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I Presocratici

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Premessa

È possibile ritenere che il problema fondamentale, o almeno il più evidente, cheaffrontano i pensatori venuti prima dei Sofisti e di Socrate – dunque approssimativa-mente fra il sesto secolo, visto che l’ἀκμή di Talete è fissato nel 585, e la data, peraltroincerta, della morte di Democrito, approssimativamente collocata fra il 360 e il 350 a.C.)– sia l’individuazione del principio da cui tutto discende. Un principio originario, cheesiste ab aeterno, e che assomma su di sé caratteristiche non solo fisiche: esso infattiè ritenuto principio di vita, è divino, ossia τὸ θεῖον, e finisce per essere il dinamicoordinatore del cosmo intero.

In queste pagine più e più volte useremo il termine «principio»; esso è una dellepossibili traduzioni del termine greco ἀρχή, di cui è necessario mettere più precisamentea fuoco l’accezione: dal suo intendimento infatti derivano interpretazioni affatto diversedel globale significato della filosofia presocratica.

Il primo pensatore che si è posto tale problema è stato Aristotele, il quale ha spiegato,in un celebre passo, che cosa significasse per i primi filosofi la ricerca del principio deltutto. Esso così recita: «La maggior parte di coloro che per primi filosofarono ritenneroche i soli princìpi di tutte le cose fossero quelli di specie materiale, perché ciò da cuile cose hanno l’essere, da cui originariamente derivano e in cui alla fine si risolvono,pur rimanendo la sostanza ma cambiando nelle sue qualità, questo essi dicono cheè l’elemento, questo il principio delle cose e perciò ritengono che niente si produce eniente si distrugge, poiché una sostanza siffatta si conserva sempre» (Metaph., A 3,983b 7 sgg.).

Ma questa lettura è senz’altro parziale e limitante, poiché attribuisce ai Presocratici– non a caso chiamati da Aristotele φυσιόλογοι, ovvero coloro che avevano parlato dellanatura in contrapposizione ai poeti quali Esiodo o Ferecide, denominati θεόλογοι – laconvinzione che il principio sia fondamentalmente materia.

Constateremo invece che l’ἀρχή è origine destinazione e sostegno del tutto e chesvolge una molteplicità di ruoli non riconosciuta dalla trattazione aristotelica: ilprincipio è infatti certo anche la materia di cui sono fatte tutte le cose, ma ne è purecausa, forma e fine e, nella sua universalità, è inoltre τὸ θεῖον, sebbene tale pluralità disignificati non sia consapevolmente sostenuta, ma solo implicitamente assunta.

Al principio è affidato il compito di dare una spiegazione economica della totalitàdei fenomeni, riconducendoli a una unità fondamentale che dia ragione della loro costi-tuzione, del loro comportamento e del significato complessivo del loro esistere. I moderniinterpreti hanno sottolineato di volta in volta questi diversi ma complementari aspetti:quello materiale e, più in generale, fisico, quello metafisico, quello scientifico, quelloteologico: tali significati erano però indistantamente fusi nella riflessione presocratica,collocata ancora al di qua di quella partizione disciplinare che si attuerà soltanto inepoca ellenistica.

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Suona tuttavia riduttivo attribuire ai Presocratici un interesse esclusivamentenaturalistico. Nel loro orizzonte problematico non manca infatti l’uomo, e sappiamoche anche nell’attività pubblica di alcuni di questi pensatori non mancava l’interessaper la religione, l’etica, la politica.

Quanto fosse imprescindibile e impellente fare i conti col plesso problematico messoin atto dai Presocratici fu subito chiaro: se Platone rivolse la sua attenzione ai problemidell’ontologia, Aristotele maggiormente si interessò alle indagini cosmologiche e l’uno el’altro a buon conto colsero temi davvero presenti in quella tanto poliedrica riflessione.

La disputa, lunga quanto la filosofia stessa, ha conosciuto momenti di relativooblio e altri di rinnovato interesse; qui non intendiamo offrire neppure in sintesi unpanorama delle più significative interpretazioni contemporanee (il che richiederebbecomunque un amplissimo spazio), ma solo accennare ad alcune delle letture intorno aqualche tema fondamentale.

Parecchi studiosi (da West a Thomson) ammettono che nella genesi della filosofia inGrecia abbia giocato l’eredità dall’Oriente: ma in Oriente non c’è distacco dal mito, quiinvece il ruolo della persona-forza mitica è limitato alla sue conseguenze naturali e purtuttavia continua il ricorso a tali persone-forze (la Contesa e la Discordia di Empedocle,tanto per fare un esempio).

In modo analogo è stato visto il rapporto con la religione: se per alcuni il nuovosapere filosofico risulta la trasposizione in forma laica del sistema di spiegazioni creatodalla religione (Cornford) perché analoghe sono le movenze (il passaggio dal caos alkosmos non è visto in modo molto differente da Anassimandro e da Esiodo), per altri lafilosofia ha guadagnato un’assoluta laicità e mostra l’avvenuta formazione del pensieropositivo (Vernant). Ma, hanno obiettato altri ancora, non è mai del tutto abbandonatala fiducia in procedure magiche (Lloyd) e così non sembra aver torto chi ha contestatoche i Greci si possano reputare il paradigma della razionalità senza aggettivazione(Dodds).

Anche a proposito del rapporto fra filosofia e scienza, vi è chi ha visto il pen-siero presocratico come l’inizio della scienza (Burnet), chi ha enfatizzato (di controalla mentalità mitico-religiosa) il ricorso all’esperienza e il parallelismo fra sviluppotecnico e ideologico (Farrington); altri, andando oltre sulla stessa linea, hanno vistonell’affermazione del nuovo sapere la corrispondenza sul piano culturale di importantinovità sociali (da Thomson a Vidal-Naquet): l’ordine cosmico entra in conflitto con leistituzioni e si inaugura una separazione fra natura e società, che infrange l’insaputaunità o indifferenziazione delle due tipica del mondo arcaico (il che sostengono in assaidifferenti modi Vlastos e Capizzi).

Di contro, vi è chi continua a ritenere la filosofia presocratica più sulla scia dellareligione e il filosofo un poeta o un indovino (Cherniss), enfatizzando il distacco fra lascienza greca e quella odierna; oppure che sottolinea il carattere panteisticamente divinodel principio (Jaeger). Infine molti hanno tentato di individuare il problema principedella filosofia presocratica, identificandolo con l’attenzione ora alla cosmologia (Zeller,Windelband, Tannery), ora all’antropologia (Joël, Mondolfo). Una simile ricerca è peròdestinata a nostro avviso a non produrre niente costruttivo poiché non esiste realeunità tematica interna come non esiste il «movimento» presocratico: più opportuno èrestare aperti alla ricca, seminale eterogeneità delle tesi dei Presocratici.

Si avverte una volta per tutte che i testi sono sempre, tranne un’eccezione dicui verrà data a suo luogo notizia, secondo la seguente edizione: I Presocratici.Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Bari 1969 (le cuiversioni sono tuttavia di diversi traduttori).

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Capitolo 1

La scuola ionica di Mileto

1.1 Talete

Di Talete tanto poco si sa e già tanto poco si sapeva nell’antichità che alcuniritennero più giusto o comunque più documentabile far cominciare la filosofia conAnassimandro; noi ci atteniamo qui alla visione tradizionale, suffragata da un certonumero di testimonianze affidabili.

1.1.1 Filosofia e vita

Come successe anche a Talete, o Teodoro, che mentre osservava le stellee guardava in alto, cadde in un pozzo, e si racconta che una servetta tracia, 2

intelligente e spiritosa, l’abbia preso in giro dicendogli che si preoccupava diconoscere le cose del cielo e non s’accorgeva di quelle che aveva davanti e tra i 4

piedi.

Siccome, povero com’era [Talete], gli rinfacciavano l’inutilità della filosofia, 6

dicono che, avendo previsto in base a computi astronomici un abbondanteraccolto di olive, ancora nel cuore dell’inverno, disponendo di una piccola 8

somma di denaro, si accaparrò tutti i frantoi di Mileto e di Chio, dando unacifra irrisoria, perché non ce n’era richiesta alcuna: ma quando giunse il tempo 10

della raccolta, poiché molti cercavano i frantoi, tutt’insieme e d’urgenza, li dettea nolo al prezzo che volle e così, raccolte molte ricchezze, dimostrò che per i 12

filosofi è davvero facile arricchirsi, se lo vogliono – e invece non è di questoche si preoccupano. 14

DK 11 A 9 e A 10; trad. it. cit. p. 88

Entrambi i racconti, assai semplici da in-tendersi nel loro significato immediato, fan-no riferimento al tipico modo in cui nell’e-tà classica veniva inteso il ruolo del filosofo:quello dell’amante di una sapienza disin-teressata, anzi tanto più nobile quanto piùdistaccata da ogni movente concreto.

1-5. Il passo, di paternità platonica, nonoffre naturalmente alcuna garanzia di ve-

ridicità, ma è, quanto al messaggio cheintende comunicare, senz’altro verosimile.

6-14. Il passo, dovuto ad Aristotele, sem-bra voler proporre un paradosso, poichésuona assai strano che un individuo noto-riamente disinteressato come Talete abbiaarchitettato un piano simile solo per anda-re contro la communis opinio intorno ai filo-sofi. Esso dunque è con buona probabilità

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un’invenzione narrativa. Ma in questo volerricondurre a ogni costo la figura del filosofoa una vita esclusivamente teoretica, assaidistaccata dalla quotidianità, noi rinvenia-mo la successiva deformazione operata dal-la mentalità platonica e aristotelica – unadeformazione, s’intende, che questi pensa-tori intendevano come una difesa e unacelebrazione della filosofia.

Appare invece più plausibile che questiprimi filosofi, data anche la loro stimolantecollocazione geografica (erano tutti abitan-ti delle colonie, lontani dalla madrepatria eperciò abbastanza svincolati dalle sue tradi-zioni religiose e culturali), siano stati davveroorganicamente inseriti nel loro tempo e inpossesso di importanti funzioni pubbliche:

non sono forse gli stessi dossografi a narrarcidell’attività politica di Talete (DK 11 A 1 e A4) e dell’azione di Anassimandro, che fondauna colonia sul Ponto (DK 12 A 4)? Per controin essi, davvero intellettuali e uomini comple-ti, la riflessione teoretica e l’attività pratica sisposano felicemente. È d’altro canto assainota quella testimonianza di Proclo ove siasserisce che Talete «fece molte scoperte intal campo [la geometria] e di molte guidògli inizi a quanti vennero dopo di lui, dedi-candovisi ora con intenti più generali, orapiù empirici» (A 11). Il passo fa riferimento alcarattere aperto e pubblico, socialmenteutile e rilevante, non iniziatico né mistericodel sapere come inteso dagli Ionici.

1.1.2 Tutto è acqua

Ci dev’essere una qualche sostanza, o una o più di una, da cui le altre cosevengono all’esistenza, mentre essa permane. Ma riguardo al numero e alla 2

forma di tale principio non dicono tutti lo stesso: Talete, il fondatore di taleforma di filosofia, dice che è l’acqua (e perciò sosteneva che anche la terra è 4

sull’acqua): egli ha tratto forse tale supposizione vedendo che il nutrimento ditutte le cose è l’umido, che il caldo stesso deriva da questa e di questa vive (e 6

ciò da cui le cose derivano è il loro principio): di qui dunque egli ha tratto forsetale supposizione e dal fatto che i semi di tutte le cose hanno natura umida – e 8

l’acqua è il principio naturale delle cose umide. Ci sono alcuni secondo i qualianche gli antichissimi, molto anteriori all’attuale generazione e che per primi 10

teologizzarono, ebbero le stesse idee sulla natura: infatti cantarono che Oceanoe Tetide siano gli autori della generazione [delle cose]. . . 12

DK 11 A 12; trad. it. cit. p. 90

1-9. Questa testimonianza, ancora unavolta aristotelica, è il testo chiave per la rico-struzione del pensiero di Talete; lo studio deiPresocratici vi è identificato decisamentecon la ricerca del principio materiale da cuitutte le cose derivano e che permane nelmutare di quelle cose derivate. In particola-re, la posizione di Talete ci mostra all’opera ilmetodo empiricoma anche il carattere spe-culativo della ricerca: il filosofo, partendodalla considerazione che dove c’è vita c’èimmancabilmente acqua, estende la suaosservazione e addirittura ne fa principio uni-versale e metafisico allorché asserisce nonsolo che le cose per vivere abbisognanodell’acqua, ma che tutte sono acqua. Sitratta di un’estensione fatta per analogia,una generalizzazione speculativa che va ol-

tre l’immediatamente constatabile. Così sispiega il ricorso all’acquaper la spiegazionedi innumerevoli altri fenomeni, quali i terre-moti citati in DK 11 A 15 e le piene del Nilocui si fa riferimento in DK 11 A 16.

Tale acqua è materiale e concreta: nonsi tratta di un elemento umido diverso, diun’acqua primigenia dotata di peculiare di-gnità rispetto a quella empirica, ma propriodi quella che ci bagna, con cui laviamo eche beviamo; essa possiede tuttavia unafunzione che eccede l’ambito dell’imme-diatezza per divenire totalizzante in quantoè ritenuta origine non solo dell’acqua dei fiu-mi come dei mari, ma anche di tutte quellecose che liquide non sono.

9-12. Il riferimento al mito di Oceano eTeti (si tratta peraltro di uno dei più antichi

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miti cosmogonici, attestato in Omero, Iliade,XIV, 201) ci mostra come esso non vengareputato una forma ormai superata di sape-re e, al contrario, contribuisca a indirizzarerettamente il pensiero: quello che è cadutoè il suo carattere autoritativo. Il mito non vie-ne più creduto in forma piena e indiscutibilein ragione della sua antichità, ma soprav-vive nella misura in cui il vaglio critico daparte della ragione laica e dell’esperien-za lo conferma e autorizza; al contempo lafilosofia non costituisce una radicale alter-nativa allo spirito religioso della tradizioneantica e mitica e continua a riferirsi al divi-no, benché questo abbia ormai perso ognicarattere personale e si presenti come esitodi riflessione piuttosto che come oggetto difede.

