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μIL 31 MAGGIO 2013, Anna chiama Antonella po-co prima di mezzanotte per dirle di non usci-re di casa. La conversazione si interrompe per il rumore fortissimo di spari in strada, nei pressi di via Sant’Arcangelo a Baiano,

pieno centro storico di Napoli, zona universitaria, a due passi da via dei Tribunali e dai luoghi del turismo. A po-che centinaia di metri da lì hanno sfilato gli abiti di Dolce e Gabbana.

Il mattino dopo, prestissimo, alle 5.40 Antonella sente al telefono un’altra donna, Angela, che abita a vico Car-bonari, prolungamento di via Sant’Arcangelo a Baiano. Anche Angela ha sentito gli spari. Parlano proprio di quello:

Angela: $PNVORVF�NJ�TPOP�TDJPDDBUB�TUBTFSB�Antonella: 2VJ�NJ�TFNCSB�JM�'BS�8FTU��.J�IBOOP�EFUUP�

DIF�TUBOOP�UVUUJ�(incomprensibile), QVSF�J�CJNCJ����QVSF���Angela: .B�Ò�VOB�QBSBO[B�OVPWB Antonella spiega ad Angela che a Forcella c’è una nuo-

va paranza dove ci sono «pure i bimbi». Queste intercettazioni telefoniche sono presenti nelle

oltre 1.600 pagine dell’ordinanza cautelare emessa dal Gip di Napoli, nell’ambito dell’inchiesta sulla “Paranza dei bambini” (condotta dai pm della Dda Henry John Woodcock e Francesco De Falco), che ha portato a 43 con-danne, quasi tutte nei confronti di giovanissimi.

Nel gergo camorristico “paranza” significa gruppo cri-

minale, ma il termine ha origini marinaresche e indica le piccole imbarcazioni per la pesca che, in coppia, tirano le reti nei fondali bassi, dove si pescano soprattutto pesci pic-coli per la frittura di paranza. L’espressione “paranza dei bambini” indica la batteria di fuoco, ma restituisce anche con una certa fedeltà l’immagine di pesci talmente piccoli da poter essere cucinati solo fritti: piscitiell’, proprio come questi ragazzini. 1987, 1989, 1991, 1993, 1985, 1988, 1995, 1994: queste le date di nascita dei ragazzi della pa-ranza. “Ciro Ciro”, “’o Rerill”, “’o Pop”, “’o Russ”, “’Nzala-tella”, “Recchiolone” i loro soprannomi. Studiare la paran-za dei bambini significa tratteggiare la nuova forma che la camorra napoletana ha assunto: barbe lunghe e corpi completamente tatuati, ma giovanissimi.

Queste storie, tra doglie, sforzi, lacrime e muscolose spinte di rabbia, diventeranno il mio prossimo romanzo (questa volta di fiction e non più non-fiction). Si intitole-rà -B�QBSBO[B�EFJ�CBNCJOJ�e uscirà a dicembre per Feltri-nelli. Qui, oggi, trovate una anticipazione il cui titolo è "EEB�NVSJ��NBNNË, espressione che a Napoli i ragazzi usano di continuo per giurare che ciò che stanno dicendo è vero. Espressione che descrive meglio di molte altre lo spirito della paranza, pronta al sacrificio estremo — per-dere la propria madre — per affrontare ciò che nel resto d’Italia sarebbe impensabile. Pronta a perdere tutto, li-bertà, affetti, vita. Per comandare.

>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE

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"EEBNVSJ��NBNNË

j%OBBIAMO COSTRUIRE UNA PARANZA TUTTA NOSTRA. Nun amma appartene’ a nisciuno, sule a nuje. Non dobbiamo stare sotto a niente».

Tutti guardavano Nicolas in silenzio. Aspettava-no di capire come avrebbero potuto emanciparsi senza mezzi, senza un cazzo. Nemmeno votare po-tevano, erano in pochi ad aver compiuto diciott’an-ni. Patenti manco a parlarne, sì e no qualche paten-tino per i 125.

Bambini li chiamavano e bambini erano vera-mente. E come chi ancora non ha iniziato a vivere, non avevano paura di niente, consideravano i vec-

chi già morti, già seppelliti, già finiti. L’unica arma che avevano era la ferinità che i cuccioli d’uomo ancora conservano. Animaletti che agiscono d’istinto. Mostrano i denti e ringhiano, tanto basta a far cacare sotto chi gli sta di fronte.

Diventare mostruosi, solo così chi ancora incuteva timore e rispetto li avrebbe presi in considera-zione. Bambini sì, ma con le palle. Creare scompiglio e regnare su quello: disordine e caos per un re-gno senza coordinate.

«Se creren’ca simm’ creature, ma nuje tenimm’ chest’… e tenimm’ pur’ chest’».E con la mano destra Nicolas prese la pistola che teneva nei pantaloni. Uncinò il ponticello con l’in-

dice e iniziò a far roteare l’arma come se non pesasse niente mentre con la sinistra indicava il pacco, il cazzo, le palle. Tenimm’ chest’ e chest’: armi e palle, era il concetto.

«Nicolas…». Agostino lo interruppe, qualcuno doveva farlo, Nicolas se l’aspettava. L’aspettava co-me il bacio che avrebbe fatto identificare Cristo ai soldati. Aveva bisogno che qualcuno si prendesse il dubbio e la colpa di pensare: un capro espiatorio, perché fosse chiaro che non c’era scelta, che non si poteva decidere se essere dentro o fuori. La paranza doveva respirare all’unisono e il respiro sul quale tutti dovevano calibrare la propria necessità di ossigeno era il suo.

«…Nico’, ma non s’è mai visto che facciamo da soli una paranza, così, da subito. Adda muri’ mam-mà, Nico’, dobbiamo chiedere il permesso. Proprio mo’ che alla Sanità la gente pensa ca nun ce sta cchiù nisciun’, se ci sappiamo fare ci danno una piazza, fatichiamo per loro».

«Agosti’, è gente come a te che non voglio, la gente come te se ne deve andare mo’ mo’…».«Nico’, forse non mi sono spiegato, sto solo dicendo che…».«Aggio capit’ buon’, Austi’, staje parlann’malament’».Nicolas si avvicinò, tirò su col naso e gli sputò in faccia. Agostino non era un cacasotto e provò a rea-

gire, ma mentre stava caricando la testa in direzione del setto nasale, Nicolas lo prevenne e si scostò. Si guardarono negli occhi. E poi basta, finito il teatro. A quel punto Nicolas continuò.

«Agosti’, io non voglio gente con la paura, la paura non deve venire nemmeno in mente. Se ti vie-ne il dubbio, allora per me non sei più buono».

Agostino sapeva di aver detto ciò che tutti temevano, non era l’unico a pensare che bisognasse tro-

vare un’interlocuzione con i vecchi capi e quella sputata in faccia più che un’umiliazione fu un av-vertimento. Un avvertimento per tutti.

«Mo’ te ne devi andare, tu nella paranza non ci puoi stare più».

«Siete solo una vrancata di merdilli», disse Agostino, paonazzo.

Enzuccio ’o Rentill’si intromise, e cercò di pla-carlo.

«Austi’, va vattenne, che ti fai male…».Agostino non aveva mai tradito eppure, come

tutti i Giuda, fu strumento utile per accelerare il compimento di un destino: prima di uscire dalla stanza regalò inconsapevolmente a Nicolas ciò di cui aveva bisogno per compattare la paranza.

«E vuje vulesseve fa ’a paranz’ cu’ tre cur-tiell’e doje scacciacani?»

«Cu’ ’sti tre curtiell’t’arapimm’ sano sano». Esplose Nicolas.

Agostino alzò il dito medio e lo fece roteare in faccia a quelli che un momento prima sentiva sangue del suo sangue. A Nicolas dispiaceva la-sciarlo andare: non si butta via così una persona di cui conosci ogni giorno, ogni fratcucin’, ogni zio. Agostino era con lui allo stadio, sempre, al San Paolo e in trasferta. Un brò lo devi tenere vi-cino, ma era andata così e cacciarlo serviva. Ser-viva una spugna che assorbisse tutte le paure del gruppo. Appena Agostino ebbe sbattuta la porta, Nicolas continuò.

«Frate’, ’o cacasott’ ten’ragione… Non la pos-

siamo fare la paranza con tre coltelli da cucina e due scacciacani».

E quelli che un attimo prima erano pronti a combattere con le poche lame e i ferri vecchi che avevano, perché Nicolas li aveva benedetti, do-po l’autorizzazione al dubbio confermarono tut-ti la delusione: sognavano santebarbare ed era-no ridotti a maneggiare giocattoli che nasconde-vano in cameretta.

«La soluzione ce l’ho», disse Nicolas, «o m’acci-reno oppure torno a casa cu’ ’n arsenale. E se que-sto succede, qua adda cagna’ tutte cose: con le ar-mi arrivano pure le regole, perché adda muri’ mammà, senza regole simm’ sule piscitiell’’e vrachetta».

«Le teniamo le regole, Nico’, siamo tutti fratel-li».

«I fratelli senza giuramento non sono niente. E i giuramenti si fanno sulle cose che contano. L’avete visto *M�DBNPSSJTUB, no? Quando ’o Pru-fessor’ fa il giuramento in carcere. Veritavell’, sta ’ncopp a YouTube: noi dobbiamo essere così, una cosa sola. Ci dobbiamo battezzare coi ferri e colle catene. Amma essere sentinelle di omertà. È tropp’ bell guagliu’, veritavell’. Il pane, che se uno tradisce diventa piombo e il vino ca addi-vent’ veleno. E poi ci deve uscire il sangue, am-ma ammisca’ ’e sang’ nuoste e non dobbiamo te-nere paura di niente».

Mentre parlava di valori e giuramenti, Nico-las aveva in mente una cosa sola, una cosa che

gli creava disagio e gli svuotava l’addome. Le pal-le, se davvero ce le aveva ancora, dopo quella sto-ria, una storia di niente, se le poteva appendere al collo come cravatta al prossimo sposalizio.

Faceva caldo e c’era la partita, giocava l’Italia, ma lui tifava contro, perché lui e i compagni suoi non si sentivano italiani e per la partita avevano strafottenza. Tenevano una cosa da fare e pure urgente. Erano in sei su tre scooter. Il suo lo gui-dava Enzuccio ’o Rentill’, gli altri due sfrecciava-no dietro. Dal Moiariello era una strada sola in di-scesa. Vicoli stretti stretti — “il presepe”, lo chia-ma la gente che ci vive.

