Vergogna, basi neurobiologiche, quadri clinici ed approcci ...

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Sabato 10 settembre 2011 Lograto, Villa Morando, ore 9.00 Convegno e dibattito pubblico Vergogna, basi neurobiologiche, quadri clinici ed approcci terapeutici organizzato da ASSOCIAZIONE UMA.NA.MENTE __________________________________________________________________________ Espressioni artistiche della vergogna Luigi Tonoli Pietro Canonica, Pudore, 1890 (Museo Pietro Canonica a Villa Borghese)

Transcript of Vergogna, basi neurobiologiche, quadri clinici ed approcci ...

parole&vergognaConvegno e dibattito pubblico
organizzato da ASSOCIAZIONE UMA.NA.MENTE
NOTE SULLE ORIGINI DEL CONCETTO DI VERGOGNA.
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La civiltà omerica. L’αδς e l’educazione aristocratica.
Riferendosi alla civiltà omerica (IX sec), nel 1951 Eric Dodds scrive:
Il bene supremo dell’uomo omerico non sta nel godimento di una coscienza tranquilla, sta nel possesso della timé, la pubblica stima. “Perché dovrei combattere, domanda Achille, se nello stesso pregio (τιµ) sono il codardo e il prode?” La più potente forza morale nota all’uomo omerico non è il timor di Dio, è il rispetto dell’opinione pubblica, aids: αδοµαι Τρας, dice Ettore nel momento risolutivo del suo destino, e va alla morte con gli occhi aperti. La situazione cui risponde il concetto di ate sorse non soltanto dall’impulsività dell’uomo omerico, ma anche dalla tensione fra impulso individuale e pressione del conformismo sociale, caratteristica delle civiltà di vergogna, ove tutto quel che espone l’uomo al disprezzo o al ridicolo dei suoi
simili, tutto quel che gli fa “perdere la faccia”, è sentito come insopportabile. Questo forse spiega perché fossero proiettati sopra un’operazione divina non soltanto le mancanze morali, come l’incapacità di Agamennone a dominarsi, ma anche il cattivo affare di Glauco e l’errore tattico di Automedonte.1
Dodds, scrivendo di rispetto per l’opinione pubblica, fa riferimento al concetto greco di αδς: il valore semantico del termine si estende dall’idea di «vergogna» come «riverenza e rispetto» a quella di «pudore», «verecondia», «modestia», «timidezza», «ritrosia». La stessa radice si trova anche nei verbi αδοµαι e αδοµαι che esprimono l’idea di «vergognarsi di fare una cosa» e «sentire riverenza e rispetto di fronte a qualcuno o qualcosa». (Un significato, quello di «temere qualcosa di sacro» e «aver rispetto», che è presente anche nel verbo latino vrri, da cui l’italiano vergogna
2.)
Per effetto dell’αδς l’uomo è inibito dal fare il male, ma anche dal commettere errori che ne ledano l’onore3. Il concetto greco dunque sintetizza un codice di comportamento che prende forma dentro un reticolo di relazioni fra il soggetto e la comunità di appartenenza ed è quindi in stretta connessione con altri valori.
Innanzitutto con la τιµ, la «pubblica stima», l’«onore». Si gode della τιµ quando si è data prova di avere una ρετ, una qualità peculiare che distingue chi la possiede da tutti i suoi simili (può essere la forza, il coraggio, ma anche l’astuzia, l’intelligenza, l’eloquenza; per una donna la bellezza e l’abilità nel lavoro domestico). È anche vero però che l’ρετ esiste se è pubblicamente riconosciuta, dunque se è accompagnata dalla τιµ. Non avendo il concetto di coscienza, l’uomo omerico considera il pubblico riconoscimento garante dell’esistenza dell’ρετ. In conseguenza, una persona che non gode di onore non ha neppure qualità, né identità, né ruolo sociale significativo e la sua esistenza ne è drammaticamente condizionata.
Dunque non esiste ρετ senza τιµ e non esiste τιµ senza ρετ.
Se un eroe omerico si distingue valorosamente in battaglia, rispettando gli obblighi del rango e dell’identità eroica, conquista il κλος (la «gloria», soprattutto presso i posteri). Dal successo in battaglia derivano dunque τιµ e κλος («onore» e «gloria»), e questo spiega perché i termini χρµα («gioia», «diletto») e χρµη («battaglia») siano in stretta parentela etimologica.
La battaglia è dunque il luogo per eccellenza in cui si manifesta l’ρετ e l’attribuzione di un premio concreto (ad esempio una parte del bottino) sancisce il possesso di un’ρετ e il godimento della τιµ. Il premio del valore mostrato è appunto il bottino e la sua mancata assegnazione è prova di assenza di τιµ e quindi di ρετ. Questo spiega la facilità con cui nascono le discordie fra gli eroi omerici: la gelosia per la propria τιµ scatena ad esempio l’ira di Achille e di Agamennone (e la portata esistenziale dei valori in gioco è tale che Achille per il torto subito è disposto a lasciar morire i suoi compagni).
In questo contesto si spiega anche perché non possono nemmeno essere concepiti la pietà per i vinti e il rispetto per il cadavere dello sconfitto.
L’ αδς è alla base dell’educazione aristocratica: obbliga alla tensione verso l’ideale e, se viene tradito, espone alla νµεσις, alla punizione, al giusto sdegno che la società prova nei confronti di chi ha agito vergognosamente.
Esiodo. Il lavoro: l’αδς buona e l’αδς non buona.
Nelle Opere e i giorni di Esiodo (VIII-VII sec.) il concetto di vergogna compare legato al mondo del lavoro e alla ricerca onesta del benessere, un compito che ogni uomo deve assumersi accettando – ed è importante – il posto che la sorte gli ha assegnato. Il concetto di αδς quindi, a seconda dei risultati raggiunti e a seconda dei modi con cui sono stati conseguiti, assume accezione positiva o negativa. In un passo Esiodo, dopo aver celebrato il lavoro come via necessaria per ottenere il favore degli dei e il benessere economico e dopo aver condannato l’inattività come un’onta (νειδος) per l’uomo4, riconosce che esiste anche l’αδς δ οκ γαθ l’«aidós non buona», quella che designa il senso di inferiorità di chi è caduto in condizione di indigenza.
αδς δ οκ γαθ κεχρηµνον νδρα κοµζει, αδς, τ νδρας µγα σνεται δ ννησιν· αδς τοι πρς νολβ, θρσος δ πρς λβ.
(ργα κα µραι, 317-19)
(“Non è una buona vergogna quella che accompagna l’uomo indigente,
la vergogna che molto danneggia o molto aiuta gli uomini,
la vergogna si aggiunge alla miseria, l’audacia alla fortuna”)
Nei versi successivi Esiodo torna poi all’accezione positiva di αδς dichiarando che la ricchezza non data dagli dei, cioè ottenuta non con il lavoro, ma con l’inganno o la violenza, è frutto di assenza di αδς (ν- αιδεη, «impudenza»).
[…] ο τε πολλ γνεται, ετ ν δ κρδος νον ξαπατσηι νθρπων, αδ δ τ ναιδεη κατοπζηι, εα δ µιν µαυροσι θεο, µινθουσι δ οκον νρι τι, παρον δ τ π χρνον λβος πηδε.
(ργα κα µραι, vv. 322-326)
(“come assai spesso suole accadere, quando il guadagno inganna la mente
dell'uomo, e allora Sfrontatezza vince Vergogna;
ma allora facilmente l'abbatton gli dèi, distruggon la casa a quell'uomo, e per poco tempo la fortuna lo segue.”)
In altro passo della stessa opera, racconta il susseguirsi delle età nella storia dell’uomo: l’ultima, la quinta, quella del ferro, è caratterizzata da fatiche, affanni5, aspre pene, ma anche da cose buone, alle cattive mescolate. Poi anche questa stirpe degenererà senza rimedio e sarà distrutta da Zeus. La desolazione finale sarà Vergogna e Sdegno (Αδς κα Νµεσις).
κα ττε δ πρς λυµπον π χθονς ερυοδεης λευκοσιν φρεσσι καλυψαµνω χρα καλν θαντων µετ φλον τον προλιπντ νθρπους Αδς κα Νµεσις τ δ λεψεται λγεα λυγρ θνητος νθρποισι κακο δ οκ σσεται λκ.
(ργα κα µραι, vv 197-201)
(“Sarà allora che verso l'Olimpo, dalla terra con le sue ampie strade, da candidi veli coperte le belle persone degli immortali alla schiera andranno, lasciando i mortali, Vergogna e Sdegno: i dolori che fanno piangere resteranno
agli uomini e difesa non ci sarà contro il male.”)