Non a caso questa filosofia è apparsaun tentativo di razionalizzare il mito laicizzan-dolo e aggiornandolo, per così dire, alla mu-tata sensibilità religiosa e alla rinnovata situa-zione culturale. Il fine non è salvare a ognicosto il mito né affossarlo, ma creare un nuo-vo sapere che non necessariamente rigettail passato, bensì lo accetta solo nei modi enella misura in cui esso viene ammesso dalvaglio critico della nuova cultura. Tra il mitoantico e la nuova filosofia ormai si tratta diuna differenza di grado, che il sapere puòfar scomparire, non più di una differenza diprincipio ovvero di natura. La religione è am-bito non ancora guadagnato dalla ragione,ma se la natura del numinoso permane, ilsuo spazio andrà fatalmente restringendosicol progresso della conoscenza.

1.2 Anassimandro

Mai citato da Platone (come pure Anassimene), Anassimandro pare una scopertadella storiografia aristotelica. Eppure con lui ci troviamo di fronte al primo testofilosofico della tradizione occidentale, così fascinoso e oscuro da aver suscitato disparateletture sia da parte di storici che di teoreti (celebre a questo proposito il saggio diHeidegger che reputa ancora modernissima quella problematica). Qui ne tenteremonaturalmente una comprensione la più letterale possibile.

1.2.1 L’infinito è il principio

Tra quanti affermano che [il principio] è uno, in movimento e infinito,Anassimandro, figlio di Prassiade, milesio, successore e discepolo di Talete, ha 2

detto che principio ed elemento degli esseri è l’infinito, avendo introdotto perprimo questo nome del principio. E dice che il principio non è né l’acqua né 4

un altro dei cosiddetti elementi, ma un’altra natura infinita, dalla quale tuttii cieli provengono e i mondi che in essi esistono [. . .]. È chiaro che, avendo 6

osservato il reciproco mutamento dei quattro elementi, ritenne giusto di nonporne nessuno come sostrato, ma qualcos’altro oltre questi. Secondo lui, quindi, 8

la nascita delle cose avviene non in seguito ad alterazione dell’elemento, maper distacco dei contrari [dall’infinito] a causa dell’eterno movimento. 10

DK 12 A 9; trad. it. cit. p. 98

1-8. Questa testimonianza, dovuta alpensatore sincretistico Simplicio (vissuto nelsesto secolo e intenzionato a produrre unasintesi di platonismo e aristotelismo) e chederiva abbastanza chiaramente dalla di-scussione aristotelica sulla contrarietà pre-sente in vari luoghi della Fisica, è dedicatoalla natura del principio. Se esso fosse uno

degli elementi fisici (i quali hanno contrarie-tà ovvero, più semplicemente, sono distinti)distruggerebbe tutti gli altri: questi ultimi so-no infatti finiti, laddove esso risulta infinito);ma se i contrari non hanno buone ragioniper porsi come princìpi, nessuno di essi po-tendo assurgere a un ruolo predominante, ilprincipio dev’essere altro rispetto a loro.

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Detto altrimenti: l’esperienza ci insegnache la vita è il susseguirsi dei contrari, di con-dizioni diverse; se uno dei contrari si affer-masse come definitivo, cesserebbe quel di-venire che è la vita stessa, ma dal momentoche ciò è assurdo nessun elemento in parti-colare può essere il principio di tutti gli altri.Per questo il testo sottolinea fra l’altro come ilprincipio debba essere «in movimento» (r. 1).Emerge così la necessità che il principio nonsia finito al pari degli elementi mondani e nesuperi i limiti vitali o non potrebbe costituirsiper l’appunto come dotato di una funzioneprivilegiata; del pari rimane incontestabilel’intendimento della vita mondana comeuna alternanza di contrari. La vicenda co-smogonica consiste dunque nella relazionefra questo principio e i contrari stessi.

8-10. L’idea che la genesi delle cose siarealizzata per distacco (tesi peraltro repe-ribile in diverse antiche cosmogonie oltreche in altri testi presocratici successivi, daAnassagora a Empedocle) implica una di-

namica che, pur formulata da Aristotele eSimplicio con la loro terminologia, è certooriginale: la separazione dei contrari comedeterminati dall’infinito è il principio dellagenesi del cosmo, a cui segue il muoversidei contrari stessi, una volta individuati.

Dall’infinito si staccano innanzitutto i duecontrari determinati fondamentali, il caldo eil freddo, ciascuno dei quali genera natureanaloghe a sé: il primo è principio di quan-to è mobile, lieve, caldo, l’altro di quantoè denso, pesante, freddo. Dalla dinamicadi questi contrari si generano quindi tutti glialtri, che agiscono ciascuno sul proprio al-tro: i prodotti primi del caldo e del freddo,ossia il sole e l’acqua, lottano fra loro (il so-le facendo evaporare l’acqua e l’acquaspegnendo la natura del sole, il fuoco); èanche chiaro dal testo del frammento cheogni contrario non diviene mai l’altro, masolo ne produce la genesi (cosicché non viè la presenza di quella che in seguito verràchiamata «contraddizione»).

1.2.2 La legge naturale

[Anassimandro ha detto che] «principio degli esseri è l’infinito [. . .] da doveinfatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo neces- 2

sità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustiziasecondo l’ordine del tempo». 4

DK 12 B 1; trad. it. cit. pp. 106-107

In questo celeberrimo frammento, il pri-mo autentico testo di filosofia che la tradizio-ne ci ha consegnato, vige ancora la grandelezione di Talete: Anassimandro, il suo disce-polo più innovativo e profondo, è come luiconvinto che vada individuato un principiounitario del cosmo, ma ne amplia le funzionirispetto all’acqua (cfr. anche l’esposizionedi DK 12 A 11). L’emancipazione rispetto al-l’immediatezza delle evidenze empiriche èalquanto accresciuta e sempre più estesa-mente l’elemento originario da cosa tendea farsi principio.

1. L’«infinito» si può meglio parafrasare,se vogliamo rendere esplicita tutta la ric-chezza del termine greco che lo esprime (ecioè ἄπειρον), come eterno, indetermina-to illimitato. Eterno perché è al di là di ogniqualificazione temporale, il tempo essendoil connotato delle cose finite e mondane. In-determinato per qualità per il motivo sopra

detto: nessun elemento particolare è legit-timato a essere origine della totalità e sem-bra più opportuno che il principio, per poterdavvero essere tutto, non sia nulla di trop-po particolare (poteva altrimenti nascereuna difficoltà non percepita da Talete, macerto in lui presente: in che modo un ele-mento specifico come l’acqua era in gradodi farsi terra o fuoco?). In terzo luogo il prin-cipio è illimitato per quantità poiché nullasussiste al di fuori di esso, benché tutto sidefinisca in relazione di opposizione a esso;non si tratta naturalmente di un’infinità paria quella che noi moderni possiamo immagi-nare, cioè aperta e progrediente, poiché sistruttura in un andamento per contro circo-lare, fatto di distacco dalla e di ritorno allainfinità del principio.

Ciò significa che in Anassimandro, ben-ché si possa ritenere che egli abbracci unavisione monistica invocando l’infinito co-

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me unico principio, è presente una con-cezione dualistica dell’esistenza delle cose,insorgenti dalla dinamica di infinito e finito.

1-3. La presenza dei contrari discendead Anassimandro sia dalla tradizione sia dal-l’esperienza: già in Omero certi accadimen-ti naturali – quali le tempeste e la bonacciain cui si risolvono – appaiono governati dalcontrasto; così è anche per le vicende chehanno luogo all’interno dell’animo umanoe così sarà anche nella difficile visione dellagiustizia di Esiodo. In tal senso possiamo leg-gere pure le affermazioni di Anassimandro:ce lo testimoniano i richiami all’opposizionefra umidità e sole in DK 12 A 11, ai contrastiche nel vento conduconoalle tempeste in A23, a quelli fra le cose presenti e quelle futurein A 27. Il contrasto è messo esplicitamentea tema in questo frammento, come scontrofra le cose che ne fa universale legge delloro comportamento.

Ma l’infinito è scaturigine, disponibilitàillimitata da cui fuoriescono (come sappia-mo per separazione e quindi in ragione del-le opposizioni che vi germinano) i contrari;sebbene l’idea di un abisso infinito da cui lecose derivano sia presente già in Esiodo enell’Orfismo, la sintesi di Anassimandro è in-dubbiamente originale. Sussiste un processodi individuazione e di distacco per cui unaparte dell’infinito – il quale giace in eterni in-distinzione e disordine (è infatti il χάος dellatradizione) – si finitizza in individualità limitatee precisamente connotate (il κόσμος dellatradizione), al di sotto delle quali tuttavial’infinito persiste come perenne fonte da cuile cose escono e a cui ritornano. Teniamopresente che l’infinito può esser detto princi-pio, ma non elemento (come già Aristoteleaveva inteso: cfr. DK 12 A 15) e che essoha la funzione di «abbracciare» tutto, il chesignifica non solo sostenere materialmente,ma anche regolare e guidare: esso dunqueè insieme materia e causa, per usare unaconcettualità posteriore.

3-4. Dopo quanto si è detto sopra sulladinamica cosmogonica di Anassimandro,

la parte ancora da spiegare sarà la finale,col celebre quanto oscuro concetto di in-giustizia: la presenza nel testo di quel «l’unl’altro» ci mostra, contrariamente alle inter-pretazioni più vecchie, che l’ingiustizia nonè pagata all’infinito, bensì agli esseri. Si trat-ta naturalmente di una ingiustizia cosmica,che non coinvolge affatto il concetto mora-le di responsabilità, l’imputazione persona-le tipica del Cristianesimo, tanto più che lecose non commettono quest’ingiustizia perloro volere, ma per necessaria obbedienzaalle leggi dell’infinito stesso. Vi è chi ha ritenu-to addirittura che doppia fosse l’ingiustizia:prima l’individuazione delle cose singole ri-spetto all’infinito, quindi il tentativo tra esse disopraffazione per prolungare indefinitamen-te la propria esistenza. La vita stessa dellecose particolari è costitutivamente lotta econtrasto e dunque l’ingiustizia è condizio-ne fisiologica dell’essere; la necessità che logoverna equivale alla naturale disposizionedel tutto.

L’ordine del tempo fa riferimento allacollocazione, per l’appunto temporale, del-le cose, che si oppongono per questa loronatura al carattere eterno dell’infinito. Dun-que il senso complessivo del frammento stanel muovere dalla constatazione che tut-te le cose particolari hanno vita limitata e,in quanto partecipi dell’ordine del tempo,sono soggette alla distruzione. La secondaparte, la più importante, spiega le ragioni ditale dinamica: ogni elemento è un contra-rio, ma esso sussiste proprio in virtù del suocontrario, dalla relazione col quale trae vitae senso. L’alternanza allora è essenziale per-ché se un contrario si assolutizzasse soppri-mendo l’altro, esso pure verrebbe soppresso,non trovando il contraltare che lo definisce.Il tempo, che stabilisce l’alternanza dei con-trari, è lo strumento di cui l’infinito si serve pergovernare le cose e per porre fine al tentati-vo di una cosa di assolutizzarsi impedendoalle altre di sussistere; esso non è divino co-me l’infinito, ma lo è indirettamente perchésuo strumento.

1.3 Anassimene

Anassimene sembra pensatore meno innovativo e interessante rispetto agli altri dueMilesii; nondimeno ha una sua importanza, sia pure tutta interna alle problematichedella scuola, per il fatto che cerca di affinarle in senso tecnico. Ma anche in lui vediamo

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lo sforzo di costituire un equilibrio fra le attestazioni dell’esperienza e le spiegazionidella ragione, fra il particolare e l’universale.

1.3.1 Il principio è l’aria

Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, fu amico di Anassimandro. An-ch’egli dice che una è la sostanza che fa da sostrato e infinita, come l’altro, 2

ma non indeterminata come quello, bensì determinata – la chiama aria. L’ariadifferisce nelle sostanze per rarefazione e condensazione. Attenuandosi diventa 4

fuoco, condensandosi vento, e poi nuvola, e, crescendo la condensazione, acquae poi terra e poi pietre e il resto, poi, da queste. Anch’egli suppone eterno il 6

movimento mediante il quale si ha la trasformazione.DK 13 A 5; trad. it. cit. p. 109

1-3. In questa testimonianza viene defi-nito con chiarezza che principio del tutto èl’aria: probabilmente qualcosa di più dell’a-ria come soffio del vento od oggetto dellarespirazione: anche in Anassimene trovia-mo, com’è da aspettarsi, il trapasso da unaconsiderazione fisica a una metafisica deglieventi naturali.

3-7. Ma la novità della posizione di Anas-simene non sta tanto nell’identificazione diuna nuova essenza come principio, dopoche già l’acqua e l’infinito erano stati propo-sti, quanto nel problema che egli intende intalmodo risolvere. Talete non era stato in gra-do di spiegare adeguatamente il modo incui le cose procedevano dall’acqua, Anas-simandro aveva introdotto una spiegazioneeccessivamente complessa.

L’idea di Anassimene è di eliminare ildualismo anassimandreo dell’infinito comefondamento e del caldo e il freddo comecontrari (fondamentali) assorbendo fin dall’i-nizio tutte le differenziazioni in un unico prin-cipio: esso non ospita i contrari, ma li diven-

ta attraverso rarefazione e condensazione.L’aria, per la propria uniformità, elasticità eversatilità, si presta meglio di altri elemen-ti allo scopo. La terra era sempre apparsa,fin dall’età del mito, troppo greve e assaipoco duttile; il fuoco, dal canto suo, pre-sentava il difetto opposto: era troppo lieveper poter spiegare le cose dense e pesanti.L’acqua, infine, sembrava eccessivamentedeterminata – era percepita infatti in ognicaso come contrario del fuoco e dunquefredda –, e serviva a spiegare la vita menodel respiro su cui si era soffermata l’attenzio-ne di Anassimandro. Che infine il movimentodell’aria sia eterno, come ci suggerisce l’ul-tima frase del testo (rr. 6-7), significa che inqualche luogo all’interno del principio c’èsempre qualcosa in movimento: non tutto siè mosso subito, o il divenire naturale avreb-be avuto luogo per intero già da semprein un istante e non avrebbe quel caratte-re processuale che invece l’esperienza ciattesta.

