erano maestri, secondo il quale la chiave per trovare una teoria fondamentale era quella di farsi ispirare da principi di estetica matematica: la teoria più elegante è quella più promettente. Applicato all’Universo, questo pregiudizio suggeriva un principio di massima simmetria, detto principio cosmologico perfetto. Un universo massimamente simmetrico è tale che, una volta mediate le irregolarità locali, la distribuzione della materia è indipendente dalla posizione (omogeneità), dalla direzione (isotropia) e dal- l’istante temporale (staticità). Ma se l’Universo si espande, non è simmetrico nella componente temporale. L’espansione dell’Universo va intesa come un’espansione dello spazio stes-
so: due osservatori (opportunamente lontani) in caduta libera si allontanano tra loro per effetto di questa espansione. Questa è facile da visualizzare in 2D come l’espansione di una membrana di gomma, come potrebbe essere un palloncino che si gonfia; in questo caso bisogna fare lo sforzo mentale di immaginarsi in un mondo bidimensionale, cioè di dimenticarsi dell’esistenza di una terza di- mensione. In 3D l’espansione può essere visualizzata come la lievitazione di una torta, naturalmente infinita. Con una differenza importante: non esiste uno spazio esterno, Euclideo e statico, in cui l’Universo si espande (come nel caso
V. Cosmologia 195
della torta); per esempio, se l’Universo è infinito rimane tale anche quando si espande o si contrae. L’espansione dell’Universo non implica l’esistenza di un osservatore privi-
legiato, che vede tutte le galassie allontanarsi radialmente. Infatti, la velocità con cui due galassie si allontanano tra di loro cresce con la distanza, qualsia- si sia il punto preciso in cui ci poniamo. Questo è semplice da dimostrare (vedi la Fig. 5.3): se A vede B e C allontanarsi a velocità vAB = H0rAB e vAC = H0rAC , la velocità con cui B vede A allontanarsi sarà naturalmente vBA = −vAB = H0rBA, mentre la velocità di C rispetto a B sarà vBC = vAC − vAB = H0(rAC − rAB) = H0rBC . Il principio Copernicano di non centralità dell’osservatore trova in questo
caso una rinnovata formulazione nel cosiddetto principio cosmologico:
i) Nell’Universo non esistono osservatori privilegiati. In altre parole, una volta mediate le fluttuazioni locali, l’Universo appare omogeneo e iso- tropo su grande scala da qualsiasi punto venga osservato.
Figura 5.2. Diagramma di Hubble ottenuto nei primi anni 2000 da una compilazione di distanze e redshift di SN Ia. La zona in rosso in basso a sinistra corrisponde alla regione campionata originariamente da Hubble.
196 Introduzione all’Astrofisica
In altre parole si postula che l’Universo sia su grande scala massimamente sim- metrico nelle dimensioni spaziali. Osservatori situati in punti diversi, che os- servino allo stesso istante, misureranno in media gli stessi valori dei i parametri cosmologici, come la densità di materia, la temperatura della radiazione di fon- do, la costante di Hubble e così via. Il principio cosmologico può essere testato osservativamente sulla distribuzione delle galassie, ma il test è tutt’altro che facile. Molto più facile è dimostrare l’isotropia dell’Universo tramite il fondo cosmico nelle microonde, che verrà descritto nella Sez. 5.4. La costante di Hubble H0 ha le dimensioni dell’inverso di un tempo. Que-
sto implica l’esistenza di un tempo caratteristico, in contraddizione con l’as- sunzione di staticità: l’Universo osservato ad istanti diversi appare diverso. In particolare, definiamo il tempo di Hubble come l’inverso di H0:
tHubble = 1/H0 (5.2)
Facendo opportune ipotesi sulle componenti che permeano l’Universo, ne pos- siamo tracciare l’espansione all’indietro nel tempo. Come vedremo nella pros- sima sezione, andando indietro di un tempo∼ tHubble troviamo che la densità in tutto l’Universo va all’infinito. L’istante in cui questo accade viene chiamato big bang, l’età dell’Universo si misura a partire da questo.
A
B
v AB
r BC
v AC
v BC
v BA
Figura 5.3. L’espansione dell’Universo non implica l’esistenza di un centro di espansione: se l’osservatore A vede B e C allontanarsi seguendo la legge di Hubble-Lemaitre, B vede A e C allontanarsi nello stesso modo.
V. Cosmologia 197
Non è corretto affermare che al big bang l’Universo era concentrato “in un punto”. In altre parole, il big bang non è un’esplosione che avviene “in un punto” dell’Universo: l’Universo stesso inizia ad espandersi da quell’istante. Notare anche che l’Universo se è infinito rimane sempre tale a tutti gli istanti successivi al big bang. Per cercare di capire la natura geometrica di questa espansione è utile lasciare da parte l’esistenza di una singolarità iniziale e tenere conto che la fisica che conosciamo comincia ad essere valida (ottimisticamente) 10−43 s “dopo il big bang”. L’istante del big bang, t = 0, va inteso come l’istante a cui l’estrapolazione della fisica nota produce una singolarità. Oltre a fornire una stima dell’età dell’Universo, la legge di Hubble-Lemaitre
dà la possibilità di misurare in modo “economico” la distanza degli oggetti ex- tragalattici. Basta infatti misurare uno spettro e riconoscere alcune righe di assorbimento o emissione per avere il redshift di una galassia, e attraverso la legge di Hubble-Lemaitre la distanza. In effetti la legge di Hubble-Lemaitre vale in senso stretto solo nell’ipotesi in cui le galassie non abbiano altri moti al di là dell’espansione cosmologica. Vedremo nel seguito che questo non è vero, ma i moti “peculiari” delle galassie sono indipendenti dalla distanza e relati- vamente modesti, raramente superano i 1000 km s−1. Quindi, per le galassie sufficientemente lontane (cz 1000, z 0.003) la distanza data dalla legge di Hubble-Lemaitre risulta accurata. La costante di Hubble regola quindi le dimensioni spaziali e temporali del-
l’Universo. La sua misura è di grande importanza, e si basa principalmente sulla determinazione diretta di velocità di recessione e distanza di grandi cam- pioni di galassie o supernove. Il problema osservativo principale non sta tanto nella misura di un grande numero di galassie, quanto nella calibrazione degli indicatori di distanza, che induce errori sistematici. Data la difficoltà nel misurare le distanze delle galassie, non risulta sorpren-
dente che il suo valore sia rimasto per anni al centro di un acceso dibattito. La costante di Hubble viene di solito misurata in km s−1 Mpc−1, ed il suo valore ha oscillato per anni tra 50 e 100. Per non dovere attendere la misura precisa della costante di Hubble, i cosmologi l’hanno parametrizzata come segue:
H0 = h× 100 km s−1 Mpc−1 (5.3)
Il valore del tempo di Hubble è quindi:
tHubble = 9.78× 109 h−1 yr (5.4)
Per anni la comunità dei cosmologi si è divisa tra due correnti, una (capeg- giata da de Vaucouleurs e poi più tardi da Tully e collaboratori) in favore di un valore alto della costante di Hubble, con h ∼ 0.8 − 1, ed un’altra (capeggiata
198 Introduzione all’Astrofisica
da Sandage e Tammann) in favore di h ∼ 0.5. La differenza tra le due stime era dovuta essenzialmente ad una diversa calibrazione degli indicatori di distanza, e spesso all’uso di indicatori poi rivelatisi inaffidabili. Anche in questo campo i satelliti Hypparcos e Hubble (non per caso dedicato all’astronomo) hanno dato un contributo importante nel raffinare la calibrazione della scala di distanze. Oggi, con la cosmologia di precisione, il valore della costante di Hubble si
può determinare con un errore del 2%. Con la calibrazione più recente delle Cefeidi fatta con Hubble Space Telescope e usando le SNe Ia si ottiene:
H0 = 74.0± 1.4 km s−1 Mpc−1 (5.5)
Una misura indipendente ed ancora più precisa della costante di Hubble vie- ne dall’analisi delle fluttuazioni del fondo cosmico nelle microonde, che verrà descritto nella Sez. 5.4. Il metodo ha il grande vantaggio di essere completa- mente indipendente dalla scala delle distanze cosmiche, e di potere raggiunge- re precisione elevata; la sua correttezza dipende dalla correttezza del modello cosmologico utilizzato per riprodurre i dati. Con i risultati finali del satellite Planck si ottiene:
H0 = 67.4± 0.5 km s−1 Mpc−1 (5.6)
con un errore relativo dello 0.8%. Questi due valori sono in tensione a 4.4σ; in linea di principio, questa tensione potrebbe essere dovuta ad errori di ca- librazione ancora da identificare. Alternativamente, questa potrebbe essere il segnale di nuova fisica: la prima delle due misure infatti è basata su osservazio- ni di oggetti locali dal punto di vista cosmologico2; la seconda misura si basa sul fondo cosmico delle microonde, che come vedremo costituisce il nostro orizzonte visibile, e la consistenza delle due misure dipende dalla validità del modello cosmologico, basato sulla fisica nota. Va anche detto che nessuna delle estensioni ovvie del modello cosmologico sembra produrre questa differenza. Malgrado l’evoluzione nella misura della costante di Hubble, l’uso di h
rimane. Le distanze sono quindi date spesso in h−1 Mpc, cioè relative ad H0 = 100 km s−1 Mpc−1, e in modo simile le luminosità (in h−2 L), la massa delle galassie (in h−1 M)3, le densità (in h2 M Mpc−3), e così via. A volte queste quantità sono riferite ad h70, cioè ad un valore della costante di Hubble di 70 km s−1 Mpc−1.