Se passi di là fai prima e per piazza Bellini, marciapiede marciapiede, eviti traffico e sensi unici, ci metti un attimo.

A piazza Bellini c’era il contatto con l’Arcange-lo e Nicolas doveva fare presto. È vero, si sentiva un padreterno, ma quel contatto gli serviva. E quella non è gente che aspetta. Dieci minuti e do-veva stare là.

L’ultimo tratto di via Foria, prima di arrivare al Museo, i tre scooter lo percorsero su marcia-piedi larghi e illuminati, zigzagando a clacson spiegati. Chi li guida a Napoli è un Minotauro: metà uomo e metà ruote. Si sorpassa ovunque, non c’è sbarramento o isola pedonale. Per loro valgono le regole dei pedoni e nessun’altra. Que-sta volta avrebbero potuto anche andare per strada, perché in giro non c’era anima viva e quei pochi che non si erano organizzati per la partita stavano fermi davanti agli schermi che a Napoli si trovano a ogni pizzo. Di tanto in tanto, se sentivano esultare, fermavano gli scooter e chiedevano il risultato. L’Italia era in vantaggio. Nicolas imprecò.

Via Costantinopoli la imboccarono controma-no. Salirono sui marciapiedi che questa volta era-no stretti e bui e qui c’era più gente. Ragazzi, per lo più universitari e qualche turista. Stavano an-dando anche loro, ma con maggiore calma, a piazza Bellini, a Port’Alba, a piazza Dante, dove c’erano locali con televisori in strada. Andavano troppo veloci e non videro due passeggini fermi sul marciapiede, accanto adulti seduti al tavoli-no di un bar.

Il primo scooter a frenare non ci provò nemme-no, il manico del passeggino più esterno arpionò lo specchietto dello scooter e il passeggino iniziò a muoversi veloce finché non si staccò, cadde di lato, sembrava come planare sul ghiaccio. Si fer-mò solo quando arrivò al muro: l’impatto fece un rumore sordo. Un rumore di sangue, di carne bianca e pannolini. Di capelli appena cresciuti, disordinati. Un rumore di ninnananne e notti in-sonni. Dopo un attimo si sentì il bambino piange-re e la madre urlare. Non si era fatto niente, solo spavento. Il padre invece era impietrito, immobi-le. In piedi, guardava i ragazzi che nel frattempo avevano parcheggiato gli scooter e se ne stava-no andando via con calma. Non si erano fermati. E nemmeno erano fuggiti in preda al panico. No. Avevano parcheggiato e si erano allontanati a piedi, come se tutto ciò che era accaduto rien-trasse nella normale vita di quel territorio, che appartiene a loro e a nessun altro. Calpestare, ur-tare, correre. Veloci, strafottenti, maleducati, violenti. Così è e non c’è altro modo di essere. Ni-colas però sentiva il cuore pompare sangue all’impazzata. Non era cazzimma la sua, ma cal-colo: quell’incidente non doveva modificare il lo-ro percorso. C’erano due macchine della polizia — da un lato e dall’altro di via Costantinopoli — ferme proprio dove i ragazzi avevano parcheg-giato. I poliziotti, quattro in tutto, stavano ascol-tando la partita alla radio e non si erano accorti di nulla. Erano a pochi metri dall’incidente ma quelle urla non li avevano strappati alle loro mac-chine. Cosa avranno pensato? A Napoli si urla sempre, a Napoli urla chiunque. Oppure: meglio stare alla larga, siamo pochi e qui non abbiamo alcuna autorità.

Nicolas non diceva niente e mentre con lo sguardo cercava il suo contatto, pensava che ave-vano rischiato di farsi male, che a quel passeggi-no un calcio dovevano dare e non portarselo ap-presso per dieci metri. A Napoli tutto era loro e i marciapiedi servivano, la gente questo lo dove-va capire.

Eccolo il suo contatto con don Vittorio Grimal-di, cappello in testa e spinello in bocca. Si avvici-nava lento, non si tolse il cappello e non sputò lo spinello: trattò Nicolas come il ragazzino che era e non come il capo che fantasticava di essere.

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«L’Arcangelo ha deciso che puoi andarlo a pre-gare. Ma per entrare nella cappella bisogna se-guire bene le indicazioni».

Indicazioni in codice che Nicolas seppe deci-frare. Il boss l’avrebbe ricevuto a casa sua, ma che non gli venisse in mente di passare dall’en-trata principale perché lui, don Vittorio, era agli arresti domiciliari e non poteva incontrare nes-suno. Le telecamere dei carabinieri non si vede-vano ma c’erano, ficcate nel cemento, da qual-che parte. Ma non erano quelle che Nicolas dove-va temere, piuttosto gli occhi dei Colella. Il con-tatto di piazza Bellini fu chiaro: «Se ti vedono i Co-lella, tu diventi un Grimaldi. E le botte che butta-no su di noi, le buttano pure su di te. Punto. L’Ar-cangelo vuole che stai avvisato, poi fai tu».

La verità era un’altra: Nicolas e il suo gruppo erano delle teste di cazzo e i Grimaldi non voleva-no che, per colpa loro, i sospetti di inquirenti e ri-vali si concentrassero sull’Arcangelo che era già pieno di guai.

L’appartamento di don Vittorio, detto l’Arcan-gelo, era a San Giovanni a Teduccio. In via Sor-rento, in un palazzone ocra con ferri alle fine-stre. San Giovanni ha le dimensioni di un paese e venticinquemila abitanti, ma è un quartiere di Napoli, un quartiere della periferia orientale. Una strada con case basse, paesane e qualche pa-rallelepipedo. È tutto giallino a San Giovanni, pu-re il mare.

Nicolas arrivò in scooter, tanto non era famo-so come avrebbe voluto e lì, lontano da casa sua, nessuno dei guaglioni di Sistema lo conosceva. Di nome forse, ma la sua faccia poteva passare inosservata. Vedendolo, avrebbero pensato che era lì per comprare del fumo, e infatti si accostò col motorino ad alcuni ragazzi e subito fu accon-tentato:

«Quant’ ’e ave’?».«Cient’ eur’».«Azz’, buon’. Ramm’ ’e sord’».Qualche minuto dopo il fumo era sotto il suo

culo, sotto il sellino. Fece un giro e poi parcheg-giò. Mise un lucchetto vistoso e andò a passo len-to verso la casa dell’Arcangelo. I suoi movimenti erano chiari, decisi. Niente mani in tasca, gli pru-deva la testa, stava sudando, ma lasciò perdere. Non s’è mai visto un capo grattarsi in un momen-to solenne. Citofonò all’appartamento sotto quello di don Vittorio, come da indicazioni. Ri-sposero. Pronunciò il suo nome, ne scandì ogni sillaba.

«Professore’, sono Nicolas Fiorillo, aprite?».«Aperto?».«No!».In realtà era aperto ma voleva prendere tem-

po.«Spingi forte che si apre».«Sì, sì. Ora si è aperto».Rita Cicatello era una vecchia professoressa

in pensione che dava ripetizioni private a prezzi che qualcuno definirebbe sociali. Andavano da lei tutti gli allievi dei professori amici suoi. Se an-davano a ripetizione da lei e da suo marito, veni-vano promossi, altrimenti piovevano i debiti e poi da lei ci dovevano andare lo stesso, ma d’esta-te.

Nicolas raggiunse il pianerottolo della profes-soressa. Entrò con tutta calma, come uno studen-te che non avesse voglia di sottoporsi all’ennesi-mo supplizio; in realtà voleva essere certo che la telecamera piazzata lì dai carabinieri riprendes-se tutto. Come un occhio umano, la considerava capace di battere le palpebre e quindi ogni suo gesto doveva essere lento, che restasse impres-so. La telecamera dei carabinieri, che sarebbe servita anche ai Colella, doveva vedere questo: Nicolas Fiorillo che entrava dalla professoressa Cicatello. E basta.

La signora aprì la porta. Aveva un mantesino che la proteggeva dagli schizzi di salsa e olio. Nel-la piccola casa c’erano tanti ragazzi, maschi e femmine, in tutto una decina, seduti alla stessa tavola da pranzo rotonda, con i libri di testo aper-ti, ma con la testa nell’iPhone. A loro piaceva la professoressa Cicatello perché non faceva come tutte le altre, che prima di iniziare la lezione se-questravano i cellulari, costringendoli poi a in-ventare scuse fantasiose — mio nonno è in sala operatoria, mia madre se non rispondo dopo die-ci minuti chiama la polizia — per poterli guarda-re, ché magari era arrivato un messaggio su WhatsApp o qualche like su Facebook. La profes-soressa glieli lasciava in mano e la lezione nem-

meno la faceva, se li teneva in casa davanti a un tablet — regalo del figlio per l’ultimo Natale — collegato a un piccolo amplificatore da cui usci-va la voce di lei che parlava di Manzoni, del Risor-gimento, di Dante. Tutto dipendeva da cosa do-vessero studiare i ragazzi; la professoressa Cica-tello, nei tempi morti, preregistrava le lezioni e poi si limitava a urlare di tanto in tanto: «Basta cu’ ’sti telefonini e ascoltate la lezione». Nel frat-tempo cucinava, riordinava casa, faceva lunghe telefonate da un vecchio telefono fisso. Tornava per correggere i compiti di italiano e geografia, mentre suo marito correggeva quelli di matema-tica.

Nicolas entrò, biascicò un saluto generale, i ra-gazzi nemmeno lo degnarono di uno sguardo. Aprì la porta di vetro e la varcò. I ragazzi vedeva-no spesso entrare e uscire gente che spariva, do-po un rapido saluto, dietro la porta della cucina. La vita oltre quella porta era loro sconosciuta e, siccome il bagno era sul lato opposto, della casa della professoressa conoscevano solo la stanza del tablet e il cesso. Sul resto non facevano do-mande, non era il caso di essere curiosi.

Nella stanza del tablet c’era anche il marito, sempre dinanzi a un televisore e sempre con una coperta sulle ginocchia. Anche d’estate. I ra-gazzi lo raggiungevano sulla poltrona per portar-gli i compiti di matematica. Lui con una penna rossa che teneva nel taschino della camicia li cor-reggeva, punendo la loro ignoranza. Bofonchiò verso Nicolas qualcosa che doveva somigliare a un «Buongiorno».