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Capitolo 2

I Pitagorici

È impresa affatto ardua confrontare scienza e filosofia nell’età arcaica dei Presocraticie non solo per l’enormità in sé del compito, ma anche perché l’una non è in questoperiodo ancora distinta dall’altra e tutti i saperi sono affatto solidali; è in tale processoche vengono generati i presupposti della loro successiva separazione e ha luogo ildisordinato proliferare delle innumerevoli discipline che, prese dall’indagine dei lororispettivi oggetti, non sono in grado di effettuare una verifica del loro proprio statuto,né della loro rispettiva metodologia né del loro afferire al medesimo grande genere:quello scientifico, appunto.

Chiediamoci ora se la scienza così come oggi la conosciamo abbia un qualche debitonei confronti di questa ancora ingenua analisi del reale. Non sfugga innanzituttola collocazione del fare scienza: in quel tempo il sapere tecnico-naturalistico nonpoteva andare disgiunto da quello etico (il che è evidentissimo nel caso dei Pitagorici,in cui la matematica era metodo di purificazione); l’individuazione delle strutturefisiche del mondo era insieme riconoscimento del ruolo che in esso doveva giocarel’uomo. Per questo il sapere presocratico non è dimentico dell’uomo (come taluni hannoosservato rapportandolo a quello successivo dei Sofisti), ma tende ad assorbirlo in unadimensione che è non esclusivamente naturalistica, bensì onnicomprensiva: ad esempioil concetto anassimandreo di giustizia non sappiamo dire se sia esteso alla naturadall’esperienza politica o viceversa. Ma l’apprensione di quest’ordine non può emergeredall’immediatezza o dalla percezione e richiede un’esperienza peculiare: il contatto coldivino recuperato e riproposto da Parmenide come da Empedocle.

Certo, non mancano le differenze con la scienza contemporanea: assenza di unamentalità sperimentale (l’esperienza e non l’esperimento è lo strumento dei Greci);limitata matematizzazione della fisica, applicata di norma alla descrizione di particolarifenomeni di statica, ottica e soprattutto astronomia; infine scopo puramente conoscitivoe non tecnologicamente rilevante. Eppure non è possibile liquidare lo spirito indagatoreche mosse i Presocratici e resta da vedere se non sia ancora attuale la lezione di questiantichi, che non ebbero bisogno di porre rigide barriere tra filosofia e scienza.

Essendo velleitario qualsiasi tentativo di operare una netta distinzione tra le diversefasi del pitagorismo antico, trattiamo qui il movimento come un tutt’uno, adeguandocial costume aristotelico: il filosofo infatti parla, com’è noto, de «i cosiddetti pitagorici»nel primo libro della Metafisica (A 5, 985 b 23) per indicare il comune lavoro di ricercasvolto dalla fine del sesto all’inizio del quarto secolo da un gruppo solidale nell’attivitàdi ricerca come nella fede religiosa e morale.

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2.1 Matematiche e dottrina del numero

Quanto all’oggetto del suo [di Pitagora] insegnamento, i più dicono ch’egliapprese le cosiddette scienze matematiche dagli Egizi e dai Caldei e dai Fenici: 2

ché già nei tempi più antichi gli Egizi si dedicarono allo studio della geometria,i Fenici allo studio dell’aritmetica e della logistica, i Caldei all’osservazione 4

degli astri. I riti intorno agli dèi e quanto riguarda i costumi dicono che inveceli apprese dai Magi. Questo, dicono, molti già lo sanno perché ne è stata lasciata 6

memoria in opere scritte; ma per il resto i suoi costumi sono sconosciuti. . .DK 14 A 9; trad. it. cit. p. 122

1-7. Un intero filone di studiosi che si so-no occupati domandati perché la filosofianacque proprio in Grecia, proprio in quel-l’epoca e proprio in quella forma ha identi-ficato una delle sue matrici nella sapienzaorientale; la tesi viene formulata per la primavolta già nell’antichità in brani come questo,di Porfirio. Ma, senza affrontare qui il proble-ma delle dipendenze e dell’originalità chela filosofia greca presenta e riferendoci sol-tanto a Pitagora, vi è chi lo ritiene davveroscienziato e iniziatore della corrente che dalui prende il nome, chi invece attribuisceverosimiglianza alle testimonianze solo dalpitagorismo medio e rigetta nell’oscurità delmito la figura di Pitagora, facendone unosciamano.

Da un lato, la quantità e l’unanimità del-le testimonianze in proposito ci inducono adammettere che Pitagora fu un filosofo origi-nale e influente, ma non ci consentono diricostruire quale fosse la sua teoria. Impossi-bile dunque stabilire non solo il rapporto inlui presente fra filosofia e religione, ma ognidato biografico e scientifico: ad esempio,non è affatto sicuro che sua sia la paterni-tà del teorema che reca il suo nome. Nonpossiamo in conclusione che astenerci dalprodurre una distinzione chiara fra antico e

medio Pitagorismo. Inoltre appare possibilema ancora una volta non preciso discrimina-re, all’interno della scuola, fra acusmatici ematematici, ovvero coloro nei quali lo spiritoreligioso era maggiormente accentuato equanti si sentivano più vicini a una genuinaricerca scientifica.

Non dimentichiamo che le matemati-che non avevano conosciuto presso le ci-viltà antiche progressi paragonabili a quel-li che conobbero presso i Greci, forse pro-prio per il loro carattere «pratico»: dove il nu-mero era usato con una immediata finalitàconcreta, il conseguimento di tale obiettivoesauriva l’interesse nei confronti del nume-ro stesso: così è per esempio in Egitto, ovele conoscenze geometriche servivano so-prattutto a ristabilire i confini dei campi do-po le piene del Nilo. In Grecia per contro,ove la matematica è praticata in forma percosì dire disinteressata, cioè senza la spintadi moventi utilitaristici, non c’è un successopratico che rappresenti la soddisfazione eperciò stesso la cessazione dell’interesse elo studio può proseguire anche oltre; proprioquesto carattere dell’indagine fu la spintaal progresso continuo degli studi che portòi Greci a esiti di valore assoluto.

2.2 Il numero è il principio

Al tempo di costoro, e prima di costoro [Leucippo e Democrito], si dedi-carono alle matematiche e per primi le fecero progredire quelli che son detti 2

Pitagorici. Questi, dediti a tale studio, credettero che i princìpi delle matemati-che fossero anche i princìpi di tutte le cose che sono. Or poiché princìpi delle 4

matematiche sono i numeri, e nei numeri essi credevano di trovare, più che nelfuoco e nella terra e nell’acqua, somiglianza con le cose che sono e divengono 6

[. . .], e poiché inoltre vedevano espresse dai numeri le proprietà e i rapportidegli accordi armonici, poiché insomma ogni cosa nella natura appariva loro 8

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simile ai numeri, e i numeri apparivano primi tra tutto ciò ch’è nella natura,pensarono che gli elementi dei numeri fossero elementi di tutte le cose che 10

sono, e che l’intero mondo fosse armonia e numero.DK 58 B 4; trad. it. cit. pp. 512-3

1-3. Abbiamo già chiarito che l’espres-sione «quelli che son detti Pitagorici» va inte-sa come locuzione volta a indicare un grup-po, laddove fino a quel momento il testoaristotelico da cui il brano è tratto (il celebreprimo libro della Metafisica) aveva preso inconsiderazione solo figure ben individuatedi pensatori.

3-11. Il passo ci suggerisce con grandedecisione che le cose sono numeri e che,per conseguenza, gli elementi che compon-gono i numeri sono pure quelli di cui sonfatte tutte le cose. L’idea di fondo è che ilnumero sia davvero il costituente della real-tà, come un mattone lo è dell’edificio, inquanto esso esprime (e tende a coinciderecon) le figure geometriche e queste, a lorovolta, costituiscono i corpi in quanto ne iden-tificano i limiti e la forma. I numeri dunquenon rappresentano la forma o la formulazio-ne astratta di una sostanza altra o principio,ma davvero sono immanenti alle cose e fi-niscono quindi per identificarsi con queste.La testimonianza aristotelica presenta pe-raltro un’ambiguità che rende difficilmentedecidibile la questione: i luoghi in cui si diceil tutto essere formato di numeri li intendo-no proprio come materia (qui alle rr. 3-4) e ipassi in cui le cose sono semplicemente det-te conformate ai numeri li vedono invececome pura forma (qui alle rr. 7-8).

Ma i numeri sono i costituenti di tutte lerealtà, non solo di quelle fisiche, cosa natu-rale per i Pitagorici, data anche l’incapacitàdei primi filosofi a distinguere – come per noimoderni è invece naturale e ovvio, o alme-no così ci sembra – tra quanto è astratto equanto è concreto. L’intendimento del nu-mero come immediato componente mate-riale della realtà o come principio della suaintelligibilità possono essere posizioni distintee successive del Pitagorismo o infiltrazioniinterpretative posteriori.

Che cosa spinge i Pitagorici a identifica-re il principio proprio col numero? SecondoAristotele l’idea deriva loro anche da osser-vazioni empiriche (rr. 7-8): essi si resero infatticonto del carattere periodico, cioè ritmicoe regolare dei principali fenomeni naturali,cosmici e forse anche biologici, quali l’alter-narsi del giorno e della notte e delle stagioni,l’andamento delle maree e delle costella-zioni. Un altro motivo per questa credenzasta nella struttura della musica, evidente-mente campo di prima importanza per i Pi-tagorici: anche lamelodia e l’armonia, ossiail gioco delle consonanze e delle dissonan-ze, si può definire matematicamente comerapporto numerico fra i suoni, in concretoattuato nella lunghezza delle corde dellalira ovvero della colonna d’aria nel flauto.

2.3 Struttura del numero

Pare che anche costoro, che pensavano che principio fosse il numero, pen-sassero il principio sia come materia e sia come qualità accidentale e condizione 2

delle cose che sono. Elementi del numero ponevano il pari e il dispari, l’unopensato come infinito e l’altro come limitato; l’unità la consideravano derivante 4

da entrambi (dicevano quindi che essa è pari e dispari); e dall’unità pensavanoche nascesse il numero e che nei numeri consistesse, come ho detto, tutto il 6

mondo. Altri Pitagorici dicevano che i princìpi sono dieci, quelli che secondola serie son detti: limite e illimitato, dispari e pari, uno e molteplice, destro 8

e sinistro, maschio e femmina, fermo e mosso, dritto e curvo, luce e tenebre,buono e cattivo, quadrato e rettangolare. 10

DK 58 B 5; trad. it. p. 514

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1-3. La prima parte del passo aristoteli-co risulta di difficile interpretazione, perchéè oscuro il senso delle espressioni «qualitàaccidentale» e «condizione» e anche il lo-ro rapporto con «principio» (gli stessi esege-ti antichi propongono letture congetturaliaffatto diverse). Probabilmente, operandouna semplificazione notevole, possiamo sug-gerire che la prima espressione indichi leproprietà delle cose e la seconda il loro sta-to: in ogni caso il numero risulta sia causamateriale che causa formale della totalità.

Nonostante innumerevoli testimonianze(a cominciare da un frammento certamen-te inautentico di Archita) riconducano il prin-cipio, nei Pitagorici, al dualismo fra l’Uno e laDiade, tale opposizione prende piede soloin epoca platonica e non è da confonderecon la dottrina, genuinamente pitagorica,dell’illimitato e del limite: insomma, solo il pa-rimpari è davvero il punto di partenza e l’op-posizione, che assume qui valenza cosmo-gonica, fra illimite e limitato sembra derivareda Anassimandro. Il frammento è di difficilecomprensione, ma possiamo affermare consicurezza che, almeno nel campo dei nume-ri, l’illimitato è il pari e il limitante il dispari, di

modo che vi sono numeri originati per inte-ro dall’illimitato (come 16=4×4, derivando iltotale da numeri tutti pari), numeri originatiper intero dal limitato (come 15=3×5), de-rivando in questo caso il totale da numeritutti dispari), infine numeri originati dal limitee dall’illimitato (come 6=2×3).

3-10. La seconda parte spiega la ce-lebre differenziazione del pari e del disparie la loro derivazione dell’unità o parimpari.Qui Aristotele sta riferendo di una fase relati-vamente recente del Pitagorismo: la tavoladelle opposizioni sotto riportata (rr. 7-10) èattribuita, se nona Filolao, comunqueapen-satori della sua generazione (siamo nella se-condametà del quinto secolo). Tutti i Pitago-rici comunque concordavano nel derivarela totalità dei fenomeni da un’opposizionefondamentale che si partiva quindi in seriederivate di contrari: le dieci coppie qui enun-ciate, sebbene si susseguano casualmentee senza un filo rosso nella loro deduzione,ci mostrano che il numero era caricato diconnotati qualitativi e che anzi assumevauna serie di significati determinati, riflettendoin certi casi pregiudizi o convinzioni tipichedella mentalità arcaica.

2.4 La dottrina fisica

Essi [i Pitagorici] dicono che nel centro è il fuoco, che la terra è un astro e cheessa, rotando introno alla parte centrale, dà origine al giorno ed alla notte. Poi, 2

di contro a questa, dicono che c’è una seconda terra, ch’essi chiamano antiterra;e questo affermano non già ricercando le cause e le ragioni dei fenomeni, ma 4

sforzando il significato dei fenomeni e cercando d’accordarli con alcune lororagioni e opinioni preconcette. 6

DK 58 B 37; trad. it. cit. p. 528

1-2. Come in tutte le cosmogonie ar-caiche, anche nel Pitagorismo manca l’in-dagine sull’origine del cosmo; si dà in cer-to modo per scontato che la prima cosaa formarsi sia stata, al cuore dell’universo,il fuoco centrale, che riceve una grandequantità di diverse denominazioni. Esso, at-traendo le parti a lui più prossime dell’illimi-tato, le limita costituendo le prime entitàparticolari e quindi, con la prosecuzione diquesto processo (così almeno congetturia-mo in assenza di notizie che ne specifichi-no la dinamica), si è creato e organizzato ilcosmo.