2Il valore alto della costante di Hubble è stato confermato da misure indipendenti basate sull’effetto di lente gravitazionale. 3Ricordiamo che le masse delle galassie sono stimate come ∝ rv2/G, e v non dipende dalla costante di Hubble.
V. Cosmologia 199
Per conoscere l’età dell’Universo non basta sapere il tempo di Hubble; come vedremo nella prossima sezione, è necessario sapere come si espande l’Univer- so, e questo dipende da quante sorgenti di massa-energia esso contiene. In casi plausibili, l’età dell’Universo è simile o poco minore del tempo di Hubble, il rapporto tra i due tempi può variare tra 2/3 a poco più di 1. Per h che va da 0.5 ad 1 otteniamo un’età dell’Universo che va da ∼6.5 a ∼20 Gyr. Naturalmente vorremmo che quest’età fosse maggiore dell’età di qualsiasi astro osservato, poiché gli oggetti astrofisici nascono dopo il big bang. In questo senso risulta di estrema importanza la stima dell’età degli am-
massi globulari, i quali sono tra gli oggetti più antichi che conosciamo. Questa stima viene naturalmente dalla misura del MSTO, il punto in cui le stelle si distaccano dalla sequenza principale, e dipende dalla validità dei modelli di struttura stellare applicati al caso di stelle di bassa metallicità (Sez. 2.6). Nel periodo in cui era più accesa la discussione tra le correnti H0 = 50 e 100 km s−1 Mpc−1, l’età degli ammassi globulari veniva stimata di∼ 15−20 Gyr. Se quindi h = 0.5 l’età dell’Universo risultava marginalmente compatibile con quella degli ammassi globulari, mentre se h = 1 il modello cosmologico en- trava in crisi. Oggi la miglior stima dell’età dell’Universo (data di nuovo dalle misure del satellite Planck, Sez. 5.4) è 13.805± 0.023 Gyr, mentre l’età degli ammassi globulari più antichi si va assestando su 13 Gyr. Il problema dell’età dell’Universo si può dire superato.
5.2 I modelli di Friedmann-Robertson-Walker
Già dai tempi della nascita dell’astronomia scientifica, l’applicazione dei prin- cipi astrofisici ad un universo infinito poneva dei problemi, ben illustrati dal cosiddetto paradosso di Olbers. Se l’universo fosse eterno, infinito e statico, e fosse riempito uniformemente di stelle, ogni linea di vista finirebbe presto o tardi per intersecare la superficie di una stella. Di conseguenza, il cielo la notte non sarebbe buio, ma luminoso e caldo più o meno come la superficie del Sole (che è una stella media). Detto in altri termini, l’intensità della luce decresce come r−2, ma se le stelle entro un raggio r crescono come r2 i due andamenti si compensano, e il cielo notturno dovrebbe mostrare una brillanza superficiale simile a quella del disco del Sole4. Questo provocherebbe effet- ti tanto disastrosi quanto irrealistici. È proprio l’espansione dell’Universo a disinnescare questo paradosso, spostando la radiazione delle stelle molto lon-
4Questo paradosso ha un’interpretazione termodinamica abbastanza semplice: un universo eterno ha avuto tutto il tempo per raggiungere l’equilibrio termodinamico.
200 Introduzione all’Astrofisica
tane verso il rosso e, soprattutto, ponendo un limite all’Universo osservabile, l’orizzonte cosmologico. La forza di gravità, contrariamente alle altre forze fondamentali, è una forza
a lungo range, ovvero una forza che, in mancanza dell’analogo gravitazionale della “carica negativa”, non può essere schermata in alcun modo. Ripetendo l’argomento di prima, se la forza di gravità decresce come r−2 ma la massa (in condizioni di omogeneità) cresce come r2, tutto l’Universo esercita attrazio- ne gravitazionale su ogni sua particella. L’evoluzione dell’Universo è quindi determinata dall’attrazione gravitazionale che la materia esercita su sé stessa, rallentando l’espansione. Purtroppo è impossibile costruire un modello consistente di Universo a par-
tire dalla legge della gravitazione universale di Newton. Infatti il potenziale gravitazionale Φ(r) si ottiene dall’equazione di Poisson:
∇2Φ(r) = 4πGρ(r) (5.7)
dove ρ(r) è la densità di materia. Per una densità di materia omogenea, il potenziale gravitazionale è (a meno di costanti e con opportune condizioni al contorno) Φ(r) ∝ r2, in chiara violazione del principio cosmologico, a meno che non sia ρ(r) = 0. Un’altro modo di vedere la questione è il seguente: in un Universo isotropo il campo gravitazionale g, essendo vettoriale, deve essere nullo per simmetria, infatti se non fosse nullo definirebbe una direzione privilegiata. L’unico modo di avere un universo Newtoniano consistente con il principio cosmologico è di averlo completamente vuoto. La cosmologia scientifica nasce dall’applicazione dell’equazione di Ein-
stein all’Universo, considerato come uno spazio-tempo dinamico. Come già accennato in precedenza, prima della scoperta dell’espansione dell’Universo Einstein era convinto che questo dovesse essere (su grande scala) massimamen- te simmetrico nello spazio e nel tempo. Ma l’applicazione della sua equazione della relatività generale non sembrava dargli ragione: il sistema non ammette- va soluzioni costanti nel tempo. Alla scoperta dell’espansione dell’Universo, Einstein si arrese all’evidenza e si dedicò allo studio dei modelli in espansio- ne. Nel frattempo Friedmann e Lemaitre avevano già trovato e studiato delle soluzioni non statiche delle equazioni di Einstein. Questi studi furono successi- vamente ripresi da Robertson eWalker, che esaminarono in dettaglio la metrica degli universi in espansione o in collasso. I modelli di universo oggi utilizzati prendono quindi il nome di modelli di Friedmann-Robertson-Walker. Malgrado quanto detto sopra, è possibile ricavare (con una procedura che
ha valore puramente didattico) le equazioni di Friedmann a partire dalla di- namica Newtoniana, a patto di prendere in prestito un risultato della relatività
V. Cosmologia 201
generale. Questo è basato sul teorema di Birkhoff, ed è una generalizzazione relativistica del teorema di Gauss. Per i nostri scopi possiamo formularlo co- me segue: in condizioni di simmetria sferica (valide per una distribuzione di materia omogenea ed isotropa), l’evoluzione all’interno di una sfera di raggio r non è influenzata dalla materia al di fuori di r. Consideriamo una sfera di raggio r e densità ρ, in espansione secondo la
legge di Hubble-Lemaitre, e chiamiamo t0 l’istante a cui la osserviamo. Una galassia di massa m posta al raggio r obbedisce alla legge di conservazione dell’energia: E = mv2/2−GmM/r = costante. Per l’ipotesi di omogeneità, la galassia va considerata come un semplice tracciante della dinamica del siste- ma. Il moto della galassia dipende dalla sua energia totale: seE > 0 la galassia non è legata e si allontana indefinitamente, mentre se E < 0 la galassia finisce per collassare al centro della sfera. Se v = Hr eM = ρ× 4πr3/3, possiamo definire una densità critica a cui E = 0:
ρc = 3H2
8πG (5.8)
Notare come questa densità non dipenda da r. In altre parole, se ρ > ρc l’Uni- verso è destinato a collassare su sé stesso, se ρ ≤ ρc l’Universo si espande in- definitamente. PerH = 100 h km s−1 Mpc−1 il valore numerico della densità critica è
ρc = 2.778× 1011 h2 M Mpc−3 (5.9)
Espressa in g cm−3 si tratta di appena 1.9 × 10−29 h2; eppure vedremo che tutta la materia dell’Universo non riesce a raggiungere questa densità, ma si ferma al 31%. Avendo definito una densità di riferimento, è comodo esprimere tutte le
densità cosmologiche in funzione di questa. Per una componente che ha una certa densità ρ definiamo il parametro di densità Ω come:
Ω = ρ
3H2 ρ (5.10)
Utilizzeremo il simbolo ΩM per indicare il parametro di densità di materia al tempo attuale. Inoltre, è conveniente definire un fattore di scala, che descrive come l’U-
niverso si espande. Se la nostra sfera ha raggio r0 ad un certo tempo t0, che identifichiamo col tempo attuale, il fattore di scala a(t) è:
a(t) = r
r0 (5.11)
202 Introduzione all’Astrofisica
Il fattore di scala risulta determinato a meno di una normalizzazione arbitraria. Risulta utile normalizzarlo ad 1 al tempo attuale t0: a(t0) = 1. Notiamo che la costante di Hubble èH = v/r. In termini del fattore di sca-
la, si haH = da/dt×1/a. Ma questa è una funzione del tempo: la costante di Hubble non è costante nel tempo. Questo è naturale: la gravità, essendo attrat- tiva, rallenta l’espansione, e quindiH non può rimanere costante. Chiamiamo parametro di Hubble la quantità:
H(t) = 1
dt (5.12)
riservando il nome di costante (nello spazio) di Hubble per il valore di H al tempo attuale t0, H0 = H(t0). Notare che anche ρc (Eq. 5.8), essendo proporzionale ad H2, dipende dal tempo. L’energia E della galassia di massa m al tempo t0 si può scrivere come
E = mH2 0r
2 0(1 − ΩM)/2. Durante l’espansione la massa entro il raggio r a
cui si trova la galassia rimane costante, perchè la legge di Hubble-Lemaitre impedisce che le traiettorie di elementi di massa diversi possano attraversarsi. Sfruttando la conservazione dell’energia e la costanza della massa, e usando le definizioni date sopra, con un po’ di algebra si ottiene:
H
H0
2
= ΩM a3
+ 1− ΩM
a2 (5.13)
Questa è la seconda equazione di Friedmann per l’evoluzione dell’Universo5, ed è valida nel caso in cui l’Universo sia dominato dalla materia, la quale esercita una pressione trascurabile ai fini cosmologici. La seconda equazione di Friedmann è facile da risolvere nel caso ΩM =
1, utilizzando un ansatz per cui il fattore di scala evolve come una legge di potenza del tempo. Nel caso generale si ottiene un’equazione simile a quella della cicloide, risolvibile quindi analiticamente. Si trovano tre tipi diversi di soluzione (rappresentati in Fig. 5.4 insieme ad altri):
i) Se ΩM < 1 l’universo non è legato, e si espande in eterno, seguendo una legge simile alla cicloide ma con funzioni trigonometriche iperboliche.