Alla fine della cucina c’era una scaletta. La pro-fessoressa senza fiatare indicò verso l’alto. Una piccola e artigianale opera in muratura aveva realizzato un foro che collegava il piano di sotto al piano di sopra. Così, semplicemente, chi non poteva raggiungere don Vittorio dalla porta principale, andava dalla professoressa. Arrivato all’ultimo piolo, Nicolas batté il pugno un paio di volte sulla botola. Era lui stesso, don Vittorio, che quando sentiva i colpi si chinava lasciando che dalla sua bocca uscisse un gorgoglio di fatica che veniva dritto dalla spina dorsale. Nicolas era emozionato, don Vittorio non l’aveva mai incon-trato di persona, ma visto solo sui giornali delle capuzzelle — così si chiamano in gergo quei gior-nali locali che pubblicano tutti i giorni le foto se-gnaletiche dei camorristi della zona. Quelli arre-stati, quelli condannati, i latitanti e i morti ucci-si. Vederlo da vicino non gli fece l’effetto che ave-va creduto. Era più vecchio rispetto alla foto che conosceva, che risaliva al primo arresto. L’aveva visto poi al processo, ma da lontano. Don Vitto-rio lo lasciò entrare e con lo stesso gorgoglio di schiena richiuse la botola. Non gli strinse la ma-no, ma gli fece strada.

«Vieni, vieni…» disse solo, entrando nella sala da pranzo dove c’era un enorme tavolo d’ebano che in quella geometria assurda riusciva a perde-re tutta la sua cupa eleganza per diventare un monolite vistoso e pacchiano. Don Vittorio si se-dette alla destra del capotavola. La casa era pie-na di vetrinette con dentro ceramiche d’ogni ti-po. Le porcellane di Capodimonte dovevano esse-re la passione della moglie di don Vittorio, di cui però in casa non c’era traccia. La dama col cane, il cacciatore, lo zampognaro: i classici di sempre. Gli occhi di Nicolas rimbalzavano da una parete all’altra, tutto voleva memorizzare; voleva vede-re come campava l’Arcangelo e quello che vede-va non gli piaceva. Non sapeva dire esattamente perché provasse disagio, ma certo non gli sem-brava la casa di un capo. C’era qualcosa che non tornava: non poteva essere, la sua missione in quel fortino, cosa tanto banale, scontata, facile. Un televisore a schermo piatto circondato da una cornice color legno e due persone con indos-so pantaloncini del Napoli: in casa sembrava es-serci solo questo. Non salutarono Nicolas, aspet-tando un cenno di don Vittorio che, presa posizio-ne, indice e medio uniti come a scacciare tafani, fece loro un segno che inequivocabilmente inter-pretarono come “jatevenne”. I due si spostarono e passò poco che, da un’altra stanza, si sentì arri-vare la voce gracchiante di un attore comico — doveva esserci un altro televisore — e poi risate.

«Spogliati» ordinò l’Arcangelo.'JOF�EFMMB�QSJNB�QBSUF���-B�TFDPOEB�F�VMUJNB�TBSË�QVCCMJDBUB�EPNFOJDB�QSPTTJNB ���BHPTUPª������3PCFSUP�4BWJBOP��"MM�SJHIUT�SFTFSWFE

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0RA CHE MI HANNO RUBATO anche Istanbul, cit-tà che ho amato più di ogni altra, capolinea di tanti miei libri e prima grande scorriban-da estiva per questo giornale (era il 2001), non posso eludere una domanda. Ha anco-ra senso viaggiare? Questione legittima, vi-sto che ovunque si riformano muri e retico-lati, e vecchi fantasmi tornano a galoppare per l’Europa. Non è solo che il mio mondo si è ristretto e viaggiare è diventato pericolo-so. Non è nemmeno che Iraq, Afghanistan, Libia e Siria — terre amatissime — sono sta-ti ridotti in macerie. È che nulla, ovunque, è più come prima e quasi niente di ciò che ho visto in quella prima avventura esiste ancora.

La mitica traversata in bicicletta dei Bal-cani fino al Bosforo, che inaugurò una serie lunga quindici anni, si compì, per oscuro presagio, alla vigilia dell’11 settembre, il giorno in cui tutto si mise a correre fino ai li-miti del deragliamento. Da allora la mia vi-ta errabonda ha preso a scivolare su un pia-no inclinato come verso un invisibile Gran Burrone. È stata una trasformazione così febbrile — persino il meteo non è più lo stes-so del 2001 — che talvolta ho pensato di vo-ler divorare tutte quelle miglia solo per ac-chiappare al volo qualcosa che mi stava spa-rendo sotto gli occhi.

Non c’è più nascondiglio, o isola felice. Gli spazi di libertà si sono ristretti. Fette sempre maggiori di territorio sono in ma-no a mafie, dittature, fanatismi armati e

predoni delle ultime risorse globali. Le pos-sibilità di viaggio dei miei figli si sono più che dimezzate rispetto alle mie. L’Europa stessa è in stato d’assedio e, quel che è peg-gio, si frammenta anziché serrare le file. Nel frattempo, il tritacarne della Grande Omologazione fa poltiglia delle ultime diffe-renze tra i popoli. L’Oriente esiste o è solo un parco a tema per turisti? E l’Occidente è cosa reale o fata Morgana? Dall’America al-la Cina vedo il trionfo di un identico mix esplosivo di primitivismo e internet che ri-duce il rapporto tra uomini a scontri di pen-sieri unici. E così, mentre il viaggio virtuale trionfa su quello reale, mentre il rapporto fra uomo e territorio si perde, ecco che an-che l’irreperibilità, estrema roccaforte del viaggiatore, è violata dall’Occhio che tutto vede.

Il destino ha le sue simmetrie. Tutto ciò che è cominciato con quella fuga verso il Bo-sforo, ora sul Bosforo si compie. La Turchia è cambiata brutalmente e, con le purghe, Erdogan le ha dato solo l’ultima picconata, in nome di un’identità totalitaria che essa non ha mai avuto. Fuori dalla stazione di Sir-keci non c’è più il chiosco dove il vecchio Ara mi offriva con un sorriso burbero un tè fumante color dell’ambra. Le casette di le-gno sul Corno d’oro sono state rase al suolo per far posto a grattacieli e orrendi minare-ti di cemento che sparano preghiere a un vo-lume insopportabile. Il fanatismo dilaga e tutto ciò che ho amato della città-ponte che fu anche greca, ebraica, armena e siriana, è stato preso di mira. Per ritrovarlo, dovrò at-tivare rapporti clandestini.

Ma il problema non è Istanbul. È che è fi-nito il bisbiglio e il profumo dei luoghi. Gli dei che li abitano si sono dati alla macchia. Dove è migrata l’anima di Praga, Sarajevo, Atene? Dove è finita la vecchia Francia? Oh certo, gli aeroporti sono pieni. Giganteschi transatlantici solcano i mari. Ci si sposta con facilità immensamente maggiore ri-

spetto a quindici anni fa. Ma anche lì è solo

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l’inganno del Grande Frullatore. Il viaggio, come esperienza iniziatica e individuale, antica come l’Odissea, sembra perduto.

Cosa rimane a chi si ostina a rivendicare l’accesso alla Terra come bene comune? Sì, lo spazio esiste, ed è immenso, contra-riamente a ciò che appare. Ci sono ancora viaggi per Ulisse. L’Appennino non è mai stato così vuoto e il Po così selvaggio. Goo-gle maps e la banalizzazione dei flussi fan-no sì che non sia mai stato così facile evita-re le masse e ritagliarsi spazi propri. Ma la riconquista può avvenire solo a patto di fa-re del viaggio un atto politico di resistenza, se non di anarchia. A patto di ricominciare da zero, dal pianerottolo di casa nostra, mettendoci consapevolmente contro un mondo che smantella gli spazi di incontro, i giochi, il canto, le fontane, le panchine.

Riprendiamoci le nostre piccole patrie — quelle che abbiamo trascurato in nome dei voli low cost — sapendo che errare, nel clima avvelenato che ci circonda, non è più evasione, ma il suo contrario. Non fuga dal mondo, ma un modo per aggrapparsi ad es-so e riattivare il contatto fra uomini. Un at-to di guerra partigiana contro un sistema costruito per dividere anziché unire, nel quale i rapporti si sono velocizzati e steriliz-zati al punto da far esplodere continue tem-peste di malintesi e rendere invivibile qual-siasi aggregazione multietnica.

Sì: viaggiare necesse est. Non è mai sta-to necessario come oggi. Il nomade capisce meglio dove va il mondo. Lo sente dall’odo-re, dall’aria che tira. Ha percezioni da Cheyenne, diventa bardo e sciamano. De-testa i centri e ne è detestato. Si infratta in prossimità delle frontiere, pianta la tenda ai margini. Viaggia su mezzi pubblici, non prenota mai alberghi, compare all’improv-viso e fa perdere nuovamente le tracce. Porta un bagaglio minimo, non usa telefo-ni e sa fare a meno del web. Ama le linee di faglia e le creste ventose per sentire in anti-cipo i terremoti e le tempeste. Vive in stato

d’allerta, coltiva istinti indispensabili alla sopravvivenza della specie, come il senso del pericolo, che la società opulenta ha atro-fizzato. Suona tamburi sul bordo dei laghi, al tramonto. Non fischia mai, per non irrita-re gli spiriti.

Il viaggiatore di lungo corso sogna di ru-bare bambini perduti per raccontare loro storie attorno a un fuoco. Sente a distanza l’odore di chi gli è affine e di chi gli è ostile, come un cane da punta. Riconosce gli uomi-ni dall’andatura. Crea una rete invisibile di adepti. Sa trasformarsi in lupo, orso, salmo-ne e scarabeo. Abbraccia alberi, parla con i fiumi e decifra il canto delle foreste. Ha una memoria infinita, soffre e gioisce senza ra-gione apparente, percepisce la deriva del mondo senza bisogno di giornali, apprende sui treni del mondo segreti di cui nessun mi-nistero degli esteri è a conoscenza. Sa attra-versare il tempo, superare la linea d’om-bra, parlare con i trapassati, raccogliere im-magini come un cacciatore del Mesolitico colleziona prede, molluschi e radici.

Ma allora, mi dicono i lettori, perché hai deciso di smetterla con i racconti di viag-gio? «Erano come il campanello della ricrea-zione, dicevano che l’estate poteva comin-ciare»: così mi scrivono, esortandomi a non mollare. Ma è appunto qui il problema. Non è più tempo di ricreazione. Non voglio resta-re prigioniero di uno schema. È arrivato il momento di cercare altri linguaggi e sosti-tuire i chilometri con la qualità dell’incon-tro, a costo di darmi alla macchia e sparire dalla Rete. Ho imparato molte cose nel mio infinito andare. Cose indispensabili come l’oralità, la condivisione, la convivialità, la lettura del terreno, la percezione del perico-lo, la ricerca della traccia, l’ascolto dei luo-ghi senza voce.