In Esiodo dunque la vergogna, come αδς, designa il corretto modo d’agire, ma anche l’insopportabile condizione di totale indigenza, come nella miseria e nella desolazione della fine dei tempi. Callino e Solone. L’αδς come impegno per lo Stato.
Nella poesia elegiaca di Callino (VII sec.) e Solone (VII-VI sec.) il termine αδς è utilizzato nell’accezione eroica omerica.
Callino è di Efeso, nella Ionia. I Cimmeri e i Treri, orde di predoni, nel 652 sconfiggono il re della Lidia Gige, ne conquistano la capitale Sardi e dilagano per le coste dell’Asia Minore. Il pericolo è imminente e Callino, appellandosi alla vergogna che muove all’azione, rivolge ai giovani la sua pressante parenesi perché si rendano finalmente conto della minaccia che incombe sulla città e affrontino la guerra con coraggio.
fr. 1 Μχρις τε κατκεισθε; κτ λκιµον ξετε θυµν, νοι; οδ αδεσθ µφιπερικτονας δε λην µεθιντες; ν ερνηι δ δοκετε σθαι, τρ πλεµος γααν πασαν χει.
(“Fino a quando sarete oziosi? Quando avrete un animo forte,
o giovani? Non provate vergogna, così neghittosi, dei vostri vicini? Stare seduti in tempo di pace voi sembrate, ma la guerra possiede l’intero paese.”)
Solone, eletto arconte di Atene nel 594, avvia vaste riforme sociali e difende con orgoglio il proprio operato. L’αδς (nella forma verbale αδοµαι) è in relazione con il κλος (la «gloria»)6 che, come in Esiodo, è espressione di un retto operare e di un brillante risultato (Non si è lontani dall’antica idea dello stretto rapporto tra vergogna e onore.)
fr. 32. ε δ gς (fhsin) ejfeismhn patrdoς, turanndoς d ka bhς meilcou o kajqhymhn minaς ka kataiscuvnaς kloς, odn aidomai: plon gr de niksein dokw pntaς nqrpouς.
(“Se risparmiai la patria,
se alla tirannide non volsi l’animo né all’amara violenza,
macchiando e disonorando la mia fama,
non mi vergogno: così, credo, sarò superiore a tutti gli uomini.”)
Sofocle ed Euripide. L’αδς come timore del ridicolo e angoscia di vergogna.
Nella tragedia di Sofocle e di Euripide (V sec.) il termine αδς designa l’azione eroica. L’intreccio τιµ, αδς e κλος si trova, ad esempio, nell’Aiace di Sofocle: il protagonista è convinto di essere il degno erede delle armi di Achille in virtù del suo valore guerriero e della sua forza. Deluso, accecato da Atena, credendo di infierire sugli Achei, ne massacra i buoi e i montoni. Poi tornato in sé non sopporta la vergogna e decide di riscattare il suo onore e la sua reputazione con il suicidio, e si trafigge con la spada ottenuta in dono da Ettore. Il suicidio è un modo per far conoscere il proprio onore e la morte eroica procura un grande onore, κλος, che è anche l’unica forma conosciuta di immortalità: grande è colui che come grande è ricordato per le sue gesta eroiche.
Ma particolarmente significativo in questa sede è l’accento posto sul tema della derisione. È insopportabile per gli eroi della tragedia il timore dello scherno, di amici e nemici.
Antigone è talmente preoccupata di non essere derisa che interpreta come scherno le parole che il coro le rivolge con intento consolatorio:
οµοι γελµαι. τ µε, πρς θεν πατρων. οκ οχοµναν βρζεις, λλ πφαντον; πλις, πλεως πολυκτµονες νδρες:
(vv. 839-841)
(“Ahimé sono derisa. Perché, per/gli dei patrii,/non mi oltraggi quando sono sparita,/ma mentre sono visibile?”)
Per Medea il dolore più insopportabile è non ricevere l'onore (τιµ) dovuto al suo valore (ρετ) di donna:
σ δ οκ µελλες τµ τιµσας λχη τερπνν διξειν βοτον γγελν µο
(vv. 1354-1355)
(“tu non dovevi, disonorato il mio letto, vivere una vita felice irridendomi”)
Medea non sopporta il ridicolo e ad esso preferisce la fama di responsabile di atroci delitti, macchiatasi del sangue dei suoi stessi figli.
Μη. µακρν ν ξτεινα τοσδ ναντον λγοισιν, ε µ Ζες πατρ πστατο ο ξ µο ππονθας ο τ εργσω σ δ οκ µελλες τµ τιµσας λχη τερπνν διξειν βοτον γγελν µο οδ τραννος οδ σο προσθες γµους Κρων νατε τσδ µ κβαλεν χθονς. πρς τατα κα λαιναν, ε βοληι, κλει κα Σκλλαν Τυρσηνν ικησεν πδον τς σς γρ ς χρν καρδας νθηψµην.
(vv. 1351-1361)
(“Molto avrei da replicare alle tue parole, se Zeus padre non sapesse cosa ho fatto io per te e cosa hai fatto tu contro di me. Non
dovevi, in spregio al mio letto, riservarti per il domani un'esistenza di felicità, ridendo alle mie spalle; e neppure lei, la principessa. E il re Creonte, che ti ha preparato queste nozze, non doveva cacciarmi dal paese senza pagarne le conseguenze. Perciò, chiamami pure leonessa, se ti fa piacere [, e Scilla, il mostro che abita nel vasto Tirreno]; io ti ho colpito al cuore; è i] contraccambio che meritavi.”)
Medea, come Antigone, è spinta ad agire senza cedimenti dal timore di vergogna, che è già – dicono gli esperti - una forma di vergogna, appunto l’angoscia di vergogna
7, l’angoscia che nasce per qualcosa che sta per succedere. L’azione che ne consegue è spesso un misto di eroismo, di ferocia e di irrazionalità8.
Racconta Medea. Tutti lo sanno, anche i compagni della nave Argo: è lei che ha salvato la vita a Giàsone, quando fu mandato ad aggiogare i tori che spirano fuoco e a seminare il campo della morte. Lei ha ucciso il drago insonne che custodiva il vello d'oro nel groviglio delle sue molte spire.
Lei ha tradito il padre, per seguire Giasone a Iolco, dando retta all’impulso non alla ragione. Lei ha ucciso Pelìa servendosi delle sue figlie. E Giasone, dopo aver avuto tutto questo, la tradisce, trovandosi un'altra moglie, quando già aveva avuto figli da Medea.
L’eroina umiliata teme la derisione che metterà in pericolo la sua identità e la sua reazione difensiva non si ferma di fronte all’efferatezza. Medea, come Achille, non ha paura di provocare l’altrui rovina pur di salvare il proprio onore. Quando Giasone in uno degli ultimi versi della tragedia si rivolge a Medea chiedendole se ha ucciso i figli (cosa che lei ha effettivamente fatto), lei risponde
Σ γε πηµανουσ. (v. 1398)
“Per tormentare te”
Platone. Ασχνη e αδς. Disonore e reazione al disonore.
Nell’Eutifrone e nell’Apologia di Platone (V-IV sec.) è particolarmente significativa la declinazione del concetto di vergogna in termini formati sulla radice αδ- (come αδς di cui si è finora parlato) e sulla radice ασχ- (presente in ασχνη, ασχνοµαι…). Se la radice αδ- indica essenzialmente il “rispetto” (come nel verbo latino aestumare, “stimare, apprezzare, valutare”), la radice ασχ- designa principalmente la “vergogna” (per azione passata o possibile), intesa come “onta”, “disonore”, “offesa”, “ingiuria”. La radice ασχ- dunque indica il tipo di vergogna che riguarda qualcosa che può o sta per accadere o il tipo di vergogna relativo a qualcosa che è già accaduto. La radice αδ- designa invece un atteggiamento reattivo che cerca di impedire la vergogna dei due precedenti tipi9. Ciascuna delle due radici naturalmente comprende anche il significato dell’altra, ma con proporzione di peso invertita.
In questo senso si può capire la connessione fra vergogna e paura nell’Eutifrone. Ragionando sull’affermazione di un antico poeta, identificato dalla critica con Stàsino di Cipro10, Socrate afferma: «Dove è vergogna, lí è paura». Il termine usato è αδς, a confermare l’accezione di «atteggiamento reattivo alla vergogna come disonore».