ii) Se ΩM = 1 l’universo è critico, o di Einstein-de Sitter. In questo caso a(t) = (t/t0)
2/3, e l’espansione è ancora eterna. iii) Se ΩM > 1 la soluzione è quella di una cicloide, per cui l’universo è
legato e ricollassa su sé stesso in un Big Crunch.
5La seconda equazione di Friedmann si ottiene dalle componenti spaziali dell’equazione di Ein- stein, mentre la prima, che presenteremo nella prossima sezione senza dimostrarla, si ottiene dalla componente temporale.
V. Cosmologia 203
Troviamo quindi che, in presenza di sola materia, ΩM è l’elemento chiave per determinare il destino ultimo dell’Universo: espansione eterna o ricollasso in una singolarità. Secondo la chiave di lettura della lotta tra termodinamica e gravità, introdotta parlando della fine delle stelle, l’espansione infinita segne- rebbe la vittoria definitiva della termodinamica (c’è tutto il tempo per stabilire l’equilibrio termodinamico), mentre il collasso segnerebbe la vittoria definitiva della gravità. A questo punto siamo in grado di calcolare l’età dell’Universo in modo più
preciso di quanto fatto in precedenza. Se la gravità rallenta l’espansione dell’U- niverso, ne consegue che le galassie nel passato recedevano più velocemente di come fanno adesso. In questo caso il tempo di Hubble t0 = tHubble = H−1
0 , valido nell’ipotesi di velocità di espansione costante, sovrastima l’età dell’U- niverso: questo, espandendosi più in fretta nel passato, ha fatto prima a rag- giungere le dimensioni attuali (Fig. 5.4). Questa sovrastima sarà maggiore se l’espansione è più rallentata, e quindi se la densità totale di materia è maggio- re. Di conseguenza, più bassa è la densità dell’Universo, più grande è l’età del nostro Universo a parità di costante di Hubble; per ΩM 1 si ha t0 tHubble. Per ΩM = 1 si ha che a(t) = (t/t0)
2/3, da cui si ottiene:
Figura 5.4. Evoluzione del fattore di scala per diversi universi, vincolati ad avere a(t0) = 1 e H(t0) = H0 misurata.
204 Introduzione all’Astrofisica
a
da
dt =
2
3t0
t
t0
−1
(5.14)
Ponendo H(t0) = H0 otteniamo t0 = 2tHubble/3. La trattazione Newtoniana ci permette di ricavare la seconda equazione di
Friedmann, ma non ci permette di capire la struttura globale del nostro Uni- verso. Secondo la relatività generale, la gravità è dovuta alla curvatura del- lo spazio-tempo causata dalla presenza di massa-energia. La differenza fon- damentale tra la gravità Newtoniana e quella relativistica sta nel fatto che lo spazio-tempo non è un palcoscenico rigido in cui le particelle si muovono eser- citando una mutua forza di attrazione, ma una variabile dinamica, che viene distorta dalla materia e determina il moto della materia stessa. Applicata all’U- niverso, la relatività generale si pone il problema di determinarne la geometria globale. La nostra capacità di visualizzare uno spazio curvo è purtroppo limitata a
superfici (2D) immerse in uno spazio esterno (3D) Euclideo e statico. Di con- seguenza cercheremo di sfruttare questa nostra capacità per descrivere spazi curvi. Vale la pena di ricordare che la geometria di uno spazio è del tutto indipendente dal suo essere immerso (o meno) in uno spazio Euclideo di di- mensionalità maggiore; la geometria dello spazio si determina completamente a partire da misure fatte al suo interno.
Chiuso
Aperto
Chiuso
Piatto
Figura 5.5. Geometria ed evoluzione del fattore di scala per universi chiusi, aperti e piatti.
V. Cosmologia 205
Uno spazio curvo è caratterizzato da un raggio di curvatura. Consideriamo tre esempi di superfici curve (Fig. 5.5):
i) La superficie di una sfera è caratterizzata da un raggio di curvatura R positivo, che non è altro che il raggio della sfera. Possiamo accorgerci di essere su una superficie sferica (come la Terra) per esempio misuran- do π: per circonferenze di raggio simile a R otterremo dei valori minori di 3.14. Per esempio, se prendiamo l’equatore terrestre come circonfe- renza, il suo raggio sarà uguale a mezzo meridiano, per cui misuriamo π = 2. Analogamente, per un triangolo rettangolo non vale il teorema di Pitagora, in quanto l’ipotenusa al quadrato è minore della somma dei quadrati dei cateti. Infine, la somma degli angoli interni di un triangolo è maggiore di π radianti.
ii) Un piano è caratterizzato da un raggio di curvatura infinito; stare su un piano è come essere su una sfera di raggiomolto maggiore della più gran- de distanza che siamo in grado di compiere. Per il piano π = 3.14 . . ., la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a π radianti, e vale il teorema di Pitagora. In un piano la geometria è Euclidea.
iii) Non è possibile fare un esempio di superficie con curvatura costante e globalmente negativa immersa in uno spazio Euclideo, ma è possibile vi- sualizzare una superficie in cui la curvatura è localmente negativa. Con- sideriamo una sella, ovvero un punto che è un massimo lungo una dire- zione ed un minimo lungo la direzione perpendicolare. In questo caso la misura di π dà valori maggiori di 3.14, il quadrato di un ipotenusa è maggiore della somma dei quadrati dei cateti, e la somma degli angoli interni di un triangolo è minore di π radianti.
Le soluzioni dell’equazione di Friedmann, viste in precedenza, hanno in relatività generale un significato geometrico preciso:
i) Se ΩM < 1 l’Universo è aperto, caratterizzato da curvatura negativa. ii) Se ΩM = 1 l’Universo è piatto, ovvero Euclideo, con curvatura infinita. iii) Se ΩM > 1 l’Universo è chiuso, caratterizzato da curvatura positiva e da
un volume totale infinito.
Nel caso Newtoniano i vari universi corrispondono alla stessa classe di so- luzioni con energie diverse, e se non è possibile passare da un tipo di univer- so all’altro è solo per la conservazione dell’energia; aggiungendo o togliendo energia si può passare da una soluzione all’altra. Nel caso relativistico, le tre soluzioni corrispondono a classi di soluzioni diverse con geometrie diverse, e non c’è modo di passare da una geometria ad un’altra per evoluzione gravita- zionale. Per esempio, un universo chiuso, che è un analogo 3D della superficie
206 Introduzione all’Astrofisica
di una sfera, ha un volume finito, mentre gli universi piatti e aperti hanno un volume infinito. Secondo la relatività generale, la legge di Hubble-Lemaitre non descrive un
semplice allontanarsi delle galassie tra di loro, ma è causata dal fatto che tutto lo spazio si espande. Questo implica la necessità di una reinterpretazione del redshift cosmologico. Un fotone viene emesso ad una lunghezza d’onda λem al tempo t, quando il fattore di scala era a(t), e viene rivelato dal un telescopio al tempo attuale t0, quando a(t0) = 1. La sua lunghezza d’onda è soggetta all’espansione, per cui al momento della rivelazione sarà:
λoss a(t0)
= λem a(t)
(1 + z) = a(t0)
a(t) (5.16)
dove abbiamo fatto di nuovo uso della normalizzazione a(t0) = 1. Il redshift quindi non è dovuto all’effetto Doppler, ma è un effetto puramente gravitazio- nale dovuto dell’espansione dell’Universo, analogo al redshift gravitazionale nei pressi di un buco nero. L’espansione dell’Universo non influenza materia e radiazione in modo
uguale. La densità di massa-energia della materia, se questa non è ultrarelativi- stica, decresce semplicemente come a(t)−3, cioè viene semplicemente diluita dall’espansione:
ρm = ρm0(1 + z)3 (5.17)
Le particelle relativistiche come i fotoni oltre all’effetto di diluizione subiscono una perdita di energia, ∝ a(t)−1, dovuta al redshift cosmologico. Si ha quin- di che la densità di massa-energia di una componente di fotoni (espressa per comodità in termini di massa per unità di volume6) evolve come segue:
ργ = ργ0(1 + z)4 (5.18)
Dal punto di vista termodinamico, questa evoluzione non viola la legge di conservazione dell’energia, anzi è una conseguenza della prima legge della ter- modinamica, ovvero della terza equazione di Friedmann, che esprime la con-
6Se ρc2 rappresenta la densità di energia di una componente, la quantità ρ ha le dimensioni di una densità di massa, identificabile come tale per una componente di particelle massive e non relativistiche.