In questi quindici, splendidi anni, è co-me se avessi sommato più vite. Me ne sono

accorto due estati fa, scrivendo per 3FQVC�CMJDB da un vecchio faro piantato in cima a un’isola deserta, in mezzo alle tempeste del Mediterraneo. Nel silenzio del net-work, in assenza di telefoni, al riparo dall’intossicazione mediatica, le mutazioni del mondo mi apparivano improvvisamen-te più chiare, e con esse il ruolo del viaggia-tore. Non avevo più bisogno di DBQJSF, per-ché TFOUJSF era più facile. Mi accorgevo di di-ventare anch’io un po’ bardo e un po’ scia-mano. Era arrivato il tempo di condividere le esperienze accumulate e comunicare il senso del viaggio come strumento-base dell’approccio fra uomini.

Ho imparato molto da questa stagione privilegiata dell’esistenza. Come tagliare i ponti dietro di me e costruire una “traccia” dentro spazi illimitati senza punti di riferi-mento. Come sognare sfogliando un atlan-te, come disegnare a mano una mappa e poi partire facendone a meno. Come sincro-nizzare il respiro con i battiti del cuore — due o più a seconda delle situazioni — per costruire un canto. Ho imparato la febbre della partenza e la malinconia del ritorno, studiato il rebus del taccuino che con la sua taglia dipende dall’andatura e talvolta rie-sce persino a determinarla. E poi l’enigma del Gerundio Inverso che ribalta il senso dell’andare, o la legge — valida solo per i viaggiatori — della lentezza che dilata il tempo e accorcia lo spazio, smentendo Al-bert Einstein. Per non parlare del cortocir-cuito evocativo fra libro e paesaggio che scatta con la declamazione, o della formula arcana — mai spiegata da alcun matemati-co — del peso sulle spalle che alleggerisce

la falcata.Tutto questo vi svelerò, nei prossimi gior-

ni, in un breviario in tre puntate sull’arte dell’andare in questo mondo. Cose come la tecnica d’approccio del cagnolino di stra-da, l’abilità di interrogare senza far doman-de, o l’equivalenza tra metrica e andatura che rende il nostro passo bisillabico, trisilla-bico, dattilo, giambico, trocheo e altro anco-ra. E poi l’importanza di perdersi, o di anda-re a caccia di un’ombra senza che ti prenda-no per matto. La sindrome di Gerusalem-me, che ti inchioda ai testi che ti hanno fat-to desiderare una meta, al punto di tentar-ti con un viaggio solo virtuale, sedentario, con la rinuncia a partire: da cui discende che in ogni partenza si annida la fatica tre-menda del distacco dal Libro.

A suggello del racconto vi dirò ciò che compendia e riassume tutto questo: come ridurre al minimo il bagaglio, atto che non si porta mai abbastanza all’estremo. Lo consiglia anche la “Legge del violino degli Ebrei”; ai quali, secondo un XJU[ askenazi-ta, è vivamente sconsigliato di scappare con un... pianoforte. Vi spiegherò come viaggiare leggeri, perché siamo tutti di pas-saggio su questa Terra. Esuli, clandestini. Stranieri ovunque e in nessun luogo.

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PARIGI

-E SPIGHE DI GRANO PORTAFORTUNA, un piccolo leone in pietra, il suo se-gno zodiacale, le miniature di bulldog francesi che chiamava tutti “Moujik”, la collezione di vecchie canne da passeggio appartenuta a Christian Dior, una foto di Catherine Deneuve, un’altra di Silvana Mangano con dedica “Comportatevi bene”, il ritratto del pittore Ber-nard Buffet. Le matite per disegnare, sempre le stesse: Staedtler 2B. Il camice bianco da lavoro appoggiato sulla sedia nera dal design scandinavo. I grandi occhiali sul tavolo. Una mano d’argento usata come fermacarte. Tutto è rimasto come allora, quando nel 2002 Yves Saint Laurent ha presentato l’ultima collezione primavera-esta-te, facendo calare il sipario su quasi mezzo secolo di carriera. Dietro le quinte, ogni idea prendeva forma nell’ampio atelier con moquette

bianca, uno specchio immenso, rotoli di tessuto ovunque, pareti riempite di libri d’arte. Una stanza ovattata dove quattro volte l’anno si compiva una sorta di rito alchemico tra sogno e materia.

“Monsieur Saint Laurent” è arrivato nel 1974 nell’hôtel particulier�dietro all’Arco di Trion-fo, tra marmi e CPJTFSJF in stile Secondo Impero, lasciando la prima sede della maison al 30 bis di rue Spontini, diventata troppo piccola. Per dive e regine di mezzo mondo l’indirizzo è stato per decenni 5 avenue Marceau. Dopo la morte di Saint Laurent, nel 2008, la palazzina è rima-sta ferma nel tempo. Un santuario su cui veglia il vedovo e mecenate Pierre Bergé. «Non vor-remmo farne un mausoleo, ma un posto vivo e aperto», racconta adesso Laurence Neveu, una delle ultime sartine della maison, ora conservatrice dell’immenso archivio della Fondazione Pierre Bergé-Yves Saint Laurent. La palazzina è in corso di ristrutturazione. Dall’anno prossi-mo la casa del più famoso stilista francese diventerà un museo, replicato nella sua altra storica dimora al Jardin Majorelle di Marrakech.

In un angolo dell’atelier parigino al primo piano sono appese le “tele”, prototipi, canovacci da correggere anche decine di volte prima di dare il via libera ai laboratori di fabbricazione, che si trovavano al piano superiore. Nel TBMPO�EF�DPVUVSF si svolgevano le prove generali prima delle sfilate in compagnia di Loulou de la Falaise e della direttrice Anne-Marie Muñoz, insepa-rabili compagne di Ysl. Lo stilista non perdeva mai la calma, lui che ha coniato la scritta “Love” come un mantra. “È un mestiere in cui non sei veramente libero”, aveva confessato una volta. “Puoi essere tradito da una sarta, da un mannequin, dal tessuto”. Maniaco del controllo, prepa-rava una sorta di sceneggiatura, le QMBODIFT, grandi fogli su cui appuntare la sequenza di appa-rizione dei modelli, il nome della modella prescelta, un campione del tessuto di ogni abito e tut-ti gli accessori.

Negli anni Sessanta, Saint Laurent aveva cominciato a scrivere su alcuni pezzi della sfilata

la lettera “M”. Significava: per il futuro museo. «Ha avuto presto la voglia di conservare la sua opera», ricorda Laurence Neveu portandoci al secondo piano dove oggi lavorano restauratrici specializzate nella protezione di tessuti fragili come organza, pizzo, mousseline di seta, lamé. Passata una porta blindata si entra in uno degli archivi di moda più grandi del mondo: oltre sei-mila capi appesi in armadi nei quali la temperatura è tenuta costante tra diciotto e venti gra-di, umidità al cinquanta per cento. L’accesso è riservato a chi indossa guanti, sovrascarpe, ca-mice protettivo per scongiurare la contaminazione di tarli o altri parassiti. Ogni abito esposto in una mostra all’esterno deve passare una quarantena dentro a sacche senza ossigeno prima di tornare nell’archivio blindato. Un patrimonio di valore non sono culturale. Alcuni abiti sono stati venduti all’asta a cifre superiori ai centomila euro.

Qui Saint Laurent creò la donna moderna. Sulle stampelle la giacca caban dei marinai, lo smoking, il tailleur pantalone, il trench coat dei militari, la sahariana che usavano i cacciatori del safari. «Ha dato alle donne i simboli del potere maschile», ricorda la sartina, ora guardiana di questo tempio.

Il debutto fu la collezione 5SBQÒ[F, gennaio 1958 per Dior. Aveva solo ventuno anni. Lo stili-sta nato a Oran, in Algeria, nel 1936 era cresciuto in un gineceo, tra sorelle, zie, nonne, vene-rando la madre Lucienne, donna frivola e mondana, al centro di una città allora cosmopolita e colta. Il piccolo Yves Mathieu sognava di disegnare costumi di scena per il teatro, una passione che lo accompagnerà per il resto della vita. Nel futuro museo si potranno vedere i collage in-ventati quando era bambino, ritagliando fotografie di modelle e rivestendole come bambole di carta. Nel 1952 immaginava già il catalogo della sua maison in place Vendôme. Quando era ancora al liceo, aveva mandato a 7PHVF�'SBODF una lettera con alcuni bozzetti. “Prima fai la maturità”, rispose Michel de Brunhoff, direttore della rivista. Il giovane Saint Laurent si era ri-presentato qualche anno dopo, appena diplomato, nella capitale francese. Era tornato a bussa-re alla porta di 7PHVF. Brunhoff restò colpito dalla precisione dei suoi disegni e da uno stile mol-to vicino al più famoso stilista dell’epoca: Christian Dior.

Saint Laurent è diventato così il “Petit Prince” della�IBVUF�DPVUVSF, per la sua precoce mae-stosità. “Una gazzella con gli occhiali” scrisse di lui Dino Buzzati. Se non fosse stato per la guer-ra d’Algeria, forse lo stilista sarebbe rimasto a disegnare abiti Dior. Ma dopo essere stato ri-chiamato nell’esercito, cadde in depressione e venne ricoverato all’ospedale militare, suben-do elettrochoc, camicie di forza, narcolettici. Pierre Bergé, che lo aveva incontrato due anni pri-ma, andava a trovarlo tutti i giorni in ospedale. «Dior ti ha licenziato». «Non importa, faremo

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la nostra maison», rispose Saint Laurent. La coppia regnerà sul mondo della moda per qua-rant’anni. Yves il genio creatore, Pierre il raffinato stratega.

Nonostante le sue crisi di depressione, i suoi eccessi, “Monsieur Saint Laurent” frequentava ogni giorno la maison. Molti stilisti del marchio, venduto nel 1999 al gruppo Kering, sono arri-vati in pellegrinaggio nell’atelier per consultare gli archivi in cerca di ispirazione. «L’unico a non essere mai venuto è Tom Ford», nota Laurence. Nello sterminato guardaroba ci sono le col-lezioni ispirate da artisti, la prima dedicata a Mondrian, poi quelle per Picasso, Matisse, Coc-teau, Braque, Van Gogh, Apollinaire. Un reparto conserva molti costumi di scena. Saint Lau-rent ha lavorato, tra gli altri, con Buñuel e Truffaut. Il tailleur nero e giallo di Isabelle Adjani nel film 4VCXBZ. Gli stivaletti di Jane Birkin. Il vestitino nero indossato da Catherine Deneuve nella scena finale di #FMMB�EJ�(JPSOP. Tra lo stilista e l’attrice c’è stato un connubio durato fino alla fine, Deneuve era sul podio all’ultima sfilata.