Σωκρτης Οκ ρ ρθς χει λγειν «να γρ δος νθα κα αδς,» λλ να µν αδς νθα κα δος, ο µντοι να γε δος πανταχο αδς π πλον γρ οµαι δος αδος. µριον γρ αδς δους σπερ ριθµο περιττν, στε οχ ναπερ ριθµς νθα κα περιττν, να δ περιττν νθα κα ριθµς. πηι γρ που νν γε;
(Εθφρων, 12 C)
(“SOCRATE Ma dove è vergogna, lí sí è paura; chi si vergogna e arrossisce di qualche cosa, non teme d’averci a fare una figuraccia? Dunque non sta bene dire, dove è paura, è vergogna; ma sí dove è vergogna, lí è paura. E davvero non dovunque è paura è vergogna, ché l’una piú si stende largamente che l’altra, e la paura è parte della vergogna, come il pari è del numero: ché dovunque è il pari c’è sempre il numero, e dovunque è il numero non ci è sempre il pari. E or mi tieni dietro, ora?”)
Nell’Apologia Socrate immagina che gli venga chiesto se non si vergogni di aver agito in modo da suscitare sdegno e dunque pubblica condanna (cioè νµεσις). Il verbo utilizzato ha radice ασχ- perché l’azione in giudizio è già avvenuta.
σως ν ον εποι τις. «ετ οκ ασχνηι, Σκρατες, τοιοτον πιτδευµα πιτηδεσας ξ ο κινδυνεεις νυν ποθανεν;»
(Απολογα Σωκρτους, 28b)
(“Ma, a questo punto, qualcuno potrebbe dirmi: «Non ti vergogni, Socrate, di avere svolto un’attività per la quale, ora,
corri il rischio di morire?»”)
All’ipotetica obiezione Socrate risponde che un uomo di merito non calcola il rischio di morte, ma, soppesata la giustizia e l’onestà dell’azione da intraprendere, procede saldamente secondo il proprio disegno, consapevole che l’onore dipende dall’attuazione coerente del progetto. Indirettamente Socrate supera anche la concezione della vergogna come dipendente dalla pubblica opinione o stima.
Nel Simposio Alcibiade descrive gli effetti prodotti dai discorsi di Socrate:
πρς τοτον µνον νθρπων, οκ ν τις οοιτο ν µο νεναι, τ ασχνεσθαι ντινον: γ δ τοτον µνον ασχνοµαι. σνοιδα γρ µαυτ ντιλγειν µν ο δυναµν ς ο δε ποιεν οτος κελεει, πειδν δ πλθω, ττηµν τς τιµς τς π τν πολλν. δραπετεω ον ατν κα φεγω, κα ταν δω, ασχνοµαι τ µολογηµνα. κα πολλκις µν δως ν δοιµι ατν µ ντα ν νθρποις: ε δ α τοτο γνοιτο, ε οδα τι πολ µεζον ν χθοµην, στε οκ χω τι χρσωµαι τοτ τ νθρπ.
(Συµποσον, 216b - 216c)
(“Soltanto davanti a quest’uomo io ho provato una cosa che nessuno mi sospetterebbe: quella di vergognarmi. Davanti
a lui solo, io mi vergogno, perché riconosco che non ho la forza di contraddirlo, di oppormi a quello che mi dice di
fare, ma poi, appena mi allontano da lui, ecco che mi lascio nuovamente prendere dal favore popolare; così lo evito e
lo fuggo e quando lo vedo, solo a pensare a tutte le cose di cui mi ha convinto, arrossisco dalla vergogna. Tante volte mi farebbe addirittura piacere che non fosse più a questo mondo, anche se poi, so benissimo che questo mi addolorerebbe assai di più e così, con un uomo simile, non so proprio come fare.”)
Socrate costringe Alcibiade a fare i conti con la propria conoscenza di sé e a prendere atto che la sua rassicurante certezza che esiste solo un mondo (il suo mondo) non ha ragion d’essere. Alcibiade si trova spiazzato in una condizione di ambiguità: da una parte il disappunto (tra turbamento e disagio) di vedersi in fallo, dall’altra il disappunto (tra senso di inadeguatezza e senso di insufficienza) di scoprire che ogni sforzo per non ripetere l’errore è un gioco diperato. In questa ambiguità si colloca il sentimento della vergogna.
Nei passi citati di Platone la vergogna è connessa in primo luogo con la coscienza e, in secondo luogo, con la coerenza fra pensiero e azione, tra il progettare in funzione dell’attuazione e l’attuare nel rispetto della progettazione.
Aristotele. L’αδς e l’ασχνη come mescolanza di vizio e virtù.
Aristotele (IV sec.), nell’Etica Nicomachea, ha dell’αδς una visione sostanzialmente negativa: la considera una passione più che una disposizione morale. È paura del disonore e ha effetti simili alla paura di fronte ai pericoli (entrambe le condizioni, tra l’altro, hanno evidenti manifestazioni fisiche: in un caso si arrossisce, nell’altro si impallidisce). L’αδς può avere dunque qualche utilità educativa in età giovanile.
In quanto ασχνη, invece, la vergogna consegue ad atti volontari, ma l’uomo virtuoso non dovrebbe commettere volontariamente azioni di cui vergognarsi. Può anche essere positivo vergognarsi di una cattiva azione, ma di certo non si è nel campo delle virtù. Insomma «se l’impudenza, cioè il non vergognarsi di commettere azioni brutte, è una cosa miserabile, non per questo sarà virtuoso il vergognarsi di commettere azioni simili»11.
ε δ ναισχυντα φαλον κα τ µ αδεσθαι τ ασχρ πρττειν, οδν µλλον τν τ τοιατα πρττοντα ασχνεσθαι πιεικς.
(θικ Νικοµχεια, 1128 b)
Entrambi i concetti (αδς e ασχνη) hanno una radice negativa: il primo è di natura passionale, il secondo implica un’azione miserabile.
ALCUNE IDEE DI VERGOGNA NELL’ARTE.
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La metafora artistica apre sempre nuove possibilità interpretative dei concetti esposti. Qualche esempio.
Le manifestazioni fisiche della vergogna in Masaccio.
«Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della
spada folgorante, per custodire la via all’albero della vita» (Genesi, 3, 23-24)
L’affresco di Masaccio, databile al 1424-1428, è una descrizione fenomenologica della vergogna: i personaggi si sentono scoperti, smascherati, avvertono improvvisamente il senso insopportabile della nudità. Eva, una sorta di greca Venere pudica, si scopre esposta allo sguardo altrui e vista come non vorrebbe essere vista. Ha perduto l’immagine che prima aveva e dava di sé, si accorge di esporre evidente la propria intimità e tenta di coprirsi. Adamo, turbato, si vergogna di vedere e non vuol vedere d’essere visto. Se ne va nascondendo il viso.
La vergogna è connessa con il vedere e l’essere visti.
La situazione è così grave da non ammettere gesti superficiali: la vergogna blocca ogni altra azione che non sia quella irresistibile del desiderio di non essere visibili. Di Adamo ed Eva si sono manifestati aspetti che essi stessi considerano indecenti se non mostruosi. Ora essi sono coscienti di sé e si giudicano, sono rigidamente rivolti a sé stessi. Non ci sono infatti particolari, accanto alle figure, che rinviino a ciò che prima è accaduto: i gesti rivelano chiaramente che i personaggi sono presi non tanto da ciò che hanno fatto, ma da ciò che sono. Nudi. La vergogna del corpo come vergogna di sé, autocondanna e rifiuto.
Il dramma di Adamo ed Eva riguarda dunque la loro identità dolorosamente smascherata: da una parte si vedono dal punto di vista di Dio e continuano a vedersi per come si sentono visti da Dio; dall’altra continuano a sentirsi visti da Dio esattamente per come ora improvvisamente si vedono12.
Avendo mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, escono da un mondo senza vergogna. Hanno scoperto che non esiste per loro solo un mondo: conoscono un secondo livello esistenziale, dal quale si vedono in fallo. Ma acquisiscono però anche la possibilità di vedersi con gli occhi di Dio, dunque si vedono nudi ma si vedono anche nell’atto di vedersi nudi (e a questo terzo livello, quello del vedersi nell’atto di vedersi, la loro nudità si manifesta come inadempienza nei confronti dei precetti ricevuti, in termini greci: la mancanza di αδς genera ασχνη). Il vedersi nell’atto di vedersi li rende simili a Dio e comporta il desiderio di non essere visti.
La vergogna, appunto, è connessa con il vedere e l’essere visti.
Tuttavia ogni sforzo di non vedere/essere-visti e di tornare alla condizione di prima è inutile. Di nuovo l’ambiguità del vedersi in fallo e del sapersi disperati (cioè certi dell’inconciliabilità fra l’io e l’ideale dell’io). Da qui la vergogna.
Il ruolo ascetico della vergogna in Jacopone da Todi.