V. Cosmologia 207
servazione dell’energia. Supponiamo che l’Universo sia permeato di una com- ponente di densità di energia ρc2 e pressione P . Per un tale sistema adiabati- co dU + PdV = 0; considerando un volume che si espande con l’Universo, V ∝ a3, e ponendo U = ρc2V , si ottiene (esprimendo il differenziale come derivata temporale):
dρ
= 0 (5.19)
Per P = 0 (materia) si ottiene d(ρma3)/dt = 0, che implica ρm ∝ a−3, mentre per P = ργc
2/3 (radiazione) si ottiene d ln ργ/dt + 4 d ln a/dt = 0, ovvero ργ ∝ a−4. Come vedremo nella Sez. 5.5, nei primi istanti l’Universo era dominato da
particelle ultrarelativistiche in equilibrio termico (l’energia termica era molto maggiore della massa a riposo di quasi tutte le particelle), che si comportano a tutti gli effetti come radiazione. È utile quindi modificare l’equazione di Fried- mann (Eq. 5.13) in modo da descrivere l’evoluzione di un universo dominato dalla radiazione. Ripercorrendo i passaggi fatti in precedenza, notiamo che la massa M racchiusa entro la sfera di raggio r corrisponde alla massa-energia dei fotoni,M = ρradV . Poiché ρrad ∝ a−4, mentre V ∝ a3, si ha che la mas- saM “diminuisce” col tempo per effetto dell’espansione: M = M1/a, dove il pedice 1 indica le quantità riferite ad un opportuno tempo t1 (non ha senso riferire il tutto al tempo attuale t0, dove questa equazione non vale). Imponen- do la conservazione dell’energia e manipolando algebricamente l’equazione si ottiene:
H
H1
2
= Ω1
a4 +
1− Ω1
a2 (5.20)
Notiamo che per amolto piccolo, il termine di curvatura al secondomembro dell’Eq. 5.20 risulta trascurabile. In questo caso l’Universo è approssimativa- mente piatto (Ω 1), per cui l’equazione diventa:
H
H1
2
1
a4 (5.21)
La soluzione di questa equazione dà a(t) = (t/t1) 1/2, ρrad ∝ t−2. Se la ra-
diazione è composta da fotoni che, essendo in equilibrio termico, hanno uno spettro di corpo nero, si ha che ρradc2 = aT 4
rad (dove qui a è la costante di Stefan-Boltzmann), per cui Trad ∝ t−1/2, ovvero Trad ∝ a−1.
208 Introduzione all’Astrofisica
Un’altra conseguenza dell’espansione dell’Universo sta nella non univocità della definizione di distanza delle sorgenti cosmologiche. Consideriamo una sorgente osservata al redshift z; al tempo attuale questa si sarà allontanata da noi a causa dell’espansione. Possiamo definire un sistema di coordinate sfe- riche comoventi, che si espande con l’universo, tale che (in un universo omo- geneo) le galassie stanno sempre nella stessa posizione. Definiamo r(z) come la distanza di coordinate che c’è tra noi e la galassia, definita utilizzando il si- stema di coordinate comoventi. La relazione tra la distanza di coordinate e la distanza fisica dipende dalla geometria; nel caso di un universo piatto la di- stanza di coordinate è uguale alla distanza fisica tra noi e la galassia, misurata a tempo costante, detta distanza comovente dC. Queste due distanze non sono misurabili in pratica. La stima delle distanze extragalattiche viene fatta tramite candele o regoli
standard. Per una candela standard, per esempio una supernova, se f è il flusso misurato ed L la luminosità intrinseca, definiamo distanza di luminosità dL la distanza per la quale vale la relazione:
f = L
4πd2L (5.22)
L’espansione dell’Universo ha un duplice effetto sui fotoni: incrementandone la lunghezza d’onda ne degrada l’energia, e contemporaneamente ne rallenta il ritmo di arrivo. Il flusso di una sorgente risulta quindi inferiore di un fattore (1 + z)2 rispetto a quello che si misurerebbe in assenza di espansione. Risulta infatti f = L/[4π(1 + z)2r(z)2] e
dL = (1 + z)r(z) (5.23)
Si definisce distanza di diametro dD la distanza per la quale vale la relazione Δθ = D0/dD. Come illustrato in Fig. 5.6, il regolo emette al tempo t un fotone che l’osservatore riceve al tempo attuale t0; nel frattempo l’espansione ha allontanato il regolo di un fattore a(t0)/a(t) = (1 + z), ma l’espansione lascia invariati gli angoli, per cui il regolo appare più grande (più vicino) di come apparirebbe in assenza di espansione. Si ricava:
dD = r(z)/(1 + z) (5.24)
Va notato che la figura 5.6 è valida solo a piccole distanze dall’osservatore, la traiettoria dei fotoni infatti è influenzata dall’espansione dell’Universo, ma questo aspetto è al di là dei nostri interessi. Se l’Universo decelera, la legge di Hubble-Lemaitre a distanze grandi, e
quindi ad epoche precedenti, sarà diversa da quella attuale. In altre parole,
V. Cosmologia 209
per un campione di galassie lontane il grafico della distanza di luminosità con- tro il redshift (il diagramma di Hubble) mostrerà una pendenza non costante. Approssimando la vera relazione con una serie di Taylor, ci aspettiamo che il discostamento dalla relazione lineare sia per redshift moderati:
dL = H−1 0 c
z − 1− q0
(5.25)
Il parametro q0 così definito viene chiamato parametro di decelerazione, ed è legato alla derivata seconda del fattore di scala:
q0 = −d2a
dt2 (t0)
t 0
Figura 5.6. Calcolo della distanza di diametro. L’osservatore è a riposo nel sistema di riferimento, la posizione occupata dal regolo è descritta dalla linea spessa, che evolve col tempo come il fattore di scala. In questo grafico i fotoni viaggiano su linee inclinate di 45; questo è vero solo a piccole distanze dall’osservatore, il grafico ha quindi una validità limitata.
210 Introduzione all’Astrofisica
La decelerazione dell’Universo dipende dalla quantità di materia in esso contenuta; non è quindi sorprendente il risultato che si ottiene dai modelli di Friedmann-Robertson-Walker per universi dominati dalla materia: q0 = ΩM/2. Unamisura della deviazione delle galassie lontane dalla legge di Hubble- Lemaitre ci permetterebbe quindi di stimare quanta materia c’è nell’Univer- so. Questo programma osservativo è ostacolato dalla difficoltà nel misurare le distanze delle galassie lontane. Questo problema può essere in linea di principio aggirato sfruttando la tec-
nica dei conteggi di galassie: andando a flussi sempre più bassi il numero di galassie osservate, nell’ipotesi di distribuzione omogenea e di funzione di lu- minosità costante, dipende dal volume sotteso dal campo osservato, e quindi da q0. Nel caso di un Universo piatto, vale la stessa legge che avevamo trovato per le stelle della Galassia, N(f > f0) ∝ f
−3/2 0 (Sez. 4.2). Ma le deviazio-
ni rispetto a questa legge possono essere dovute alla geometria non piatta o a un’evoluzione della funzione di luminosità delle galassie. Infatti, le galassie che vediamo ad alto redshift sono significativamente più giovani di quelle vi- cine, e sono quindi diverse. Questi effetti di evoluzione galattica, che verranno descritti nel prossimo capitolo, danno un errore sistematico che domina il se- gnale della misura di q0. Con i quasar la situazione è ancora peggiore, perché la loro evoluzione è ancora più marcata di quella delle galassie. Il miglior mo- do per misurare q0 consiste nello sfruttare le supernove Ia lontane, che sono candele standard.
5.3 Le supernove lontane e l’energia oscura
Nel tentativo di ottenere un universo statico, che obbedisse al principio cosmo- logico perfetto, Einstein tentò di manipolare la sua equazione aggiungendo un termine, perfettamente consistente dal punto di vista matematico, contenente una costante, che chiamò costante cosmologica. Questa costante, indicata con il simbolo Λ, quando ha segno positivo crea una forma di repulsione. Si otte- neva in questo modo una soluzione statica a patto che la densità di materia, la curvatura e la costante Λ avessero valori legati tra di loro, in modo da compen- sare esattamente l’attrazione gravitazionale della materia su sé stessa. Perché le tre quantità dovessero essere in quella relazione risultava non motivato; inoltre, la soluzione così ottenuta era instabile, nel senso che una perturbazione anche infinitesima avrebbe finito per amplificarsi e fare allontanare sempre di più la soluzione da quella statica. Quando fu scoperta la legge di Hubble-Lemaitre, Einstein affermò che con la costante cosmologica aveva preso la più grande cantonata della sua vita.