2-6. Questo è immaginato in forma disfera al cui centro risiede il fuoco centrale;intorno a esso si muovono i dieci corpi ce-lesti procedendo da Occidente a Oriente.Il loro numero era fissato a dieci benché al-lora le osservazioni ne avessero individuatisolo nove perché il cosmo, essendo perfet-to, doveva rispettare la perfezione numericae il numero perfetto è la magica decade:di conseguenza i Pitagorici furono indotti aipotizzare un’antiterra a noi invisibile per fartornare il conto, donde la critica di Aristotelenel passo che è stato riportato (rr. 3-6).

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Molte delle loro teorie astronomiche, al-cune assolutamente in contrasto con quel-le posteriori, altre che quelle moderne inqualche modo anticipano, furono prodotteperò in prevalenza in base a considerazioni

speculative sulla natura dei corpi celesti edei numeri e non a osservazioni astronomi-che: il rapporto fra ragione ed esperienza èancora difficile da definire.

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Capitolo 3

Eraclito

La comprensione del pensiero di Eraclito è resa assai difficile dalla condizione incui possediamo i suoi testi e dal fatto che non sappiamo neppure se essi appartenesseroa opere sistematiche (cioè in forma di trattati) o a raccolte di aforismi (come imme-diatamente appare dalla pregnanza e dall’efficacia dei frammenti). Siamo comunquedi fronte al primo tentativo di individuare il principio come legge piuttosto che comemateria, sebbene poi esso venga identificato anche in un elemento fisico, e precisamentenel fuoco.

3.1 Gli svegli e i dormienti

Eraclito, figlio di Blosone o, secondo alcuni, di Eracanto, nacque ad Efeso.Fiorì nella 69:a olimpiade. Fu altero quant’altri mai e superbo [. . .]. Avendolo 2

i suoi concittadini pregato di dar loro le leggi, rifiutò per la ragione che lacittà era ormai dominata da una cattiva costituzione. Ritiratosi nel tempio di 4

Artemide, si mise a giocare a dadi con i fanciulli: agli Efesi che gli si facevanoattorno, disse: «Perché vi meravigliate, o malvagi? non è forse meglio far questo 6

che occuparsi della città in mezzo a voi?». Alla fine, per insofferenza versogli uomini, ritirandosi dalla vita civile visse sui monti, cibandosi di erbe e di 8

piante.DK 22 A 1; trad. it. cit. pp. 179-80

1-9. Il frammento, puramente biografi-co, lumeggia un tratto della personalità diEraclito non privo di nessi con la sua filosofia;l’uomo appare infatti scontroso quanto pre-suntuoso e sebbene questo sia da metterein relazione anche con ragioni storiche e po-litiche (sembra che il suo amico Ermodorofosse esiliato per motivi politici dai cittadini diEfeso, cosa che il filosofo non perdonò mailoro, come si legge in DK 22 B 121), è certoche egli possedeva una concezione elitariadel sapere, esattamente al contrario degliIonici. Se questi volentieri costituirono unascuola e noi stessi abbiamo visto Talete con-

tribuire al pubblico progresso delle scienze,Eraclito ritiene la conoscenza appannag-gio di pochi privilegiati: non dimentichiamoneppure che egli era un aristocratico e chedoveva nutrire sfiducia nella possibilità di al-largare la partecipazione politica alla clas-se media. Anche lo stile conferma quantodetto: esso è oscuro, ellittico, tanto che Dio-gene Laerzio ci racconta a proposito del«suo libro» (verosimilmente il trattato intornoalla natura) che egli aveva «deciso intenzio-nalmente [. . .] di scriverlo in forma oscura,affinché ad esso si accostassero solo quelliche ne avessero la capacità» (DK 22 A 1).

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3.2 Il principio è il logos

Di questo logos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza, sia primadi averlo ascoltato sia subito dopo averlo ascoltato; benché infatti tutte le 2

cose accadano secondo questo logos, essi assomigliano a persone inesperte,pur provandosi in parole e in opere tali quali sono quelle che io spiego, 4

distinguendo secondo natura ciascuna cosa e dicendo com’è. Ma agli altriuomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non sono 6

coscienti di ciò che fanno dormendo.DK 22 B 1; trad. it. cit. p. 194

1. È questo verosimilmente il passo cheapriva il trattato eracliteo, tramandatoci,seppure non in forma del tutto identica, daparecchie fonti. In esso si annuncia la tratta-zione del λόγος, ovvero della natura profon-dadelle cose che tale logos incarna; questoè anzi lo stesso principio della totalità dellecose che Eraclito si accinge a svelare.

Si noterà innanzitutto come tale princi-pio sia indicato con un termine che indica ilconcetto e la parola piuttosto che una en-tità fisica: esso, secondo una tendenza giàriscontrata in Anassimandro e Anassimene,è discosto dalla dimensione dell’esperienzaordinaria. Come già Aristotele aveva nota-to in DK 22 A 4, l’avverbio che segue, quel«sempre» ambiguamente collocato, potreb-be esser unito sia a quanto precede (e alloraalluderebbe all’eternità del logos stesso) siaa quanto segue (e allora sarebbe un’osser-vazione pessimistica sulle possibilità dell’uo-mo di intendere correttamente il principio);ma è anche possibile che Eraclito stesso ab-bia giocato su questa posizione perché essofosse riferito in certo modo a entrambi. L’e-ternità del logos è comunque indiscutibile,mentre il trattato eracliteo vuole farne ve-nir meno l’oscurità e far sì che gli uomini neabbiano intelligenza.

1-3 e 5-6. Non dobbiamo intendere ciòche segue come la negazione assoluta del-l’intelligibilità del logos, cioè l’asserzione chein ogni caso gli uomini ne rimarranno igno-ranti: in questo caso non sarebbe neppu-re valsa la pena di scriverci sopra un testo.Gli uomini tentano di raggiungere una com-prensionedi questo logos nei pensieri (formu-lati poi linguisticamente nelle «parole» deltesto e realizzati in concreto nelle «opere»),e nei fatti non possono che rispettarne le re-gole: di ciò tuttavia non riescono ad averecoscienza.

4-5. Nulla di ciò che avviene può con-traddire il logos, ma questo non significa cheper noi sia facile e tanto meno naturale oautomatico rendercene conto; al contrario,solo la filosofia può consentirci di abbando-nare le apparenze svelandoci l’autenticoprincipio dell’essere.

Qual è il modo per giungere alla com-prensione del logos e per conseguenza ditutte le cose?: «distinguendo ciascuna cosasecondo natura e dicendo com’è», sugge-risce il metodo eracliteo. La totalità infattinon è un aggregato casuale, mero muc-chio, ma un sistema organizzato e organico(si ricorderà che kosmos in greco equivaleordine); sarà dunque necessario individuare,al di sotto degli apparentemente scompo-sti oggetti ed eventi, la loro logica, la lororegola che è appunto il logos: esso non èevidente (B 123 ci avverte che «la natura del-le cose ama celarsi» e B 54 che «L’armonianascosta vale più di quella che appare») erichiede un’adeguata analisi. D’altro canto,in significativo contrasto con la posizione inqualche modo pessimistica dell’avvio, quiEraclito sta proponendo tale ricerca, che ri-tiene necessaria e possibile. Vedremo infinecome, a differenza che nei Milesii, tale me-todo si allontani dalla scienza naturale perfarsi pura speculazione filosofica o, comealtri hanno suggerito, metafisica; in effettiné alla cosmologia né alla matematica ilnostro filosofo darà significativi contributi.

Per Eraclito, infine, l’importante non è laquantità delle conoscenze, ma l’esatto co-glimento del principio. Infatti egli, in polemi-ca con la polimatia (cioè la molteplicità deisaperi) dei suoi predecessori, scrive fra l’altro:«Sapere molte cose non insegna ad avereintelligenza: l’avrebbe altrimenti insegnatoad Esiodo, a Pitagora e poi a Senofane ead Ecateo» (DK 22 B 40).

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3.3 Gli uomini e il logos

Bisogna dunque seguire ciò che è comune. Ma pur essendo questo logoscomune, la maggior parte degli uomini vivono come se avessero una loro 2

propria e particolare saggezza.DK 22 B 2; trad. it. cit. p. 195

1-3. Questo frammento (conservatocida Sesto Empirico in forma non perfetta edunque sottoposto a integrazione) ribadi-sce il carattere elitario della filosofia e dellacomprensione del principio: non si tratta diun discrimine religioso, mistico o iniziatico,come invece nel pensiero pitagorico, ma dinatura esclusivamente intellettuale. Il difettofondamentale degli uomini è la mancanzadi consapevolezza: questi rimangono fermialle apparenze e a esse sono tanto avvezzida non metterle mai in discussione, accet-tandole acriticamente: così fa l’uomo dellastrada, ma anche l’intellettuale. Ecco la criti-ca gravissima che Eraclito muove a Omero,ritenuto nell’antichità classica quasi l’enci-clopedia di ogni sapere, soprattutto morale(cfr. DK 22 B 56, B 22 e B 105), agli altri poeti,da Esiodo ad Archiloco e infine agli storici.Infatti noi dobbiamo non saperemolte cose,cioè disperderci nella inutile molteplicità del-

le conoscenze e delle nozioni, ma cogliernela sottesa unità. Il logos è la legge universaleed è dunque comune a tutte le cose.

Aggiungiamo che questo rifiuto delleapparenze e della superficialità non equiva-le però al ripudio dell’esperienza sensibile,che è al contrario ritenuta comunque il pun-to di partenza della conoscenza filosofica,a patto che non ci si fermi a quanto sugge-risce immediatamente: Eraclito stesso dicein DK 22 B 55: «Preferisco quelle cose di cuic’è vista e udito» (solo parzialmente con-traddicendosi in B 107). Tuttavia in camposcientifico il filosofo si mostra meno sensibilea quest’esigenza rispetto a quanto non siain ambito metafisico. È infatti con assolutaindifferenza che egli accetta il sapere comu-ne ad esempio a proposito del sole, di cuiscrive: «Ha la larghezza di un piede umano»(DK 22 B 3), senza verificare l’attendibilità diuna simile credenza.

3.4 L’universalità del logos

Ascoltando non me, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno.DK 22 B 50; trad. it. cit. p. 208

1. Il filosofo non si propone qui come por-tavoce della divinità, non presenta le pro-prie convinzioni (a differenza di quanto faràParmenide) come dovute a una rivelazionedivina, bensì direttamente al logos; in altreparole propone un’esperienza che lui harealizzato, ma che anche altri possono at-tuare se in possesso dell’atteggiamento edel metodo adeguato, cioè, secondo la for-mulazione di B 1, «provandosi» nelle parolee nelle cose corrette. La stessa parola delfilosofo non ha alcun valore se appartiene alui in quanto uomo, cioè allorché si presenta

come individuale, privata; ha invece pesoallorché riporta quanto è il logos ad averstabilito. Se, come abbiamo detto sopra, ilfilosofo propone anche un metodo (cioè,proprio nel senso etimologico, un cammi-no) per avvicinarsi a questa conoscenza,è evidente che il sapere non sarà oggettodi una mistica rivelazione, ma il risultato delrazionale procedere della ricerca umana,la conquista da parte del graduale lavo-ro dell’intelletto: questo ci sembra deporrea favore della laicità dell’impostazione diEraclito come dei Milesii.

3.5 La teoria del divenire

Negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo.

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DK 22 B 49a; trad. it. cit. p. 207

1. È questo unodei celebri frammenti delfiume (in modo del tutto analogo anche DK22 B 12 e B 91), ove leggiamo ancora unavolta la tesi della contraddittorietà del reale:il dinamismo tipico delle cose fa sì che ogniprocesso sia ipso facto anche il processo op-posto. Questi testi espongono l’idea che larealtà sia collocata in un eterno fluire e in ef-fetti un intendimento dinamico del principioè reperibile in tutti questi primi pensatori, acominciare dagli Ionici: non siamo tuttaviain grado di precisare ulteriormente la formache questa dottrina assume in Eraclito, datala grande scarsità della documentazione

in proposito in nostro possesso e dato chela dottrina genuinamente eraclitea si con-fonde nelle testimonianze con quella deglieraclitei successivi, Cratilo in testa.

Tali frammenti comunque, come abbia-mo anticipato, fanno senz’altro riferimentonon solo alla tesi del mobilismo universale,ma anche a quella della struttura oppositivadella realtà e sottolineano il carattere con-traddittorio di ogni azione (poiché noi nelfiume scendiamo e al contempo non scen-diamo) e di ogni realtà (infatti ogni cosa èe insieme non è).

3.6 La dottrina dei contrari

L’opposto concorde e dai discordi bellissima armoniaDK 22 B 8; trad. it. cit. p. 197

1. Il frammento, consegnatoci da Aristo-tele, è stato assai discusso dai critici, alcunidei quali ne contestano la genuina matri-ce eraclitea. Ma, al di là della questionefilologica, esso pare ben esprimere una te-si originale del nostro filosofo: i contrari nonsolo lottano fa loro e si escludono reciproca-mente: da un altro punto di vista possiedo-no invece una loro segreta unità, che nonappare a uon sguardo immediato. Tutto cifa credere che i contrari fossero un aspet-to della realtà particolarmente significativoper questi primi pensatori, probabilmenteper la loro forte e diffusa presenza nei più di-sparati aspetti della natura: l’alternarsi dellestagioni come delle costellazioni, l’opporsidel giorno e della notte ovvero della lucee dell’oscurità, il ritmico susseguirsi delle co-stellazioni e delle maree. A qualche decinaammontano infatti le varie coppie di con-trari enunciate da Eraclito (cfr. B 8, 10, 51, 72,

29, 104, 34, 49, 59, 60, 62, 65, 67, 80, 88, 102,103, 111, 117, 118, 126) e tratte dai campipiù vari, dalle realtà fisiche e astronomichea quelle umane in senso lato.