Ribelle al papa, Jacopone fu scomunicato e relegato nei sotterranei del convento di San Fortunato a Todi. Lì sopportò e descrisse il proprio isolamento, la fame, il gelo, le catene e la sporcizia con ascetico disprezzo per il corpo e la vita terrena.
Forse Jacopone non volle nemmeno essere poeta e i suoi versi composti fra il 1268 (anno in cui è tradizionalmente collocata la sua conversione) e il 1306 (data della morte) non sono che una forma di preghiera o di predicazione. La sua aspirazione è rivolta al congiungimento mistico con Dio, e, siccome Dio non ha corpo, l’uomo che vuole avvicinarsi a Dio deve trasformarsi, annullando la propria natura umana.
Da qui il tipico lessico jacoponico: l’azione religiosa è un anegare, inabissare (perdere nozione di sé), annichilare (annullarsi); la parola è uno stridere (annullare il linguaggio, in quanto come espressione della natura umana, significa ricorrere all’urlo, se non è possibile il silenzio); la condizione dell’uomo è abisso, caligine (tenebra).
Persino la cultura linguistica viene negata attraverso il ricorso a forme popolari e allo stravolgimento deformato. L’esporsi al pubblico disprezzo (per la povertà della lingua e per l’abiezione fisica ed economica), il mettersi cioè in condizione di vergogna e l’immergersi nella rappresentazione della propria vergogna costituiscono una scelta di vita basata sull’evidente capovolgimento dei tradizionali significati dei termini αδς e ασχνη (non è cercata la pubblica stima, ma il pubblico disprezzo).
Poi che èi stato assai ne lo pensieri, che de lo star cun Deo ài costumanza, lo Entelletto mittete a vedere li ben’ c’ài receputi enn abundanza e chi si tu per cui vòlse morire che rotta li ài la fede e la leianza, e che isso Signor vòlse soffrire da me<ne> peccator tant’offensanza. De vergogna vogliome vestire,
non trovo loco de far satisfanza! (Jacopone, Laude, 77, vv. 101-110)
Jacopone cerca ciò che gli altri rifiutano e nell’umiliazione e nel degrado trova la via della salvezza. L’annullamento della propria entità fisica e le precise descrizioni della sofferenza, delle pene, delle malattie, della condizione di vergogna equivalgono a esprimere desiderio di ricongiungimento al Padre, amore (come follia) per Cristo e in particolare per il Cristo della passione.
Se l’esposizione al pubblico disprezzo è condizione desiderabile, il godimento di buona fama non può che essere un male. Jacopone, infatti, condanna i frati che accettano cariche religiose importanti, amministrative o accademiche, e anche chi ottiene fama e rispetto con una vita di penitenza. Nella lauda Que fai, anema
predata? immagina un dialogo all’inferno a cui partecipa una religiosa tradita dall’ambizione alla santità. («Quanno odìa clamar la santa, / lo cor meo soperbia ennalta», v. 109, confessa la religiosa, forse Chiara da Montefalco, canonizzata nel 1881).
Quanno odìa clamar ‘la santa’, lo cor meo soperbia ennalta. Or so’ menata a la malta co la gente desperata. S’e’ vergogna avesse auta,
non siria cusì peruta;
la vergogna averìa apruta
la mea mente magagnata. Forsa me sirìa corressa, ch’e’ non fòra a cquesta oppressa; l’onoranza me tenne essa ch’eo non fusse medecata. (Jacopone, Laude, 37, vv. 47-58)
La religiosa confessa che la vergogna avrebbe potuto aprirle una nuova vita. Con i versi di Montale: «E la vergogna non è, garzon bennato, che un primo barlume della vita.»13. In questo caso, dunque, non è punto d’arrivo dell’ascesi (come nella prima accezione), ma punto di partenza per la vita vera.
La vergogna come inizio di un percorso morale e conoscitivo in Petrarca. Petrarca nel sonetto proemiale del Canzoniere (1356?) chiede perdono ai lettori per la sua debolezza di cui dichiara di provare intensa vergogna. Il sonetto si presenta come manifesto programmatico, ma, scritto per ultimo rispetto agli altri testi del canzoniere, è anche una valutazione sintetica del percorso poetico ed esistenziale compiuto. Parla dell’alternarsi delle emozioni, ma anche della varietà dello stile dei versi e della corrispondenza fra poesia e condizione interiore. Il sonetto è dunque una chiave per comprendere il significato attribuito dall’io lirico alla propria vicenda amorosa e per riconoscerne alcune convinzioni poetiche.
Petrarca, infatti, è insoddisfatto per l’alternanza di speranza e dolore, di felicità e infelicità. Ma soprattutto prova vergogna per la vanità, all’origine così della speranza
come del dolore. Nonostante le conquiste della conoscenza, le sue cure non cessano di essere per la realtà terrena, per natura caduca ed effimera.
La varietas dei versi e dello stato interiore dichiara il fallimento della concentrazione su ciò che conta e il mancato raggiungimento di un saggio distacco dalla vana mondanità. La vergogna – si diceva – è primo barlume di una nuova vita, in Petrarca prelude al Pentimento e alla Conoscenza14.
et del mio vaneggiar vergogna è ‘l frutto,
e ‘l pentersi, e ‘l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.
La vergogna cioè ha effetto morale e conoscitivo (produce Pentimento e Conoscenza) e anche il lettore può compiere lo stesso percorso se concede al poeta pietà e perdono, cioè un’adesione prima emotiva (la pietà) e poi morale (il perdono)15.
I tratti stilistici, come in Jacopone, rivelano la direzione in cui l’io lirico si sta muovendo. Nel caso di Petrarca il linguaggio medio, selezionato, lontano dal crudo realismo, l’uniformità timbrica e musicale, il ricorso sistematico a forme retoriche che rendono il testo equilibrato (antitesi, coppie, parallelismi, allitterazioni) danno forma all’aspirazione al distacco dalle passioni, al viverle come ricordo lontano, con lo stato d’animo di chi si è pentito e conosce. Ma il distacco non è mai compiuto e il perfetto equilibrio formale non è mai raggiunto, come il sonetto dichiara e mostra.
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono di quei sospiri ond’io nudriva ‘l core in sul mio primo giovenile errore quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,
del vario stile in ch’io piango et ragiono fra le vane speranze e ‘l van dolore, ove sia chi per prova intenda amore, spero trovar pietà, nonché perdono.
Ma ben veggio or sí come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;
et del mio vaneggiar vergogna è ‘l frutto, e ‘l pentersi, e ‘l conoscer chiaramente che quanto piace al mondo è breve sogno.
Ma perché di me medesmo meco mi vergogno? Se si considera che Petrarca desidera essere ammirato e trionfare (lo dimostra la cura con cui perfezionò il proprio canzoniere nel corso dell’intera esistenza16), si comprende perché la vergogna nasca innanzitutto dalla preoccupazione per i suoi versi: Petrarca li vorrebbe diversi da quel che sono e quindi essi smascherano, agli occhi del poeta, una capacità poetica inferiore al desiderato. E se i versi sono qualcosa di non riuscito, allora l’io lirico appare come non vorrebbe apparire. I versi svelano i limiti del poeta e dunque la sua impotenza a mostrarsi come vorrebbe e a non mostrarsi come non vorrebbe.
D’altro canto Petrarca potrebbe temere che non essere nella vita come vorrebbe (si veda il dichiarato cedimento alle vanità) possa influire sulla valutazione dell’opera, considerando che il lettore intreccia l’immagine che ha del poeta con quella che ha dell’opera.
In entrambi i casi con il sonetto proemiale Petrarca potrebbe avere lo scopo di salvare l’immagine di sé come persona e come poeta, prendendo le distanze dalle proprie vanità e imperfezioni e proteggendo così la propria opera17.
Dunque non sarebbero gli altri a condannare, ma l’io lirico, che rileva la distanza fra ciò che è e scrive e ciò che si aspetta di essere e scrivere18 («di me medesmo meco mi vergogno»). E il sonetto sarebbe una reazione alla paura della vergogna. Il sonetto nella storia è stato musicato undici volte. L’esempio di Monteverdi. I madrigali sono costruiti su stereotipi musicali convenzionali, secondo un preciso codice retorico allo scopo di esprimere un certo sentimento, un’emozione, una condizione dell’animo. Nel madrigale a 5 voci et doi
violini tratto dalla Selva morale & spirituale 2, del 1641, Monteverdi passa dalla descrizione dello stato interiore dell’io lirico e dalla richiesta di pietà e di empatia al rincorrersi delle voci del popolo, e poi di nuovo alla vergogna. [ascolto]
La vergogna come invenzione narrativa in Ludovico Ariosto.