V. Cosmologia 211
Può una costante del genere, matematicamente consistente, avere un qua- lunque significato fisico? Un universo in espansione, dominato da materia o da radiazione, tende a decelerare (d2a/dt2 < 0) per effetto dell’attrazione gravita- zionale che la massa/energia esercita su sé stessa; per contrastare questa dece- lerazione ci vuole un termine, una sorta di “antigravità”, che provochi un’ac- celerazione dell’espansione dell’universo. La derivata seconda del fattore di scala viene determinata dalla prima equazione di Friedmann:
1
a
d2a
P
c2
(5.27)
Questa equazione si può facilmente ottenere derivando la seconda equazione di Friedmann, Eq. 5.13, ed utilizzando la terza equazione di Friedmann, Eq. 5.19, per semplificare alcuni termini. La prima equazione di Friedmann ci mostra che la causa dell’accelerazione non è solo la materia-energia, ma anche la pres- sione. Questo è caratteristico della relatività generale: nella Sez. 2.7 abbiamo visto che è il termine di pressione responsabile per il collasso delle stelle in buchi neri. Un valore negativo del termine ρ + 3P/c2 avrebbe come risulta- to quello di accelerare l’espansione dell’universo. Non conosciamo particelle che abbiano massa o energia negativa, per cui ρ > 0, ma è possibile ottene- re pressioni negative in ambito quantistico. Si può dimostrare inoltre che un termine di costante cosmologica è indistinguibile da un fluido omogeneo che abbia un’equazione di stato peculiare: P = −ρc2. Quindi la repulsione causa- ta da una costante cosmologica può essere vista come l’effetto di una pressione negativa. Dalla teoria delle particelle elementari sappiamo che una coppia di lastre di
metallo immerse nel vuoto vincolano gli stati quantici del campo elettromagne- tico, e sono quindi in grado di alterarne lo stato fondamentale. L’energia dello stato fondamentale sarà minore se le lastre vengono avvicinate, perché dimi- nuisce il numero di stati quantici eccitabili. Siccome una variazione di energia corrisponde ad una forza, le lastre saranno attratte per effetto di questa “pola- rizzazione del vuoto”. Questo viene chiamato effetto Casimir, ed è stato veri- ficato sperimentalmente. L’effetto Casimir, che dipende solo dall’esistenza del campo elettromagnetico quantistico, genera quindi un’attrazione tra due lastre di metallo che può essere interpretata come una pressione negativa. L’energia del vuoto quantistico, generando pressione negativa, entra nelle equazioni di Einstein come un termine di costante cosmologica, e potrebbe quindi fornire l’antigravità che cerchiamo. Otteniamo un limite superiore per Λ imponendo che la densità totale di
massa-energia (inclusa quella di vuoto) non sia molto maggiore del valore della
212 Introduzione all’Astrofisica
densità critica; se così non fosse, l’Universo sarebbe in espansione ad un ritmo accelerato tale da impedire la formazione delle galassie. Possiamo esprimere questo limite come ΩΛ <∼ 1, dove il parametro ΩΛ dà il rapporto tra la densità di energia in costante cosmologica (divisa per c2) e la densità critica. Dalla teoria delle particelle elementari si può calcolare il valore atteso del-
la costante cosmologica, dato un campo quantistico. Si tratta di sommare su tutti i modi di oscillazione di tutti i campi, concedendo ad ognuno di essi un’e- nergia hν/2. L’integrale ovviamente diverge, perché il numero dei modi di oscillazione di un campo infinito è infinito. Ma sappiamo che le nostre teorie quantistiche non possono valere a tutte le energie. Possiamo per esempio tron- care l’integrale all’energia di Planck EPl = MPlc
2 1.22 × 1019 GeV, dove la massa di Planck èMPl =
c/G 2.18 × 10−5 g; a queste energie non
possiamo descrivere la gravità come una forza classica. Otteniamo qualcosa comeΩΛ ∼ 10120. Confrontando il valore ottenuto dall’energia di vuoto con il limite superiore dato dalla cosmologia, otteniamo un risultato sorprendente: il primo supera il secondo per ben 120 ordini di grandezza! Probabilmente il di- saccordo più disastroso mai trovato tra teoria ed osservazione. È chiaro che la fisica delle particelle che non conosciamo deve fornire dei termini che rendono quell’integrale nullo (o quasi). Dal punto di vista cosmologico, il problema principale non consiste nel di-
mostrare che la costante cosmologica non è 120 ordini di grandezza più grande di quello che dovrebbe essere (l’evidenza osservativa ci basta), ma nel fatto se essa possa o meno essere diversa da zero. Infatti, per ottenere un valore di una costante che non sia nullo ma sia enormemente più piccolo del valore “natura- le” è necessario che i parametri della teoria siano regolati in modo tanto fine (fine tuning) quanto innaturale. A questo punto è di gran lunga più naturale pensare che la costante cosmologica sia nulla, anche se non capiamo perché. Una spiegazionemolto interessante della piccolezza innaturale della costan-
te cosmologica, a cavallo tra la filosofia e la cosmologia scientifica, viene data dal principio antropico. Fu Dirac a notare una strana coincidenza numerica: il rapporto tra forza elettrostatica e forza gravitazionale tra un protone ed un elettrone, elevato al quadrato, è circa uguale al numero di particelle contenu- te nel nostro Universo osservabile. Questa equivalenza potrebbe essere una strana coincidenza, ma potrebbe sottointendere una legge fondamentale della fisica che ancora ci sfugge. Ma mentre il primo numero (rapporto tra forza elettrica e gravitazionale) è costante nel tempo, il secondo (numero di parti- celle osservabili) cambia nel tempo: più passa il tempo, più particelle entrano nel nostro orizzonte. La nuova legge fondamentale implicherebbe quindi la variazione della forza di gravità o di quella elettromagnetica. Questa variazio-
V. Cosmologia 213
ne è oggi esclusa dalle osservazioni. Dicke propose una soluzione ben diversa per questa coincidenza: l’uguaglianza di Dirac risulta valida nell’epoca in cui le stelle bruciano idrogeno in elio, che è l’epoca in cui viviamo. Ma questo non è un caso: l’esistenza di esseri biologici come noi richiede che le stelle abbiano già sintetizzato abbastanza carbonio, ossigeno ed elementi pesanti da permettere l’esistenza di un pianeta solido con atmosfera e acqua, in cui si possa sviluppare la vita biologica basata sul carbonio. Molto prima di questo perio- do non potremmo esistere perché non sono stati prodotti abbastanza metalli, successivamente le stelle si spengono e l’Universo va verso la morte termica. Questa spiegazione “antropica” ispirò alcuni cosmologi ad introdurre il co-
siddetto principio antropico, che, nella sua forma “debole”, richiede che una teoria cosmologica per essere accettabile debba produrre un universo in cui è possibile la vita biologica, e quindi la presenza di un osservatore. Perché que- sto avvenga è necessario che l’universo contenga abbastanza materia “barioni- ca’ (protoni, neutroni ed elettroni7 ) a densità sufficientemente alta da formare stelle, e che duri abbastanza a lungo in modo che si generino stelle di seconda generazione (cioè di composizione non primordiale, arricchite di metalli), at- torno alle quali si possano formare pianeti ricchi di metalli, ed in essi la vita. Se il valore delle costanti della natura non è fissato dalla fisica ma è assegnato secondo una certa distribuzione di probabilità, la condizione di ospitare la vita biologica selezionerà particolari combinazione di “costanti della natura”. Tornando alla costante cosmologica, gli universi in cui essa assume il suo
valore “naturale” non sono idonei ad ospitare la vita, poiché si espandono trop- po in fretta, impedendo la formazione delle galassie e quindi di qualsiasi stella. Questo giustifica un valore molto basso diΛ senza bisogno di fine tuning. Que- sti argomenti sono spesso stati accolti in modo ostile: se i modelli cosmologici predicono un’ampia distribuzione dei valori possibili delle costanti, assoluta- mente non osservabile, si perde del tutto il potere predittivo e la possibilità di testare osservativamente i modelli. Vi è una qualche evidenza osservativa a favore di una costante cosmologi-
ca? Fino al 1998 fa la risposta sarebbe stata “no”, a parte per un aspetto a prima vista secondario. Alcune argomentazioni teoriche, basate sulla teoria dell’in- flazione che descriveremo nel seguito, portano a pensare che l’Universo sia piatto. Questo “pregiudizio teorico” rischiava nei primi anni ’90 di andare in crisi su tre fronti:
i) l’età dell’Universo per un possibile valore alto della costante di Hubble
7Nel gergo cosmologico la materia ordinaria viene genericamente indicata come “barioni”, in- cludendo anche gli elettroni che sono di fatto leptoni. Il motivo è che quando la materia è non relativistica, la densità di energia è∼ mc2, per cui i leptoni sono trascurabili rispetto ai barioni.
214 Introduzione all’Astrofisica
appariva in contrasto con l’età degli ammassi globulari (per ΩM = 1 abbiamo t0 6.5h−1 Gyr);
ii) alcune misure dinamiche di ΩM davano un valore di ∼0.3; iii) le misure di fluttuazioni nella distribuzione spaziale delle galassie erano
in disaccordo con la misura delle fluttuazioni del fondo cosmico (questi aspetti saranno discussi nella prossima sezione e nel prossimo capitolo).