Saint Laurent aveva meditato a lungo il suo addio. Nell’atelier la magia non si ripeteva più. E forse il mondo intorno era troppo cambiato. Temeva di essere superato nell’era dei fashion stylist, lui che odiava la moda e credeva solo nello stile.

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"IGNORARE LA STORIA SI FINISCE per ripeterla. Ecco perché, come ogni autentico rivoluzionario, anche Yves Saint Laurent visse con il cuore affondato nel passato. Giacché disconoscerlo non avrebbe generato che rivoluzioni fasulle o,

peggio, riedizioni di quel che non si conosceva (il dramma del nostro tempo). Dunque, la sua modernità nacque da un’impeccabile conoscenza del mestiere della couture. Tanto che nel ’57, appena ventunenne, sarà chiamato a sostituire il monumentale Dior con già il virtuosismo di un maestro. Dopo essersi scrollato di dosso tutto il vezzoso appartenuto al divino

fondatore; e andando diritto a un taglio sicuro ed essenziale — senza pettegolezzi ornamentali — con una linea Trapezio degna delle forbici dell’impareggiabi-le Balenciaga. E gli occhi pieni della sua Africa algerina; ma già — dopo il diploma all’École de la Chambre Syndicale de la Couture, condiviso a Parigi con Valentino e Lagerfeld — con una grande dimestichezza con quel parnaso

che resterà il luogo ideale dei suoi amori di sempre: il Rinascimento, il Seicento, Goya, Matisse, Braque, Picasso e ogni genere di esotismo. Tanto permeato di cultura alta da vivere come una trasposta materia di colori e forme le parole della grande letteratura, ma soprattutto Proust. Alla cui opera dedicherà, con dettagliatissimi rimandi, persino una casa, il suo normanno Château Gabriel.

Fu rivoluzionario, certo, almeno dal ’66, ma continuando a disegnare anche quel prodotto per tutti con silhouette dai lineamenti rubati a Cocteau e Bérard. E quando si dovette pensare a un logo, non si esitò: Cassandre, il grande sodale di Balthus, il pittore e grafico più affine al suo tormentato perfezionismo. E alla sua sfida alla vita. Fu così che da un elegantissimo acquerello nacque quell’intreccio di iniziali che rieditava quelle dei re di Francia unite a quelle delle loro amanti.

E proprio come un monarca visse. Inaugurando quel che divenne poi tradizione: una casa-museo colma di mirabilia.

Pure — ma anche questo da tradizione letteraria e da maledettismo poetico — con oscure notti trascorse a rincorrere il rischio, infestate da frequentazioni pericolose e impresentabili. Con abitudini condannate al buio, e consuetudini temerarie: dopo aver brillato nei salotti più esclusivi e tra i nomi più reboanti del tempo. Finendo inevitabilmente per lasciar trasparire il vitalismo disperato di Rimbaud. O quello, persino più fosco, di Pasolini. Avendo sperimentato il fendente di un pugnale sul quale non fu fatta mai luce e lo schiamazzo terribile di giovinastri che sotto le sue finestre, appena rientrato, già lo richiamavano, all’alba, nell’oscurità della loro crudele tirannide; nella quale inesorabilmente ricadeva. Per tornare, subito dopo, alla lucidità di Mondrian. Ma poi, nel ’77, il lancio di un profumo scandalosamente chiamato Opium. Chissà se per esperienza diretta o come incenso a uno dei suoi miti — ancora Cocteau.

Visse una vita turbolenta insieme a un compagno-socio con il quale condivise fede nella bellezza e rispetto religioso per ogni genere di eccezionalità. Come quando, in casa della de Noailles, s’innamorò di un tavolo da appoggio letteralmente ricoperto di scatole d’oro cesellate e smaltate; lo volle identico, altrettanto smisurato: giacché la sua voracità non era di oggetti ma di perfezione e di assoluto. Infelicissimo e sublime.

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In quanto composizioni musicali anche gli inni nazionali non sfuggono alla implacabile regola del plagio. Quello più grottesco è sicuramente il caso dell’inno della Bosnia Erzegovina, già di per sé destinato a essere accettato a fatica in terra di aspre divisioni etniche. È stato scritto nel 1997 da Dusan Sestic che partecipò al bando con la sola intenzione di guadagnare uno dei premi in denaro messi in palio. Fu scelto con sua grande sorpresa, ma anni dopo qualcuno si è accorto che il tema era praticamente identico a quello dei titoli di testa di “Animal House”. Sestic ha ammesso la somiglianza, ma ha negato di aver visto il film.

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Tutti lo conoscono, il più rispettato, carismatico, il più antico e classico degli inni nazionali, usato nel tempo da un gran numero di paesi legati alla monarchia britannica, e ancora oggi utilizzato come inno reale in molti paesi tra cui Canada, Australia e Nuova Zelanda e, senza alcun imbarazzo, come inno ufficiale del Liechtenstein, anche se con un testo diverso e con il titolo “Oben am jungen Rhein”. Eppure la celeberrima melodia non ha origini certe. Si parla di due possibili autori, John Bull e Henry Carey ma sono vissuti a un secolo di distanza, tanto per capire quanta confusione regni sulla questione. Per la nazione britannica la posizione ufficiale è: autori ignoti.

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A fronte di alcuni immutabili monumenti, il territorio degli inni è molto più movimentato di quanto immaginiamo. Cambiano, si rinnovano, muoiono e rinascono. Il più recente adottato nel mondo è quello del Nepal. È stato ufficializzato nel 2007, seguendo di poco quello del Kazakistan, quello della Serbia, e quello in lingua pashtu dell’Afghanistan, tutti adottati nel 2006, e quelli di Montenegro,

Georgia e Iraq del 2004. Fa eccezione solo l’inno del Kosovo, adottato nel

2008 in sostituzione di quello europeo, che però è uno stato

non accettato dall’Onu.

Alle Olimpiadi non lo sentiremo, certo, ma merita un cenno anche l’Inno e Marcia pontificale, inno del Vaticano, con la sua storia fortemente intrecciata alle vicende del piccolo stato. L’inno, in versione solo musicale, fu un dono di Gounod che venne apprezzato molto da papa Pio IX, ma la successiva presa di Roma impedì che fosse adottato come inno nazionale. L’idea di un inno fu ripresa molti anni dopo, nel 1929, dopo la firma dei Patti Lateranensi, ma fu

Pio XII nel 1949 a volere che fosse adottata la musica di Gounod. A scrivere il testo

fu invece l’organista di san Pietro, il vescovo Salvatore Allegra.

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Esclusa l’altletica, difficile prevedere quante volte lo ascolteremo alle prossime Olimpiadi, ma di sicuro l’inno russo è tra i più tormentati della storia. Difficile perfino raccapezzarsi nel groviglio di versioni che si sono succedute. Attualmente (dal 2000) è l’Inno della Federazione Russa, ma è la riproposizione, con testo opportunamente aggiornato, del vecchio inno sovietico, adottato nel 1943 in sostituzione dell’Internazionale.

Nella vecchia versione venivano citati Lenin e Stalin, poi nel 1977 fu aggiornato sopprimendo il nome di Stalin. Abolito del tutto nel 1991, l’inno è stato poi recuperato (togliendo anche il riferimento a Lenin e al comunismo) da Vladimir Putin.

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"DRVBSFMMP�P�NBSDFUUBOFMMB�UFSSB�EFM�TBNCBÈ il paese ospitante delle Olimpiadi e come tale merita un posto d’onore, senza dimenticare che esiste uno specifico Inno Olimpico composto nel 1896, per la prima edizione dei Giochi di Atene. L’inno brasiliano è molto antico, risale al 1822 e fu scritto in occasione dell’indipendenza dal Portogallo. È una marcia di sapore quasi rossiniano, ma è stato adottato e confermato a furor di popolo anche quando si tentò di cambiarlo. Ciò non toglie che molti brasiliani, vista la straordinaria

ricchezza di musica di cui è dotato il paese, considerino “Aquarela do Brazil”, più

universalmente nota come “Brazil”, di Ary Barroso, una validissima

alternativa.

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Spesso gli inni devono tenere conto di differenze culturali, rispettare diverse etnie, diversi ceppi linguistici, e vengono trovate soluzioni adeguate. L’inno nazionale della Nuova Zelanda, per esempio, contempla una versione col testo in inglese e un’altra in lingua maori. All’occorrenza le strofe possono essere alternate. Va da sé che di quello irlandese esiste la versione in gaelico, oltre quella in inglese, ma il record assoluto di multilinguismo spetta al Sudafrica, il cui inno è equamente diviso in quattro idiomi: inglese, afrikaans, sesotho e zulu.

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Si può dire che l’inno americano riesca a fondere la maestosità melodica dell’inno inglese alla battagliera idealità di quello francese, con parole che accendono gli animi, tipo “over the land of the free and the home of the brave”, libertà, coraggio, determinazione contro il nemico. È stato oggetto di numerose reinterpretazioni, ma anche di dissacranti

versioni come quella magistrale di Jimi Hendrix a Woodstock che con le

distorsioni della sua chitarra trasforma le note dell’inno nei

sinistri e laceranti rumori di un bombardamento.

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Ci sono casi in cui la firma del testo è particolarmente prestigiosa. L’inno del Senegal fu scritto nel 1960 dal presidente Léopold Sédar Senghor, letterato e massimo ideologo della negritudine, col titolo di “Pincez tout vos koras, frappez les balafons”, con riferimento a due strumenti musicali tipici della musica africana. Ma non è l’unico caso. L’inno nazionale dell’India, intitolato “Jana Gana Mana”, vanta addirittura la firma di un premio Nobel, ovvero Rabindranath Tagore. I giapponesi hanno invece scelto una magnifica poesia antica, ma di autore, ahinoi, anonimo.

