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IL PRESENTE COME STORIA La flessibilità salariale contrastare la disoccupazione nel Mezzogiorno?* di Floro E. Caroleo 1. Flessibilità e mercato del lavoro. ξ Il problema della flessibilità del lavoro nelle relazioni industriali ha dominato il dibattito politico ed economico italiano dell'ultimo decennio non senza lacerazioni più o meno profonde tra i partiti e le forze sociali come, ad esempio, in occasione del referendum sulla scala mobile del 1984. Questo lavoro vuole essere un tentativo di ri portare un aspetto della questione nei termini scientifici o meglio an cora in «una nicchia di macroeconomia ed economia del lavoro»1. Quando si parla, infatti, di flessibilità nel senso macroeconomico e di economia del lavoro si devono intendere due aspetti: uno, relativo al mercato del lavoro, in cui per flessibilità si intende il grado di sen sibilità del salario agli eccessi della domanda o dell'offerta di lavoro, e uno, relativo alle relazioni industriali, in cui la flessibilità è intesa come possibilità da parte dell'impresa di gestire «al meglio» il fattore lavoro, senza vincoli istituzionali che limitino il rapporto di lavoro sia nel momento iniziale, sia nella fase di esecuzione del rapporto, sia nella fase di chiusura o interruzione. Sebbene i due aspetti della flessibilità siano, come è facilmente in tuibile, interconnessi tra di loro e, quindi, sia abbastanza difficile trat tarli separatamente, ai fini della tesi che si cercherà di dimostrare in questa sede sarà data esclusiva attenzione al primo. Ciò non già per un giudizio di valore ma per un più proficuo collegamento con l'e voluzione del dibattito sulle politiche da attuare per lo sviluppo del Mezzogiorno. Infatti, è stato fatto notare2 come nell'ultimo decen * Ringrazio i professori Jossa e Vinci per aver letto e commentato una prima stesura del lavoro. 1 Salvati 1988, p. 3. 2 Cfr. anche Caroleo, Veneziano 1988; Vinci, Cardone 1990 e Amendola 1989. 281

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IL PRESENTE COME STORIA

La flessibilità salariale contrastare la disoccupazione nel Mezzogiorno?*

di Floro E. Caroleo

1. Flessibilità e mercato del lavoro.

ξ <Ν

Il problema della flessibilità del lavoro nelle relazioni industriali ha dominato il dibattito politico ed economico italiano dell'ultimo decennio non senza lacerazioni più o meno profonde tra i partiti e le forze sociali come, ad esempio, in occasione del referendum sulla scala mobile del 1984. Questo lavoro vuole essere un tentativo di ri

portare un aspetto della questione nei termini scientifici o meglio an cora in «una nicchia di macroeconomia ed economia del lavoro»1. Quando si parla, infatti, di flessibilità nel senso macroeconomico e di economia del lavoro si devono intendere due aspetti: uno, relativo al mercato del lavoro, in cui per flessibilità si intende il grado di sen sibilità del salario agli eccessi della domanda o dell'offerta di lavoro, e uno, relativo alle relazioni industriali, in cui la flessibilità è intesa come possibilità da parte dell'impresa di gestire «al meglio» il fattore lavoro, senza vincoli istituzionali che limitino il rapporto di lavoro sia nel momento iniziale, sia nella fase di esecuzione del rapporto, sia nella fase di chiusura o interruzione.

Sebbene i due aspetti della flessibilità siano, come è facilmente in tuibile, interconnessi tra di loro e, quindi, sia abbastanza difficile trat tarli separatamente, ai fini della tesi che si cercherà di dimostrare in

questa sede sarà data esclusiva attenzione al primo. Ciò non già per un giudizio di valore ma per un più proficuo collegamento con l'e voluzione del dibattito sulle politiche da attuare per lo sviluppo del

Mezzogiorno. Infatti, è stato fatto notare2 come nell'ultimo decen

* Ringrazio i professori Jossa e Vinci per aver letto e commentato una prima stesura del

lavoro. 1 Salvati 1988, p. 3. 2 Cfr. anche Caroleo, Veneziano 1988; Vinci, Cardone 1990 e Amendola 1989.

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Il presente come storia

nio il tentativo di estendere provvedimenti volti ad una maggiore fles sibilità nelle relazioni industriali al Mezzogiorno siano falliti dal mo mento che non hanno sortito alcun effetto sull'occupazione meridio

nale, sia diretto (maggiore occupazione) sia indiretto (migliore e più flessibile organizzazione aziendale). Questo ha indotto autorevoli isti tuzioni3 e molti studiosi a proporre, come possibile alternativa, po litiche di flessibilizzazione salariale. La domanda legittima che si po ne a questo punto è se questa ulteriore proposta può far bene all'oc

cupazione o, meglio, alla disoccupazione meridionale4. I vari contributi che si sono posti l'obiettivo di dare una spiega

zione della attuale disoccupazione nel Mezzogiorno hanno la carat teristica di aderire a posizioni teoriche differenziate. Vi è, ad esem

pio, chi fa riferimento al tasso naturale di disoccupazione e al legame tra inflazione e disoccupazione, alla disoccupazione derivante da in sufficienza di domanda aggregata oppure alla disoccupazione che de riva dal cambiamento tecnologico5, fino alle più recenti teorie degli insider-outsiders o del salario di riserva. Ma la cosa che più sorprende è che quasi tutti sono concordi nell'affermare che una maggiore fles sibilità salariale avrebbe benefici effetti sulla disoccupazione in gene rale e su quella meridionale in particolare. Quello che cercheremo di dimostrare, invece, è che — anche restando nella logica interna al le varie teorie — si può provare come vi siano molte situazioni in cui la flessibilità salariale, se non controproducente, non risolve co

munque il problema della disoccupazione né il differenziale regiona le. In secondo luogo, poiché i caratteri della disoccupazione me'ridio

3 La Confindustria, ad esempio, tradizionalmente porta avanti proposte di politiche volte all'abbattimento del costo relativo del lavoro come misura di recupero della produttività set toriale e regionale (cfr. Guglielmetti, Rosa 1989). E recentemente anche la Banca d'Italia mo stra una crescente attenzione ai problemi del Mezzogiorno nell'ambito di molti studi e ricer che e, nelle considerazioni finali all'assemblea dei partecipanti tenuta nel 1989, il governatore Ciampi giunge

ad affermare: «negli ultimi anni i divari territoriali di produttività nell'indu

stria, anziché ridursi, si sono accentuati: nel Sud, il valore aggiunto per occupato è oggi infe riore di quasi venti punti percentuali rispetto al Centro-Nord. La compensazione dei divari attraverso la fiscalizzazione degli oneri sociali ne attenua gli effetti sulla competitività, ma sot tolinea l'esigenza di un collegamento più stretto tra retribuzioni ed andamento delle produttività aziendali» (p. 30, corsivo nostro).

4 Sembra infatti riduttiva la tesi di coloro che sostengono che, sia nel mercato del lavoro che nelle relazioni industriali, la misura di valutazione dei benefici della flessibilità è l'occupa zione (cfr. Salvati 1988, p. 8). In verità, solo quando si trattano i problemi relativi alle relazioni industriali è corretto parlare dell'influenza della flessibilità salariale sulla domanda di lavoro delle imprese. Ma nel mercato del lavoro le variazioni del salario (monetario o reale) influen zano sia la domanda che l'offerta di lavoro e, quindi, non solo l'occupazione ma anche la diffe renza tra quantità domandata e offerta, cioè la disoccupazione.

5 Per una rassegna delle varie teorie e una completa bibliografia, cfr. Frey 1988.

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Caroleo, La flessibilità salariale

naie sono prevalentemente strutturali e quindi rientrano in una di

queste situazioni particolari, le politiche di breve respiro (come ap punto il ripristino dei differenziali salariali) dovrebbero essere riget tate a favore delle politiche di sviluppo produttivo.

Analizziamo ora le argomentazioni di questi studiosi comincian do con due tesi che, pur partendo dall'analisi del caso italiano, tenta no di estendere le conclusioni anche al Mezzogiorno.

2. Un keynesiano moderatamente favorevole.

Secondo Salvati1, i noti vincoli circa la concorrenzialità dell'indu stria italiana sui mercati internazionali costringono la politica eco nomica del nostro Paese a muoversi su una «via bassa» alla competi tività: basata, cioè, su politiche che mirano alle modificazioni dei prezzi relativi. Dati questi vincoli egli finisce con l'assumere una posizione moderatamente favorevole, almeno nel breve periodo, nei confronti della flessibilità salariale come possibile incentivo all'aumento dell'oc

cupazione. E, anche se nell'articolo citato fa riferimento ad un mer cato del lavoro omogeneo e non segmentato a livello territoriale, suc cessivamente estende le sue tesi al caso meridionale affermando che la flessibilità nel mercato del lavoro possa risolvere anche i problemi di riequilibrio regionale2.

La sua posizione sulla flessibilità nel mercato del lavoro è, secon do Zenezini nel commento all'articolo, «mezzo agnostica e mezzo

possibilista»3. Infatti, da un lato rigetta il tipico assunto neoclassico sia nell'esposizione tradizionale, sia in quella più moderna (job search, teoria dei contratti impliciti, modelli di efficiency wage), sia nelle for mulazioni econometriche costruite per dimostrarle, che porta a dire che opportune variazioni del salario possono compensare gli eccessi di domanda e offerta di mercato. Ciò per le «condizioni assai restrit tive entro le quali questa asserzione può essere dimostrata» (Salvati 1988, p. 10): condizione di piena occupazione, assenza dell'influenza

1 Cfr. Salvati 1988. 2 L'estensione delle sue tesi al caso meridionale si trova in Salvati (1989) dove non vengo

no modificate di molto le conclusioni qui riportate se si eccettua un maggiore accento sul fatto che per risolvere il problema del Mezzogiorno occorre intraprendere la «via alta» allo svilup po economico. Questa in sostanza consiste in una politica ai sviluppo di lun¡>o periodo che

prevede una profonda ristrutturazione industriale e una maggiore competitivita dell'industria

produttrice di prodotti con elevata elasticità al reddito anziché di prodotti con alta elasticità al prezzo. Cfr. anche Salvati 1982.

3 Zenezini 1988, p. 96.

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della domanda, eccessiva segmentazione del mercato del lavoro che ne deriva, ecc.4. Tuttavia, secondo Salvati, se si rimane nell'ambito di ipotesi strettamente keynesiane di breve periodo e nell'ambito di modelli di development più che di growth nel lungo periodo, è possi bile ritrovare una posizione possibilista nei confronti della flessibili tà salariale. Quanto meno, è possibile enucleare quali siano i fattori

positivi o negativi della flessibilità sia salariale che delle relazioni azien dali nei confronti dell'occupazione e, nella somma finale, i fattori po sitivi sembrano prevalere anche se in misura modesta.