Tutti questi problemi venivano risolti o assumendo un’universo aperto oppure supponendo che l’Universo fosse sì piatto, ma pervaso al 70% di un termine di costante cosmologica, qualsiasi cosa essa fosse. In questo caso t0 9h−1
Gyr, ΩM può essere minore di uno perchè ΩM + ΩΛ = 1, e la predizione delle fluttuazioni torna in accordo coi dati. La proposta non era stata accolta con molta convinzione perché sembrava un tentativo artificiale di salvare un pregiudizio teorico. La costante cosmologica sembrava quindi una delle più grosse sciocchez-
ze mai inventate: introdotta da Einstein per salvare il suo pregiudizio estetico, era stata accantonata alla scoperta dell’espansione dell’Universo. Reintrodotta dai cosmologi teorici come termine di energia di vuoto, risultava in disaccordo con il limite osservativo per 120 ordini di grandezza, a meno di non metterla a zero per motivi ignoti o di appellarsi ad argomenti incerti basati sul princi- pio antropico. Infine, era stata reintrodotta con valori ad-hoc sostanzialmente per salvare il pregiudizio teorico sulla piattezza dell’Universo, che appariva in contrasto con l’evidenza osservativa. Molte persone rimasero soprese quando si dimostrò, nel 1998, che il ∼70% della massa-energia dell’Universo (oggi) è sotto forma di costante cosmologica. La dimostrazione venne dal diagramma di Hubble delle supernove di tipo Ia
lontane osservate da due gruppi indipendenti. Questo è mostrato in Fig. 5.7 in termini di modulo di distanza (Eq. 1.6); nel pannello interno vengono mostrate le differenze, rispetto alle predizioni di un modello vuoto, per i dati (mediati su bin di redshift) e per vari modelli. Le supernove hanno magnitudini apparenti superiori a quelle che ci si aspetta in un universo con ΩM = 1, la differenza ammonta in termini di luminosità a circa mezza magnitudine. Questo vuol dire che le supernove sono più lontane di quanto ci si aspetti, e che quindi l’Uni- verso si è espanso di più di quanto faccia per ΩM = 1. Siccome l’attrazione gravitazionale della materia è responsabile per il rallentamento dell’espansione cosmica, questo vuol dire cheΩM < 1. Ma perfino un universo vuoto,ΩM = 0, in cui d2a/dt2 = 0, non riesce a riprodurre la minore luminosità apparente del- le supernove fino a z ∼ 1. Questo vuol dire che l’espansione dell’universo è accelerata; in altri termini il parametro di decelerazione q0 è negativo. Per ave- re un’espansione accelerata c’è bisogno di una sorgente che causi repulsione;
V. Cosmologia 215
ovvero di un termine di costante cosmologica. La scoperta è stata premiata con il Nobel per la fisica, nel 2011, agli astronomi Perlmutter, Schmidt e Riess. Una possibile spiegazione alternativa potrebbe essere data dal fatto che le
SNe lontane si comportano diversamente da quelle vicine (modello Evolution ∼z nella Fig. 5.7), ma non ci sono forti evidenze a favore di questa ipotesi. Op- pure la presenza di polvere intergalattica potrebbe fare apparire le supernove più deboli di quanto siano veramente (il corrispondente modello nella figura è chiamato high-z gray dust); ma il comportamente delle SNe a z > 1 porta ad escludere questa possibilità. Inoltre, la presenza di un termine di costante cosmologica viene oggi confermata dall’analisi delle fluttuazioni del fondo co- smico nelle microonde (Sez. 5.4) e della struttura a grande scala tracciata dalle galassie. A quanto pare, viviamo in un Universo che ha appena iniziato una fase di espansione accelerata, e per il quale ΩM = 0.315 e ΩΛ = 0.685. È im- portante notare che la presenza di un termine di costante cosmologica rompe la corrispondenza tra geometria e fato dell’universo (Fig. 5.5); un universo chiuso
0.5 1.0 1.5 2.0 z
30
35
40
45
μ
-0.5
0.0
0.5
(m
-M ) (
Empty (Ω=0) ΩM=0.29, ΩΛ=0.71
ΩM=1.0, Ω Λ=0.0
high-z gray dust
pure acceleration: q(z)=-0.5
~ pure deceleration: q(z)=0.5
Evolution ~ zBinned Gold data
Figura 5.7. Diagramma di Hubble per le supernove lontane, in termini di redshift e di modulo di distanza. Il pannello interno mostra la differenza tra il modulo di distanza misurato e quello previsto per un universo vuoto; le misure sono mediate su intervalli di redshift, e sono mostrate le predizioni per diversi modelli cosmologici.
216 Introduzione all’Astrofisica
si può espandere in eterno, e un universo aperto può collassare se la costante cosmologica assume un valore negativo. Questa scoperta ha dato nuovo impulso alla ricerca teorica sulla natura della
costante cosmologica. Oggi si preferisce parlare di energia oscura, una com- ponente che si comporta in modo simile ad una costante cosmologica e che potrebbe essere spiegata fisicamente in almeno due modi. La maggior parte dell’energia dell’Universo potrebbe essere immagazzinata in un campo quanti- stico scalare, detto “quintessenza”, il quale non è in una configurazione di equi- librio ma evolve lentamente verso l’equilibrio. In queste condizioni il campo non può oscillare, dando così origine a particelle osservabili. Alternativamen- te, la teoria corretta della gravità non sarebbe la relatività generale; piuttosto, calcolando il limite di basse energie di una teoria più generale, che descrive tutte le interazioni fondamentali, si otterrebbe la relatività generale incluso un termine che si comporta, in prima approssimazione, come una costante cosmo- logica. Sono in corso diversi esperimenti per determinare l’equazione di stato dell’energia oscura con grande accuratezza e a vari redshift, nella speranza di misurare deviazioni da P = −ρc2; ne accenneremo nel prossimo capitolo.
5.4 Il fondo cosmico nelle microonde
L’espansione dell’Universo implica una fase iniziale in cui il fattore di scala era molto piccolo, e quindi la densità molto elevata. In quelle condizioni la mate- ria era molto calda e completamente ionizzata, anche se in espansione molto veloce. È ragionevole aspettarsi che tutte le specie di particelle in grado di inte- ragire significativamente, fotoni inclusi, fossero in equilibrio termodinamico. La situazione era in qualche modo analoga a quella degli interni stellari, dove la radiazione è in equilibrio termodinamico (locale in questo caso) con la mate- ria. Di conseguenza nei primi istanti della sua vita l’Universo era opaco, e non possiamo sperare di misurare alcuna radiazione elettromagnetica proveniente da quelle epoche. Successivamente l’espansione raffreddò il plasma cosmologico, ed elettro-
ni e nuclei si combinarono in atomi, disaccoppiandosi finalmente dai fotoni. È possibile osservare questo mare di fotoni primordiali sotto forma di fondo cosmico, caratterizzato da un elevato grado di isotropia. Quale fosse la den- sità di fotoni a quei tempi dipende da molti dettagli del primo Universo, ma lo spettro doveva essere di corpo nero. Una prima stima, prodotta da Alpher e Gamow sulla base dei primi calcoli di nucleosintesi primordiale (Sez. 5.6), dava un valore di∼5 K per la temperatura del fondo osservato al tempo attuale.
V. Cosmologia 217
Nel 1965 Penzias e Wilson, due tecnici dei Bell Laboratories che stavano stilando un inventario delle sorgenti di rumore nelle telecomunicazioni, mi- surarono un fondo di radiazione nelle microonde che appariva assolutamente isotropo. Confrontandosi con Dicke e Peebles, che nel frattempo stavano co- struendo un’antenna per rivelare la radiazione di fondo, capirono di avere mi- surato le ultime vestigia di quel mare di fotoni che aveva dominato l’Universo per alcune centinaia di migliaia di anni. La scoperta fu premiata nel 1978 con il premio Nobel a Penzias e Wilson, mentre Peebles ha appena ricevuto (nel 2019) il premio Nobel per il suo contributo alla cosmologia. Questo Cosmic Microwave Background (CMB) ha uno spettro di corpo nero con una tempe- ratura Tγ0 = 2.73 K, ed è il corpo nero più accurato che si trovi in natura: la Fig. 5.8 mostra il fit ottenuto con i dati del satellite COBE (che descriveremo a breve), le barre di errore sono così piccole da essere inferiori allo spessore della linea usata nel grafico. Come abbiamo visto nella Sez. 5.2, la densità di energia di una componente
Figura 5.8. Spettro del CMB secondo le osservazioni di COBE. La linea mostra il fit dei punti osservativi, le barre di errore sono minori dello spessore della linea nera usata per il fit.