Ariosto fa della vergogna uno strumento di invenzione narrativa in chiave divertita e ironica. Il termine “vergogna” compare 50 volte nell’Orlando furioso (1504; 1532) a partire dall’ottava trentesima del primo canto.
Ferraù sta cercando di ripescare l’elmo che gli è caduto in un fiume. Dall’acqua esce il fantasma di Argalia che rivendica per sé l’elmo ricordando che quando Ferraù lo aveva sconfitto gli aveva promesso che non se ne sarebbe impossessato. Lo invita pertanto, se vuol compiere azione degna di un cavaliere, a procurarsi un elmo con onore. Per esempio quello ambitissimo di Orlando. Ferraù prova vergogna per la promessa non mantenuta, per aver agito in modo non conforme all’immagine ideale di sé e per essersi esposto a un giudizio negativo. Così lascia
tutto e si dà all’inseguimento di Orlando.
I, 30 Né tempo avendo a pensar altra scusa, e conoscendo ben che ‘l ver gli disse, restò senza risposta a bocca chiusa; ma la vergogna il cor sì gli trafisse, che giurò per la vita di Lanfusa [madre di Ferraù]
non voler mai ch’altro elmo lo coprisse,
se non quel buono che già in Aspramonte
trasse dal capo Orlando al fiero Almonte.
La vergogna provoca la sostituzione dell’oggetto del desiderio e il meccanismo, ripetendosi, trasforma il poema in metafora dell'esistenza dell'uomo perduto a inseguire i fantasmi della vergogna e del desiderio.
A volte i desideri sono anche frutto di una del tutto irrealistica immagine di sé e la vergogna è l’inevitabile imporsi della realtà. Tuttavia la manifestazione della realtà non è mai definitiva perché l’illusione riprende continuamente il sopravvento.
Sempre dal primo canto.
Angelica con ingannevoli lusinghe convince il rude Sacripante a proteggerla. Questi, innamorato della donna, decide di approfittare dell’occasione per farla sua: Corrò la fresca e matutina rosa (I, 58). Ma sul più bello, quando è ormai convinto di essere sul punto di realizzare il suo disegno, arriva un cavaliere vestito di bianco. Naturalmente non può che duellare, il suo cavallo viene ucciso e il vincitore pago della vittoria se ne va. Sacripante rimane sulla scena bloccato dal cavallo che gli è rovinato addosso e roso dalla vergogna della
sconfitta, ottenuta per di più sotto gli occhi di Angelica. Il cavaliere apprenderà più tardi, con ulteriore umiliazione, di essere stato abbattuto da una donna (Bradamante).
I, 66 Sospira e geme, non perché l’annoi che piede o braccio s’abbi rotto o mosso, ma per vergogna sola, onde a’ dì suoi
né pria né dopo il viso ebbe sì rosso: e più, ch’oltre il cader, sua donna poi fu che gli tolse il gran peso d’adosso. Muto restava, mi cred’io, se quella non gli rendea la voce e la favella.
Il guerriero poi riprende a inseguire le conferme alla propria illusoria immagine di sé. (D’altra parte il senno degli uomini è quasi tutto sulla luna e quindi è normale che sulla terra imperversi la follia, compresa quella di chi, come Ariosto, si ostina a scrivere anacronistici poemi cavalereschi.) Fatto sta che il compimento del desiderio è perennemente rinviato e l’illusione non si spegne mai. Al mondo non c’è che il perdurare del sogno.
Ma per un personaggio non è così. Orlando.
La sua pazzia sembra rappresentare la vittoria definitiva della realtà sull’illusione. Orlando ritiene di essere il più valoroso e il più amabile dei cavalieri. Nemmeno può immaginare che Angelica non sia invaghita di lui. Ma Angelica sposa Medoro, un semplice soldato di nessun nome. Quando Orlando legge incise sugli alberi le frasi d’amore che i due innamorati si sono scambiati, pensa che in realtà Medoro sia il nomignolo che Angelica ha coniato per lui. Poi gradualmente la realtà si impone e Orlando, che non la può accettare, inizia a distruggerla, sradicando alberi, mandando in frantumi rocce e fonti (tutti i segni dell’esistenza di Angelica), gettando via l’armatura (segno della sua identità) e vagando bestialmente nudo. Con l’armatura si è privato anche dell’identità mantenendo la sola consistenza animale. Orlando insomma reagisce alla vergogna, inconsciamente impedendosi di provare vergogna: in questo sta la sua follia.
Sacripante si autoinganna, non se ne accorge e continua la sua vana ricerca. Orlando, quando non può più autoingannarsi, perde l’uso della ragione per l’insopportabilità dell’imporsi della realtà sulla sua illusoria immagine di sé. La prova della intervenuta follia è proprio l’assenza di vergogna: ora vaga nudo e si mostra smascherato.
XXXI, 45 Son pochi dì ch’Orlando correr vidi
senza vergogna e senza senno, ignudo,
con urli spaventevoli e con gridi:
ch’è fatto pazzo in somma ti conchiudo;
e non avrei, fuor ch’a questi occhi fidi,
creduto mai sì acerbo caso e crudo. - Poi narrò che lo vide giù dal ponte abbracciato cader con Rodomonte.
Questa la sua soluzione, ma agli altri eroi un Orlando furioso non serve, e dunque Astolfo recupera dalla Luna il senno del paladino e a forza riporta Orlando al personaggio che era.
Orlando dunque è stato sul punto di abbandonare le caratteristiche sterotipiche del personaggio che lui è nei poemi narrativi. Se, per effetto del manifestarsi della realtà, avesse rettificato e accettato la propria immagine di sé, sarebbe uscito dal poema cavalleresco e dalle sue regole. Stesso risultato se fosse rimasto nella sua non accettazione della rimozione della realtà e nella conseguente follia. Entrambe le possibilità non sono ammissibili. Lui, come tutti gli altri personaggi, deve rimanere dentro la sua storia e rispettoso del proprio ruolo.
La dimensione sensuale e seduttiva della vergogna in Tasso.
La manifestazione fisica della vergogna può essere sensuale e seduttiva. L’opera è la Gerusalemme liberata composta tra il 1565 e il 1575.
Il IV libro: nel silenzio assoluto, ai demoni convocati in concilio, Plutone chiede che si trovi il modo di impedire la conquista di Gerusalemme da parte dei Crociati. Il mago Idraote ordina alla bellissima nipote Armida di recarsi nel campo cristiano fingendo di chiedere aiuto, ma con l’intento di far innamorare di sé i guerrieri distogliendoli dalla loro impresa. In effetti tutti i Crociati saranno estasiati dalla sua bellezza. Armida
chiede aiuto a Goffredo di Buglione, il quale esita, ma su insistenza di Eustazio concede alla donna l’aiuto dei dieci migliori cavalieri. E Armida li ammalia.
L’atteggiamento di pudore vergognoso, accompagnato da bellezza, solitudine, mistero e inquietudine, seduce irresistibilmente.
IV, 94 O pur le luci vergognose e chine
tenendo, d’onestà s’orna e colora,
sí che viene a celar le fresche brine sotto le rose onde il bel viso infiora, qual ne l’ore piú fresche e matutine del primo nascer suo veggiam l’aurora; e ‘l rossor de lo sdegno insieme n’esce con la vergogna, e si confonde e mesce.
Gli occhi vergognosi fanno parte del canone della bellezza. Armida, con le arti magiche, incarna i sogni, le illusioni e le aspirazioni dei cavalieri. E Tasso, che della vita ama descrivere la bella spettacolarità (spesso quella dell’attimo culminante che precede il suo dileguarsi), fa di Armida un modello di perfetta languida spettacolarità.
Un altro passo. Siamo nel canto secondo.
I Cristiani di Gerusalemme sono accusati di furto da Aladino e sono minacciati di essere tutti uccisi. Sofronia, pur innocente, decide di autoaccusarsi per salvare i correligionari. Tasso descrive il momento in cui la donna si avvia al rogo, descrive la bellezza dell’eroismo, della sensualità, della veste negligente e della imminente morte da martire. Benché Olindo, di lei innamorato, decida di condividerne il destino, lei procede in solitudine verginale e claustrale isolamento, senza accorgersi di nessuno.
II, 17 S’ode l’annunzio intanto, e che s’appresta miserabile strage al popol loro. A lei, che generosa è quanto onesta, viene in pensier come salvar costoro. Move fortezza il gran pensier, l’arresta
poi la vergogna e ‘l verginal decoro;
vince fortezza, anzi s’accorda e face
sé vergognosa e la vergogna audace.