Nel breve periodo, infatti, in uno «schema, per l'impresa o l'indu

stria, marshalliano [...], e, per l'aggregato, lo schema keynesiano di determinazione del reddito in un'economia aperta» (Salvati 1988, p. 33), è molto facile che valga la cosiddetta «via bassa alla competitivi tà», quella cioè che «si manifesta — in ultima istanza — sia mediante una più agevole variabilità dei livelli produttivi, sia mediante una ri duzione del costo del lavoro e degli oneri non salariali» {ibid.., p. 34). Questa forma di competitività-prezzo è preferibile alla svalutazione

competitiva per le ovvie considerazioni circa le indesiderabili riper cussioni interne ed internazionali che comporta la svalutazione. La conclusione è che «in via generale e in media — ma le risposte hanno una forte varianza locale — un effetto favorevole della flessibilità sul

4 In particolare, secondo Salvati, queste ipotesi sono insite in quei lavori econometrici che si rifanno ad una particolare interpretazione della curva di Phillips secondo la quale nel lungo periodo vi è una tendenza al riequilibrio del mercato del lavoro al livello di disoccupazione naturale e compatibile con qualsiasi tasso di inflazione, qualora questo sia correttamente anti

cipato — in questo caso il tasso di disoccupazione naturale viene anche detto non accelerating inflation rate of unemployment (nairu). Nel breve periodo vi possono essere delle deviazioni cicliche intorno al tasso naturale e ciò dipende dai processi di aggiustamento dei salari ai prezzi e quindi della flessibilità del salario reale all'inflazione. Se scriviamo la «curva di Phillips» nel modo seguente:

dW/W = a, dP/P+a2f(u)

il punto maggiormente dibattuto è il valore del coefficiente di a] e il suo rapporto con il coef

ficiente a2. Tanto più vicino all'unità è ai tanto più veloce è l'adeguamento

dei prezzi, in par ticolare il salario, all'inflazione. Tanto più piccolo è a2 tanto più piatta è la «curva di Phil

lips». Pertanto, se per uno shock esterno nasce la necessità di far diminuire il salario reale, ciò diventa impossibile nel caso in cui l'elasticità del salario ai prezzi è elevata e, d'altro canto, è necessaria una forte disoccupazione per far abbassare i salari nominali. Questa formulazione è stata presa recentemente come base per calcolare il grado di flessibilità del mercato del lavoro nei vari paesi da studi fatti nell'ambito dell'Ocse (Coe, Gagliardi 1985). L'«indicatore di flessi

bilità» è, appunto, il rapporto ai/a2 e la conclusione cui giungono queste ricerche è che, nel

periodo di aggiustamento a shocks esogeni, quale per esempio Γ aumento del costo delle mate rie prime avvenuto negli anni settanta, i paesi con più basso indice e, quindi, con maggiore flessibilità del salario reale, hanno sperimentato minori tassi di disoccupazione di altri paesi con alti Ìndici (una posizione critica nei confronti di questa tesi è stata assunta in particolare da Metcalf 1986).

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Caroleo, La flessibilità salariale

l'occupazione è probabile, assai modesto (se pur consistente) qualora l'occupazione venga misurata in ore, più consistente se misurata in addetti» (ibid., p. 39)5.

In altri termini, in una economia che ha un vincolo estero come il nostro, la competitività esterna non può essere difesa nel breve pe riodo mediante il deprezzamento del tasso di cambio per le conse

guenze inflazionistiche e le relative politiche monetarie restrittive che ne conseguono. Se le autorità pubbliche hanno la possibilità di con trollare opportunamente il livello salariale, tale flessibilità permette rebbe di evitare le politiche di cambio e/o politiche economiche con tinuamente cangianti e quindi fonte di instabilità sulle aspettative6.

In realtà, non si capisce come l'Autore sia così deciso nel respinge re le tesi neoclassiche, o alla Phillips, perché praticamente irrealizza

bili, mentre lo è di meno allorquando con un ragionamento stretta mente keynesiano arriva alle stesse conclusioni. Reichlin7, d'altro

canto, fa notare come la posizione possibilista di Salvati implichi esat tamente le medesime ipotesi di base degli studi basati sulla «curva di

Phillips» e cioè che nel lungo periodo esiste l'unicità del saggio natu rale di disoccupazione, a cui corrisponde un solo livello di salario reale. Ma anche restando nell'ambito teorico ipotizzato da Salvati bisogna dire che le politiche rivolte alla flessibilità salariale sono solo una pos sibile alternativa alla soluzione dell'occupazione e della disoccupazione. Restano aperte ampie possibilità anche per politiche keynesiane e del l'offerta quali, per esempio, le politiche dei redditi, la politica fiscale,

politiche volte alla formazione o alla mobilità, ecc.8. La scelta do vrebbe essere guidata dalla conoscenza approfondita della natura del la disoccupazione e nel caso in cui, ad esempio, la disoccupazione me ridionale fosse essenzialmente caratterizzata da elementi strutturali

(i quali, come vedremo, rispondono meno alle sollecitazioni salaria

li), sembra ovvio che le politiche di tagli del salario reale siano le me no indicate a risolvere il problema.

5 La tesi è in sostanza simile a quella contenuta nel piano decennale per l'occupazione di De Michelis che contiene l'affermazione che sia possibile aumentare l'elasticità dell'occupazio ne rispetto al reddito mediante una maggiore flessibilità nel mercato del lavoro.

6 Nel lungo periodo la flessibilità, specie nelle relazioni industriali ed in particolare la fles sibilità intensiva e numerica, porta ad una «più accentuata segmentazione del mercato del lavo ro» (Salvati 1988, p. 51) tra vari livelli di qualifiche e/o tra outsiders ed insiders. Ma, anche in questo caso, vi sono effetti positivi derivanti soprattutto dal clima di fiducia che si creerebbe nelle imprese e dalla maggiore capacità di far fronte alle variazioni della domanda.

7 Cfr. Reichlin 1988. 8 Questo, in sintesi, è il tono del commento critico a Salvati di Dell'Arringa (Dell'Arrin

ga 1988) e anche le conclusioni delle teorie che si rifanno al wage-gap di Sachs, Bruno (1985). Si confrontino anche le teorie sul neo-corporativismo (per tutti, cfr. Soskice 1989).

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Ma la considerazione che meno convince, allorquando si conside rino gli effetti delle politiche di flessibilizzazione sul Mezzogiorno, è quella relativa alla tesi sulle compatibilità del nostro sistema pro duttivo. Infatti, secondo Salvati, mentre in un'economia chiusa è per fettamente plausibile pensare che vi sia un mercato dei prodotti ca ratterizzato da concorrenza imperfetta e, quindi, la domanda di la voro non dipende solo dal salario reale ma anche dalla domanda del

prodotto, in una economia aperta di piccole dimensioni le ipotesi di

imperfezioni dei mercati non valgono più. In questo caso, la compe tizione internazionale assicura l'unicità del prezzo dei beni e, per le

imprese che producono beni tradeable, le condizioni di competitivi tà dipenderanno quindi dal tasso di cambio o dai costi unitari di pro duzione i quali dipendono, ovviamente, dalle condizioni di offerta di lavoro. In altri termini, sembra che si arrivi, così come per le rela zioni industriali (aspetto che qui non trattiamo), ad una posizione favorevole alla relazione positiva tra flessibilità e occupazione attra verso «catene causali indirette», ovvero ricorrendo alle usuali spiega zioni basate sui vincoli e sulle compatibilità9.

Inoltre l'alternativa tra flessibilità salariale e svalutazione in realtà non esiste in quanto esse possono essere considerate la medesima co sa10 e, se consideriamo il caso meridionale, non solo possiamo dire che gli effetti positivi della flessibilità non si verificano, ma è possibi le anche immaginare ulteriori conseguenze perverse nel medio-lungo periodo. Il Mezzogiorno è caratterizzato da una scarsa competitivi tà" del sistema industriale nei confronti del resto del mondo (alta quota di importazioni, bassa propensione ad esportare) e la sua strut tura produttiva produce, almeno nel breve periodo, beni non tradea ble. Pertanto ci si potrebbe domandare se in questo caso valga ancora

l'ipotesi di «via bassa alla produttività» e se sia corretto dare priorità alla flessibilità salariale piuttosto che alla svalutazione. Inoltre Gian

9 «Se è così, — afferma infatti Zenezini — perché non dire chiaramente che l'argomento della flessibilità salariale non solo fornisce una spiegazione scadente della recente storia occu

pazionale delle economie industriali, ma è anche un ripiego come proposta di politica econo mica?» (Zenezini 1988, p. 91).

10 Alcuni studi della Banca d'Italia (cfr. Ceriani, Frasca, Violi 1989) hanno verificato, me diante una simulazione con il modello econometrico della Banca d'Italia, l'effetto di una fisca lizzazione degli oneri sociali — che può essere considerata il principale strumento di flessibilità salariale — sulle principali variabili economiche concludendo che esso è simile alla svalutazio ne tenuto conto però che, mentre la prima riduce i prezzi dei beni esportati in lire e lascia invariati i prezzi delle importazioni in lire, la seconda lascia invariati i prezzi delle esportazio ni e aumenta i prezzi delle importazioni, espressi entrambi in lire.

11 Ipotesi accettata in pieno da Salvati. Cfr. Salvati 1989.

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Caroleo, La flessibilità salariale

noia pone in evidenza che una riduzione del costo del lavoro nel Mez

zogiorno, realizzata per esempio attraverso fiscalizzazioni degli one ri sociali, «non sembra particolarmente rilevante ai fini del rafforza mento e dello sviluppo dell'industria meridionale; essa, al contrario,

potrebbe alla lunga risultare controproducente. La natura protezio nistica di questa misura (equivalente di fatto ad una svalutazione in un sistema a due paesi) attutisce fortemente la spinta all'innovazione ed alla razionalizzazione, allentando la tensione proprio su quegli aspet ti del mutamento che sono vitali per la sopravvivenza e lo sviluppo dell'impresa locale» (Giannola 1989, p. 22).

3. La disoccupazione tecnologica.

Per Sylos Labini1 la flessibilità salariale può avere un ruolo posi tivo nel risolvere anche il problema della disoccupazione tecnologi ca. Nell'analizzare il processo dinamico dello sviluppo economico, non si possono non considerare i molteplici effetti del flusso conti nuo delle nuove tecnologie sulla produttività, l'occupazione e la di

soccupazione. Le innovazioni di prodotto e di processo inducono mi smatches tra domanda e offerta di lavoro e quindi disoccupazione. Essa deve essere però distinta dalla disoccupazione che si forma per il len to aggiustamento salariale che impedisce il riequilibrio dopo che il cambiamento tecnologico ha prodotto i suoi effetti sul mercato del lavoro2. I processi derivanti dall'innovazione tecnologica in realtà sono più complessi: modifiche settoriali e, all'interno di ogni setto

re, tra tipologie di impresa (ad esempio, tra piccole e grandi impre se); modifiche territoriali della struttura produttiva; sviluppo di al cune caratteristiche demografiche della forza-lavoro (ad esempio, una diversa composizione tra maschi e femmine), di alcune professiona lità, tra lavoro garantito e non, ecc. E tali mutamenti, non tutti uni

1 Cfr. Sylos Labini 1989. 2 Solo la teoria neoclassica suppone che quest'ultimo processo sia l'unica fonte di disoccu

pazione. Un cambiamento tecnologico infatti cambia la produttività del lavoro e del capitale. Se i prezzi sono flessibili, le variazioni dei prezzi relativi riequilibrano, ai nuovi livelli di utiliz

zo, la domanda e l'offerta dei fattori e, nel caso di tecnologia labour saving il nuovo equilibrio si attesta su un livello di occupazione inferiore. Secondo la teoria neoclassica solo la rigidità salariale mantiene più a lungo la disoccupazione che si crea nel processo di riequilibrio. Un

conseguente effetto positivo sull'occupazione potrebbe essere quello dovuto alla maggiore do manda derivante dai più elevati salari reali pro capite che gli occupati ottengono per la maggio re produttività.