218 Introduzione all’Astrofisica
di fotoni evolve come (1+z)4. Si può dimostrare che l’espansione non cambia la forma dello spettro della radiazione, che rimane sempre di corpo nero. Poi- ché per una radiazione termica la densità di energia è aT 4, è facile dimostrare che (vedi anche la Sez. 5.2) la temperatura del CMB evolve come:
Tγ = Tγ0(1 + z) (5.28)
La densità di materia a sua volta evolve come (1 + z)3 (Sez. 5.2). Di con- seguenza, il rapporto tra densità di radiazione e di materia cresce col redshift, ργ/ρm ∝ (1+z): ad alto redshift l’Universo era dominato dalla radiazione. La densità di energia in radiazione è oggi ργ0 = aT 4
γ0/c 2 4.7× 10−34 g cm−3
(per comodità la esprimiamo in termini di densità di massa equivalente), corri- spondente a Ωγ 2.5×10−5 h−2. Se oggi ργ0/ρm0 2.5×10−5 (ΩMh
2)−1, questo vuol dire che, per ΩM = 0.315, ΩΛ = 0.685 e h = 0.674 al redshift z 5570 le densità di energia in materia e in radiazione erano uguali. Questo evento è detto equivalenza, ed il redshift a cui avviene è indicato come zeq. Pri- ma dell’equivalenza la densità di massa-energia è dominata dalla radiazione, dopo l’equivalenza è dominata dalla materia. Questo calcolo trascura la presen- za di una componente di neutrini cosmici, legati alla sintesi degli elementi leg- geri (Sez. 5.6), che ha una densità di circa il 60% di quella dei fotoni; in questo caso il redshift di equivalenza risulta (risultati di Planck) zeq = 3402± 26. Se la densità di energia dei fotoni evolve come (1 + z)4, la loro densità in
numero evolve come quella della materia, cioè come (1 + z)3. Ne consegue che, in assenza di reazioni nucleari capaci di creare fotoni, il rapporto tra nu- mero di barioni e di fotoni rimane costante. Possiamo calcolare questa quantità all’epoca attuale; la densità in numero di fotoni nγ0 = 412 cm−3 si ottiene dal- le leggi del corpo nero e dal valore Tγ0 = 2.73 K, mentre la densità in numero di barioni si ottiene dividendo la corrispondente densità di massa, esprimibile come Ωbρc, per la massa del protone mp. Il risultato si scrive usualmente in termini del fattore Ωbh2:
η ≡ nb nγ
2.68× 10−8Ωbh 2 (5.29)
Da questo calcolo, e dal valore diΩbh2 0.0224 che verrà discusso in seguito, emerge che η 5.97 × 10−10: ci sono circa due miliardi di fotoni del CMB per ogni barione. Va anche notato che i fotoni del CMB sono anche molto più numerosi dei fotoni di origine astrofisica. Quando la temperatura diventa sufficientemente bassa, l’idrogeno può ri-
combinarsi (l’elio si ricombina a temperatura un po’ più alta, sottraendo però solo una piccola frazione di elettroni). A quel punto, chiamato ricombinazio-
V. Cosmologia 219
ne (anche se sarebbe più corretto chiamarlo “combinazione”) la sezione d’urto tra barioni e radiazione crolla e il tempo medio tra due scattering diventa mol- to maggiore dell’età dell’Universo, che diviene finalmente trasparente. La ri- combinazione è un processo graduale anche se rapido; nelle tipiche condizioni dell’ISM, l’idrogeno si ricombina a temperature di ∼104 K, ma il grande nu- mero di fotoni del CMB rende probabile la presenza di fotoni ionizzanti, con energie > 13.6 eV, anche a temperature più basse e quindi impedisce all’idro- geno neutro di accumularsi finchè la temperatura non crolla a circa 3000 K. Il CMB ci dà un’istantanea dell’Universo alla ricombinazione, più precisamente alla superficie di ultimo scattering tra fotone ed elettrone. Per i parametri co- smologici già citati in precedenza si ha che la superficie di ultimo scattering è in media a zrec = 1089.92± 0.25, circa 380,000 anni dopo il big bang. Il CMB è la radiazione primordiale che ci giunge dalla ricombinazione, af-
fievolita da un fattore ∼1000 in redshift. L’interesse nei suoi confronti è mol- teplice. La sua presenza conferma in modo convincente la teoria del big bang caldo, secondo la quale il primo Universo era un luogo estremamente denso, caldo ed energetico (nel senso che le particelle erano estremamente energeti- che). La sua temperatura, che viene misurata oggi con una grande precisione, ci dà informazioni sulla storia termica dell’Universo. Il suo spettro ci confer- ma che l’Universo giovane era in equilibrio termodinamico. Ma soprattutto, la misura delle sue fluttuazioni di temperatura dà informazioni preziosissime sui modelli di formazione delle strutture cosmiche. Se l’Universo fosse perfettamente omogeneo ed isotropo, non ci sarebbero
le galassie e noi non saremmo qui a parlarne. Su piccola scala, l’Universo mo- stra grandi disomogeneità, che diventano sempre più piccole mano mano che la scala si allarga, fino a giungere sulle grandissime scale ad una condizione di omogeneità in accordo con il principio cosmologico. La scala più grande che vediamo corrisponde alla radiazione del CMB, che ci giunge dai 4π steradianti del cielo. Al momento della ricombinazione, radiazione e materia barionica sono accoppiate, e quindi soggette alle stesse perturbazioni. Su grandi sca- le, appena più piccole dell’orizzonte visibile, queste perturbazioni inducono fluttuazioni nella temperatura del CMB, pari a:
δT
T =
1
3
δΦ
Φ (5.30)
dove δΦ/Φ è la fluttuazione del potenziale gravitazionale. La misura del- le fluttuazioni di temperatura del CMB ci dà quindi una misura diretta del- le perturbazioni primordiali; queste successivamente crescono per instabilità gravitazionale fino a formare le strutture cosmiche a noi note.
220 Introduzione all’Astrofisica
Negli anni ’80 iniziò la grande corsa alla misura delle fluttuazioni del CMB: queste costituivano un test fondamentale per la teoria del big bang caldo. Mi- surare le fluttuazioni del fondo cosmico è un problema formidabile dal punto di vista strumentale, si tratta di misurare differenze di temperatura dell’ordine del µK. Questo rende necessario l’uso di palloni o di satelliti, dato che l’atmosfera assorbe e quindi disturba la radiazione millimetrica (alle frequenze più basse è possibile osservare il CMB anche da terra). Inoltre, la Galassia emette ra- diazione alle stesse lunghezze d’onda, anche se con uno spettro molto diverso: emissione FIR da polvere ed emissione radio di sincrotrone. Per sottrarre que- sta radiazione è necessario misurare la temperatura del fondo in diverse bande, per poi combinare i segnali in modo opportuno così da sottrarre qualsiasi con- tributo che abbia uno spettro diverso da quello di un corpo nero a 2.73 K. I primi esperimenti, su pallone, non riuscirono a rivelare le fluttuazioni del CMB, ma produssero un limite superiore di δT/T < 10−4. L’universo formato da barioni e da fotoni però, per produrre la struttura a
grande scala osservata nella distribuzione delle galassie, richiedeva δT/T ∼ 10−3 − 10−4. Infatti, perturbazioni di questa ampiezza hanno il tempo, dalla ricombinazione ad oggi, di crescere fino a formare la struttura a grande scala (Sez. 6.2). Le misure del CMB mandavano quindi in crisi il modello barionico dell’Universo. A questa crisi si sommavano le evidenze del basso valore di Ωb ottenuto dalla nucleosintesi primordiale (Sez. 5.6), e della presenza di una componente di materia “oscura” ottenuta dalle curve di rotazione delle galassie a spirale (Sez. 4.4). Se, come vedremo meglio in seguito, i barioni non pos- sono essere più del ∼16% della massa dell’Universo, l’Universo è dominato dalla materia oscura, in forma di un’ignota particella che non interagisce con la radiazione elettromagnetica. La presenza di materia oscura permette di conciliare la struttura a grande
scala con il basso valore delle fluttuazioni di temperatura del CMB. Infatti, la radiazione, che ha un termine di pressione molto importante, non permette alle fluttuazioni di crescere. La materia barionica, anche quando diventa gravita- zionalmente dominante, rimane accoppiata alla radiazione fino alla ricombina- zione; le fluttuazioni hanno quindi occasione di crescere solo a partire da zrec. La materia oscura invece, non interagendo con i fotoni, permette alle fluttua- zioni di crescere a partire dall’equivalenza, dove zeq > zrec. Le fluttuazioni di temperatura misurano le perturbazioni “congelate” del plasma fotoni-barioni a zrec, ma i barioni, una volta disaccoppiati dalla radiazione, possono “cadere” nelle buche di potenziale della materia oscura, che nel frattempo hanno avuto tempo di crescere da zeq. Di conseguenza, a parità di fluttuazioni di materia a z = 0, ci aspettiamo nel caso di materia oscura fluttuazioni di temperatura
V. Cosmologia 221
Figura 5.9. Mappa delle fluttuazioni di temperatura misurate dal satellite COBE.
del CMB più basse di un fattore ∼38. Questi concetti verranno ripresi nella Sez. 6.2. Fu il satellite COBE (COsmic Background Explorer) nel 1992 a misurare
per primo le fluttuazioni del fondo cosmico, su scale angolari di 7, ottenendo: δT/T 1.8× 10−5 (Fig. 5.9). La misura di COBE segnò la terza rivoluzione nella cosmologia moderna, dopo la misura dell’espansione dell’Universo e la rivelazione del CMB (e in attesa dell’evidenza di espansione accelerata). An- che questa scoperta, insieme alla misura di precisione dello spettro di corpo nero del CMB, è stata premiata nel 2006 con il Nobel a Mather e Smoot. La misura delle fluttuazioni su una scala molto grande è solo il primo passo
in un campo, la cosmologia di precisione, che è giunto alla alla piena maturi- tà in questi anni. Abbiamo già introdotto la nozione di orizzonte cosmologico come la distanza a cui due osservatori possono scambiarsi informazione, data l’età dell’Universo. All’epoca della ricombinazione, l’orizzonte cosmologico era piccolo, corrispondente ad un angolo di ∼1. Le fluttuazioni misurate da COBE sono quindi genuinamente primordiali, visto che si riferiscono a regioni più grandi dell’orizzonte di allora. A scale più piccole di∼1 intervengono pro- cessi causali molto importanti, che determinano la forma specifica dello spettro delle fluttuazioni di temperatura. Questo si ottiene come segue. Una volta ot- tenuta una mappa di temperatura del cielo (o di una sua parte), si scompone questo campo di fluttuazioni in armoniche sferiche:
8Il fattore 3 diventa un fattore 10 seΩM = 1, che come abbiamo visto era il valore di riferimento negli anni ’80 tra i cosmologi teorici.
222 Introduzione all’Astrofisica
Figura 5.10. Predizioni per lo spettro delle fluttuazioni di temperatura del CMB in funzione del multipolo , confrontate con i dati finali dell’esperimento Planck.