18 La vergine tra ‘l vulgo uscí soletta,
non coprí sue bellezze, e non l’espose,
raccolse gli occhi, andò nel vel ristretta,
con ischive maniere e generose.
Non sai ben dir s’adorna o se negletta,
se caso od arte il bel volto compose.
Di natura, d’Amor, de’ cieli amici
le negligenze sue sono artifici.
I personaggi femminili di Tasso seducono, volontariamente (Armida) o forse involontariamente (Sofronia), con la vergogna e il pudore. Si presentano nell’atteggiamento di difesa della propria intimità da intrusioni invasive. Non velano qualcosa che giudicano negativo, ma proteggono ciò che è fragile e delicato.
Il ritegno e il parziale nascondimento creano un gioco di attrazione, di distanza-vicinanza. Fanno presagire rapporti in cui la soggettività individuale viene sempre salvata nel rispetto delle esigenze opposte di fusione e autonomia.
La vergogna come offesa esistenziale in Bernhard.
Con un salto artistico e cronologico concludiamo con un’opera recente. Interessante per la sua ambiguità.
È un romanzo in cui il tema della vergogna è disperso, allo stato liquido, dentro una visione della realtà (e quindi una rappresentazione dei personaggi) complessa e contraddittoria. Come spesso nei romanzi novecenteschi.
Si direbbe comunque evidente la presenza dell’idea di vergogna come conseguenza dell’impotenza ad essere ciò che si vorrebbe.
Il soccombente fu scritto dal romanziere austriaco Thomas Bernhard tra il 1983 e il 1985. In Italia è pubblicato nel 1999, tradotto per Adelphi da Renata Colorni. Racconta del rapporto fra tre amici, virtuosi del pianoforte, che studiano con il maestro Horowitz, al Mozarteum di Salisburgo. Un giorno due di loro, l’io narrante e l’amico Wertheimer, sentono il terzo, il pianista canadese Glenn Gould, suonare le Variazioni Goldberg di Bach e si rendono conto del genio inimitabile dell’amico. Continueranno a studiare, ma da quel momento il loro futuro è segnato. Credono ancora per molti anni nel loro virtuosismo, benché esso sia già morto al momento dell’incontro con Glenn Gould. Alla fine prendono atto della sconfitta e rinunciano a suonare, liberandosi del pianoforte. Wertheimer mette all’asta il suo Bösendorfer, il narratore regala lo Steinway alla figlia novenne (priva di talento) di un maestro e assiste compiaciuto alla distruzione dello strumento.
Wertheimer poi morirà suicida poco dopo la morte naturale di Glenn Gould, mentre l’io narrante si perderà nell’anonimato scrivendo libri che mai pubblica.
Il tema non è nuovo. Tra il 1830 e il 1837 Puškin aveva scritto il dramma Mozart e Salieri incentrato sui tre temi dell’invidia, dell’arte sublime creata senza fatica da uomini privilegiati e della connessa ingiustizia di Dio che dispensa i suoi doni a persone immeritevoli19. Il tema fu poi ripreso dal drammaturgo inglese Peter Levin Shaffer in Amadeus (del 1979) e poi da Miloš Forman nel film dallo stesso titolo (del 1984).
Il romanzo di Bernhard è scritto in forma di monologo interiore, con continue ripetizioni e variazioni che si direbbero alludere al criterio compositivo delle Variazioni Goldberg di Bach, che costituisce metonimicamente il nodo della vicenda.
Nel monologo il personaggio di Wertheimer prende gradualmente forma: determinato a conoscere che cosa la gente pensa di lui; vergognoso di possedere denaro; desideroso di primeggiare e di essere qualcun altro. Ha un difficile rapporto con i genitori e l’attività artistica, una professione ai loro occhi detestabile, è un modo per vendicarsi di loro20.
«Ma se Glenn Gould aveva mantenuto una sua coerenza e alla fine, sia pure soltanto due o tre anni prima di morire, era riuscito a persuaderli di essere un genio, Wertheimer e io, invece, avevamo finito col dare ragione ai nostri genitori mandando ben presto a monte la nostra attività di virtuosi, tra l’altro in un modo quanto mai avvilente, come più volte ho sentito dire da mio padre. […] Glenn è il trionfatore, noi siamo i falliti, pensai nella locanda.»21
Ma l’immagine pubblica data dal virtuosismo pianistico con cui il personaggio si difende dalla consapevolezza dell’assenza di talento musicale ed esistenziale22 si infrange sulla soglia della stanza trentatré del Mozarteum: lì la musica di Glenn Gould, secondo Wertheimer, rende visibile a tutti il suo fallimento.
«Tra tutti quelli che hanno studiato con Horowitz, noi eravamo i migliori, ma Glenn era migliore dello stesso Horowitz, diceva Wertheimer, mi sembra di sentirlo, pensai»23.
Il racconto dell’incontro con il genio è prima nelle parole del narratore e poi nel ricordo riferito dello stesso Wertheimer. L’effetto è paralizzante.
«Wertheimer infatti voleva diventare un virtuoso del pianoforte, mentre io non lo volevo affatto, pensai, per me il virtuosismo pianistico era stato soltanto una scappatoia, una tattica dilatoria per rinviare qualcosa, che cosa in verità io intendessi rinviare non l’ho mai capito, e neanche adesso lo so con chiarezza; Wertheimer voleva mentre io non volevo, pensai, e Glenn ha Wertheimer sulla coscienza, pensai. Glenn aveva suonato solo un paio di note e già Wertheimer aveva pensato di rinunciare a tutto, / ricordo perfettamente che Wertheimer, quando entrò nella stanza al primo piano del Mozarteum assegnata a Horowitz e vide Glenn e lo sentì suonare, rimase lì bloccato accanto alla porta, incapace di mettersi a sedere, tanto che Horowitz
dovette invitarlo a sedersi, ma lui, Wertheimer, fintanto che Glenn continuava a suonare, non riuscì a sedersi, e solamente quando Glenn smise di suonare Wertheimer si sedette, e teneva gli occhi chiusi, lo ricordo ancora perfettamente, pensai, e non parlava più. Per dirla con una frase patetica, quella fu la sua fine, la fine della carriera virtuosistica di Wertheimer. Per un intero decennio studiamo uno strumento che abbiamo scelto con cura, e poi, passato questo decennio faticoso e più o meno deprimente, ci bastano poche note suonate da un genio per essere liquidati, pensai. Wertheimer non ha voluto ammettere questo fatto per molti anni. Eppure quelle poche note suonate da Glenn sono state la sua fine, pensai.»24
«Fatale per Wertheimer è stato il fatto di essere passato davanti alla stanza trentatré del Mozarteum proprio nel momento in cui Glenn Gould suonava in quella stanza la cosiddetta Aria. Wertheimer mi raccontò la sua esperienza e disse che mentre sentiva suonare Glenn era rimasto in piedi davanti alla porta della stanza trentatré fino alla fine dell’Aria. Allora compresi con chiarezza che cos’è uno shock, pensai adesso.»25
Da un lato Wertheimer ha sopravvalutato le sue possibilità e dall’altro le ha sottovalutate, pensa il narratore. Poi con la morte di Glenn, egli prende atto brutalmente del proprio fallimento e si vergogna di sopravvivere26.
La presa d’atto della propria inferiorità e la conseguente perdita dell’autostima (conseguenza del manifestatosi divario fra aspettative ed esperienza) si associano al tema dell’essere visti (nel caso specifico anche “ascoltati”) e negativamente giudicati27.
«Il nostro soccombente è un esaltato, ha detto Glenn una volta, quasi ininterrottamente è lì che muore di
autocommiserazione, lo vedo ancora Glenn mentre dice questa frase, sento come la dice, fu una volta sul Mönchsberg, sulla cosiddetta Altura Richter dove con Glenn ero già stato molte volte ma senza Wertheimer, quando Wertheimer per un motivo o per l’altro preferiva starsene da solo, senza di noi, molto spesso con un senso di mortificazione. Io l’ho definito più volte come l’offeso.»28
Al centro della narrazione c’è un umiliato (l’offeso secondo il narratore; il soccombente secondo Glenn). C’è un umiliatore (il genio di Glenn). C’è un testimone (l’io narrante; ma ci sono anche testimoni evocati interiormente: i genitori, il pubblico dei concerti, la stampa specializzata).
Poi i tre ruoli confluiscono tutti nel personaggio di Wertheimer ed è la sua stessa visione di sé a essere giudicante e disapprovante. Il divario fra ciò che è o fa e ciò che si è sempre imposto di aspettarsi da sé diventa a un certo punto insopportabile. E il desiderio di nascondersi si fa insistente. Fino al suicidio.