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Il presente come storia

voci, fanno pensare che la disoccupazione che si crea sia in realtà un caso particolare della disoccupazione strutturale. Tuttavia, se da un lato ciò può essere visto come una ulteriore dimostrazione della scarsa reattività della disoccupazione alle variazioni salariali, secondo Sylos Labini la flessibilità salariale può ancora avere un ruolo positivo su

questo tipo di disoccupazione anche se con meccanismi del tutto di versi da quelli neoclassici.

Egli parte da un modello che potremmo definire «classico» o «ri cardiano» in cui esplicitamente si pone il problema della disoccupa zione che emerge da un processo di mutamento tecnologico e di ri strutturazione produttiva. In questo processo si possono produrre due forme di disoccupazione: una di tipo keynesiana, ovvero da deficien za di domanda, e una di tipo tecnologico dovuta cioè all'introduzio ne di innovazioni risparmiatrici di lavoro che a sua volta sono sti molate autonomamente o anche da un aumento del costo relativo del lavoro3.

Secondo Sylos Labini, se ci fermassimo al processo di creazione della disoccupazione descritto dalla «curva di Phillips», la quale ap punto descrive una sequenza che va, con una relazione negativa, dal la disoccupazione ai salari, si avrebbe una visione parziale della real tà. Infatti, con la «curva di Phillips» si osserva solo il fatto che quan do cresce la disoccupazione aumenta la disponibilità dei lavoratori

rispetto alla domanda dei loro servizi e quindi i salari tendono a di minuire. In questo caso, tuttavia, si considera esogeno l'aumento della

produttività mentre, invece, in un processo dinamico questa è influen zata dai salari e prezzi ovvero dalle stesse variabili che influenzano

l'occupazione e quindi la disoccupazione. Quando il costo del lavo ro aumenta in relazione ai prezzi degli altri fattori, o quando cresce il salario reale, ciò induce le imprese a introdurre tecnologie rispar miatrici di lavoro e quindi ad aumentare la produttività. Si crea così un certo ammontare di disoccupazione (sia in senso stretto che com

plessiva), in quanto la diminuzione dell'occupazione rende difficile anche l'assorbimento dei giovani in cerca di prima occupazione. Esi ste quindi anche una relazione positiva tra salario e disoccupazione4.

3 Entrambe poi spiegano la disoccupazione in senso stretto che si riferisce a coloro che in

precedenza avevano una occupazione. Per avere la disoccupazione totale dobbiamo aggiunge re i disoccupati in cerca di prima occupazione i quali dipendono anche dai tassi di crescita naturali della popolazione e/o da fattori sociali (per esempio, la maggiore partecipazione al lavoro delle donne e dei giovani).

4 Va ricordato infine che la produttività aumenta anche con l'aumento del reddito in base alla «legge di Smith-Verdoorn» (Sylos Labini 1989, p. 120).

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Caroleo, La flessibilità salariale

Quale delle due relazioni prevalga dipende dalle condizioni storiche in cui si trova l'economia e perciò Sylos Labini afferma che la disoc

cupazione è storicamente condizionata5. In altri termini, nelle fasi

espansive del ciclo prevale un percorso virtuoso — un aumento rela tivo dei salari induce ad un aumento della produttività e quindi a una

maggiore capacità di sviluppo del sistema (maggiore domanda, mag giore competitività verso l'estero ecc.); nelle fasi di recessione, inve

ce, prevale un percorso vizioso in cui gli effetti di feed-back dei salari sui prezzi influenzano in maniera perversa la disoccupazione, che è tanto più probabile quanto «più lento è l'aumento del reddito»6.

Quale è il punto di svolta del ciclo? «L'aumento dei salari moneta ri ha effetti positivi — sostiene Sylos Labini — fino a quando, oltre a sollecitare l'espansione del mercato, stimola l'aumento della pro duttività, ma tale aumento non può andare al di là di limiti posti dal

progresso tecnico e organizzativo che può essere realizzato, anche in relazione al grado di preparazione dei dirigenti e dei lavoratori. Oltre questi limiti, l'aumento dei salari cessa di avere effetti positivi e diviene eccessivo. C'è dunque un optimum nell'aumento dei salari che si avvicina, o è di poco superiore, all'aumento realizzabile della

produttività» (Sylos Labini 1989, p. 127). La flessibilità salariale quindi assume un ruolo fondamentale. Un salario flessibile che rimanga en tro l'optimum asseconda il ciclo e ne attenua le conseguenze, allonta nando nel tempo il punto di svolta superiore. Resta ovvio che a com

pletamento della politica di intervento, allorquando l'economia si trova nella fase di recessione, bisogna associare anche una politica di espan sione del reddito.

Il modello della disoccupazione classica così come descritto da Sy los Labini è, secondo alcuni7, troppo generale per essere provato da stime dirette. L'ipotesi essenziale è che la spinta all'aumento della pro duttività sia dovuta ad aumenti relativi dei salari. In realtà in questi casi non è detto che vi sia stimolo ad effettuare investimenti labour

saving, anzi si potrebbe non investire affatto, come è avvenuto in pas sato anche in Italia di fronte a spinte salariali ritenute troppo elevate. Ma soprattutto l'introduzione di nuove tecnologie non è un proces so dinamico e lineare, ma procede per salti imprevedibili che rende la dinamica del salario reale e i caratteri labour saving o labour using del processo tecnico profondamente instabili. Inoltre, se costo del la voro e crescita del reddito sono i motori del processo dinamico di

5 Cfr. Sylos Labini 1987a. 6 Cfr. Sylos Labini 1989, p. 126. 7 Cfr. Salvati 1988, p. 19-20.

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Il presente come storia

introduzione della tecnologia è chiaro che è piuttosto la rigidità sala riale, e non certamente la sua completa flessibilità rispetto all'aumento della produttività, che funge da meccanismo incentivante. Vinci e Car done, ad esempio, pongono il medesimo problema dal lato della fles sibilità nelle relazioni industriali. La rigidità, soprattutto numerica, spinge all'innovazione tecnologica: «quanto maggiori sono i vincoli esistenti nella gestione della forza lavoro tanto maggiori sono gli in centivi ad introdurre innovazioni» (Vinci, Cardone 1990, p. 53). Tra l'altro questa argomentazione porta i due Autori a dare un giudizio negativo sugli effetti delle politiche per l'occupazione attuate negli anni ottanta nel Mezzogiorno. Infatti, i contratti di formazione e la voro, le chiamate nominative e numeriche, i contratti di part-time, sono politiche che tendono a introdurre elementi di flessibilità sia nelle relazioni industriali che nel salario, e hanno dato scarsissimi ri sultati nel Sud dal momento che non hanno incentivato le imprese meridionali ad attuare miglioramenti nella struttura produttiva8. Lo stesso Sylos Labini ammette che «entro certi limiti la rigidità del mercato del lavoro è da valutare positivamente [...] per certi effetti

propriamente economici (quella rigidità contribuisce all'aumento dei salari e questo aumento contribuisce all'aumento della produttività)» (Sylos Labini 1987b, p. 28). Ma attenua, subito dopo, tale giudizio affermando: «appare ormai chiaro che con le garanzie per chi lavora e con la conseguente rigidità si è andati troppo oltre. Dato che non

possiamo illuderci di far salire in misura significativa il saggio di au mento medio del reddito nel prossimo futuro, appare necessaria una riforma, da adottare al livello europeo, del sistema delle garanzie, giac ché solo accrescendo la flessibilità del mercato del lavoro è possibile spingere in alto in modo economicamente valido il saggio di crescita

dell'occupazione» {ibid.). Nel caso specifico del salario Y optimum, come abbiamo visto, è un aumento del salario leggermente superiore al l'aumento della produttività. Tuttavia, per le ragioni dette, non si

può negare che l'opposizione di limiti alle rigidità nel mercato del lavoro contrastano con il carattere dello sviluppo capitalistico che è di per se stesso instabile e soggetto a salti tecnologici e in cui le varia bili quali l'investimento e la produttività non sono certamente in fluenzate da andamenti certi anche se di poco superiori al limite. Sem bra in sostanza che l'Autore riproponga il problema della flessibili

8 Cfr. Vinci, Cardone 1989 e 1990. Cfr. anche Caroleo, Veneziano 1988; Amendola 1989; Caroleo 1989a.

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Caroleo, La flessibilità salariale

tà, anche se espressa in forma dinamica, con la stessa logica di Salvati ovvero per via delle solite compatibilità del sistema.

Quando però Sylos Labini estende il modello al caso meridionale

non riesce a verificare più le ipotesi di base. Infatti, commentando le stime della funzione delle disoccupazione per il Centro-Nord e il

Mezzogiorno, si chiede perché «i meccanismi autoequilibratori im

pliciti nelle altre variabili dell'equazione della disoccupazione (pro duzione industriale9 e costi relativi del lavoro) non abbiano funzio

nato o abbiano funzionato con grande lentezza» (Sylos Labini 1989,

p. 179) nel Mezzogiorno. La spiegazione, sempre secondo Sylos La

bini, è che la disoccupazione totale è influenzata anche dall'effetto naturale (aumento della forza-lavoro) che nel Mezzogiorno è prepon derante e, coerentemente, afferma che il problema meridionale deve

essere risolto con politiche che favoriscano lo sviluppo economico.

Si deve quindi mirare «ad accrescere l'occupazione spingendo il saggio di aumento del reddito oltre il saggio di aumento della produttività» (Sylos Labini 1985, p. 28, corsivo nostro) cercando contemporanea mente di allentare il vincolo estero e il vincolo della spesa pubblica

improduttiva che spiazza le risorse destinabili ad investimenti pub blici.

Il modello della disoccupazione tecnologica, quindi, non vale per il Mezzogiorno e la soluzione sembra da ricercare non già nel costo

dei fattori produttivi ma in politiche di sviluppo. Questa conclusio ne non risponde tuttavia ad uno dei principali problemi posto dai

modelli che si rifanno ai processi di cambiamento indotto dalle in

novazioni tecnologiche e cioè i notevoli effetti territoriali. Non solo infatti la tecnologia, specie la nuova tecnologia dell'informazione, non

si diffonde uniformemente sul territorio, ma notevoli sono anche gli effetti sui differenziali regionali del mercato del lavoro. Sembra quindi riduttivo non riuscire ad estendere le conclusioni del modello ad un

caso che dovrebbe essere emblematico dei processi di riconversione

produttiva che hanno interessato l'economia italiana nell'ultimo de

cennio. Anche quando si volesse comunque mantenere ferme le soluzioni

di politica economica insite nel modello di Sylos Labini, non sembra

affatto plausibile l'ipotesi che armonizzare la dinamica salariale al

l'andamento della produttività potrebbe risolvere la eventuale disoc

cupazione tecnologica che nell'ambito del processo di sviluppo si do

9 A questo proposito, cfr. anche Caroleo 1989b.

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Il presente come storia

vesse creare nel Mezzogiorno. Ciò perché la flessibilità non è com

patibile con il sostegno allo sviluppo del reddito e della produttività e perché la disoccupazione tecnologica per il suo carattere struttura le non è influenzata dalla flessibilità salariale. Infine, perché se ricon duciamo le variazioni del salario alle variazioni della produttività —

che nel Mezzogiorno è inferiore al Centro Nord — si approfondi rebbe il divario con il resto del Paese e, invece di assecondare lo svi

luppo, si creerebbe un ostacolo al sostegno della domanda.