Ci stiamo avvicinando al cuore dellaconcezione eraclitea: i contrari, lungi dal lot-tare per la reciproca eliminazione, si richie-dono vicendevolmente, si attirano e accor-dano: che cosa mai sarebbe infatti la lucesenza il buio, o il suono privo del silenzio? Èsolo dall’opposizione che ogni realtà trae ilsuo senso e la sua stessa esistenza: infatti «Lamalattia rende piacevole e buona la salu-te, la fame la sazietà, la fatica il riposo» (B111), dove è l’un contrario a rincorrere e avalorizzare l’altro, e pure «Le cose fredde siscaldano, il caldo si fredda, l’umido si secca,ciò che è arido s’inumidisce» (B 126), doveè evidente che sono le medesime cose adattraversare stati opposti.

3.7 La guerra

Polemos è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e glialtri come uomini, gli uni fa schiavi gli altri liberi. 2

Bisogna però sapere che la guerra è comune (a tutte le cose), che la giustiziaè contesa e che tutto accade secondo contesa e necessità. 4

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DK 22 B 53 e B 80; trad. it. cit. pp. 208 e 213

1-2. Il logos è identificato qui con la con-tesa: la regola costitutiva delle cose, che nedetermina il comportamento e ne governale relazioni con tutte le altre, è il conflitto. Ilcontrasto è presente sia tra le cose sia all’in-terno di ogni singola cosa: tale opposizionenon è tuttavia mera distruzione, ma al con-trario essenza positiva, statuto ontologico.Tutto quanto ha luogo, come il prosieguoindica, è dovuto a Πόλεμος.

3-4. Polemos non è prevaricazione, vio-lenza distruttiva, bensì la struttura delle cose:

il contrasto è fisiologico all’essere. Ogni cosanon solo e non tanto si oppone al propriocontrario, ma vive grazie a esso. Che tuttosia e non sia, ovvero si trovi costantemen-te aperto alla contraddizione, implica unadinamicità del reale, un continuo divenire,magari non evidente ma comunque essen-ziale e ineliminabile, pena il toglimento dellarealtà stessa; pertanto non è così strano oscorretto attribuire allo stesso Eraclito la tesidel divenire o flusso universale.

3.8 L’unità dei contrari

Congiungimenti sono intero e non intero, concorde discorde, armonicodisarmonico, e da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose. 2

Non comprendono come, pur discordando in se stesso, è concorde: armoniacontrastante, come quella dell’arco e della lira. 4

Una e la stessa è la via all’in su e la via all’in giù.DK 22 B 10, B 51 e B 60; trad. it. cit. pp. 198, 208 e 210

1-2. Questo frammento integra i prece-denti, poiché se in quelli si spiegava la con-cezione oppositiva della realtà ora Eraclitomostra la solidarietà che soggiace all’op-posizione, il carattere dell’«opposto concor-de» ormai letto più come concorde che co-me opposto e perciò fondamento in modounitario dell’intera realtà.

3-4. Il frammento (trascurando qui il pro-blema filologico della sua effettiva struttura:le due parti ci vengono date di seguito – econ alcune differenze – solo da Platone eda Ippolito, mentre altre citano o solo l’inizioo solo la conclusione) è un tentativo, unodei più importanti, di spiegare il perché dellacaratteristica contraddittorietà del reale, fi-nora solo rilevata nell’esperienza. Innanzitut-to: quale potrebbe essere il soggetto di cuisi rileva l’apparente discordanza e la sostan-ziale concordanza? Senza considerare lediscussioni in proposito (che iniziano propriocon l’integrazione operata dallo stesso Pla-tone in forma differente nel Simposio, 187a,dove il soggetto ipotizzato è l’uno, e nel So-fista, 242d, ove invece è l’ente), possiamolasciare il frammento così com’è poiché la

comprensione del suo significato non ne vie-ne affatto ridotta. Qui il contrasto è riportatoa unità e se ne afferma il carattere solo di su-perficie, non essenziale. Perché l’immagineadottata è quella dell’arco e della lira? Trale innumerevoli spiegazioni, due ci sembra-no più plausibili e non del tutto incompatibili:in primo luogo perché i due oggetti simbo-leggiano dei contrari fondamentali quali laguerra e la pace (la lira è qui strumento arti-stico, usato in tempi lieti). Secondariamenteperché la forma dei due oggetti, costitui-ti entrambi da due bracci divergenti chetendono delle corde le quali a loro volta lifanno essere più vicini e cioè convergenti,è affatto simile. Ne risulta un oggetto in cuiogni contrasto vien fatto venir meno: esso èil convivere stesso degli opposti che vertonosulla medesima entità.

5. Tralasciando l’interpretazione cosmo-logica di questo frammento (che dovrebbein tale lettura descrivere i processi inversi del-la cosmogonia a opera del fuoco), qui siribadisce l’identità degli opposti e la lorocompresenza all’interno di un’unica realtà,quale la strada. Analoghi, fra i tanti altri, B

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61: «Il mare è l’acqua più pura e più impura:per i pesci essa è potabile e conserva la lorovita, per gli uomini essa è imbevibile e esizia-

le» e B 103: «Comune infatti è il principio ela fine nella circonferenza del cerchio».

3.9 L’ordine universale come fuoco

Quest’ordine universale, che è lo stesso per tutti, non lo fece alcuno tragli dèi o tra gli uomini, ma sempre era è e sarà fuoco sempre vivente, che si 2

accende e si spegne secondo giusta misura.

Cangiamenti del fuoco: innanzi tutto mare, e del mare una metà terra e 4

l’altra metà soffio infuocato.

Il fulmine governa ogni cosa. Giacché il fuoco sopraggiungendo, giudicherà 6

e condannerà tutte le cose.DK 22 B 30, B 31 e B 63; trad. it. cit. pp. 202, 203 e 211

1-3. Perché proprio il fuoco è la traduzio-ne fisica del logos, come dice questo primoframmento? I Milesii avevano offerto altre so-luzioni, ma erano stati portati a effettuare leloro scelte da motivazioni, come abbiamovisto, di natura prevalentemente fisica. Cisembra invece che sia una ragione specu-lativa a indurre Eraclito a optare per il fuoco:esso, più di ogni altro elemento, è sottopostoal contrasto e meglio di ogni altro lo incar-na concretamente, soggetto com’è ad ac-cendersi e spegnersi, a variare di continuo,a elevarsi e discendere seguendo il ritmoalterno della fiamma e vive della morte diciò che brucia. Si legga a questo propositoDK 22 B 67: «Il dio [. . .] muta come il fuoco,quando si mescola ai profumi e prende no-me dall’aroma di ognuno di essi». Sul pianocosmologico, si alternano il periodo in cuiil fuoco è presente nella forma del manca-mento (come suggerisce B 67) e cioè si at-tua nelle cose innumerevoli del mondo e ilperiodo in cui esso si realizza come sazietà,ovvero allorché tutto è soltanto fuoco.

Tra i vari problemi filologici che tale fram-mento ha suscitato, uno dev’essere qui men-zionato: la triplice occorrenza del verbo es-sere è da intendersi in senso esistenziale op-pure è semplicemente il predicato nominaleche regge l’apposizione, l’espressione «fuo-co sempre vivente» (presente alla r. 2)? Glistudiosi si dividono equamente fra una tesie l’altra e noi, senza la pretesa di optare perl’una o l’altra possibilità, possiamo almenoriferire quanto c’è di sicuro: il cosmo non èstato prodotto da nessuno, né Dio né tanto

meno uomo, ma esiste ab aeterno (sappia-mo d’altro canto come l’idea di una creatioex nihilo sia assente dalla cultura greca co-me da tutte le culture orientali antiche) e, separliamo della sua origine, non ci riferiamoalla sua nascita, bensì alla sua conformazio-ne in base al disegno della ragione (che asua volta è fuoco). Il fuoco è dunque eternoe ubiquo, intelligente emateriale al contem-po, anche se non è affatto chiaro come daquesta principio tutto sommato determina-to (almeno se confrontato con l’infinito diAnassimandro) derivino gli altri elementi.

4-5. Clemente così chiosa la sua citazio-ne di B 31, il nostro secondo frammento: «Im-plicitamente egli [Eraclito] dice, infatti, cheil fuoco, ad opera del logos e del dio chegoverna tutte le cose, è trasformato, pas-sando per l’aria, in umido, che è come il se-me dell’ordine universale e che egli chiama«mare»; da esso poi, a loro volta, nascono laterra, il cielo e le cose che vi sono contenute.Che poi di nuovo ripercorra il cammino al-l’indietro e alla fine s’infiammi, chiaramentelo mostra con queste parole: «<La terra> siliquefa come mare e si espande fino a quelpunto a cui era prima di diventare terra».

6-7. In quest’ultimo frammento il fuocoè visto in guisa di suprema legge naturalee il giudizio che esso opera dev’essere ri-tenuto assai simile alla giustizia dell’infinitodi Anassimandro, ovvero dimensione preva-lentemente naturalistica: abbiamo forse difronte una ingenua e tenue ma già operan-te distinzione fra la materia di cui le cose sonfatte e la norma cui obbediscono.

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Capitolo 4

L’Eleatismo

4.1 Senofane

Facciamo iniziare l’Eleatismo con Senofane per ossequio alla tradizione, poichéè sconosciuto il rapporto che egli intrattenne con gli Eleati. Non chiare sono infattile sue teorie ontologiche e la sua attenzione alla religione non la ritroveremo percontro in alcun Eleata; ma anche qui è reperibile quell’uso autonomo della ragione equell’indipendenza da qualsiasi tradizione che sono il principio della filosofia.

4.1.1 La critica alla fede tradizionale

Omero e Esiodo hanno attribuito agli dèi tutto quanto presso gli uomini èoggetto di onta e biasimo: rubare, fare adulterio e ingannarsi reciprocamente. 2

Ma se i buoi <e i cavalli> e i leoni avesser mani e potessero con le loro manidisegnare e fare ciò appunto che gli uomini fanno, i cavalli disegnerebbero 4

figure di dèi simili ai cavalli e i buoi simili ai buoi, e farebbero corpi foggiaticosì come <ciascuno> di loro è foggiato. Gli Etiopi <dicono che i loro dèi sono> 6

camusi e neri, i Traci che sono cerulei di occhi e rossi di capelli.DK 21 B 11, B 15 e B 16; trad. it. cit. pp. 171 e 172

1-2. Questo frammento (insieme ad al-cuni altri: cfr. DK 21 B 10 e B 12) è una criticaalla religione tradizionale: a Senofane pareassurdo che le divinità, che dovrebbero co-stituire per gli uomini modelli da emulare epersonificazioni dei valori a cui ispirarsi, sianoinvece rappresentate nella poesia tradizio-nale – e vengano di conseguenza reputa-te nell’opinione diffusa dei Greci – come inpossesso di tutti i difetti tipici degli uomini.

3-7. I frammenti qui riportati, derivanti in-sieme a qualche altro (DK 21 B 14) da un’o-pera intitolata Silli e citata in un papiro madi cui non sappiamo nulla, esemplificano lecelebri affermazioni di Senofane contro l’an-tropomorfismo, ovvero l’abitudine di raffigu-rare gli dèi in forma umana, il che è dovuto,a suo giudizio, alla ingenuità e all’ignoranzadegli uomini.

4.1.2 La nuova idea del progresso

Non è che da principio gli dèi abbiano rivelato tutte le cose ai mortali, macol tempo essi cercando ritrovano il meglio. 2

DK 21 B 18; trad. it. cit. p. 172

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1-2. Questo importante frammento sipuò intendere in modo adeguato ricordan-do che nella cultura arcaica, da cui Senofa-ne inizia a prendere le distanze, le tecnichesi ritenevano non acquisizioni culturali dovu-te all’intelligenza, ma strumenti precostituiti,intorno alla cui origine non si indagava. Nelpensiero mitico e nella poesia epica (ciòvale in effetti sia per Omero che per Esiodo)il sapere era stato rivelato da epoche im-memorabili dagli dèi agli uomini attraversomediazioni particolari, come qualche eroe,cosicché gli uomini passavano d’un tratto

dalla barbarie alla civiltà: paradigmatico ilmito eschileo di Prometeo che ruba il fuocoalla divinità.

Non dobbiamo tuttavia dimenticareche nel mondo classico anche coloro cheabbracciano la teoria razionalistica del pro-gresso ritengono che il sapere sia comun-que già da sempre presente nella dimen-sione del divino: seppure gli uomini possonoaccedervi gradualmente e solo grazie aipropri sforzi, manca l’idea del guadagnodel radicalmente nuovo.

4.2 Parmenide

Approfondendo le teorie degli Eleati ci renderemo ora conto della grande novitàda essi rappresentata, poiché la ricerca presocratica abbandona lo studio immediatodella natura, ovvero il tentativo di identificare il principio, e si volge all’analisi dellestrutture logiche della realtà.

Nei pensatori precedenti operava una insaputa sinergia di esperienza e ragione che sioccupava appunto del problema del principio. Con Parmenide invece ci si domanda dellostatuto epistemologico dell’esperienza stessa, ovvero in che misura essa sia affidabilecome strumento di conoscenza. Il pensatore fa un passo indietro, pone una questionepreliminare di metodo: prima di affrontare il problema della conoscenza si pone quellosugli strumenti mediante i quali si conosce.

Tutti i pensatori successivi a Parmenide non potranno esimersi dal confronto conle sue posizioni, momento imprescindibile per ogni ricerca vuoi naturalistica, vuoiontologica.

4.2.1 La rivelazione della verità e i due sentieri

Le cavalle che mi trascinano, tanto lungi, quanto il mio animo lo potevadesiderare

mi fecero arrivare, poscia che le dee mi portarono sulla via molto celebrata 2

che per ogni regione guida l’uomo che sa.Là fui condotto: là infatti mi portarono i molti saggi corsieri 4

che trascinano il carro, e le fanciulle mostrarono il cammino.[. . .] Là è una porta che divide i sentieri della Notte e del Giorno, 6

e un’architrave e una soglia di pietra la puntellano:essa stessa nella sua altezza è riempita da grandi battenti, 8

di cui la Giustizia, che molto punisce, ha le chiavi che aprono e chiudono.[. . .] La dea mi accolse benevolmente, con la mano 10

la mano destra mi prese e mi rivolse le seguenti parole. . .