-�ESTATE È LA STAGIONE DEGLI INNI, su questo non c’è dub-bio, soprattutto quando lo sport si addensa in sequenze fittissime come quella di quest’anno tra Coppa Ameri-ca, Europei di calcio, Olimpiadi. Un trionfo di bandiere, marce e melodie maestose. Tutto molto familiare, perfi-no rassicurante, in un periodo di così forte instabilità. Ma molto probabilmente di questi più o meno noti sim-boli di identità nazionale, sappiamo molto poco. Di sicu-ro i due modelli incontestabili sono (PE�4BWF�UIF�2VFFO e la .BSTJHMJFTF: solennità, autorità, carisma il primo, in-citamento, afflato ideale il secondo. Il primo ci fa sentire orgogliosi e commossi di appartenere a quella nazione,

il secondo ci fa partecipi di un grande ideale, ci vuole attivi e militanti nella battaglia per difen-dere libertà, eguaglianza, fraternità. Più o meno su queste due idee, si sono attenuti i gover-nanti per decidere gli inni nazionali, diffusi in tutto il mondo a partire dall’Ottocento.

Ce ne sono dovunque, c’è un inno della Palestina, c’è un inno della Città del Vaticano (su mu-sica di Gounod), ce n’è uno dedicato a Carlomagno per la piccola Andorra che nel tema sembra rendere omaggio a Francia e Spagna, le due nazioni vicine, alcuni sono stati molto tormentati

e discussi come quello austriaco, originaria-mente scritto da Haydn poi adottato dai tede-schi e quindi imbarazzante nel Dopoguerra, spingendo gli austriaci a scegliere una musi-ca attribuita (ma non con assoluta certezza) a Mozart. Sono stati fonte di storiche gaffe quando alla banda di turno capitava di sba-gliare clamorosamente partitura. È successo alla Coppa America di quest’anno quando pri-ma di Uruguay-Messico è partito l’inno del Ci-le al posto di quello uruguagio. Nel 2012 in Ka-zakistan dopo una gara di tiro invece dell’in-no nazionale partì -B�WJEB�MPDB di Ricky Mar-tin. Roba da ridere ma a volte si rischiano guai grossi, come quando a Londra nel 2012 a una premiazione di hockey femminile inve-ce dell’attuale amatissimo inno sudafricano intitolato /LPTJ�4JLFMFM�J"GSJLB (%JP�CFOFEJDB�M�"GSJDB) è partito il vecchio inno dell’apar-theid %JF�4UFN in puro afrikaans. Anche noi italiani ne abbiamo subìte tante, visto che in

molti all’estero fanno confusione e pensano che il nostro inno sia A0�TPMF�NJP, o 7B�QFOTJF�SP, o addirittura 7PMBSF, ma non certo l’inno di Mameli che qualche lieve sofferenza conti-nua a farcela provare, malgrado negli ultimi anni da Benigni in giù abbiano provato in tan-ti a farci percepire la riposta, ripostissima, bellezza del nostro canto nazionale (che per inciso si intitola $BOUP�EFHMJ�JUBMJBOJ). Ma for-se ha ragione Morricone quando dice che tut-to sommato il problema è più nell’arrangia-mento che nella composizione. Se c’è un lato imbarazzante nel nostro inno è quel ritmo a marcetta che poco si adatta al desiderio di sta-re lì ritti in piedi a scrutare l’orizzonte con or-goglio quando lo ascoltiamo sotto la bandie-ra. Proviamo a immaginarlo privo di quello zumpa-zumpa a cui è condannato, più lento, con tono maestoso, e forse ci apparirebbe co-me d’incanto più bello.

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Pochi si aspetterebbero un inno da un gruppo di atolli sospesi in mezzo all’Oceano indiano, e invece in quanto stato sovrano la Repubblica delle Maldive ha un suo inno dal 1972 e per di più in lingua maldiviana, intitolato “Gavmii mi ekuverikan matii tibegen kuriime salaam” (*“ci salutiamo in questa unità nazionale”).

La stessa cosa vale per le Seychelles, inno in lingua creola, per Tonga, Samoa, così come per Vanuatu, arcipelago con appena 250mila abitanti. Per non parlare di Tuvalu, altro gruppetto di isole con meno di 10mila abitanti e un proprio inno: “Tuvalu mo te Atua”.

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Il lettoOhea si rifà da solo. Sleep Numberè il materasso che memorizzai comportamenti nel sonno(a partire da 1700€)

Il frigorifero Frigorifero Family Hub memorizza il contenuto inviando una foto allo smartphone e mostra il calendario(a partire da 5000€)

Il cane robotZoomer sorveglia la casae gioca con i bambini(versione 2016 a 114,23 €)

L’assistente personaleAgent riconosce

il padrone di casa e controllatutte le funzione dell’appartamento

Il proiettoreProjector è un’interfaccia con

cui l’utente può utilizzare tocco, vocee gesti per compiere operazioni

La caffettieraSmarter si aziona via smartphonetramite una app(a 160€)

LA CASA

SvegliaI sensori attivano le lucie le finestre, il letto si rifà da solo, il bagno si riscalda, il coperchiodel water si alza e lo specchioti aggiorna sulle news

ColazioneIl caffè è già pronto, servitodal maggiordomo robotche ti porta anche il giornale, mentre controlli l’agenda sul tavolo touchscreen della cucina

07.45

Si vaPrima di uscire controlliil calendario sul frigo, scarichidal forno la ricetta della cena,le finestre si chiudono e l’ombrello ti avverte che sta per piovere

08.00

In ufficioIl frigorifero ti invia una fotodi ciò che contienee ti segnala gli alimenti scaduti permettendoti di fare la spesa più facilmente

16.0007.30LA GIORNATA

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4E ENTRI IN UNA CASA e ti trovi un tipo che parla con i muri, chiedendo loro di accendere le luci alle sette e mezzo del mattino e di fargli trovare il caffè pronto alle sette e quarantacinque, non farti prendere dal panico. Non c’è al-cun bisogno di chiamare un medico. Sei solo entrato nella casa del futuro. Del futuro o del più vibrante dei presenti di una serie di tecnologie che non sono ancora arrivate al grande pubblico perché continuano a essere, molto spesso, troppo care. Ma è solo questione di tempo. Quando giungerà quel giorno, potrai comunicare con la tua casa così come oggi fai con il tuo telefo-no. Questa sarà, e comincia già a essere, la casa smart, intelligente, concepi-ta cioè come un immenso dispositivo elettronico pieno di oggetti intercon-nessi che elaborano le informazioni grazie all’uso di livelli diversi di intelli-genza artificiale. Dove gli apparecchi si mettono a funzionare da soli e pren-

dono delle decisioni, dopo aver studiato i nostri modelli di comportamento. Entriamo.Sono le sette e mezzo del pomeriggio, sei uscito dal lavoro e la tua casa sa già che tornerai verso le ot-

to. Così, le stanze, dove hai l’abitudine di passare quando entri, saranno perfettamente climatizzate al tuo arrivo. I sensori di prossimità installati sapranno, grazie alla geolocalizzazione della tua auto, che sei ormai vicino, e attiveranno la funzione di riscaldamento dell’ingresso, del corridoio e della stanza dove di solito ti cambi quando torni e comanderanno l’apertura delle persiane. Anche il cagnolino robot e il maggiordomo elettronico stanno aspettando il tuo arrivo. Ora ha cominciato a piovigginare, quindi gli irrigatori smetteranno di annaffiare il giardino. Del resto te lo aveva già detto l’ombrello stamattina, pri-ma di uscire: oggi, a fine giornata, potrebbe piovere. Sembra uno scenario da fantascienza, ma si tratta invece di tecnologie che, in buona misura, sono già una realtà o stanno per diventarlo. Il cagnolino robot esiste già, anzi, ne esistono diversi: uno è Zoomer, un cucciolo dalmata che si siede, abbaia e cammina obbedendo ai comandi vocali. Il maggiordomo potrà essere perfettamente l’aiutante con occhi felini che sta elaborando Sony Mobile, un robot che saluta il proprietario di casa chiamandolo per nome quan-do lo vede entrare (è dotato di un dispositivo per il riconoscimento del viso). Ci sono innaffiatori automa-tici, come ETwater, che analizzano il terreno, le piante, ricevono informazioni meteorologiche e usano l’acqua necessaria in ogni momento. E ombrelli, come Haz Umbrella, in fase di sviluppo, promosso dalla piattaforma Indiegogo, che ti inviano un messag-gio sul cellulare con le previsioni del tempo.

«Immagino la casa del futuro come una casa più automatizzata, come è successo con le automo-bili che ormai parcheggiano quasi da sole», dice Mikel Barrado, responsabile dello sviluppo marke-ting dei prodotti di Smart Living presso l’istituto tecnologico e delle ricerche Tecnalia, che lavora a soluzioni per eliminare gli interruttori, per auto-matizzare la ventilazione della casa e introdurre l’elettronica alle persiane e ai mobili.

Ma riprendiamo il nostro tour immaginario. Al-le sette e mezzo del mattino suona la sveglia. Ti sti-racchi come tutti i giorni e i sensori della stanza se ne accorgono. Le luci si attivano gradualmente. Le finestre della camera saranno dinamiche, si adat-teranno cioè alle circostanze meteorologiche e al bisogno di luce. Così sono fatte quelle del progetto

Sustainable Connected Home, una casa dotata di pannelli solari sul tetto che forniscono l’energia all’abitazione, sviluppata a Trento con una colla-borazione tra il Mobile Experience Lab dell’Istitu-to tecnologico del Massachusetts (Mit) e la Fonda-zione Bruno Kessler. Avrai dormito su un materas-so intelligente (come quelli di Sleep Number), che capta informazioni sui tuoi comportamenti nel sonno. Forse si tratta di uno di quei letti che si rifanno da soli, come quelli creati dalla Ohea. E ora andiamo in bagno. Probabilmente ha cominciato a scaldarsi, dato che è la prima stanza che visiti ogni mattina. Sarà dotato di un water intelligente con sedile che si riscalda a temperatura regolabile e coperchio, come quello dell’americana Dxv, che si alzerà grazie al sensore incorporato quando sen-te che ti stai avvicinando. Ci sono spruzzi di bidet

al suo interno e meccanismi antiodori. Un proget-to di ricerca del Mit Senseable City Lab prevede perfino un’analisi delle feci che permette di avver-tire se qualcosa non va ed è consigliabile andare dal medico. Allo specchio (lo Smart Mirror prodot-to da Google), mentre osservi la tua faccia, vedrai le previsioni meteo della giornata, i titoli dei gior-nali e l’ora. Quello elaborato invece da Panasonic ti permetterà di sperimentare dei cambiamenti di look: provare diversi colori per il trucco, rossetti, barbe, pettinature, modelli di baffi. La colazione te la servirà il tuo maggiordomo elettronico, il Ca-re-O-Bot 4 sviluppato dalla Fraunhofer Society, ca-pace di pulire il tavolo e di portarti quella cosa tan-to analogica chiamata giornale cartaceo. Potrai aprire la porta del frigorifero presentato da Sam-sung all’ultimo Consumer electronic showcase di

Las Vegas, il Family Hub, che ogni volta che si chiude ti invia sul cellulare una foto dell’interno per ricordarti cosa manca. Il caffè sarà già pronto con la caffettiera Smarter, che controlli tramite un’app sul telefono. Sul tavolo della colazione po-trai avere il proiettore creato dalla Sony che ti per-mette di condividere foto e appunti. E nel forno si potrà scaricare l’ultima ricetta del piatto che vuoi preparare la sera al tuo ritorno, come si fa con il Maid Oven. Le stanze più connesse saranno il sog-giorno (dove non mancheranno occhiali per la realtà virtuale e pareti bianche e lisce per poterci proiettare delle immagini), la cucina, il garage e la camera da letto. Sensori di movimento e di tem-peratura, interruttori che si possono azionare da remoto o portachiavi che comunicano con la casa diventeranno parte del paesaggio quotidiano.