4. Flessibilità e domanda di lavoro: il problema degli incentivi.

Alcuni studiosi della Banca d'Italia1 hanno recentemente analiz zato le determinanti della domanda di lavoro nel Mezzogiorno. Co storo da un lato, al pari di Sylos Labini, riconoscono che «il carattere fondamentale della dinamica dello squilibrio tra domanda e offerta di lavoro nel Mezzogiorno è di essere determinata dalle componenti di offerta. Mentre l'occupazione si è mossa infatti in un ristretto campo di variazione, le forze di lavoro hanno mostrato ampi movimenti»

(Siracusano, Tresoldi, Zen 1985, p. 15). D'altro canto però la domanda di lavoro2 ha avuto negli ultimi quindici anni un andamento tale

per cui si è accentuata la rottura del legame tra dinamica del prodot to e dell'occupazione. Infatti, a partire dalla seconda metà degli anni settanta l'occupazione nel Mezzogiorno è cresciuta mediamente a tassi due volte superiori che nel Centro-Nord, mentre la produttività è cresciuta a tassi nettamente inferiori. La domanda che si pongono gli Autori è, quindi, quali siano stati i caratteri dello sviluppo indu striale del Mezzogiorno che hanno portato a questi risultati. Essi, tra

l'altro, individuano nella politica degli incentivi perseguita dalle au torità pubbliche una delle principali cause dell'attuale struttura in dustriale.

Nel Mezzogiorno l'elemento più dinamico dell'ultimo decennio sembra essere stato, infatti, l'affermarsi di una nuova imprenditoria lità nei settori a minore intensità di capitale e nella piccola dimensio ne. Questa nuova imprenditorialità ha potuto, grazie agli incentivi al fattore lavoro, «compensare la minore produttività con gli inferio ri costi sul lavoro, realizzando margini di profitto superiori o equi valenti rispetto alle imprese situate nelle altre regioni italiane; si trat

1 Cfr. Siracusano, Tresoldi, Zen 1985 e Siracusano, Tresoldi 1989. 2 Così come è avvenuto in Paesi quali gli Usa e l'Italia.

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Caroleo, La flessibilità salariale

ta di un risultato che non trova riscontro per le imprese di dimensio ni maggiori e ad alta intensità di capitale del Mezzogiorno, che han no accusato una drastica caduta del prodotto per addetto, dovuta an che al ritardo nell'aggiustamento dei volumi di forza-lavoro, e una

conseguente decurtazione dei margini di profitto» (ibid., p. 94). In fatti anche se in aggregato esiste tra le due aree del Paese un differen ziale di retribuzioni mediamente limitato, esso è tuttavia «assai va riante lungo i settori e le dimensioni delle imprese» (Siracusano, Tre soldi 1989, p. 10) e raggiunge quasi il 20% nelle piccole imprese. Ciò sia perché in questi settori i livelli produttivi sono mediamente più bassi sia, appunto, a causa dell'operare degli incentivi al lavoro. Inol

tre, la minore produttività del lavoro nelle piccole imprese è dovuta non già ad una scarsa dotazione di capitale o perché esso sia vecchio ed inefficiente (anzi la dotazione di capitale è abbastanza elevata) ma

perché c'è «un utilizzo inefficiente o un sottoutilizzo, di carattere strut

turale, dei fattori di produzione nelle imprese minori del Mezzogior no» (ibid., p. 19)3.

Gli incentivi al lavoro hanno potuto così compensare i divari di

produttività e alla fine hanno favorito «la nascita di imprese minori sorte non solo per fronteggiare la domanda dei mercati locali, ma per produrre beni che potessero risultare competitivi anche sui mercati nazionali ed internazionali» (Siracusano, Tresoldi, Zen 1985, p. 136). Ma se all'interno dell'area meridionale un'attenzione particolare agli incentivi a vantaggio del lavoro potrebbe contribuire a determinare una crescita della capacità produttiva più idonea a favorire un aumento dei livelli di occupazione e risolvere quindi la disoccupazione, per mangono comunque vari problemi ed in particolare come, e in qua le misura, l'intervento pubblico può continuare a insistere su questo tipo di politica. Pertanto, a questo proposito sarebbe opportuno de lineare meglio «la durata», «l'intensità» e «la sostenibilità» dell'impe gno finanziario di tali incentivi.

Infatti, gli Autori pongono in evidenza alcune controindicazioni

allorquando affermano: «la politica degli incentivi al lavoro, effettuata a partire dall'inizio degli anni settanta, può aver contribuito a limita re la caduta dell'occupazione industriale nel Mezzogiorno e a favori re l'affermarsi di imprese caratterizzate da una minore intensità di

3 «Nel Mezzogiorno l'inferiorità di questi ultimi — i fattori della produzione nelle impre se minori — richiede una maggiore quantità di inputs per unità di output. L'utilizzo di maggio ri quantità di fattori trova solo parziale compenso nella riduzione del costo del lavoro unitario assicurata dagli incentivi» (Siracusano, Tresoldi 1989, p. 29).

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capitale per addetto» (ibid., p. 140). E ancora: «le politiche di incenti vazione non riescono ad assicurare alle attività industriali meridio nali un livello di redditività equivalente o superiore a quello delle at tività svolte nel Centro-Nord» (Siracusano, Tresoldi 1989, p. 43). Inol tre: «la misura, assai ampia, delle agevolazioni può aver spinto le im

prese verso un diverso punto di equilibrio attivando processi infra

marginali; questo fenomeno tende a ripercuotersi sui valori medi delle

produttività parziali, del lavoro e del capitale, e potrebbe spiegare l'am

pia divergenza nella formazione di valore aggiunto per unità di capi tale e per unità di lavoro. Il cumulo degli incentivi potrebbe aver mu

tato, in conclusione, le posizioni di equilibrio microeconomico delle

imprese e rese competitive tecniche di produzione che, astraendo da

quel contesto, sono invece inefficienti» (ibid., p. 44). Infine, la finanza pubblica non può sostenere questo impegno trop

po a lungo e, quindi «la soluzione deve essere cercata anche nei mec canismi di mercato. Ciò presuppone non solo una maggiore flessibi lità nell'utilizzo del lavoro, ma pure differenziali salariali particolar mente aperti, collegati alle condizioni di produttività e di profittabi lità che aziende anche simili, ma collocate in realta socio-economiche

diverse, sono in grado di esprimere» (Siracusano, Tresoldi, Zen 1985, p. 141)\

5. Un'applicazione della «curva di Phillips».

A conclusioni simili, anche se con un diverso percorso logico, ar rivano altri due studiosi della Banca d'Italia. Bodo e Sestito infat

ti, ripercorrono i problemi del mercato del lavoro del Mezzogiorno mediante una applicazione del blocco relativo al mercato del lavoro del modello econometrico della Banca d'Italia2. In questo modello lo schema di base ammette l'esistenza di un saggio naturale di disoc

cupazione e una «curva di Phillips» di breve periodo. In estrema sintesi il modello della Banca d'Italia è così strutturato:

la domanda di lavoro dipende dalla produzione e dai prezzi relati

4 E, anche a distanza di tempo, le conclusioni non mutano «in prospettiva, lo sgravio ge nerale e permanente degli oneri sociali dovrebbe essere abolito e il mantenimento di un diva rio nel costo del lavoro dovrebbe essere affidato agli esiti della contrattazione sui livelli retri butivi, che favoriscono già adesso le imprese meridionali di diversi settori» (Siracusano, Tre soldi 1989, p. 45).

1 Cfr. Bodo, Sestito 1989. 2 Cfr. Bodo, Visco 1987 e la sintesi contenuta in Aa.Vv. 1989.

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Caroleo, La flessibilità salariale

vi3 oltre che dal livello di capacità utilizzata e dal progresso tecni co4. L'offerta di lavoro è completamente endogenizzata con l'ipotesi del lavoratore scoraggiato5. Il salario monetario6 di tutti i settori è influenzato dal salario che si determina nel settore della trasforma zione industriale e che si trasmette agli altri settori dell'economia me diante uno schema di wage leadership. Nell'industria il salario, nel breve

periodo, è funzione dell'eccesso del tasso di disoccupazione sul tasso naturale con un tipico schema di «curva di Phillips»7. Il punto cru

ciale, per capire le estensioni del modello al caso meridionale, è la forma funzionale della curva; essa infatti8 è tale per cui, quando si

parte da valori elevati del tasso di disoccupazione effettivo, il ritorno al tasso naturale risulta particolarmente lento'. Questa ipotesi por ta alla conclusione che possa esistere una particolare forma di istere

si, ovvero un lento funzionamento — se non addirittura nullo — del la relazione inversa tra salari e disoccupazione, a causa dei differen ziali di disoccupazione regionali. Infatti, «la dispersione territoriale delle condizioni d'impiego ha già assunto dimensioni rilevanti nel

periodo 1978-'86, ma diventerà ancora più importante nei prossimi 10-15 anni. Si potrebbe allora assistere ad aumenti del tasso medio di disoccupazione attribuibili in special modo alla dinamica sfavore vole delle regioni meridionali, senza che questo abbia effetti di con tenimento sulle retribuzioni nel caso in cui queste fossero determi nate soprattutto con riferimento alla situazione del mercato del la voro nelle regioni centro-settentrionali» (Bodo, Visco 1987, p. 50).

3 In sostanza la domanda di lavoro è ottenuta attraverso la soluzione di un problema di minimizzazione dei costi sotto il vincolo di una funzione di produzione di tipo CES.

4 «L'output influenza l'occupazione con elasticità unitaria in tutti i settori [...]. L'influen

za dei prezzi relativi dei fattori si esplica invece solamente nella trasformazione industriale e nei servizi destinabili alla vendita, in entrambi i casi con effetti relativamente contenuti anche se largamente significativi» (Bodo, Visco 1987, p. 21).

5 In altri termini il tasso di attività ha una specificazione funzionale di tipo logistico ri

spetto al tasso di occupazione, per cui l'offerta si muove in senso prociclico con l'occupazione. 6 II salario reale nel modello è una variabile esogena che si determina ex post una volta ri

solte tutte le variabili dipendenti del modello e, quindi, anche i prezzi. 7 «Aumentata dalle aspettative e modificata per tenere conto del funzionamento della sca

la mobile e dell'eventuale recupero di passati errori di anticipazione delle variazioni del costo della vita. Il risultato più importante della stima di questa equazione è l'assenza di illusione

monetaria, equivalente all'esistenza di una «curva di Phillips di lungo periodo verticale» (Bo do, Visco 1987, p. 23).

8 Nella «curva di Phillips» in altri termini il tasso di disoccupazione entra in forma iper bolica. La relazione può essere scritta quindi nel modo seguente:

w* = k + b(l/u) con k<0 e b>0

9 «Nonostante il nairu sia costante e non si muova in sintonia con quello effettivo» (Bo do, Visco 1987, p. 19).