δT
amY m (θ,φ) (5.31)
Chiamiamo spettro di potenza delle fluttuazioni C il valore quadratico medio (su m ed in un piccolo intervallo di ) dei coefficienti am. Questo ci dice quanto sono grandi in media le fluttuazioni sulla scala angolare θ ∼ 1/l. Lo spettro delle fluttuazioni viene predetto dai modelli cosmologici, e di-
pende da alcuni parametri, i cui principali sono:
i) ΩM, la densità di materia totale (oscura più barionica) a z = 0; ii) Ωb, la densità di materia barionica a z = 0; iii) ΩΛ, la densità di massa-energia in forma di costante cosmologica a z =
0; iv) ΩK = 1 − ΩM − ΩΛ, detta densità di curvatura perché determina la
geometria dell’Universo (se ΩK = 0 l’Universo è piatto)9; v) h, la costante di Hubble; vi) l’indice spettrale ns delle fluttuazioni primordiali (vedi Sez. 6.2); vii) un’opportuna normalizzazione dello spettro delle perturbazioni.
La Fig. 5.10 mostra lo spettro delle fluttuazioni di temperatura predetto dal modello cosmologico best-fit in funzione del multipolo , sovrapposto ai dati osservativi di cui parleremo tra breve. Notiamo come questa curva contenga molta informazione; una misura accurata dello spettro almeno fino ad ∼2000
9Alla materia e alla costante cosmologica andrebbero aggiunti radiazione e neutrini, che però hanno densità di massa trascurabili.
V. Cosmologia 223
è capace quindi di vincolare i parametri cosmologici in modo molto preciso. Si nota la presenza di picchi, detti picchi acustici. Questi sono generati dalle onde acustiche che si propagano nel plasma di barioni e fotoni accoppiati. Queste oscillazioni si propagano alla velocità cs del suono in un plasma ionizzato, che è pari a c/
√ 3.
Analogamente alla definizione di orizzonte cosmologico, possiamo definire l’orizzonte sonoro alla ricombinazione come ds = cstrec, cioè la distanza che un’onda sonora riesce a percorrere dal big bang fino alla ricombinazione. Si può dimostrare che la posizione del primo picco acustico misura l’angolo sot- teso dall’orizzonte sonoro alla ricombinazione. Dati i parametri cosmologici, la lunghezza dell’orizzonte sonoro si può facilmente calcolare, e quindi usare come regolo standard. L’angolo sotteso dall’orizzonte sonoro, ovvero l’angolo a cui misureremo il primo picco, dipende soprattutto dalla geometria globale dell’Universo, ovvero da Ωtot = 1− ΩK: se l’Universo è piatto, ci aspettiamo il picco centrato su ∼ 200, mentre se l’Universo è aperto l’angolo sotteso dall’orizzonte sonoro sarà minore e il primo picco si sposterà a maggiori. I picchi secondari, corrispondenti ad oscillazioni armoniche, sono importanti sia perché sono assenti in alcuni scenari cosmologici alternativi, sia perché per- mettono di vincolare Ωb; il rapporto tra la prima oscillazione armonica e le successive dipende infatti in modo critico dalla densità di barioni. Dopo i risultati di COBE, molti progetti furono dedicati alla misura sempre
più accurata delle fluttuazioni del fondo cosmico. Il primo picco acustico fu osservato per la prima volta inmodo convincente dall’esperimento Boomerang,
Figura 5.11. Mappa delle fluttuazioni della temperatura del CMBmisurata dal satellite Planck.
224 Introduzione all’Astrofisica
su pallone aerostatico, mentre le misure più complete sono state fornite prima dal satellite NASA WMAP e poi dal satellite ESA Planck; quest’ultimo ha prodotto la migliore mappa di temperatura su tutto il cielo (Fig. 5.11), con una risoluzione di 5 arcominuti. La Fig. 5.10 mostra lo spettro delle fluttuazioni angolari di temperatura misurato da Planck; i picchi acustici sono determinati in modo molto accurato, e la loro posizione risulta perfettamente compatibile con un Universo piatto. Sono chiaramente visibili i picchi secondari fino al settimo. Queste misure hanno permesso di giungere alle seguenti conclusioni (basate sui risultati definitivi della missione):
i) Le fluttuazioni del CMB sono ben riprodotte dal modello ΛCDM basato sumateria oscura fredda, che definiremomeglio nella Sez. 6.2, e costante cosmologica.
ii) Dalla posizione del primo picco acustico si ottiene la stima più precisa mai ottenuta per la densità totale dell’Universo:
ΩK = 1− Ωtot = 0.001± 0.002. (5.32)
iii) Si ottiene inoltre una stima della densità di materia barionica:
Ωbh 2 = 0.02237± 0.00015 (5.33)
iv) Risultano del tutto esclusi i modelli con ΩM = 1, mentre il modello di best-fit ha parametri ΩM = 0.315 ± 0.007 e ΩΛ = 0.685 ± 0.007, compatibile con i risultati delle SNe lontane.
v) Come già discusso, la costante di Hubble risulta H0 = 67.4 ± 0.5 km s−1 Mpc−3, in tensione con la determinazione basata sugli indicatori di distanza.
Un risultato molto interessante della misura delle fluttuazioni del CMB è la misura dell’indice spettrale delle fluttuazioni primordiali. Questa quantità verrà definita nella Sez. 6.2, adesso ci limitiamo a notare che la predizione più “naturale” dello spettro di perturbazioni primordiali, corrispondente ad un rumore bianco nelle perturbazioni del potenziale, darebbe un indice spettrale ns uguale ad uno. Con Planck si ottiene:
ns = 0.9649± 0.0042 (5.34)
significativamente diverso dal valore naturale. Questa evidenza ci dà informa- zioni molto preziose sull’Universo primordiale. La luce del CMB ci arriva con un piccolo grado di polarizzazione, che con-
tiene molte informazioni; lo studio dello spettro di potenza delle componenti
V. Cosmologia 225
polarizzate è la nuova frontiera delle misure del CMB. Questa polarizzazione permette da una parte di sondare il comportamento delle sorgenti che influen- zano il CMB dopo la ricombinazione (“foregrounds”); permette per esempio di vincolare la reionizzazione dell’idrogeno che avviene a redshift z ∼ 8, di cui parleremo nella Sez. 6.5. Una parte di questo segnale, difficilissima da misura- re, permette invece di rivelare un’eventuale fondo cosmico di onde gravitazio- nali. Come vedremo in seguito, questo fondo di onde gravitazionali potrebbe rivelare particolari cruciali per la fisica dei primissimi istanti dell’Universo.
5.5 Il primo Universo
Seguiamo adesso l’evoluzione dell’Universo a partire dal big bang. È utile ricordare che non possiamo fare nessuna osservazione diretta di quelle epoche. Tuttavia la configurazione di Universo che osserviamo dipende in modo critico da quello che è accaduto nei primi istanti, e questo ci permette di vincolare in modo indiretto alcune predizioni del modello cosmologico. Come già accennato in precedenza, non possiamo partire da t = 0: in quel-
l’istante la densità dell’Universo risulta infinita, e così la sua temperatura; con- sidereremo il big bang come l’estrapolazione della fisica che conosciamo al- l’istante in cui il fattore di scala diventa a = 0, estrapolazione che porta a conseguenze chiaramente non fisiche. Per energie E > 1.22 × 1019 GeV per particella ha luogo l’epoca della gravità quantistica, la quale termina (formal- mente) al tempo di Planck, tPl =
G/c5 5.39× 10−44 s dopo il big bang.
Sono state sviluppate teorie che tentano di descrivere l’Universo in queste con- dizioni, con conclusioni a volte affascinanti ma in nessun modo vincolabili dalle osservazioni. Ad energie più basse, tra 1019 e ∼1016 GeV, si ritiene che tre forze fon-
damentali (elettromagnetica, nucleare forte e debole) siano unificate secondo una Teoria della Grande Unificazione (Grand Unification Theory, GUT). Sono state proposte diverse GUT, ma le loro predizioni riguardano energie che so- no completamente al di fuori di quelle accessibili in laboratorio, ben superiori perfino ai raggi gamma di energia più alta. Una conclusione sembra inevita- bile, a quelle energie le particelle erano soggette a simmetrie maggiori delle particelle a noi note oggi. Per esempio, esistevano due sole forze fondamentali (gravità e forza unificata), e possibilmente vigeva la supersimmetria tra bosoni e fermioni. L’elevato grado di simmetria della GUT non si riscontra nella fisica attuale.
Infatti, ad energie più basse di quelle in cui vige la GUT assistiamo alla rottura spontanea delle simmetrie. Questo processo viene ben illustrato dal seguen-
226 Introduzione all’Astrofisica
te esempio (Fig. 5.12). Consideriamo un sistema φ soggetto ad un potenziale V (φ), dipendente dalla temperatura T , che ha un minimo a φ = 0 ed è sim- metrico attorno a quel punto. Il sistema potrà oscillare liberamente attorno a φ = 0, la simmetria impedisce di distinguere tra φ positivi e φ negativi. Que- sta configurazione può essere quella di un campo quantistico (per semplicità scalare); i modi normali di oscillazione corrisponderanno allora alle particel- le elementari che il campo può generare. Supponiamo adesso che, quando la temperatura diminuisce, il potenziale evolva in modo da presentare due mini- mi simmetrici a valori −φ0 e φ0. Il campo si sposterà dalla sua posizione di equilibrio precedente e si porrà in uno dei due nuovi min