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Il termostatoNest è controllabile in remotovia smartphone. Riscalda le zonedella casa strettamente necessarie(da 249€)

L’irrigatoreETWater innaffia le piante solo quando è necessario

Il robot maggiordomoCare-O-Bote 4 è in grado di pulire, cucinare, servire i cibi

Lo specchioSu Smart Mirror si consultano news, meteoe notifiche dai social. È possibile inoltresperimentare i cambiamenti di lookIl wc

DXV è dotato di meccanismoanti-odori. Il coperchiosi alza automaticamente(a 3800€)

Sensori di prossimitàAl rientro del padrone di casasi attivano aprendo il garagee accendendo le luci

TemperaturaDisponibili

Remoto

Riordina

Touch

Vocale

Wi-Fi

Sicurezza

Personali

Cucina

Utilizzi

In arrivo2016-2018

Prototipi

Legenda

L'ombrelloHaz Umbrella informasulle previsioni del tempoprima di uscire(da 100€)

Finalmente a casaAl rientro le stanze sono perfettamente climatizzate,le persiane si aprono, il cagnolinoe il maggiordomo robotti accolgono pronti ad aiutarti

20.00

BuonanotteÈ il momento del ripososul materasso intelligenteche conosce le tue abitudini nel sonno. Non resta che dormire. Buonanotte!

22.00

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La casa intelligente si sta così trasformando nel santo graal che tutte le aziende tecnologiche cer-cano. Chi troverà la formula maestra, come a suo tempo fece Apple con l’iPod, potrà dominare la scena nei prossimi anni. Si tratta del settore più di-namico nel campo dell’Internet delle cose, etichet-ta esportata dalla Silicon Valley che racchiude ogni dispositivo che abbia una connessione alla re-te e possa comunicare dati a un altro apparecchio. Apple, Google, Samsung, LG, Whirlpool, Sie-mens, Lenovo. La concorrenza, in questo campo, arriva da tutte le parti. E in questa battaglia strate-gica si lancia ora con tutto il suo peso la giappone-se Sony Mobile, che scommette sullo sviluppo di nuovi prodotti intelligenti da qui al 2018: Agent, un piccolo robot assistente personale, dotato di un sistema di riconoscimento del viso e della voce ca-

pace di identificare e salutare il padrone di casa; e Projector, un dispositivo che permetterà di proiet-tare fotografie sul tavolo o su qualsiasi parete, fa-cendo scorrere le immagini con le dita come se si trattasse dello schermo di un iPad. «Vogliamo creare nuove forme di comunicazione», spiega Hi-rohito Kondo, dirigente del dipartimento Nuovi settori di attività dell’azienda giapponese. Tanto Projector che Agent sono dei prototipi in via di ela-borazione e non giungeranno sul mercato prima del 2017. Apple scommette in questo campo sa-pendo di poter contare sulla qualità del suo design e su HomeKit, un software al quale possono acce-dere i fornitori di prodotti per la casa. Google ha presentato, il 19 maggio scorso, il suo nuovo assi-stente per la casa ed è in buona posizione in que-sta battaglia da quando ha acquistato Nest, pro-duttrice del termostato intelligente Nest Lear-ning, uno degli oggetti più rappresentativi di que-sta tendenza. Samsung, da parte sua, partecipa a questa competizione, e così anche marchi famosi di elettrodomestici e televisioni come LG (con il suo sistema per inviare messaggi via cellulare agli elettrodomestici).

Chiunque vinca saranno i telefoni, in molti casi, l’interfaccia tramite cui manovreremo altri dispo-sitivi e apparecchi. La connessione a Internet è ciò che fornisce intelligenza a sistemi, mobili e elettro-domestici, permettendogli di adottare delle deci-sioni grazie a quelle piccole spie che sono i sensori.

Federico Casalegno, direttore del Mit Mobile Ex-perience Lab, dice che però non bisogna dimenti-care una cosa fondamentale: «C’è una grande po-tenziale nella casa interconnessa, soprattutto in termini di razionalizzazione nel consumo di ener-gia. Ma l’obiettivo, alla fine, deve essere che questi dispositivi ti facciano sentire bene, sicuro, che per-mettano l’integrazione con gli altri, che insomma ti facciano sentire a casa tua». E ora, prima di usci-re, ricordatevi di un’altra cosa fondamentale: biso-gnerà interagire con l’assistente perché spenga le luci, abbassi il riscaldamento e chiuda bene tutte le porte. Se poi diciamo a Zoomer che andiamo a fa-re una passeggiata, farà sicuramente due giravol-te e si metterà a scodinzolare. Non spaventatevi.

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SINGAPORE

#ENVENUTI NEL PARADISO del cibo popo-lare, miscelato e originale come in nes-sun’altra parte del mondo. Dove For-mula Uno e grattacieli mirabolanti, pi-scine da mille e una notte e preghiere nei templi buddisti si incrociano con spiedini laccati e involtini di foglie di banano. Il buongiorno si vede dal mat-tino. Si comincia piuttosto presto, ver-so le sei, facendo la coda davanti ai LP�QJUJBN, le caffetterie che insieme al toast caldo con burro e marmellata di

cocco offrono due uova alla coque da sorbire direttamente dal piat-tino (dove sono state aperte e mescolate a salsa di soia e pepe bian-co) più una tazza di caffè nero (LPQJ�0) addolcita con latte conden-sato.

Così corraborati, i singaporiani affrontano la giornata, punteg-giata di appuntamenti alimentari frequenti e ineludibili, visto che nell’isola-stato più ricca d’Asia si mangia in media ogni paio d’ore.

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Una pratica a basso impatto calorico e bilanciata a livello nutrizio-nale, se è vero che l’obesità è quasi sconosciuta e l’aspettativa di vi-ta mutua quella degli standard europei. I rischi accessori riguar-dano ripetitività dei sapori e costi. Mangiare fuori casa cinque, sei volte al giorno significa esborsi continui e alla fine induce il pa-lato alla noia.

Ma Singapore riesce a stupire il più avvertito dei viaggiatori, grazie all’incredibile varietà dell’offerta degli IBXLFS — dall’an-glosassone IPLFS, venditore di strada — e ai prezzi ridottissimi (tra i due e i cinque euro a porzione).

Più che l’onnipotenza alimentare, ha potuto la stratificazio-ne migratoria, che secolo dopo secolo ha portato a Sin-gapore popoli, culture e quindi alimenti lontani tra loro. Mongoli e tamil, indonesiani e cinesi, e poi malesi, thai-landesi, giavanesi, indiani, inglesi, giapponesi. Un in-credibile pout-pourri di gente e di sapori, tutti egual-mente rispettati e riproposti di volta in volta secondo tradizione o modernità. Scarsa la propensione alle mi-scellanee, poche e sapienti le contaminazioni, per evita-re di cancellare l’originalità figlia di storie e geografie differenti. Il tutto, offerto in maniera trasversale sotto la tettoia di un mercato rionale o in forma di gastro-per-

corso all’elegante superstore Ion, a un passo dai palazzi di Shenton Way — la Wall Street locale — o nella hall del meraviglioso hotel Fullerton.

La sfida dei cuochi di nuova generazione è quella di uscire dal-le logiche della ristorazione internazionale — francese in pri-mis, come sempre — e trovare una via autonoma alla cucina d’autore. Sfida nella sfida, convincere i singaporiani che moder-nizzare i menù non è alto tradimento culinario. Il neo-stellato Malcolm Lee del ristorante Candlenut elabora piatti della tradi-

zione Peranakan (malese-cinese) in modo originale, con picco-le porzioni golose molto amate dai più giovani. Ryan Clift, ta-

lento inglese cresciuto in Australia, ha ideato un giardi-no d’erbe sul tetto del vicino centro commerciale, da cui attinge per l’intrigante menù del suo Tippling Club.

Che siate patiti del cibo da strada o frequentatori di cucine stellate, dopo cena tappa d’obbligo al bar colonia-le del Raffles Hotel, dove sorseggiare un Singapore Sling sgranocchiando noccioline e gettando a terra i gu-sci. Nella città dove sputare un chewingum per strada può costare mille euro di multa, una trasgressione sen-za prezzo.

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2UALCHE GIORNO FA DUE

banchetti di “shúshí zhongxin”, o cibo cotto, come li chiamano semplicemente a

Singapore, hanno vinto sulle guide Michelin una stella ciascuno battendo ai punti ristoranti di lusso da duecento, trecento euro a pasto.

Nella piccola isola-Stato in cima alla lista dei più alti redditi pro capite al mondo, di questi baracchini dove si mangia con sei dollari locali, poco più di tre euro, ce ne sono seimila, statisticamente uno per ogni 833 abitanti a vasta maggioranza cinese. Dei quali — a dispetto delle statistiche — una minoranza è straricca e il resto vive di modesti salari. Ma Hill Street Tai Hwa Pork Noodle, assieme al secondo selezionato — Hong Kong Soya Sauce Chicken Rice and Noodle — erano già da molti anni la mèta preferita di tutte le categorie sociali, accomunate dalla passione per i teochew, le polpette di pesce in brodo e altre specialità di spaghetti gialli di soia col maiale o il pollo.