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Il presente come storia

Vediamo ora come queste ipotesi sono state da Bodo e Sestito spe cificate per il caso meridionale. Pur semplificando molto a causa del la mancanza di informazioni statistiche adeguate, essi hanno cercato di stimare le ipotesi principali del modello generale per le due circo scrizioni. I risultati più interessanti riguardano la stima della doman da di lavoro. Essa infatti per il settore della trasformazione industria le del Mezzogiorno non dà valori significativi dei test di non corret ta specificazione. In particolare, «la dinamica dei salari reali non ri sulta influenzare significativamente il numero degli addetti» (Bodo, Sestito 1989, p. 35). In generale anche dopo varie correzioni «nell'ar co di tale periodo (1961-1984) non sembra esservi alcun legame tra la domanda di lavoro da un lato, e il prodotto e prezzi relativi dei fattori dall'altro» {ibid.). Il contrario avviene per il Centro-Nord do ve le stime risultano significative e con i segni attesi. Il dato, secondo i due Autori, è fortemente influenzato dall'andamento delle parteci pazioni statali che sembrano avere un comportamento tale per cui

«l'input di lavoro non viene determinato attraverso un processo di massimizzazione dei profitti o di minimizzazione dei costi» (ibid.) e, inoltre, il peso dell'occupazione delle partecipazioni statali sul to tale dell'occupazione manifatturiera meridionale raggiunge il 14,6% nel 1980, mentre al Centro-Nord rimane intorno al 6%.

Per questo motivo la domanda di lavoro al Sud viene stimata al netto dell'occupazione nelle partecipazioni statali. I risultati in que sto caso ritornano ad essere significativi, anche se le stime hanno una rilevanza puramente indicativa in quanto la stessa depurazione non è stata fatta per il valore aggiunto e, d'altra parte, questo nelle azien de a partecipazione statale non solo è rilevante ma ha anche una di namica positiva in relazione al valore aggiunto complessivo. In altre

parole, per trovare nel Mezzogiorno una relazione negativa attesa a

priori tra costo del lavoro e occupazione, gli Autori hanno dovuto

depurare l'occupazione delle imprese pubbliche; ma, d'altro canto, il risultato non è molto esplicativo dal momento che non viene de

purato il valore aggiunto alla stessa maniera. Rimane comunque il

dubbio, come vedremo meglio in seguito, se siano estendibili al Mez

zogiorno stime basate su funzioni di produzioni tradizionali che hanno

implicito il concetto di uso pieno o, al più, normale delle risorse pro duttive l0.

10 Sembra inoltre azzardato anche considerare endogena l'offerta di lavoro sulla base del

l'ipotesi del lavoratore scoraggiato. Altre stime (cfr. Vinci, Caroleo, Pinto 1985) nel verificare la medesima ipotesi per il Mezzogiorno non sembrano ottenere risultati più significativi e/o

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Caroleo, La flessibilità salariale

Infine vengono verificate, sempre per il Mezzogiorno, la «curva di Phillips» e la particolare forma di isteresi detta in precedenza. Le stime delle «curve di Phillips» per il Mezzogiorno e il Centro-Nord, tralasciando i problemi di significatività, verificano le conseguenze della particolare specificazione iperbolica della curva verificata a li vello nazionale e quindi la non costanza del coefficiente di reazione dei salari al tasso di disoccupazione. Ciò significa in particolare che

«l'impatto della variazione di un punto percentuale del tasso di di

soccupazione è notevolmente maggiore nel caso del Nord, regione caratterizzata da un livello medio della disoccupazione meno eleva

to», per cui: «si può [...] concludere che, in questo momento, la crescita della disoccupazione nel Mezzogiorno non sta innescando alcun mecca nismo di riequilibrio nel mercato del lavoro per il tramite della dina mica retributiva»" (ibid., p. 66, corsivo nostro).

Bodo e Sestito, quindi, da un lato mostrano come, almeno in par te, il costo del lavoro non influenza la domanda di lavoro e che il salario non regola il mercato del lavoro del Mezzogiorno. D'altro lato non trovano di meglio che ricondurre il problema del Mezzo

giorno alle solite compatibilità che in questo caso riguardano l'ecces sivo onere dell'indebitamento pubblico. Infatti, posto che dalle poli tiche della domanda e di sostegno ai redditi sia necessario passare alle

politiche dell'offerta, il provvedimento più importante dovrebbe es

rafforzativi delle tesi basate su un'offerta di lavoro guidata da fattori naturali e sociali. D'altro lato in questo modo si sottostima completamente l'influenza del salario reale nell'offerta di lavoro secondo quanto afferma la teoria tradizionale. Questo aspetto viene dai due Autori tra lasciato per mancanza di informazioni adeguate. L'unico riferimento ad aspetti tipici dell'of ferta di lavoro riguarda l'occupazione nella Pubblica amministrazione la quale, per le dimen sioni consistenti e per le diverse condizioni di lavoro rispetto al settore privato, contribuisce ad innalzare la soglia di salario di riserva, creando aspettative nei giovani che preferiscono re stare disoccupati in attesa di un posto sicuro nella Pubblica amministrazione.

11 «La conclusione che si può trarre da questa verifica è che sembra esistere in Italia evi denza di un meccanismo che, in senso lato, può definirsi una particolare forma di isteresi: la dinamica retributiva è fondamentalmente determinata dalle condizioni di mercato delle regio ni centro-settentrionali e in misura trascurabile dalle condizioni del mercato del lavoro nel

Mezzogiorno. Questo implica che una riduzione della disoccupazione al Nord, compensata da un pari aumento al Sua, non è neutrale nei confronti della crescita salariale ma, anzi, tende ad accrescerla. Poiché in prospettiva, per motivi fondamentalmente demografici, l'offerta di lavoro crescerà in notevole misura al Sud, mentre al Nord già alla fine degli anni ottanta ini zierà a diminuire la popolazione in età attiva, si verrà a creare una situazione molto difficile in cui la presenza e l'accentuarsi della

disoccupazione in un'area non eserciterà alcun effetto

depressivo sui salari e, quindi, non contribuirà a «regolare» il mercato del lavoro. Viceversa, l'adozione di politiche espansive tese a ridurre la disoccupazione, nella misura in cui agissero anche al Nord, darebbero origine a pressioni salariali, e quindi inflazionistiche, superiori a quelle che si potrebbero attendere sulla base dei dati medi nazionali della disoccupazione» (Bodo, Sestito 1989, p. 69). Il ragionamento sembra dunque simile a quanto affermato nella modelli stica relativa alla trasmissione dell'inflazione settoriale (cfr. Streeten 1962 e Vinci 1972).

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Il presente come storia

sere quello che mira a dare massima flessibilità al salario per ripristi nare quelle relazioni nel breve periodo che non sono così semplici da riattivare nel Mezzogiorno12. L'obiettivo, pertanto, è quello di creare un adeguato differenziale nel costo del lavoro. Ciò può essere fatto sia con interventi pubblici — fiscalizzazione degli oneri sociali, ecc. — o dando maggiore ruolo al mercato nella contrattazione sala riale. L'intervento pubblico, d'altro lato, pone alcuni problemi, il più importante dei quali è il maggiore onere per il deficit pubblico. Per tanto «tenuto conto di queste problematiche, una politica che ci sembra effettivamente attuabile è quella di fiscalizzare completamente gli oneri sociali nei settori manifatturieri e del turismo del Mezzogiorno, creare un differenziale salariale bloccando per un limitato periodo di tem

po gli incrementi retributivi legati ai rinnovi contrattuali e all'opera re della scala mobile per le aree meridionali e procedere parallelamente ad un maggiore decremento nei livelli di contrattazione» [ibid., p. 80).

6. Critiche alla flessibilità e domanda di lavoro.

Le due posizioni che fanno capo alla Banca d'Italia, anche se con ottiche diverse, partono entrambe da uno stesso presupposto e cioè

che anche nel Mezzogiorno vale una domanda di lavoro in cui le va riabili esplicative sono i prezzi relativi dei fattori e il reddito. Ciò

porta i primi a dire che il differenziale dei costi di lavoro, effettuato

negli anni settanta e ottanta mediante l'applicazione massiccia degli oneri sociali, ha certamente contrastato la diminuzione dell'occupa zione industriale nel Mezzogiorno e ha favorito l'affermarsi di im

prese caratterizzate da una minore intensità di capitale per addetto. Viene così ad essere esaltata la flessibilità del prezzo del lavoro come fattore di sviluppo. La seconda posizione è molto più «radicale» in

quanto auspica, come soluzione alla scarsa reattività della domanda di lavoro al salario, un'applicazione ancora più forte dei differenziali retributivi (possibilmente non a carico completo dello Stato ma con la riproposizione delle «gabbie salariali») al fine di ripristinare il cor retto funzionamento del mercato e del salario come regolatore della domanda e dell'offerta di lavoro.

12 «L'intervento sul costo del lavoro, [...] deve, a nostro avviso, sempre più divenire una delle forme principali di incentivazione diretta delle attività produttive nel Mezzogiorno » (Bodo, Sestito 1989, p. 76).

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Caroleo, La flessibilità salariale

Una prima considerazione va fatta circa l'importanza della flessi bilità salariale nel risolvere l'equilibrio del mercato nel caso in cui vi sia un ampio sottoutilizzo delle risorse produttive. In questo caso,

tipico dell'economia meridionale, la riduzione dei salari reali non ri conduce l'occupazione ai livelli naturali se non è accompagnata da una politica della domanda espansiva. Se la domanda non si muove verso l'alto, il salario reale può sempre riequilibrare domanda e of ferta ad un certo livello di disoccupazione naturale, ma con un am montare di occupazione minore di quella che si formerebbe con una domanda non depressa. Il tasso naturale di disoccupazione si muove

quindi con la domanda, e con il tasso di disoccupazione effettivo, e

dipende strettamente da essa1. Inoltre vi è molto scetticismo, in genere, sul fatto che incentivare

le piccole imprese con politiche di flessibilità salariale sia una rispo sta adeguata alla disoccupazione. Ciò non solo perché non vi è evi denza empirica che lo sviluppo dell'occupazione nelle piccole impre se porti ad una diminuzione della disoccupazione2, ma anche per la scarsa qualità del lavoro impiegato in questo comparto dell'indu stria3. Considerazioni scettiche sul ruolo del costo del lavoro quale promotore dello sviluppo del Mezzogiorno sono state enucleate da

Giannola, Del Monte e Vittoria \ Lo sviluppo di un'area depressa come il Mezzogiorno secondo questi

Autori procede, molto più facilmente, mediante profonde trasforma zioni strutturali. Pertanto, nell'analizzare la crescita dell'occupazio ne o la dinamica dei vari settori, non si può ragionare a struttura da ta e vedere questi fenomeni come il frutto del semplice variare del

rapporto fra i prezzi dei fattori produttivi. Se ciò è vero il costo del lavoro non può essere visto come una variabile indipendente che in fluenza negativamente l'occupazione, ma può invece avvenire il con trario e cioè che maggiore occupazione si accompagna a più elevati

1 Se questo è vero le teorie che cercano di spiegare le cause dell'aumento della disoccupa zione naturale in questi ultimi anni in realtà non spiegano niente. Queste considerazioni sono

proprie di coloro che parlano di «isteresi» nel mercato del lavoro e, come è intuibile, con argo mentazioni completamente diverse da quelle di Bodo e Sestito. Cfr. Blanchard, Summers 1986.