DK 28 B 1, vv. 1-5, 11-14, 22-23; trad. it. cit. pp. 269-70

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1-5 e 10-11. Perché Parmenide sente ilbisogno di presentare la sua filosofia in formadi poetica rivelazione divina (la sua poesiaha peraltro sempre incontrato giudizi nega-tivi da un punto di vista letterario), il che evi-dentemente è assai di più di retorica o dimera finzione letteraria? Il filosofo necessitadel ricorso all’aiuto della divinità, anzi nonpotrebbe neppure arrivare a essa se fin dall’i-nizio non vi fosse la disponibilità della divinitàin persona ad aiutarlo: egli, per incontrare laDea, ha infatti bisogno del cocchio che ellagli mette a disposizione. Dall’altro lato l’aiutodivino non è conferito a un uomo qualsiasi,ma a colui che ha dimostrato particolarepredisposizione e interesse nella ricerca del-la verità: possiamo così pensare a una situa-zione di equilibrio fra la disponibilità del dioe l’iniziativa dell’uomo: una «cooperazione»,insomma, come qualcuno ha proposto.

Non si tratta tuttavia di una forma di mi-sticismo, di un’iniziazione irrazionale, di unatteggiamento puramente religioso o fidei-stico (o sciamanico, come altri ancora si èespresso); il generale senso del divino co-me numinoso, ma altresì l’assenza di un diopersonale e il senso aperto e «laico» dellaricerca si notano qui al pari che negli altritesti presocratici analizzati fino a ora.

Sarebbe per di più assai strano se in tuttii maggiori discepoli di Parmenide vi fosse unabbandono totale dell’aspetto religioso, di

cui non troviamo in effetti traccia nella lorospeculazione, se esso fosse invece in lui diprimaria importanza. Secondo l’esegesi diSesto Empirico (che tutta questa parte delpoema ci ha riportato ma che nella sua let-tura, risentendo del Fedro platonico, leggeil mito parmenideo del carro e della dea inforte analogia con quello della biga alata),fuor di metafora le cavalle rappresentano idesideri dell’anima e l’irrazionale tensioneverso la conoscenza, che da sola restereb-bemera attrazione insoddisfatta; le fanciulleche accompagnano il filosofo sono le sen-sazioni. La giustizia, vista qui come punitrice,è la ragione e la Dea rivelatrice, che questagiustizia rispetta e a cui è in certo modo sot-tomessa, è l’indagine filosofica. Parmenideinsomma muove prendendo in considera-zione le due fonti della conoscenza, il sensoe l’intelletto.

6-9. I sentieri della notte e del giorno de-rivano allora (sempre seguendo Sesto Empi-rico) da queste due fonti: se noi ci affidiamoai sensi, otteniamo una conoscenza falla-ce, erronea e non percorreremo che la viadell’errore; se, invece, ci muoviamo secon-do ragione, procederemo lungo la via delgiorno per raggiungere la verità. L’allusionealla Giustizia conferma la credenza di tuttii Presocratici nell’esistenza di una generalelegalità che governa per intero l’essere.

4.2.2 Le cose da apprendere

Bisogna che tu impari a conoscere ogni cosa,sia l’animo inconcusso della ben rotonda Verità 2

sia le opinioni dei mortali, nelle quali non risiede legittima credibilità.Ma tuttavia anche questo apprenderai, come le apparenze 4

bisognava giudicasse che fossero chi in tutti i sensi tutto indaghi.

DK 28 B 1, vv. 28-32; trad. it. cit. p. 270

1-3. È questo un passo, singolarmentepregnante, dell’inizio del poema, in cui laDea rivela a Parmenide l’essenza della veri-tà. Il primo, capitale problema che esso haposto agli interpreti è stabilire quali e quantefossero le vie di indagine proposte al filosofodalla dea: due o tre? Nell’interpretazionetradizionale, che ha dominato in modo sipuò dire esclusivo l’esegesi fino a non mol-ti decenni fa, si riconoscevano, come am-

messe da Parmenide, due sole possibilità,richiamate l’una dal verso sull’«animo incon-cusso della ben rotonda verità» e l’altra dalverso sulle «opinioni dei mortali». Si tratta in-somma dei due sentieri menzionati all’iniziodel poema, quello della notte e quello delgiorno: l’essere non può essere contraddet-to – come meglio emergerà dal frammentosuccessivo – e allora o noi comprendiamotale fondamentale regola che governa sia

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le cose (l’ontologia) sia il nostro pensare lecose (la logica) sia infine il nostro parlareintorno alle cose (il linguaggio) o viviamoall’interno della contraddizione. Ciò signifi-ca che esistono due soli ambiti, l’essere eil non essere, quest’ultimo totalmente sva-lutato di ogni plausibilità e credibilità; essocoincide col dominio dei sensi, incerti e sem-pre soggetti all’imprecisione e all’errore, talida farci credere che le cose insieme sianoe non siano.

4-5. Tuttavia si è fatta ormai strada l’i-potesi che, in questo problematico luogo,il filosofo si riferisca anche a un’altra possi-bilità, descritta ai due versi successivi, ovesi parla delle «apparenze». Mentre nella tra-dizionale lettura queste erano identificatecon le fallaci opinioni dei mortali, ora sem-bra che il loro riferimento sia affatto diverso:infatti, se l’essere può essere oggetto del-la nostra considerazione ma non coincide,come vedremo, col mondo delle cose mol-teplici e divenienti, e il non essere non si puòné pensare né dire, che cosa pensiamo e diche cosa parliamo quando ci esprimiamointorno al mondo molteplice e diveniente?

Tale considerazione ha suggerito ad al-cuni interpreti che in realtà le vie alluse daParmenide siano tre, ossia che alle due so-

pra considerate si affianchi una terza, quellache riguarda le apparenze: queste ultime,pur essendo contraddittorie rispetto alla rigi-da legge dell’essere, non sono neppure unnihil absolutum, poiché noi ne discutiamointelligibilmente. Questa seconda interpreta-zione è sostenuta, fra gli altri, da Reale, checosì spiega: «Tradizionalmente si è inteso ilpensiero di Parmenide irrigidito in una po-sizione di assoluta negatività nei confrontidella δόξα. Sennonché di recente è emerso,abbastanza chiaramente, che alcuni fram-menti dimostrano che il primo Eleate, purnegando qualsiasi validità alla fallace opi-nione dei mortali, era tuttavia niente affattoalieno dal concedere alle «apparenze» op-portunamente intese una loro plausibilità e,quindi, dal riconoscere qualche validità aisensi. Se è così, bisogna concludere, comeabbiamo già accennato, che Parmenide,oltre alla Verità e alla Opinione fallace deimortali, riconosceva la possibilità e la liceitàdi un certo tipo di discorso che cercasse didar conto dei fenomeni e delle apparen-ze senza andar contro al grande principio,cioè senza ammettere, insieme, l’essere eil non-essere» (Storia della filosofia antica,Vita e Pensiero, Milano 19824, vol. 1°, pp.127-128).

4.2.3 Le vie della ricerca

Orbene ti dirò e tu ascolta attentamente le mie parole,quali vie di ricerca sono le sole pensabili: 2

l’una <che dice> che è e che non è possibile che non sia,è il sentiero della Persuasione (giacché questa tien dietro alla Verità); 4

l’altra <che dice> che non è e che non è possibile che sia,questa io ti dichiaro che è un sentiero del tutto inindagabile: 6

perché il non essere né lo puoi pensare (non è infatti possibile),né lo puoi esprimere. 8

DK 28 B 2; trad. it. cit. p. 271, qui modificata

1-5. Viene qui formulato il «principio dinon contraddizione» secondo Parmenide,che governa, come abbiamo detto pocosopra, sia il dominio dell’essere che quellodel pensare. I campi di cui qui parla il filosofosono due, due le «vie di ricerca». Ma di checosa esse dicono rispettivamente «che è» e«che non è», quale cioè possiamo pensaresia il soggetto di queste due proposizioni?

Alcune letture hanno ipotizzato che Parme-nide si riferisca a due soggetti, sottintesi manon per questo meno presenti, ovvero l’es-sere e il non essere, mentre altri hanno obiet-tato che ciò non è affatto necessario perintendere il significato del brano: infatti noiragionevolmente ci esprimeremo a propo-sito di qualsivoglia entità se ne parleremocome di qualcosa che è, mentre se le attri-

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buiremo il non essere, la renderemo per ciòstesso inesistente, impensabile, indicibile.

Su quest’ultimo punto il testo parmeni-deo è esplicito e tutto sommato chiaro: ilpensiero può pensare soltanto l’essere e per-ciò il non essere non può neppure venir con-cepito: esso è inintelligibile e di esso si puòdire solo che non è. Si tratta di una negazio-ne radicale, assoluta, che mette in campoun non essere assoluto; in altre parole nonpossiamo dire che ci sono l’essere e il nonessere, bensì che l’essere c’è e il non esserenon c’è: quest’ultimo è da intendere comeuna realtà privativa, non dotata di una suaconsistenza e che non può conseguente-mente ottenere una formulazione verbale.Ciò comporta che l’uomo non può com-piere alcun discorso dotato di senso sul nonessere e, se tenta di farlo, produce solo uninsieme insignificante di suoni.

6-8. L’essere è poi insieme quello dellecose, del pensare e del dire: è proprio invirtù del senso arcaico della unità di que-ste tre dimensioni che Parmenide giudicainattuabile negare verbalmente qualcosasenza che tale negazione getti la propriagrave ombra sulla cosa stessa. Se il discorsosu ciò che c’è dev’essere incontraddittorio,allora esso deve riguardare solo ciò intornoa cui non si può produrre alcuna negazio-ne (poiché per Parmenide ogni negazione

è di per sé contraddizione), e cioè l’essere.Esemplifichiamo: di ogni realtà molteplicee/o diveniente io posso negare qualcosa: diquesto foglio che sia rosso, di questa pennache sia una stilografica, e così via; a pro-posito di che cosa è invece esclusa ogninegazione, se non dell’essere?

Con questo principio il filosofo nega duedimensioni: il molteplice e il diveniente; en-trambi sono implicati nel gioco contraddit-torio e annichilitore della negazione. Nell’af-fermare il molteplice io infatti sostengo l’esi-stenza di innumerevoli realtà di cui l’una nonè l’altra: dico di una cosa che non è l’altrae ciò appare contraddittorio a Parmenide,poiché di una cosa che è io non dovrei ne-gare nulla in nessun modo, non potendoattribuirle in alcuna forma il non essere. Nel-l’asserire il divenire io vengo a dire che unacosa che era in un certo modo ora è diver-sa da prima, o che sarà diversa in seguito:ma anche in questo caso dico, a propositodi qualcosa che è, che non era o non sarà,attribuendole il non essere. Non sembranopertanto darsi altre alternative: ma che co-sa bisogna allora pensare di quel discorsoche pur noi di continuo pronunciamo intor-no alle cose molteplici e divenienti e che,se intendiamo alla lettera quanto il passoasserisce, non dovremmo neppure essere ingrado di fare?

4.2.4 L’errore dei mortali

Bisogna che il dire e il pensare sia l’essere: è dato infatti essere,mentre nulla non è; che è quanto ti ho costretto ad ammettere. 2

Da questa prima via di ricerca infatti ti allontano,eppoi inoltre da quella per la quale mortali che nulla sanno 4

vanno errando, gente dalla doppia testa. Perché è l’incapacità che nel loro pettodirige l’errante mente; essi vengon trascinati 6

insieme sordi e ciechi, istupiditi, gente che non sa decidersi,da cui l’essere e il non essere sono ritenuti identici 8

e non identici, per cui di tutte le cose reversibile è il cammino.

DK 28 B 6; trad. it. cit. pp. 272-3

1-2. L’apertura di questo passo ribadiscel’identità del dire e del pensare con l’essere:per la mentalità arcaica – non solo quella diParmenide, ma della coscienza mitopoieti-ca e presocratica tutta – il pensiero non puòche coincidere in modo integrale e imme-

diato con l’essere e la conoscenza è inge-nuamente intesa come l’ovvio, fisiologicoprocesso di adeguazione del pensiero al-l’essere; ne risulta rigettato fin dal principiol’errore. Se infatti sbagliando si pensa qual-cosa di diverso da come la realtà è, si pensa

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qualcosa che non è: ma ciò che non è nonè pensabile e dunque l’errore è impossibi-le da verificarsi. Il reale e il vero rimangonodunque indistinti, la loro identificazione nonrappresenta un problema o un obiettivo pro-blematico da raggiungere, bensì l’evidentepunto di partenza. A ciò si unisce un’ana-loga concezione del linguaggio, che de-ve, da parte sua, rispettare e rispecchia-re l’unità dell’essere e del pensare; cosa eparola coincideranno e assumeranno ruoliintercambiabili.

3. Nel prosieguo la Dea – è sempre il suodiscorso che Parmenide sta qui riferendo –ribadisce il divieto di praticare la via del nonessere.

4-9. Ma un problema si ripropone: allor-ché essa dice: «eppoi inoltre da quella perla quale mortali che nulla sanno | vanno er-rando, gente dalla doppia testa», sta para-frasando quanto appena detto, alludendoalla via del non essere, o si sta riferendo a unaltro tipo di errore? Forse la Dea vuole che ilfilosofo non solo abbia chiara la natura delnon essere, ma che sia pure in grado di di-

scernere adeguatamente le erronee teoriesu di esso prodotte dagli uomini per potersida queste guardare.

Secondo una diffusa lettura tale gen-te va identificata con gli eraclitei, poichéEraclito, com’è noto, sosteneva una con-cezione del reale del tutto incompatibilecon la dottrina parmenidea; indipendente-mente da questa identificazione (peraltroverosimile come la congettura di coloro cheantepongono cronologicamente, sia puredi poco, Eraclito a Parmenide e che vedononel poema sacro di quest’ultimo una pole-mica contro le teorie dell’altro), possiamodire che il passo si rivolge contro tutti quan-ti ritenevano possibile spiegare l’essere fa-cendo ricorso anche al non essere e allaloro contaminazione – il divenire –. La loro«indecisione» non è ovviamente una carat-teristica psicologica, bensì una categoriafilosofica: si tratta del fondamento sul qualeessi reputano possibile produrre una spiega-zione della totalità, giudicato assurdo senzaremissione da Parmenide.