Gli amici che mi hanno invitato a Hill Street Tai Hwa non celano oggi un certo orgoglio mostrando i siti internet dove si parla del piccolo banco di Crawford Lane premiato dalla bibbia internazionale dei buongustai, dove si passava insieme la pausa pranzo tra un giro e l’altro nella città ipertecnologica più cara del mondo, costellata di grattacieli e telecamere (la più alta concentrazione di cctv del pianeta, dicono). Per farsi una mangiata come Confucio comanda, ognuno di noi cambiava parecchie linee dell’efficientissimo metrò per incontrarci alla stazione di Lavendar, distante poche centinaia di metri dal localino. Dentro una specie di mercato all’aperto con la copertura per la pioggia invaso da odori di carni stracotte e risi bolliti, tra negozietti di varie specialità tradizionali e bibite, Tai Hwa era riconoscibile per la fila più lunga al banco con una foto del proprietario quando era più giovane, già stempiato, alle prese coi fornelli dove cucinava le stesse cose preparate dai genitori e dai nonni prima di fuggire a Singapore dal Fujian con l’arrivo del comunismo.

Secondo i miei amici, giunti come il cuoco di Tai Hwa alla terza o quarta generazione di migranti, un buon teochew è quanto di più vicino ai sapori della madrepatria Cina sia rimasto nell’isola, dove si parla ormai più inglese che cantonese o mandarino.

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ROMA

-O SGUARDO OBLIQUO DI DUE TELEGATTI da una mensola. Cappelli, libri, fo-to alle pareti. Loretta Goggi si china su un tavolino al centro del suo stu-dio ai Parioli e fruga nella collezione di copertine. «1MBZCPZ devo averlo a casa. È del 1979. Non nacque per caso. Non andai a propormi, ma quando chiamarono non rifiutai. Alcuni amici erano impazziti per un

numero dedicato in precedenza a Nastassja Kinski. Fu una specie di sfida. Volevo dimostrare che potevo starci anch’io, pur senza l’immagine della “bona”. Ero ap-pena tornata dal mare, la facemmo con un tanga e dei veli: i patti con la redazione erano questi. Non sono mai stata una che ammicca al mistero. Se mi frequenti, do-po un mese di me sai tutto. Non ero la ragazza della porta accanto, casomai ero la signora del piano di sopra».

Loretta Goggi è un portagioie che contiene sfumature. È l’ex ragazzina timida della borghesia romana e la regina del sabato sera più amato di tutti i tempi nella tv italiana: 'BOUBTUJDP 1979, venticinque milioni di spettatori di media. È sta-ta interprete di Shakespeare e doppiatrice del canarino Titti. «Dovrebbe essere la norma per un’attrice: scoprire d’avere più gradazioni. Non sape-vo che Titti fosse maschio, non mi interessava, per me era asessuato. An-che per il doppiaggio di Roz in .POTUFS�$P�, al provino gli americani mi chiesero di recitare con la voce maschile di una donna». Ha messo le sue tonalità nel libro .JMMF�EPOOF�JO�NF (Piemme), tutte le donne che avrebbe voluto essere, tracce, modelli, aspirazioni. «Ero molto intro-

versa da ragazzina, alle feste facevo tappezzeria. Mi senti-vo un Fantozzi al femminile. Mi piaceva lavorare alla radio proprio perché così non mi si vedeva. Se non fosse arrivata -B�'SFDDJB�/FSB, credo che mi sarei iscritta a Lingue per fare l’interprete. Come tutti i timidi cercavo qualcuno interessa-to a scoprirmi. Ero molto responsabile già alle scuole medie. Lavoravo e studiavo a distanza. Un’amica mi spediva in rac-comandata i compiti sui set, mi aiutava in matematica e mi permetteva di essere sulla scena quello che nella vita non riuscivo a diventare: priva di condizionamenti. Il mondo dello spettacolo è impagabile per chi nasce con una gabbia attorno e non sa come aprirla. Era la via per uscire dal guscio. Non volevo diventare qualcuno, volevo ricucirmi a me stessa. Ho cerca-

to questa compagna non so per quanto tempo, per dirle grazie: sono stata sotto ca-sa sua ma ricordavo male il numero civico. Ci siamo ritrovate quattro anni fa».

I Goggi vivevano non distante da piazza Navona. «Mia sorella Daniela e io sia-mo nate in casa. A Natale si stava in venti a tavola dai nonni. Cucinava mia madre, una donna bellissima. Una sosia di Gene Tierney. Capelli neri, labbra carnose, oc-chi luminosi. Era lei a riportarmi alla realtà quando mi coglieva con la testa fra le nuvole. A Beatri’ — diceva — guarda che in camera tua ce sta ancora il letto da si-stema’. Mio padre era vice ispettore all’ufficio del personale della Camera. Mi por-tava spesso in Transatlantico. Ricordo un parcheggio per le auto meraviglioso, il senso di austerità e severità così naturale per lui e per l’Italia d’allora. Starò parlan-do del ’55. Usciva sempre in giacca, camicia e cravatta, solo il sabato si liberava: metteva il jeans, giocava a pallone, andava a cavallo. Se avesse potuto seguire le sue passioni, avrebbe fatto il chitarrista, ma il posto fisso vinse. Mi ha trasmesso il suo amore, a casa avevamo il piano, mi ha fatto studiare. Il mio nome è Loretta a causa del suo debole per Loretta Young, mia madre avrebbe voluto chiamarmi Mi-chela. Da ragazza avrò incontrato sì e no tre Lorette in tutto, oggi è più comune, qualcuno dice pure per colpa mia. C’è stato a un certo punto un boom di Lorette, di Romine, poi di Lorelle».

Sfogliando i giornali degli anni Settanta si scopre una rivalità Goggi-Carrà che adesso Loretta nega. «Non poteva esistere. Facevo $BO[POJTTJNB�ma avevo venti-due anni. Lei era sexy e metteva le paillettes, io non avevo una costumista, non vo-levo scendere le scale negli spettacoli, mi piaceva ballare ma anche recitare canta-re condurre. C’era grande differenza fra noi. Non so se ci fosse gelosia, non ce lo sia-mo mai domandate. Io mi rivedo in Paola Cortellesi, in Virginia Raffaele. Se potes-si rinascere, farei la ballerina classica. Adoro chi è padrona di ogni millimetro del suo corpo». Quel corpo che Loretta Goggi ha trattato a lungo come un assillo. «Le etichette mi condizionavano. Per me c’era sempre la parte di un’orfana, di una po-vera, di una malaticcia. Bianca, cadaverica, le occhiaie. In camera avevo un dise-gno della Valentina di Crepax. Lei era il territorio irraggiungibile, la vera ragazza degli anni Settanta. Libera nei confronti del sesso, senza paure, disinibita. Ogni volta che aprivo lo sportello dell’armadio, me la trovavo riflessa nello specchio, al-le mie spalle, e allora di nascosto provavo a mettermi in posa come lei. Pesavo qua-rantasei chili. Non mi sono mai accorta di poter piacere. Un giorno arriva Mita Me-dici, nel pieno del suo splendore, e mi fa: quest’estate ce ne andiamo in vacanza as-sieme, io tu e tua sorella Daniela. Non mi pareva vero. Disse: andiamo dove ci por-ta il vento. Con l’autostop. Incominciai a immaginare avventure splendide. Mia madre ci fermò: siete fuori di testa. Era terrorizzata. È rimasto un sogno, un gran-de rimpianto».

Era la Loretta che come tante altre ragazze consegnava a un diario le sue fanta-sie. Solo che lei sapeva serrarle in modo invincibile. «Scrivevo che mi piacevano Ca-ry Grant e Rock Hudson, cose così, ingenue, eppure mi parevano inconfessabili. Avevo paura che mia madre le scoprisse. Perciò incollavo le pagine, una sull’altra. Il diario è diventato un solo blocco rigido, un unico foglio spesso, dopo la copertina con i fiori d’arancio, dove si riesce a leggere solo la dedica della zia. Lo conservo an-cora». L’ex ragazza che voleva nascondersi è diventata un’icona gay. «Ho chiesto molte volte perché: a parte le pettinature con cui ho rivaleggiato con David Bowie

e Lady Gaga. Credo che di me siano piaciute prima l’ironia e poi la fragilità con cui confesso in pubblico il mio disagio di vivere dopo la morte di Gianni, mio mari-

to». Gianni Brezza, primo ballerino conosciuto a 'BOUBTUJDP. Una storia d’a-more come una su mille. «Il primo giorno che ci incontrammo, aveva de-gli hot pants sdruciti e una canotta da basket. Abbronzatissimo. Si sta-va allacciando le scarpe da tennis con una gamba sollevata e poggiata alla sbarra, in palestra. Pensai che sarebbe stato impossibile passare tre mesi con quello là. Se adesso fosse qui, lui racconterebbe che inve-ce rimasi colpita subito e che il mio occhio sinistro si fece più piccolo. Finse di dover andare fuori per il weekend con una ragazza, faceva l’uomo tormentato per questa relazione, in realtà fingeva, voleva capire la mia reazione. Io gli risposi candida che sarei andata in cam-

pagna a raccogliere funghi con Pace, Panzeri e Pilat. Il lunedì gli domandai: com’è andata con la tipa? Lui neppure si ricorda-

va della bugia. Una sera usciamo e in macchina gli confesso che ancora non ho chiuso una storia. Lui frena, apre lo spor-tello e mi fa scendere: una donna, dice, la voglio tutta per me. Mi lascia di notte, da sola, in centro a Milano. Capii che mi piaceva all’uscita dal cinema, avevamo visto .BOIBU�UBO di Woody Allen. Mi aveva invitato e non sapeva se sa-rei andata. Io ero andata ma non sapevo se lo avrei trova-to. Così tutt’e due all’appuntamento ci nascondemmo, per non fare la figura di essere stati mollati. Ci urtammo di schiena, ed è cominciata così. Ci baciammo in scena duran-te le prove di un balletto. Disse: se non ti stacchi tu, perché dovrei staccarmi io? Andammo a vivere insieme, avevo ven-totto anni e per la prima volta i miei non mi accompagnava-no da qualche parte. Non aveva bisogno di una donna sexy, ma di una donna vera. Mi manca, mi manca ogni giorno. Per-

ciò litigo con le sue foto».

È la ragazzina timida della borghesia romana (“alle feste facevo

tappezzeria”) ma anche la cover girl di Playboy luglio ‘79 (“ero ap-

pena tornata dal mare, tutta tanga e veli”). Nello stesso anno condu-

ce il “Fantastico” più fantastico nella storia della tv (“io rivale della

Carrà?”) e dieci anni prima è la “Freccia nera” più amata dagli italia-

ni (“se non avessi avuto quella parte mi sarei iscritta a Lingue”).

Nella sua carriera ha interpretato Shakespeare e dato una voce al

canarino Titti. “È vero, in me ci

sono mille donne” (è il titolo del

libro in cui ora si racconta) “ma

non perché volessi diventare

qualcuno. Volevo solo uscire dal

guscio, ricucirmi a me stessa”

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