2 Cfr. Del Monte, Vittoria 1989. 3 Cfr. gli argomenti portati da Storey e Johnson in Storey, Johnson 1989. 4 Cfr. Del Monte, Vittoria 1989; Del Monte 1989; Giannola 1989. In realtà essi impernia

no il loro ragionamento secondo un'ottica leggermente diversa dalla nostra che riguarda essen zialmente la valutazione comparata dei vari incentivi alle imprese — finanziari al capitale, al lavoro e fiscali — ai fini dello sviluppo dell'imprenditorialità meridionale. L'aspetto interes sante è che nella critica degli incentivi all'occupazione essi ripercorrono tutte le argomentazio ni contro la flessibilità salariale quale fattore di crescita economica.

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Il presente come storia

salari dal momento che in una situazione di intensa politica di incen tivazione l'industria cresce, aumenta la dimensione aziendale e l'in tensità di capitale e quindi si pagano anche maggiori salari. «La ridu zione del costo del lavoro riflette modifiche nella composizione set toriale e dimensionale dell'industria manifatturiera ed è un effetto e non una causa di queste modifiche» (Del Monte, Vittoria 1989, p. 21). Per questo motivo sono sbagliate sia le politiche di incentivi al lavoro sia il ripristino dei differenziali salariali con il mercato. Le pri me, se favoriscono nel breve periodo l'occupazione nell'industria ad alta intensità di lavoro, d'altro canto, per la natura protezionistica del provvedimento, cristallizzerebbero le industrie vecchie e le tec

nologie esistenti e quindi sarebbero deleterie per l'aumento della pro duttività nel lungo periodo. Inoltre le imprese meridionali non han no ricevuto alcun impulso dagli incentivi sul fattore lavoro se è vero che in ogni comparto settoriale e dimensionale esse sono dotate di una maggiore intensità di capitale rispetto ad una analoga impresa del Centro-Nord.

Anche la proposta di ripristinare i differenziali salariali al livello

regionale non ha molto senso. «Se questa proposta mira a promuo vere l'occupazione industriale viene fatto di domandarsi a quale oc

cupazione si pensa. Non certo a quella propria della manifatturiera moderna dove ormai da anni (e non solo nel Mezzogiorno) il pro blema del costo del lavoro non ha rilievo decisivo. In questi settori si pone semmai un problema opposto: la necessità di garantire un differenziale salariale positivo nelle qualifiche più elevate vista la scarsità dell'offerta e la particolare riluttanza di questo tipo di forza lavoro ad operare stabilmente nelle regioni meridionali. L'unico effetto po sitivo del differenziale salariale potrebbe essere nei settori tradizio

nali, cioè in quei settori nei quali [...] il divario già esiste, è particolar mente consistente ed è fortemente sottostimato [...] data la natura ben diversa dell'economia sommersa nelle due aree del Paese» (Gian noia 1989, p. 22). Il salario, infine, non è un fattore che influenza la localizzazione delle imprese ma lo è, piuttosto, il controllo sulla forza-lavoro (la flessibilità nelle relazioni industriali). Solo che nel Mez

zogiorno esiste già la massima flessibilità assicurata dalle varie forme di lavoro nero5.

5 Queste critiche, ripetiamo, costituiscono la base per poi analizzare i possibili effetti dei

vari incentivi — al capitale, al lavoro, ecc. — sull'occupazione. Per gli Autori citati la fiscalizza zione degli oneri sociali, oltre che eccessivamente costosa per lo Stato «crea poca occupazione aggiuntiva, essa va a beneficio di imprese che in ogni caso avrebbero creato quell'occupazione e quindi gli effetti occupazionali sono modesti» (Del Monte, Vittoria 1989, p. 32). La preferen

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Caroleo, La flessibilità salariale

7. Flessibilità e tasso naturale di disoccupazione.

La tesi di Padoa Schioppa si ricollega alla teoria del tasso naturale di disoccupazione e, in questo caso, il mercato del lavoro del Mezzo

giorno viene visto come un esempio tipico in cui il tasso di disoccu

pazione effettivo diverge da quello naturale a causa delle rigidità sala

riali ed istituzionali che regolamentano tale mercato. Il mercato del

lavoro, secondo questa teoria, nel lungo periodo si muove verso l'e

quilibrio in cui la disoccupazione è al suo livello naturale' e che

comprende la disoccupazione frizionale e quella strutturale2. Le de

terminanti di queste due categorie influenzano pertanto il tasso na

turale. La disoccupazione frizionale è legata alla velocità con cui nel mer

cato si scambiano le informazioni sui prezzi e le quantità. Le infor

mazioni sui posti disponibili o sull'offerta di lavoro non hanno la

possibilità di scambiarsi velocemente, come per esempio avviene nei

mercati borsistici, e quindi può permanere nel tempo una contem

poranea presenza di posti vacanti e disoccupazione anche nel caso

in cui le occasioni di lavoro sono in numero pari ai lavoratori dispo sti a lavorare. Una importante determinante della disoccupazione fri

zionale è il replacement ratio, ovvero l'ammontare di reddito di sus

sistenza (sussidi alla disoccupazione, ecc.) che un disoccupato riceve

in rapporto al salario. Quanto più vicini sono i due redditi tanto più lunga può essere l'attesa o la ricerca di nuova occupazione e quindi

lo stato di disoccupazione. Un ulteriore processo di creazione della disoccupazione può esse

re dovuto ad un diverso andamento della domanda dei prodotti nei

singoli mercati regionali o settoriali, all'introduzione di nuove tec

nologie, a modificazioni nei prezzi relativi degli inputs primari, a cam biamenti nei gusti dei consumatori, alla ristrutturazione organizzati va di singole industrie. Queste modificazioni nel mercato dei pro dotti si riflettono nella domanda di lavoro ma se vi fosse un veloce

adeguamento dell'offerta di lavoro ai cambiamenti intersettoriali e

interregionali della domanda di lavoro, grazie alle variazioni dei prezzi relativi dei fattori produttivi, la disoccupazione naturale di lungo pe

za va quindi agli incentivi in conto capitale automatici: «l'incentivo in conto capitale rimane

in termini di spesa per occupato più efficiente degli incentivi al lavoro» (ibid.). 1 Essa comprende la quota di forza-lavoro disoccupata che persiste anche quando vi è equi

librio del mercato del lavoro, in cui cioè, anche se nei singoli mercati vi è eccesso o difetto

di domanda, non c'è una spinta dal salario reale a cambiare in risposta ad un eccesso di doman

da o ad un eccesso di offerta complessiva. 2 Cfr. Thompson, Brown, Levacic 1987, cap. 3.

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Il presente come storia

riodo non ne sarebbe influenzata3, mentre si avrebbero solo varia

zioni di breve periodo. Il concetto di tasso naturale di disoccupazione è essenzialmente teo

rico e può discostarsi da quello effettivamente misurato nelle statisti che ufficiali. Inoltre esso è un concetto legato al lungo periodo, oltre che ad una situazione di equilibrio. I fattori che determinano il tasso naturale sono, secondo Padoa Schioppa, in sostanza legati alle rigidi tà nei prezzi e nei salari: gli eccessivi costi non salariali (contributi vari, oneri sociali), la legislazione a favore dell'occupazione, gli effet ti generalmente depressivi sul tasso di crescita della produttività del lavoro degli shocks nei prezzi del petrolio e delle materie prime, cam biamenti strutturali come la diminuzione delle professionalità legate all'industria e l'aumento di quelle legate ai servizi, un alto tasso di inflazione che, creando una elevata variabilità delle aspettative, bloc ca l'attività d'investimento e la domanda di lavoro delle imprese, la tassazione diretta e i prezzi dei beni importati, il replacement ratio·, il potere sindacale che tiene alto il salario attuale rispetto a quello di equilibrio e che contribuisce a mettere barriere tra gli insiders e

outsiders, salari reali troppo elevati o poco flessibili per alcune cate

gorie (per esempio i salari dei giovani che si adeguano di meno di

quelli degli adulti)4. Il tasso naturale può divergere, come abbiamo detto, da quello effet

tivo ed in questo caso: «se il tasso di disoccupazione non eccede quello naturale, i salari reali si stabilizzano sul livello desiderato dai lavora

tori; se invece il tasso di disoccupazione risulta superiore a quello na

turale, i salari reali rimangono stabilmente inferiori all'obiettivo» (Pa doa Schioppa 1988a, p. 70). In quest'ultimo caso, qualora la differen za si prolunghi nel tempo, ci troviamo nella situazione in cui la di

soccupazione è dovuta a fattori strutturali. E tanto più è rigido il sa lario tanto più diverge la disoccupazione effettiva da quella natu rale 5.

3 Per alcuni questi mismatches possono persistere nel tempo perché le professioni e le qua lifiche non sono velocemente modificabili e ci vuole tempo per la riqualificazione. Inoltre an che la mobilità geografica può avere costi notevoli. Anche in questo caso la disoccupazione viene detta strutturale ed è associata ad una situazione in cui le variazioni dei salari relativi falliscono nell'aggiustare così come nel mettere in equilibrio la domanda e l'offerta di lavoro

regionale o settoriale. * Cfr. anche Nickell, Layard 1986. 5 L'espressione che sintetizza questi aspetti è una equazione del salario di lungo periodo

del tipo: w-p=s - 6{u-u*)

dove le variabili sono espresse in logaritmi ed in particolare s è il logaritmo del salario reale

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Caroleo, La flessibilità salariale

Se poniamo queste considerazioni in un modello economico ge nerale possiamo affermare che «non solo la reattività salariale dimo strata dai lavoratori nei confronti del tasso di disoccupazione [...] bensì

pure l'elasticità dei prezzi interni rispetto a quelli internazionali [...] nonché l'elasticità della domanda di lavoro ai prezzi relativi dei fat tori di produzione [...] determinano tutte il grado di rigidità di lungo periodo del mercato del lavoro» {ibid., pp. 73-74). Il problema è tro vare quali di queste non sono modificabili e quali invece possono es sere rese più flessibili. Padoa Schioppa propende a credere che, con tassi di cambio imposti dalla competitività internazionale e a tecno

logia data, l'unica flessibilità possibile sia quella salariale e delle nor me e delle istituzioni che regolamentano il rapporto di lavoro. «La

componente classica della disoccupazione italiana non nasce dunque dalla carenza di capitale, ma dall'incapacità di sfruttarlo a pieno in favore dell'occupazione, data l'eccessiva elasticità dei salari alla pro duzione. Questa, che a sua volta viene definita come rigidità del mer

cato, ha conseguenze negative sull'occupazione, sia a causa della so stituzione del fattore lavoro con altri mezzi di produzione, sia a cau sa dell'effetto reddito al ribasso, provocato da prezzi al rialzo ed esal tato in un'economia aperta come l'Italia» (Padoa Schioppa 1988b, p. 124).