4.2.5 Le caratteristiche dell’essere

Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensieroné l’abitudine nata dalle molteplici esperienze ti costringa lungo questa via, 2

a usar l’occhio che non vede e l’udito che rimbomba di suoni illusorie la lingua, ma giudica col raziocinio la pugnace disamina 4

che io ti espongo. Non resta ormai che pronunciarsi sulla viache dice che è. Lungo questa sono indizi 6

in gran numero. Essendo ingenerato è anche imperituro,tutt’intero, unico, immobile e senza fine. 8

Non mai era né sarà, perché è ora tutt’insieme,uno, continuo. Difatti quale origine gli vuoi cercare? 10

Come e donde il suo nascer? Dal non essere non ti permetterò nédi dirlo né di pensarlo. Infatti non si può né dire né pensare 12

ciò che non è.

DK 28 B 8, vv. 1-13; trad. it. cit. pp. 274-5

1-5. La prima parte di questo frammen-to è una critica della conoscenza sensibile:le credenze in cui noi fidiamo, a ciò resi av-vezzi dalle ripetute esperienze, sono infattidimostrate impossibili e assurde dal ragiona-mento. La riflessione non riesce a dar contodell’esperienza e perciò stesso la svaluta: ilcontrasto fra la ragione e i sensi è deciso

da Parmenide a tutto vantaggio dell’unasugli altri. Anche la Dea mette in guardia ilfilosofo dal fare ricorso ai sensi e lo incita avalutare «col raziocinio».

5-13. Questi versi sono una parte delladescrizione dell’essere; se dapprima Parme-nide aveva asserito che dell’essere si potevadire solo che esso era e null’altro, ora tro-

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va una strada per renderlo maggiormentecomprensibile e a noi noto producendoneuna descrizione, condotta – s’intende – construmenti esclusivamente razionali. L’essereè innanzitutto ingenerato (r. 7): infatti, se fos-se generato, lo sarebbe stato o dall’essere odal non essere: ma dall’essere non può essernato (come si legge poco più sotto, alle rr.11-13), o si produrrebbe semplicemente unregresso all’infinito, mentre dal non esserenulla può nascere. Esso è quindi imperituropoiché non gli può accadere di annichilirsi:dove infatti andrebbe a finire? È quindi inte-ro e unico (r. 8) poiché, se fosse distinto alsuo interno o molteplice, ciascuna delle sueparti non sarebbe le altre e verrebbe cosìreintrodotta la molteplicità e perciò stessoil non essere (dal momento che ogni parte,in quanto particolare, non sarebbe le altre).Esso è quindi immobile perché il movimento

è una forma del divenire, che già abbiamoescluso; inoltre l’essere dovrebbemuoversi inuno spazio esterno, il che è assurdo, poichéal di fuori di esso c’è il non essere, ovveronon c’è nulla.

Il verso che afferma che «Non mai erané sarà» (r. 9) è di particolare interesse poi-ché contiene il motivo del contrasto conMelisso che analizzeremo più sotto: l’esserenon conosce né il passato né il futuro perchéessi sono forme della diversità, ossia del nonessere (col che scopriamo che Parmenidenega recisamente anche il tempo, dimen-sione propria del mondo dell’opinione, maimpossibile da attribuire all’essere): il passa-to infatti non è più e il futuro non è ancora.L’essere vive perciò immerso in un eternopresente e può venir tradotto con l’imma-gine del punto, con l’istantaneità che ci fadire di esso che è in un perenne «ora».

4.2.6 Le opinioni dei mortali

È la stessa cosa pensare e pensare che è:perché senza l’essere, in ciò che è detto, non troverai il pensare: null’altro infatti

è o sarà 2

eccetto l’essere, appunto perché la Moira lo forzaad essere tutto intiero e immobile. Perciò saranno tutte soltanto parole, 4

quanto i mortali hanno stabilito, convinti che fosse vero:nascere e perire, essere e non essere, 6

cambiamento di luogo e mutazione del brillante colore.

DK 28 B 8, vv. 34-41; trad. it. cit. p. 276

1-4. Questi versi ribadiscono l’identitàdel pensiero e dell’essere che già abbiamoincontrato: la necessità di questa identifica-zione, che non è consapevolmente afferma-ta o posta come esito di un ragionamento,bensì accettata subito come un fatto ovvio,è personificata da una divinità chiamataMoira (che in greco significa destino).

4-7. I capitali versi in questione ci riporta-no all’interpretazione del mondo dell’opinio-

ne: la dea ora istruirà Parmenide sulle opi-nioni dei mortali. Resta da capire se questeultime coincidono senza residui col tentativodegli uomini stolti di parlare del non esseree dunque non sono che il capitale errore,il peccato originale della filosofia, ovverocostituiscono il lecito tentativo (più o menocorretto a seconda che rispetti o no il prin-cipio di non contraddizione) di dar contodelle apparenze.

4.2.7 La fisica delle apparenze

Con ciò interrompo il mio discorso degno di fede e i miei pensieriintorno alla verità; da questo punto le opinioni dei mortali impara 2

a conoscere, ascoltando l’ingannevole andamento delle mie parole.Poiché i mortali furono del parere di nominare due forme, 4

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delle quali una sola non dovevano – e in questo sono andati errati –; necontrapposero gli aspetti e vi applicarono note

reciprocamente distinte: da un lato il fuoco etereo 6

che è dolce, leggerissimo, del tutto identico a se stesso,ma non identico all’altro, e inoltre anche l’altro [lo posero] per sé 8

con caratteristiche opposte, la notte senza luce, di aspetto denso e pesante.Quest’ordinamento cosmico, apparente com’esso è, io te lo espongo compiuta-

mente, 10

cosicché non mai assolutamente qualche opinione dei mortali potrà superarti.

DK 28 B 8, vv. 54-65; trad. it. cit. pp. 276-277, qui modificata

1-3. La Dea mantiene la promessa espiega a Parmenide il presupposto su cuisono fondate le opinioni dei mortali.

4-5. I mortali, cercando di dar ragionedel divenire (il «nascere e perire. . . » del te-sto) e della molteplicità, hanno compiutoun’operazione illecita: hanno fatto ricorso aun principio duale (si tratta delle «due for-me» della r. 4) cui viene rivolta una criticaper vero assai problematica e oscura fin dalpunto di vista testuale. Infatti l’espressionesuccessiva (r. 5) può essere resa secondoalmeno tre diverse versioni: 1) «di cui una[in particolare] non doveva nominarsi», mal’altra sì; 2) «di cui [delle due nozioni] una[sola] non doveva nominarsi», bensì tutte edue; 3) «di cui non una doveva nominarsi»,ovvero nessuna delle due.

Su questo argomento la discussione ètuttora aperta e le opinioni assolutamentedivergenti: 1) la prima traduzione presentaun immediato problema poiché, da un pun-to di vista linguistico, l’esistenza in greco delduale avrebbe portato Parmenide a usarlose egli avesse inteso negare una (delle due)al fine di ammettere l’altra (non fra molte,ma appunto fra due), il che invece non è;inoltre non sarebbe del tutto convincenteper Parmenide assumere un principio deter-minato dalla contrarietà rispetto a un altroe cioè subito esposto alla determinatezzae alla negazione, poiché noi apprendiamodal testo che «gli aspetti» di queste «due no-zioni» sono contrapposti e ciascuno dotatodi «note reciprocamente distinte». Al con-trario, sappiamo per certo che di ciò cheappartiene al campo dell’essere dobbiamopoter dire solo che è e non anche che nonè qualche cos’altro. Nondimeno le appa-renze vanno spiegate in maniera plausibile:se godono di una qualche realtà, seppure si-

tuata a un più basso livello rispetto all’essere,meritano che ne venga data ragione e biso-gna farlo rispettando le generali regole dellaragione, ossia in chiave monistica. In questa«verace teoria del fallace» (Calogero) noidobbiamo comunque rispettare il principiofondamentale dell’essere e ricorrere a unasola forma, che non produca opposizionie contraddizioni, dobbiamo cioè assumereun principio fisico non oppositivo.

2) La seconda interpretazione fa soste-nere a Parmenide una cosmologia duali-stica: in altre parole, proprio per evitare dicostituire un aut-aut che, imponendo unosolo dei contrari, violerebbe il principio dinon contraddizione, il filosofo suggerisce diassumerli entrambi. Dal momento che quinon propriamente dell’essere si parla, masolo delle apparenze, può essere lecito ac-cettare il modello più diffuso e sviluppatodelle teorie fisiche dell’epoca, quello dua-listico, in particolare nella sua specie pita-gorica. Anche qui tuttavia alcune difficoltàsi presentano: non si capisce infatti perchéParmenide, alla ricerca di una spiegazioneplausibile per le apparenze, l’avrebbe rin-venuta in un principio duale anziché in unomonistico che assai meglio si accorderebbecon la generale impostazione della sua dot-trina dell’essere; inoltre i due contrari, seppu-re presi insieme, continuerebbero a negarsil’un l’altro riproponendo la contraddizione.

3) Rimane la terza lettura: il passo inten-de in questo casomettere in guardia i morta-li dal praticare tutti i tipi di spiegazione di unmondo, quello dell’opinione, che in nessunmodo può esistere, essere pensato e detto.Il filosofo cioè non tenta una fisica delle ap-parenze, ma protesta contro qualsiasi ten-tativo di praticarla. Certo, in tal modo nonsi sottrae Parmenide a una difficoltà grave

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(ma anche le altre letture a nostro parerenon sono in grado di evitare contraddizio-ni): da un lato il filosofo, nell’intendimentorigido del suo principio di non contraddizio-ne, vieta di dire alcunché intorno al mon-do dell’opinione, ma poi non può evitaredi incontrarsi con quello e di parlarne: talecontraddittorietà rimane a nostro giudizioaperta e irrisolvibile, come dimostrano i suc-cessivi tentativi, compiuti da Melisso e daiPluralisti, di riaccordare ragione (e principiodi non contraddizione) ed esperienza. Inol-tre non bisogna dimenticare che è la deastessa che divide le cose in appartenenti alcampo dell’essere e dell’apparire, ricono-scendo e legittimando quest’ultimo ambito,sia pure in forma indiretta.

6-11. Gli ultimi versi ci danno la descri-

zione di questa cosmologia delle apparen-ze: si tratta per vero, come ormai più volteabbiamo sostenuto, del generale modellodualistico a cui si erano ispirati molti dei pen-satori precedenti, da Anassimandro ai Pita-gorici a Eraclito. È chiaro che, a secondadel modo in cui s’intende il passo che pre-cede, si valuta questa cosmologia comesemplicemente riferita ovvero sostenuta daParmenide: se il filosofo ammette e ricercauna spiegazione plausibile delle apparenze,allora i due princìpi del fuoco e della nottesono effettivamente assunti; per i sostenitoridella terza lettura sopra esposta invece essivengono qui riportati non asserendo sed re-citando, cioè semplicemente raccontandoun punto di vista diverso e avverso rispettoa quello parmenideo.

4.3 Zenone

Le argomentazioni zenoniane hanno dato filo da torcere non solo ad Aristotele,che non risparmiò a esse critiche aspre ma le cui confutazioni non sono mai apparserisolutive, ma anche a filosofi della scienza nostri contemporanei come Grünbaum, iquali hanno affrontato le aporie del discepolo di Parmenide avvertendone la sconcertantemodernità.

4.3.1 L’infinità è un assurdo

Quanto all’infinità per la grandezza la mise in evidenza prima con la stessaargomentazione. Dopo aver in precedenza mostrato che «qualora l’essere non 2

avesse grandezza neppure sarebbe» [B 1], aggiunge: «Se esiste, è necessarioche ciascuna cosa abbia una certa grandezza e spessore e che in essa una parte 4

disti dall’altra. Lo stesso ragionamento vale anche della parte che sta innanzi:anche questa infatti avrà grandezza e avrà una parte che sta innanzi. Questo 6

vale in un caso come in tutti i casi: nessuna infatti di tali parti sarà l’ultima enon è possibile che non ci sia una parte a precedere l’altra. Così, se sono molti, 8

è necessario che essi siano piccoli e grandi: piccoli fino a non avere grandezza,grandi fino ad essere infiniti. 10

DK 29 B 2; trad. it. cit. pp. 303-4

1-3. La testimonianza, tratta dalla Fisicadi Simplicio, precede logicamente quellanumerata da Diels come prima e che in-vece la presuppone quanto al gioco del-le argomentazioni, come ormai pressochéunanimemente si ritiene. Nel loro complesso,i due passi ci danno alcune delle critichezenoniane alla molteplicità e mostrano lanecessità che l’essere sia uno e indivisibile.

3-10. Se l’essere fosse molteplice, essorisulterebbe insieme infinitamente piccolo einfinitamente grande. Piccolo, perché le uni-tà componenti, per essere veramente unità– cioè semplici – devono essere indivisibilie tutto ciò che ha una dimensione è divi-sibile. Quindi le singole parti di cui il molte-plice è composto devono essere inestese:ma in questo caso la loro somma non po-

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trà che dare un risultato nullo e il molteplicesarà perciò inesistente. Ma insieme tali partisaranno pure infinitamente grandi, poichéper esistere devono possedere una qualchegrandezza ed essere discoste dalle altre. Laseparatezza richiede che i corpi separati losiano da una qualche entità, un terzo corpo:

ma tale processo va proseguito all’infinito (ilcorpo separatore sarà a sua volta separatoda quelli che separa da ulteriori corpi e cosìvia), per cui una molteplicità finita di gran-dezze sarà al contempo una molteplicitàinfinita di grandezze.