Anche per Wertheimer a un certo punto della vita si è verificato un evento che ha frantumato la sicurezza che esista solo un mondo. Da una parte il disappunto di vedersi diversi da come si vorrebbe essere, dall’altra il disappunto di scoprire che ogni sforzo per essere come si vorrebbe è un gioco comicamente diperato. In questa ambiguità si collocano la rinuncia a competere e il sentimento di vergogna.
1 DODDS, Eric R. 2003, I Greci e l’irrazionale (1951), Milano, Sansoni, pp. 59-60.
2 In latino l’originario senso religioso tende ad attenuarsi, soprattutto nei composti come re-verri / re-verentia (“temere” e quindi “rispettare”) e sub-vereri (“avere un sospetto”) e nei derivati come verecundia (“il timore del pudore”) e verecundari
(“vergognarsi”). Cfr. MANDRUZZATO, Enzo 1991, I segreti del latino, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, pp. 280-281.
3 Con le parole di Seneca: «plures enim pudore peccandi quam bona voluntate prohibitis abstinent» (Epistolae ad Lucilium, 83, 19). (“È la vergogna di fare il male più che la buona volontà a distogliere la maggior parte degli uomini da azioni illecite.”)
4 Di seguito il passo completo:
ξ ργων δ νδρες πολµηλο τ φνειο τε, / κα τ ργαζµενος πολ φλτερος θαντοισιν / [σσεαι δ βροτος µλα γρ στυγουσιν εργος.] / ργον δ οδν νειδος, εργη δ τ νειδος. / ε δ κεν ργζηι, τχα σε ζηλσει εργς / πλουτεντα πλοτωι δ ρετ κα κδος πηδε. / δαµονι δ οος ησθα, τ ργζεσθαι µεινον, / ε κεν π λλοτρων κτενων εσφρονα θυµν / ς ργον τρψας µελετις βου, ς σε κελεω. / αδς δ οκ γαθ κεχρηµνον νδρα κοµζει, / αδς, τ νδρας µγα σνεται δ ννησιν / αδς τοι πρς νολβηι, θρσος δ πρς λβωι. / γρ τις κα χερσ βηι µγαν λβον ληται, / γ π γλσσης λησσεται, ο τε πολλ / γνεται, ετ ν δ κρδος νον ξαπατσηι / νθρπων, αδ δ τ ναιδεη κατοπζηι, / εα δ µιν µαυροσι θεο, µινθουσι δ οκον / νρι τι, παρον δ τ π χρνον λβος πηδε.
(ργα κα µραι, vv. 308-326) /
(“Grazie al lavoro gli uomini hanno grandi armenti e son ricchi, / e lavorando sarai molto più caro agli dèi / e anche agli uomini, perché i pigri hanno in odio. / Il lavoro non è vergogna; è l'ozio vergogna; / se tu lavori, presto ti invidierà chi è senza lavoro / mentre arricchisci; perché chi è ricco ha successo e benessere. / Per te, dove t'ha posto la sorte, è meglio il lavoro. / Distogli dai beni degli altri l'animo sconsiderato / e al lavoro rivolgiti, pensa ai mezzi per vivere, così come io ti consiglio. / Non è una buona vergogna quella che accompagna l'uomo indigente, / la vergogna che gli uomini molto danneggia o aiuta; / alla miseria si aggiunge vergogna, alla fortuna l'audacia. / La ricchezza non dev'esser rubata: è molto migliore quella che danno gli dèi; / qualcuno con la violenza può conquistare un gran bene / o rubarlo con le parole, come assai spesso / suole accadere, quando il guadagno inganna la mente / dell'uomo, e allora Sfrontatezza vince Vergogna; / ma allora facilmente l'abbatton gli dèi, distruggon la casa / a quell'uomo, e per poco tempo la fortuna lo segue.”)
5 Raccontando la favola dell’usignolo e dello sparviero riconosce nella vergogna il giusto stato di chi si oppone ai più forti. Qui il termine usato non è αδς, ma ασχος (“vergogna, infamia, onta, vituperio”, ma anche “bruttezza, deformità, vizio”.)
Νν δ ανον βασιλεσιν ρω φρονουσι κα ατος / δ ρηξ προσειπεν ηδνα ποικιλδειρον / ψι µλ ν νεφεσσι φρων νχεσσι µεµαρπς / δ λεν, γναµπτοσι πεπαρµνη µφ νχεσσι, / µρετο τν γ πικρατως πρς µθον ειπεν / «δαιµονη, τ λληκας; χει ν σε πολλν ρεων / τι δ ες ι σ ν γ περ γω κα οιδν οσαν / δεπνον δ, α κ θλω, ποισοµαι µεθσω. / φρων δ, ς κ θληι πρς κρεσσονας ντιφερζειν / νκης τε στρεται πρς τ ασχεσιν λγεα πσχει». / ς φατ κυπτης ρηξ, τανυσπτερος ρνις.
(ργα κα µραι, vv. 201-212)
(“Ora una favola ai re narrerò, a loro che pure sono assennati. / Ecco quello che lo sparviero disse all'usignolo dal collo screziato / su in alto, fra le nubi portandolo serrato nell'unghie; / quello pietosamente, dagli artigli adunchi trafitto, / piangeva; ma l'altro, violento, gli fece questo discorso: / «Sciagurato, perché ti lamenti? ora sei preda di chi è molto più forte; / andrai là dove io ti porterò, pur essendo tu bravo cantore; / farò pasto di te, se voglio, oppure ti lascerò. / Stolto è chi vuole opporsi ai più forti: / resta senza vittoria e alla vergogna aggiunge dolori». / Così disse il veloce sparviero, l'uccello che vola con le ali distese.”)
6 Nel fr. 3 invita a combattere a Salamina, con toni vicini a quelli di Callino. La vergogna è espressa dal termine ασχος.
fr. 3 οµεν ς Σαλαµνα µαχησµενοι περ νσου / µερτς χαλεπν τ ασχος πωσµενοι.
(“Andiamo a Salamina, a combattere per la bella / isola, e a scrollarci di dosso la vergogna pesante.”)
7 WURMSER, Léon - LEVIN, Sidney, 1996, Vergogna, Torino, Bollati Boringhieri, p. 55.
8 Sarà la stessa angoscia di vergogna provata dalla virgiliana Didone, quando avvertirà l’imminente partenza di Enea e temerà la derisione dei pretendenti da lei in precedenza rifiutati:
En quid ago? rursusne procos inrisa priores/ experiar…? (Aeneidos, IV, 534-535).
(“ora che cosa faccio? a mia volta farò tentativi, derisa, con i pretendenti di prima”)
9 Sui tre tipi fenomenologici di vergogna cfr. WURMSER 1996, p. 55.
10 «Da Stobeo (Florilegio, III 671, 11) sappiamo che questi versi sono del poeta Stasino di Cipro (fr. 20 Kinkel). Sappiamo anche che nel poema Ciprie, Stasino narrava le vicende di Troia che precedettero quelle cantate da Omero nell’Iliade» (PLATONE, Tutti gli
scritti, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano, 1991, p. 19.)
11 Il passo completo dell’Etica Nicomachea:
(10) περ δ αδος ς τινος ρετς ο προσκει λγειν πθει γρ µλλον οικεν ξει. ρζεται γον φβος τις δοξας, κα ποτελεται τ περ τ δειν φβ παραπλσιον ρυθρανονται γρ ο ασχυνµενοι, ο δ τν θνατον φοβοµενοι χρισιν. σωµατικ δ φανετα πως εναι (15) µφτερα, περ δοκε πθους µλλον ξεως εναι. ο πσ δ λικ τ πθος ρµζει, λλ τ ν. οµεθα γρ δεν τος τηλικοτους αδµονας εναι δι τ πθει ζντας πολλ µαρτνειν, π τς αδος δ κωλεσθαι κα παινοµεν τν µν νων τος αδµονας, πρεσβτερον δ (20) οδες ν παινσειεν τι ασχυντηλς οδν γρ οµεθα δεν ατν πρττειν φ ος στν ασχνη. οδ γρ πιεικος στν ασχνη, επερ γνεται π τος φαλοις (ο γρ πρακτον τ τοιατα ε δ στ τ µν κατ λθειαν ασχρ τ δ κατ δξαν, οδν διαφρει οδτερα γρ πρακτα, (25) στ οκ ασχυντον) φαλου δ κα τ εναι τοιοτον οον πρττειν τι τν ασχρν. τ δ οτως χειν στ ε πρξαι τι τν τοιοτων ασχνεσθαι, κα δι τοτ οεσθαι πιεικ εναι, τοπον π τος κουσοις γρ αδς, κν δ πιεικς οδποτε πρξει τ φαλα. εη δ ν αδς ξ (30) ποθσεως πιεικς ε γρ πρξαι, ασχνοιτ ν οκ στι δ τοτο περ τς ρετς. ε δ ναισχυντα φαλον κα τ µ αδεσθαι τ ασχρ πρττειν, οδν µλλον τν τ τοιατα πρττοντα ασχνεσθαι πιεικς. οκ στι δ οδ γκρτεια ρετ, λλ τις µικτ δειχθσεται δ περ (35) ατς ν τος στερον. νν δ περ δικαιοσνης επωµεν.