In questa logica il Mezzogiorno, ed in particolare il mercato del lavoro in questa area, vengono considerati due settori strategici in cui l'operatore pubblico pur impiegando notevoli risorse finanziarie

non riesce a contrastare il fallimento del mercato nel ritrovare i giu sti equilibri di piena occupazione. In questo caso ci troviamo di fronte, secondo Padoa Schioppa, ad un vero e proprio uso distorto delle ri

obiettivo dei lavoratori (per un modello econometrico in cui questa variabile gioca un ruolo importante: cfr. Modigliani, Padoa, Schioppa, Rossi 1987 e Aa.Vv. 1989) e u* è il tasso natura le di disoccupazione. Nel lungo periodo δ diventa l'indicatore di rigidità salariale. Infatti «nel

lungo periodo e stabilmente, [...] la rigidità salariale è tanto più grande quanto minore è l'ela sticità, i, del salario reale al tasso di disoccupazione: per δ tendente all'infinito, il tasso di di

soccupazione non sarebbe mai superiore a quello naturale» (Padoa Schioppa 1988a, p. 70). Se ci rifacciamo inoltre alla teoria degli insiders e outsiders, possiamo trovare anche un ulteriore elemento di rigidità nel mercato del lavoro. Infatti u*, il tasso di disoccupazione naturale, sa rebbe il tasso di disoccupazione degli outsiders — donne e giovani

— disoccupati da lungo tem

po, mentre u-u*, la differenza tra tasso naturale e tasso effettivo, è il tasso di disoccupazione degli insiders ovvero dei disoccupati già occupati. «Il fatto che, nella determinazione del sala rio, si risulti sistematicamente sensibili solo alla disoccupazione degli insiders, con reattività δ, è un indicatore della rigidità del mercato non meno di ί stesso» (Padoa Schioppa 1988a, p. 71). Infatti il livello di u* accettato dagli outsiders potrebbe essere elevato per effetto dei

troppi sussidi ai disoccupati e/o di una legislazione troppo garantista, per cui si aggiungerebbe un altro tipo di rigidità alle variazioni del salario reale e quindi «alla struttura del mercato ad assicurare un'alta occupazione» (ibid.).

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Il presente come storia

sorse pubbliche. Eccetto che per le politiche volte al potenziamento delle opere infrastrutturali, necessarie perché promuovono migliori condizioni produttive, le rimanenti politiche (l'intervento delle in dustrie pubbliche, le agevolazioni fiscali e finanziarie alle imprese pri vate, il sostegno al reddito attraverso i consumi pubblici e i trasferi

menti) sono tutte inutili e dannose e portano a profonde distorsioni sui meccanismi di mercato.

Un caso classico in cui è necessaria una deregolamentazione è il mercato del lavoro. La principale causa dei differenziali nei tassi di

disoccupazione e nei tassi di occupazione, specie per sesso, età e per regioni, è dovuta alla rigidità causata dalla «normativa e dalla giuri sprudenza del lavoro» che aggrava la disoccupazione strutturale au mentando il mismach settoriale e territoriale. «Queste, sebbene nelle intenzioni vogliano proteggere il contraente debole del mercato del lavoro [...] nei fatti si rivoltano proprio contro i più deboli perché ne abbassano la flessibilità, ne alzano i costi o ne riducono la produt tività» (ibid., p. 74). In altri termini sono ancora una volta i lavorato ri più protetti ad essere favoriti. Sarebbe quindi necessario restituire

maggiore flessibilità al mercato sia nel campo normativo che nel campo retributivo. Nel primo caso si dovrebbero eliminare tutte le norme

garantiste come per esempio quelle della tutela della maternità, le chia mate numeriche, i contratti a tempo indeterminato, i divieti di licen ziamento salvo giusta causa, i limiti sugli orari, ferie, festività, ecc. Nel secondo caso si tratterebbe di restituire al salario «il suo signifi cato allocativo di indicatore di scarsità» e in questo caso «non vi sa rebbe ragione di attendersi che, ceteris paribus, esso continuasse a ri manere uniforme fra le diverse regioni d'Italia, fra i sessi, o fra le età»

(Padoa Schioppa 1990, p. 131). Le conclusioni di Padoa Schioppa, di conseguenza, sono che la fi

scalizzazione degli oneri sociali non risolve alcunché in una situazio ne in cui i salari vengono tenuti uniformi, in quanto serve semplice mente a ripianare i differenziali di produttività. Inoltre le fiscalizza zioni «sono per il mercato variabili non controllabili, incerte e tem

poranee, rimanendo strumenti nelle mani della politica economica»

(Padoa Schioppa, 1988b, p. 75) e un costo enorme per la finanza pub blica. Solo il differenziale che il mercato attua sulle retribuzioni e il legame delle stesse all'andamento della produttività possono met tere in moto i meccanismi di riequilibrio territoriale e settoriale del mercato del lavoro (cfr. Padoa Schioppa 1990, pp. 131-33). Non me no inutili sono gli altri provvedimenti di sostegno ai redditi dei di

soccupati o degli occupati come, per esempio, la cassa integrazione

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Caroleo, La flessibilità salariale

E;uadagni, la quale è un vero e proprio regalo fatto alle imprese e ai

avoratori esclusivamente a spese dello Stato6, le pensioni di invali

dità, gli incentivi monetari e fiscali per l'occupazione, i minimi sala

riali, le indicizzazioni, ecc. Come si può intuire siamo nella tipica ipotesi di riequilibrio neo

classico7. In un mercato del lavoro in cui la domanda è funzione de crescente del salario reale (ovvero, in cui vale da parte dell'impresa la condizione della massimizzazione del profitto e dell'uso ottimo dei fattori produttivi in condizioni di concorrenza perfetta) e l'offer ta è funzione crescente del salario reale (ciò per effetto delle prefe renze degli individui nella scelta tra lavoro, o di partecipazione alla ricerca di un lavoro e per quante ore, e tempo libero), normalmente esiste un prezzo che eguaglia domanda e offerta di lavoro il quale de finisce anche il livello di piena occupazione — o della disoccupazio ne naturale —. Connesso alla visione neoclassica del potere riequili bratore dei mercati si associa anche l'assunto che opportune varia zioni del salario reale possono compensare gli eccessi di domanda e offerta del mercato, e questo è valido sia per l'economia nel suo ag gregato, sia in riferimento ad una sua ripartizione settoriale8, sia per categorie professionali, sia per i mercati del lavoro regionali.

Consideriamo, ad esempio, il caso particolare del riequilibrio re

gionale. Se uno shock esogeno — una riorganizzazione settoriale o una modifica nei prezzi delle materie prime, ecc. — modifica la pro duttività del lavoro di due regioni, in altri termini è possibile avere lo stesso volume di prodotto con una maggiore quantità di lavoro nella prima regione (per esempio nel Centro-Nord) e una minore quan tità di lavoro nella seconda (Mezzogiorno), il salario relativo si deve modificare per permettere un opportuno spostamento di occupazio ne dal Mezzogiorno al Centro-Nord al fine di ripristinare il medesi mo ammontare di occupazione di prima. Tale ragionamento è basa to sull'assunto che, se i salari cadono nelle industrie e le regioni con alta disoccupazione in relazione ai salari praticati nei mercati con re lativa bassa disoccupazione, questo dovrebbe indurre i lavoratori a muoversi nelle regioni e industrie con più alta domanda netta di la voro. Se non esiste flessibilità salariale, allora si verifica un certo am montare di disoccupazione. Infatti se i salari relativi non si modifica

6 Infatti la Cig «crea un incentivo per entrambe le parti sociali a mantenere alta la retri buzione oraria e basse le ore lavorate» (Padoa Schioppa 1988b, p. 109).

7 Questa posizione ha un autorevole predecessore in V. Lutz. Cfr. in particolare, Lutz 1960.

8 Cfr. anche Piacentini 1987.

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Il presente come storia

no, non vi è convenienza a spostarsi e, quindi, non è possibile au mentare la domanda di lavoro del Centro-Nord e la forza lavoro me ridionale liberata dalla ristrutturazione dovuta allo shock esogeno di venta disoccupata. Questa posizione inoltre è inefficiente in quanto vi è un potenziale produttivo che rimane inutilizzato.

Le conseguenze di tale ragionamento sembrano alquanto irreali stiche. Infatti il differenziale salariale che dovrebbe dare inizio al pro cesso di riequilibrio regionale comporta alcuni effetti non desiderati. In primo luogo, laddove i salari dovranno essere relativamente più bassi è difficile che l'occupazione sia più professionalizzata o, meglio, a parità di livelli professionali, non è pensabile che alcune persone accettino di restare in una regione a salari relativi più bassi a meno che non abbiano una produttività minore. D'altro canto, non è pos sibile che un imprenditore nella stessa regione accetti che il suo lavo ratore abbia una produttività marginale più bassa: ciò va contro il

principio secondo il quale la crescita economica richiede costanti au menti di produttività. E quindi probabile che il processo migratorio alla fine contribuisca a depauperare la regione con eccesso di lavoro dei lavoratori migliori e più produttivi non contribuendo a risolvere il problema della disoccupazione.

Giannola, infatti, a proposito della tesi che il differenziale salaria le possa risolvere la ripresa dei flussi migratori, afferma: «sembra scor retto invocare un dualismo salariale che là dove esiste si dimostra inef ficace rispetto alla crescita delle imprese. Se il disoccupato meridio nale oggi è in grado di resistere alle spinte migratorie ciò non è per le aspettative su un livello salariale che egli sa benissimo che non riu scirà a percepire, o per un qualche sistema esplicito di assistenza ai

disoccupati, bensì per l'esistenza di un sistema di trasferimenti a so

stegno dei redditi (che non necessariamente lo beneficiano diretta

mente). In altre parole l'argomento del reservation wage presume che la disoccupazione sia sostanzialmente volontaria, a causa di aspettati ve o informazioni errate e non abbia carattere strutturale» (Gianno la 1989, p. 22).

In ultima analisi la tesi di Padoa Schioppa presuppone l'equilibrio di lungo periodo del mercato del lavoro dove la disoccupazione è es senzialmente volontaria e le rigidità salariali portano ad aumentare la disoccupazione strutturale, così come appunto è inteso dall'eco nomia neoclassica. L'irrealisticità e le incongruenze di questo modo di pensare si possono sintetizzare nel fatto che le deficienze struttu rali dovute alla segmentazione del mercato del lavoro sono pensate come la causa della disoccupazione di massa e che, quindi, essa è eli

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Caroleo, La flessibilità salriale

minabile con l'abbattimento di tali barriere. La causa della disoccu

pazione del Mezzogiorno in realtà va ricercata nello scarso sviluppo economico e i problemi derivanti dalla disoccupazione strutturale han no valenza solamente sulle politiche del lavoro in quanto costitui scono il maggiore ostacolo alla cura della disoccupazione.

8. Il salano di «accettazione» e l'offerta di lavoro.

Una posizione che si riferisce al salario di «accettazione», ovvero al salario che regola l'accesso al lavoro degli outsiders, è quella di Bru netta e Tronti1. Le tesi dei due Autori si distinguono dalle prece denti per il fatto che non forniscono argomentazioni a favore di una relazione funzionale tra variazione del salario di accettazione e varia zione della disoccupazione meridionale se non per una sua piccola quota.

Secondo i due Autori, quello che è avvenuto nel Mezzogiorno, dopo decenni di interventi straordinari, di trasferimenti pubblici in una si tuazione di diffusa illegalità e di non rispetto delle regole civili, è at tribuibile al fatto che si è determinato un salario di accettazione che

può essere riferito a due diversi modelli comportamentali di chi si offre sul mercato del lavoro. «Un modello urbano ricco, in cui i tra sferimenti facili, il peso del "settore pubblico" clientelare, il più bas so livello dei prezzi, l'evasione fiscale e contributiva, l'assistenziali smo facile ecc., portano ad un salario di riserva (di accettazione) rela tivamente alto, per cui i giovani disoccupati "urbani ricchi" ad alta scolarizzazione possono aspettare di più in condizioni di non lavoro

(ufficiale), possono alzare qualitativamente la soglia di accettazione del lavoro appoggiandosi sul sistema familiare di reddito e/o usando la scuola e l'Università come parcheggio» (Brunetta, Tronti 1990, p. 3). In questo caso è possibile parlare di disoccupazione volontaria.

«All'opposto [...] si colloca un modello salariale marginale povero (tanto urbano che rurale interno), in cui carenza di domanda di lavo

ro, assistenzialismo, frequenti abbandoni scolastici e comunque bas sa scolarità e formazione, disgregazione familiare, scarsa qualità dei servizi pubblici, lavoro nero e irregolare, illegalità diffusa, determi nano un salario di accettazione notevolmente più basso della media, con impossibilità di aspettare il lavoro "buono" in condizione di di

1 Cfr. Brunetta, Tronti 1990.

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Il presente come storia

soccupazione esplicita e prolungata, e con una debole resistenza alla domanda di attività illegali (a vario livello)» {ibid.). In questo caso2 la disoccupazione è largamente involontaria.

Nella descrizione dei due modelli salariali il salario di accettazio ne non è visto esclusivamente come l'indicatore di riequilibrio del mercato ma esso «non è altro che una metafora economicista dell'or

ganizzazione della società» {ibid.). E in quest'ottica, specie nel secon do schema largamente prevalente nel Mezzogiorno, troviamo che il

salario d'ingresso non è troppo elevato ma al contrario è troppo bas

so. In questo caso la larga diffusione del lavoro irregolare comporta che i vari segmenti salariali che regolano tale tipo di disoccupati so no nettamente inferiori a quelli contrattuali senza che ciò implichi «il problema dello spiazzamento e/o della fungibilità tra i diversi seg menti» {ibid.). Per questo dal lato delle imprese meridionali vi è già uno svantaggio contributivo molto elevato in tutti i settori rispetto al Centro-Nord. È quindi sbagliato riproporre, come fanno gli stu diosi della Banca d'Italia e Padoa Schioppa, una maggiore differen ziazione salariale. Ciò non contribuirebbe a incentivare le imprese a far riemergere nella legalità quella occupazione che nei bassi salari trova il modo di riprodursi.

L'unico circolo virtuoso che può rompere tali meccanismi è una

strategia che si ponga l'obiettivo di accrescere la produttività «(e per

questa via, di crescita dei salari e dell'occupazione), anziché di appro fondimento dei differenziali salariali» {ibid.). Infine la crescita della

produttività è, per i due Autori, piuttosto un obiettivo di lungo pe riodo, relativo più ad un concetto di produttività sociale (sviluppo delle infrastrutture, del capitale umano, scuola, formazione profes sionale, ecc.)3.

9. Priorità.

In conclusione, le tesi qui citate, eccetto l'ultima, hanno la comu

ne caratteristica di dare, pur aderendo a teorie diverse, una valutazio

ne positiva sulla capacità della flessibilità del salario di riequilibrare il mercato del lavoro in generale e di quello meridionale in particola re. Tutte concordano infatti nell'affermare che le politiche di mag

2 A questa situazione si può associare anche la condizione dei lavoratori stranieri i quali stanno crescendo enormemente in questi anni.

3 Cfr. Brunetta, Tronti 1990.

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Caroleo, La flessibilità salariale

giore flessibilità salariale, incentivate direttamente dallo Stato o la sciate alla libera contrattazione di mercato, possono indurre sia ad una diminuzione dell'offerta di lavoro sia ad una maggiore domanda di lavoro.

Volendo dare una esposizione sintetica delle teorie cui si ispirano queste posizioni possiamo individuare tre modelli interpretativi ap plicati alla realtà meridionale. Vi è chi, come Padoa Schioppa, crede che il sistema economico nel suo complesso si muova verso un tasso naturale di disoccupazione ed in questo caso le rigidità istituzionali del mercato del lavoro, esistenti in varia misura più al Mezzogiorno che al Centro-Nord, impediscono il riequilibrio sia nel breve sia nel medio periodo e perpetuano i differenziali di disoccupazione. Que sta posizione è condivisa da molti studiosi aderenti sia alle più recen ti teorie neoclassiche sia alla scuola keynesiana. In particolare vi so no coloro che, rientrando nel filone interpretativo della «curva di Phil

lips di breve periodo», pensano che in fondo la flessibilità salariale

permetta il risultato neoclassico mentre i punti di disaccordo consi stono nei meccanismi di riequilibrio rispetto a shocks esogeni che mo dificano i prezzi relativi. In altri termini, il problema viene ricondot to al valore dei coefficienti della curva o, come affermato dal Bodo e Sestito, nella specificazione funzionale.

Una posizione diversa, in qualche modo riconducibile a Salvati, è quella secondo cui la disoccupazione odierna può in parte essere dovuta a deficienza di domanda e ciò in sintonia anche con quanti hanno mostrato che la notevole crescita della disoccupazione euro

pea degli anni ottanta è dovuta essenzialmente alle politiche moneta rie e fiscali fortemente recessive attuate per far fronte alla soluzione dell'inflazione1.

La tesi possibilista consiste nel credere che l'espansione della do manda monetaria non ha effetti sull'output reale se non nel breve pe riodo e questo dipende o dall'esistenza di illusione monetaria da par te dei salariati o dai vincoli imposti da un'economia aperta a^li

scam bi con l'estero. Un incremento nella domanda aggregata può quindi aumentare permanentemente la produzione e l'occupazione solo se, o fino a quando, i salariati accettano una riduzione del loro salario reale2 oppure attuando continue politiche di svalutazione della mo neta. L'alternativa possibile, dati questi vincoli, è che la disoccupa

1 Valga per tutti Layard e al. 1984.

2 Vale la pena ricordare (cfr. anche Salvati 1988 e Sylos Labini 1989) che queste ipotesi in realtà implicano una visione microeconomica di tipo marshalliana, ovvero con uno stock di

capitale utilizzato nel breve periodo dato.

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Il presente come storia

zione da deficienza di domanda sia ridotta mediante una politica dei redditi che porti a una riduzione del salario reale ovvero, in termini

dinamici, mediante una crescita dei salari nominali al di sotto del tas so di inflazione. L'idea è che una redistribuzione a favore dei profitti favorisca alla lunga gli investimenti e quindi l'occupazione.

Dall'altro lato vi sono coloro, come Sylos Labini, i quali per spie gare l'attuale disoccupazione si rifanno alla tesi degli economisti classici

per cui, a causa della bassa produttività, possono coesistere contem

poraneamente un eccesso di domanda sul mercato dei beni, non com

pensato da un aumento della produzione, e un eccesso di offerta sul mercato del lavoro. Le rigidità salariali, in questo caso, impediscono che il meccanismo virtuoso, che va dall'introduzione di nuove tec

nologie, all'aumento della produttività e alla maggiore capacità di svi

luppo del sistema, si metta in moto. In questo filone possono essere collocati anche coloro, come Siracusano, Tresoldi e Zen, che tenta no di dimostrare che una maggiore flessibilità salariale — mediante una politica di incentivi all'occupazione — aiuta l'accumulazione delle

imprese e quindi la maggiore occupazione più di altri tipi di incenti vi (finanziari o fiscali). In tale dibattito la posizione (possibilista o

meno) si incentra essenzialmente sul ruolo del costo del lavoro come

fattore di accumulazione. Chi è favorevole ammette la positività del costo del lavoro sullo sviluppo dell'imprenditoria specie quella mi

nore, mentre coloro che sono contrari, come Giannola e Del Mon

te, affermano che le riduzioni del costo del lavoro non influenzano le decisioni delle imprese ma tutt'al più ne aumentano i profitti.

Una posizione alternativa, poco sviluppata nel dibattito sul Mez

zogiorno, è che i prezzi — specie il salario — sono determinati esoge namente e non dipendono da variazioni della domanda monetaria. In presenza di capacità produttiva inutilizzata, quindi, l'offerta può espandersi senza che i prezzi salgano e l'offerta di lavoro inutilizzata è disponibile subito a lavorare senza che i salari reali debbano ridur si. Inoltre una diminuzione del salario reale può avere effetti depres sivi sull'occupazione per effetto della riduzione del consumo com

plessivo specie se, come affermato da Brunetta e Tronti, il salario d'in

gresso nel Mezzogiorno è già molto basso. Il fatto che le politiche reflazionistiche siano state più deleterie per le regioni più arretrate come quelle meridionali — in questo caso infatti vi è stato un ribalta mento nella priorità degli obiettivi per cui lo sviluppo economico è stata assoggettato al vincolo dell'inflazione5 — e la considerazione

3 Basti ricordare come, in questo decennio, vi sia stato il blocco completo dell'intervento straordinario per il Mezzogiorno e la caduta della quota degli investimenti destinati in questa area.

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Caroleo, La flessibilità salariale

che nel Mezzogiorno vi sono ancora ampi spazi per politiche di svi

luppo e di investimenti, ci inducono a pensare che la posizione pos sibilista in questo caso sia di corto respiro, nonché un modo molto indiretto e dagli effetti incerti, per risolvere il problema.

Tutte le posizioni possibiliste comunque pongono in genere il pro blema delle compatibilità o con la bilancia dei pagamenti o con la crescita del deficit pubblico. E indubbio tuttavia che tale logica met ta lo sviluppo del Mezzogiorno in subordine rispetto agli altri obiet tivi della politica economica e ammetta l'impossibilità di politiche mirate allo sviluppo territoriale che non siano congruenti con la si tuazione economica nazionale. Vinci, invece, afferma che «in primo luogo mi pare debba essere sottolineata l'esigenza che lo sviluppo del

Mezzogiorno debba diventare il problema centrale della politica eco

nomica, nel senso che ad esso deve essere indirizzata non una politi ca territoriale (quale è il cosiddetto intervento straordinario a favore del Mezzogiorno). Questa proposizione non deve essere vista come una mera affermazione di principio [...] ma come criterio ispiratore dell'intera politica nazionale, al cui rispetto devono essere piegate —

ove necessario — le altre esigenze con l'accettazione dei vincoli, di vieti e disincentivi di vario genere» (Vinci 1989, p. 21). E solo in que st'ottica di ribaltamento delle priorità che si può accettare il fatto che il salario nel Mezzogiorno non sia una variabile endogena al mercato del lavoro bensì largamente esogena' e che, quindi, i problemi da af frontare sono più in termini di fattori dell'accumulazione che di fles sibilità dei prezzi. In questo caso la giusta dimensione delle politiche per la flessibilità nel mercato del lavoro è quella di essere di accom

pagnamento e supporto alle politiche di sviluppo.

Aa.Vv. 1989, La politica economica e la modellistica macroeconometrica nel caso italiano, Cespe Papers, nn. 1-2.

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mica», n. speciale.

4 «Nel caso italiano e con riferimento al Mezzogiorno si può senz'altro affermare che il salario viene fissato da una contrattazione nazionale tra le confederazioni sindacali e le orga nizzazioni dei datori di lavoro [...] In altri termini il salario fissato su basi nazionali in molti casi deve essere considerato come "esogeno" per il mercato del lavoro meridionale» e quindi «non deriva da una equazione che equilibra il mercato del lavoro» (Vinci 1989, p. 2l).

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Il presente come storia

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