(θικ Νικοµχεια, 1128 b)
[10] Per quanto riguarda il pudore, non conviene parlarne come di una virtù, giacché assomiglia ad una passione più che ad una disposizione morale. Viene definito, comunque, come una specie di paura del disonore, e produce effetti molto simili a quelli della paura di fronte ai pericoli: infatti, coloro che si vergognano arrossiscono, mentre quelli che temono la morte impallidiscono. Dunque, [15] entrambi hanno manifestamente carattere fisico, in qualche modo; il che, si pensa, è tipico più della passione che non della disposizione morale. Questa passione, d’altra parte, non si addice ad ogni età, ma solo alla giovinezza. Noi pensiamo infatti che i giovani debbano essere pudichi per il fatto che, vivendo di passione, commettono molti errori, ma che ne sarebbero trattenuti dal pudore. E noi lodiamo i giovani pudichi, mentre [20] nessuno loderebbe un uomo maturo per il fatto che è sensibile alla vergogna: noi pensiamo, infatti, che un uomo maturo non dovrebbe fare nulla di cui si debba vergognare. Infatti, la vergogna non è tipica dell’uomo virtuoso, se è vero che essa nasce per effetto delle cattive azioni (tali azioni non si devono commettere; se poi alcune azioni sono brutte veramente ed altre lo sono solo secondo l’opinione della gente, non fa alcuna differenza: non si devono commettere né le une né le altre, [25] in modo da non dover provar vergogna). Invece è proprio dell’uomo dappoco avere una natura tale da commettere qualche azione vergognosa. Ed avere una disposizione di carattere per cui si prova vergogna se si è commessa un’azione vergognosa, e pensare che per questo si è un uomo virtuoso, è assurdo: il pudore, infatti, si riferisce ad atti volontari, e l’uomo virtuoso non commetterà mai cattive azioni volontariamente. Solo per un’ipotesi [30] il pudore potrebbe essere virtuoso: nel caso in cui uno si vergogni delle proprie azioni; ma questo non può verificarsi nel campo delle virtù. Infine, se l’impudenza, cioè il non vergognarsi di commettere azioni brutte, è una cosa miserabile, non per questo sarà virtuoso il vergognarsi di commettere azioni simili. Anche la continenza non è una virtù, bensì una specie di mescolanza di virtù e di vizio: [35] ma di lei si darà spiegazione in seguito. La giustizia sarà ora il tema della nostra trattazione.
12 Cfr. GALOTTI, Agnese 2005, “Vergogna e immagine di sé”, Associazione Gea. Psicologia analitica e filosofia sperimentale, “Individuazione”, n° 52, giugno 2005. Url: http://www.geagea.com/_MostraFormRivista.php?Link=52indi/52_08.htm&NomeDir=52indi&Filtro=indi&Torna=
13 “Il terrore di esistere”, Diario del '71 e del '72, vv. 13-14.
14 Naturalmente nell’uomo nuovo permane qualcosa dell’uomo vecchio, e d’altra parte anche nell’uomo vecchio c’era già qualcosa del nuovo (quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono).
15 Cfr. GIBELLINI Pietro 2001, Dal sonetto proemiale a seguire — linee di intervento e tappe significative. Un libro in un sonetto, CSIA - University of Trieste. Url: http://www.univ.trieste.it/news/files/convegnopetrarca/?file=gibl.htm
16 Cfr. CONTINI, Gianfranco, 1970, “Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare” (1942), in Varianti e altra
linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi, pp. 5-31.
17 Potrebbe essere interessante applicare ai versi di Petrarca l’analisi delle funzioni e dei contenuti della vergogna esposta in WURMSER, 1996, pp. 69-70.
18 Cfr. riflessioni sull’interiorizzazione dei conflitti di vergogna in WURMSER, 1996, pp. 46-47.
19 Salieri infatti è rappresentato come l’artista che si dedica totalmente con sacrificio e costanza alla propria arte, ma che non raggiunge mai il livello del genio favorito da Dio e quindi della facilità creativa. Mosso da invidia - racconta Puškin - Salieri versa del veleno in un bicchiere di vino offerto a Mozart. Il sospetto dell’avvelenamento si era diffuso a partire da una nota pubblicata sul giornale berlinese Musikalischer Wochenblatt, il quale, riprendendo una notizia di fonte praghese, annunciava la morte di Mozart facendo rilevare che il gonfiore del corpo poteva far pensare ad avvelenamento. Dal sospetto si passò subito alla ricerca di un possibile colpevole che fu riconosciuto in Salieri. Ma l’ipotesi è storicamente infondata. Il tema fu poi ripreso dal drammaturgo inglese Peter Levin Shaffer in Amadeus (del 1979) e poi da Milos Forman nel film (del 1984) che del dramma porta lo stesso titolo. Se l’opera di Schaffer non fa riferimento alla responsabilità diretta di Salieri nella morte di Mozart, l’idea torna invece nel film di Forman.
20 «Al Mozarteum ci sono andato per vendicarmi di loro [i genitori], per nessun altro motivo, ci sono andato per punirli dei crimini da essi perpetrati contro di me. Adesso per figlio avevano un artista, una figura ai loro occhi detestabile.» (BERNHARD Thomas, 1999, Il soccombente (1983), tr. it. di Renata Colorni, Milano, Adelphi, p. 27).
21 BERNHARD, 1999, p. 28.
22 «Esistere, in sostanza, non significa nient’altro che questo: essere disperati, così lui. Mi alzo, penso con ribrezzo a me stesso e tutto ciò che mi aspetta mi fa orrore. Mi sdraio sul letto, non desidero nient’altro che morire, non svegliarmi più, poi invece mi risveglio e l’orrendo processo si ripete, seguita a ripetersi per cinquant’anni, così lui. Pensare che per cinquant’anni non abbiamo nessun altro desiderio se non quello di essere morti, eppure seguitiamo a vivere e non possiamo farci niente perché siamo incoerenti da cima a fondo, così lui. Perché siamo la meschinità in sé, l’abiezione in sé. Non abbiamo talento musicale! ha esclamato, non abbiamo talento esistenziale.» (BERNHARD, 1999, pp. 56-57).
23 «Ognuno di noi fallisce per motivi diversissimi e tra loro contrastanti, diceva Wertheimer, pensai. Io non avevo niente da dimostrare, solo tutto da perdere, così diceva, pensai. Probabilmente le nostre doti sono state la nostra sventura, diceva, ma subito dopo aggiungeva: Glenn non è stato ucciso dalle sue doti, che anzi hanno sviluppato il suo genio. Chissà, diceva Wertheimer, se non fossimo venuti in contatto con Glenn. Se il nome di Horowitz [il loro comune maestro] non avesse significato nulla per noi. Se non fossimo andati affatto a Salisburgo! Noi in questa città siamo venuti a crepare perché qui abbiamo studiato con Horowitz e conosciuto / Glenn Gould. Il nostro amico ha significato la nostra morte. Tra tutti quelli che hanno studiato con Horowitz, noi eravamo i migliori, ma Glenn era migliore dello stesso Horowitz, diceva Wetheimer, mi sembra di sentirlo, pensai. D’altra parte, diceva, noi viviamo ancora e lui no. » (BERNHARD, 1999, pp. 39-40).
24 BERNHARD, 1999, pp. 95-96.
25 BERNHARD, 1999, p. 171.
26 «Wertheimer non ha sopportato la morte di Glenn. Dopo la morte di Glenn si è vergognato di essere ancora in vita, il fatto di essere per così dire sopravvissuto al genio è stato per lui, a quanto so io, un motivo di tormento continuo nell’ultimo anno della sua vita.» (BERNHARD, 1999, p. 29)
27 «Glenn sempre aveva definito Wertheimer come soccombente. […] Wertheimer, il soccombente, era agli occhi di Glenn uno che va a fondo, ininterrottamente e sempre più a fondo» (BERNHARD, 1999, p. 24).
28 BERNHARD, 1999, p. 38.