4.3.2 La molteplicità non esiste

Una delle argomentazioni è quella nella quale mostra che «se c’è il molte-plice, questo molteplice è grande e piccolo: grande fino ad essere infinito in 2

grandezza, piccolo fino a non avere grandezza di sorta». In questa argomenta-zione poi mostra che ciò che non possiede né grandezza né spessore né massa 4

alcuna eppure esiste. Dice: «Se infatti venisse aggiunto a un altro essere nonlo renderebbe per nulla maggiore. Difatti, non avendo esso grandezza alcuna, 6

quando venga aggiunto non è possibile che nulla aumenti in grandezza. Ecosì senz’altro ciò che venne aggiunto non sarebbe nulla. Se poi quando venga 8

sottratto, l’altro essere non diventerà per nulla minore, e neppure, d’altro canto,quando quello venga aggiunto questo diventerà maggiore, è chiaro che non 10

era nulla né ciò che venne aggiunto né ciò che venne sottratto».DK 29 B 1; trad. it. cit. pp. 302-3

1-3. L’argomentazionemostra l’assurditàdel molteplice: se l’essere è dotato di gran-dezza, cioè continuo o ancora divisibile (ter-mini qui da intendersi come sinonimi), alloraè molteplice a causa di questa divisionein parti; ma se nulla è uno (cioè indivisibi-le), mancherà la materia o le parti di cui lamolteplicità è fatta e neppure essa potràesistere. Spiega infatti Filopono: «Se infattil’essere non fosse uno e indivisibile, ma ve-nisse diviso in una molteplicità, nulla sareb-be propriamente uno (se infatti il continuovenisse diviso sarebbe divisibile all’infinito);ma se nulla è propriamente uno, neppure èmolteplice, se è vero che la molteplicità ècostituita di più unità» (DK 29 A 21).

3-11. Il testo prolunga l’argomentazioneofferta sopra: se il molteplice fosse costituitoda parti nulle quanto all’estensione, alloraesse, aggiunte o tolte, lascerebbero inva-riata l’entità di partenza. In conclusione noici troviamo con un molteplice finito che, setentiamo di spiegare la sua costituzione, ri-sulta essere o infinito o nullo. Come si è visto,Zenone parte da un presupposto differen-te rispetto al maestro: in principio ammet-

te (provvisoriamente) l’esistenza di quantopoi intende negare e argomentando intor-no alla sua struttura logica mostra che neconseguono contraddittori esiti. La sua di-fesa è indiretta: egli non parte affermandol’assurdità delle tesi degli oppositori di Par-menide, ma assumendole e sviluppandolein base alla loro stessa logica mostra chenon sono affatto più ragionevoli delle appa-rentemente sconcertanti posizioni parmeni-dee. Questa tecnica sarà definita dialetticae ben descritta in un passo del Parmenidedi Platone: «Sì, o Socrate – disse Zenone. –Ma tu allora non hai colto affatto la veraintenzione dell’opera [. . .] Questo scritto è inrealtà una difesa del ragionamento di Par-menide contro coloro che impresero a met-terlo in ridicolo [. . .] Dunque questo scrittosi contrappone a coloro che affermano lamolteplicità e rende loro la pariglia e ancorpiù, volendo mostrar questo, che l’ipotesidella molteplicità sbocca a conseguenzepiù ridicole dell’ipotesi dell’unità, quando leconseguenze siano tratte opportunamente»(DK 29 A 12). La dialettica è la più efficacetecnica confutatoria.

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4.3.3 Il movimento non esiste

Quattro sono i ragionamenti di Zenone intorno al movimento, i qualimettono di cattivo umore quelli che tentano di risolverli. Il primo intende 2

provare l’inesistenza del movimento per il fatto che l’oggetto spostato devegiungere alla metà prima che al termine finale: ma questo ragionamento noi 4

l’abbiamo demolito nei discorsi precedenti. Il secondo è il cosiddetto “Achille”:questo intende provare che il più lento, correndo, non sarà mai sorpassato 6

dal più veloce: infatti, necessariamente, l’inseguitore dovrebbe giungere primalà dove il fuggitivo è balzato in avanti; sicché necessariamente il più lento 8

conserva una certa precedenza. Questo ragionamento è appunto quello delladicotomia, ma ne differisce per il fatto che non divide in due anche la grandezza 10

successivamente assunta. [. . .] Ma, in realtà, è falso ritenere che ciò che precedenon venga raggiunto: infatti, solo fin quando precede, non viene raggiunto; 12

ma tuttavia esso viene raggiunto, purché si ammetta che viene percorsa unadistanza finita. Questi sono, intanto, i primi due ragionamenti: il terzo è quello 14

poc’anzi citato, che, cioè, la freccia, nell’atto in cui è spostata, sta ferma. Maquesta conclusione si ottiene solo se si considera il tempo come composto da 16

istanti; se questo non si ammette, non ci sarà sillogismo. Il quarto è quellodelle masse uguali che si muovono nello stadio in senso contrario a quello di 18

altre masse uguali, le une dalla fine dello stadio, le altre dal mezzo, con egualevelocità. E con questo ragionamento egli crede nel risultato che la metà del 20

tempo sia uguale al doppio. Il paralogismo sta nel supporre che una ugualegrandezza venga spostata con uguale velocità in un tempo uguale sia lungo 22

ciò che è mosso sia lungo ciò che è in quiete. Ma questo è falso.Aristotele, Phys., VI (9), 9, 239b 5-240a 4 = DK 29 A 25-28; trad. it. Aristotele, Fisica,

Laterza, Bari 1973, pp. 160-161

1-2. L’ampia e fondamentale testimo-nianza aristotelica non ci consente di ren-derci conto se gli argomenti di Zenone fos-sero solo questi quattro o se a essi se neaccompagnassero altri: ma tant’è.

2-5. Il primo argomento è stato detto«della dicotomia», poiché implica che uncorpo mosso debba, per arrivare a destina-zione, compiere metà dello spazio comples-sivo, ma prima di giungere alla metà devearrivare alla metà di questa metà e così al-l’infinito. Di conseguenza esso non arriveràmai.

5-14. Il secondo argomento è detto «l’A-chille» e propone una linea di pensiero assaivicina a quella del precedente, fatto sal-vo qualche particolare tecnico. Non sussi-ste la contraddizione da alcuni paventatafra questo argomento e la conclusione diquello della dicotomia per il fatto che essoassume il movimento, poiché non dobbia-mo pensare che Zenone lo faccia sul se-rio. Al contrario, l’assunzione della premes-

sa avversa per svilupparla fino a mostrar-ne la contraddittorietà è proprio la tecnicaconfutatoria (o dialettica) di Zenone; pro-cedura elenctica che il filosofo trae dalledimostrazioni per assurdo della geometria.

14-17. Il terzo argomento è quello dellafreccia. Per intenderlo dobbiamo scompor-re il suo moto in istanti sempre più brevi: nel-l’unità minima di tempo la freccia, secondoZenone, starà ferma, come accadrebbe senoi osservassimo i fotogrammi di una ripresadella corsa della freccia. L’obiezione del fi-losofo contro il movimento consiste perciòin questo: se il moto della freccia non è chela somma di tanti istanti in cui essa sta fer-ma, tale moto risulterà insussistente. Poichéla freccia è sempre uguale a sé, essa nonpuò essere più avanti di dove attualmentenon sia. Inoltre dobbiamo rilevare che il fina-le riferimento al tempo può essere genuina-mente zenoniano, ma anche introdotto daAristotele per preparare le proprie obiezionial filosofo.

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19-23. Il quarto e ultimo argomento èdetto «dello stadio»; vi troviamo due blocchiche si muovono di moto uguale e contra-rio rispetto a un terzo blocco fisso. Il primoblocco mobile percorrerà nella medesimaunità di tempo uno spazio semplice rispettoal blocco fisso e doppio rispetto a quellomo-bile (per il fatto che esso a sua volta si spo-sta in direzione contraria). A Zenone sembrache il medesimo corpo percorra nello stessotempo uno spazio semplice e uno doppio,il che è assurdo, ovvero -è la stessa conclu-

sione letta da un altro punto di vista- cheun tempo semplice sia doppio e viceversa.Qui è per noi più facile individuare la de-bolezza del ragionamento, poiché il filosofoconfronta contemporaneamente il primoblocco mobile con due diversi riferimenti,uno fisso e l’altro a sua volta mobile, anchese qualcuno ha inteso cogliere in quest’ar-gomentazione una intuizione larvale dellarelatività dei sistemi di riferimento (il che cipare affatto improbabile).

4.4 Melisso

Quanto sia subito risultata difficile da accettare la lezione parmenidea lo si evince datutto lo sforzo del suo discepolo Melisso di «salvare il molteplice», o meglio di riformareil presupposto logico-ontologico parmenideo in modo da poter offrire una legittimazionedi quel mondo delle apparenze tanto forte da risultare alla fine irrinunciabile per gliuomini: la stessa dea infatti non manca di parlarne nel poema. Ha luogo col nostroautore l’avvio del processo di liberazione dal monismo ed egli può a buon dirittoessere riconosciuto come l’anello di congiunzione col naturalismo successivo, quello deiPluralisti.

Dall’affermazione dell’eternità non puntuale ma temporale dell’essere discendeuna importantissima conseguenza per l’ontologia: l’essere rispetta il principio dinon contraddizione non perché uno, ma solo perché indiveniente. Infatti Melisso,introducendo una novità del tutto eterodossa rispetto alla dottrina di Parmenide,consentirebbe l’esistenza del molteplice e perciò non lo reputerebbe più contraddittorioa patto che esso fosse indiveniente, ovvero possedesse la caratteristica immutabilitàdell’essere: «Se ci fossero molte cose dovrebbero essere così come appunto io dico cheè l’uno» (DK 30 B 8). Ciò che Melisso sente come assurdo è più di ogni altra cosal’alterarsi, poiché esso fa sorgere ciò che prima non c’era (e da dove viene?) ovverosparire ciò che prima c’era (e dove va?), mentre di per sé la singola realtà particolare nongli appare più contraddittoria. Ma quando poi egli effettua la sua ricerca, verificandose nel mondo delle cose plurali alcune di queste possiedano l’immutabilità, non netrova alcuna così qualificata ed è costretto a ritornare all’esito parmenideo, ovvero adaffermare l’essere come unica realtà esistente negando tale predicato a tutte le entitàche i sensi ci forniscono.

Dal punto di vista logico tuttavia tale suo essere non è ormai più quello parmenideoe apre una strada che i Pluralisti perseguiranno con maggior fortuna in vista dellagiustificazione della realtà empirica. La soluzione sarà pensare il divenire attestatocidai sensi come il disporsi in aggregati diversi da parte di una indiveniente realtà e noninvece il commercio fra l’essere e il nulla, come il modificarsi e non invece il nascere e ilmorire.

4.4.1 L’infinità dell’essere

Sempre era ciò che era e sempre sarà. Infatti se fosse nato è necessario cheprima di nascere non fosse nulla. Ora, se non era nulla, in nessun modo nulla 2

avrebbe potuto nascere dal nulla.

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Dal momento dunque che non è nato ed è e sempre era e sempre sarà così 4

anche non ha principio né fine, ma è infinito. Perché se fosse nato avrebbe unprincipio (a un certo punto infatti avrebbe cominciato a nascere) e un termine 6

(a un certo punto infatti avrebbe terminato di nascere); ma dal momento chenon ha né cominciato né terminato e sempre era e sarà, non ha né principio né 8

termine. Non è infatti possibile che sempre sia ciò che non esiste tutt’intiero.DK 30 B 1 e B 2; trad. it. cit. p. 316

1-3. Nel passo leggiamo la più nota con-testazione di Melisso al suo maestro: secon-do quest’ultimo l’essere era sferico e finito,ma, a giudizio di Melisso, le caratteristichefondamentali che Parmenide stesso attribui-sce all’essere contrastano con queste deter-minazioni. Se infatti niente può sussistere aldi fuori dell’essere, niente può costituire peresso un limite, poiché il non essere, non es-sendoci, non può svolgere alcuna funzione:l’essere risulta dunque infinito. In tal modoesso si estende illimitatamente all’indietro ein avanti e perciò può possedere un passatoe un futuro: la dimensione temporale, reci-samente negata da Parmenide, è adessointrodotta all’interno dell’essere che assu-me la figurazione di una retta che si esten-de all’indietro e in avanti. L’«era» e il «sarà»non sono più intesi come il prima e il do-po rispetto all’essere, da ciò viene dedottal’impossibilità di una genesi e si passa co-sì dal presente all’eterno. A ben guardare,il meccanismo è affatto parmenideo, dalmomento che già il maestro aveva asseritol’impossibilità di un’origine del tutto dal nulla(rovesciando la pacifica, ingenua assunzio-ne arcaica della presenza ab aeterno del-

l’essere che viene quasi a coincidere con laposizione dell’ex nihilo omne per la sua ac-cettazione dell’imprevisto, dell’incondizio-nato, dell’acausato): sia in Parmenide chein Melisso in fondo assistiamo all’affermarsidi una mentalità causale nella spiegazionedel tutto.

4-9. Queste righe presentano una lineadi ragionamento criticata fin dall’antichità(a cominciare da Aristotele, che vi individuòun vero e proprio errore) poiché il filosofoinizia attribuendo all’essere l’infinità nel tem-po allorché dice che «non è nato» (r. 4), mapoi slitta al piano spaziale deducendo che«non ha né principio né termine» (r. 8): inrealtà, per intendere l’autentico significatodell’espressione noi dobbiamo collocarciin quella fase ancora aurorale del pensieroquando spazio e tempo non erano cate-gorie precisamente distinte e dove i terminiconvivevano in una dimensione unica. Anzi,in un altro luogo non riportato qui, Melissoriesce a dedurre tutti gli attributi dell’esse-re secondo una linea di pensiero assoluta-mente coerente e con una progressione piùchiara rispetto allo stesso Parmenide, doveessi erano più che altro enunciati insieme.

4.4.2 Unità del principio

Questo che abbiamo detto è dunque massima prova che l’essere è soltantouno. Ma sono prove anche le seguenti. Se ci fossero molte cose dovrebbero 2

essere così come appunto io dico che è l’uno. Infatti, se c’è la terra e l’acquae l’aria e il fuoco e il ferro e l’oro e una cosa è viva e l’altra è morta e nera e 4

bianca e quante altre cose gli uomini dicono essere, se dunque tutto questoesiste e noi rettamente vediamo e udiamo, bisogna che ciascuna di queste cose 6

sia tale quale precisamente ci parve la prima volta e che non muti né diventidiversa, ma che ciascuna sempre sia quale precisamente è. Ora noi diciamo di 8

vedere udire intendere rettamente. Invece ci sembra che il caldo diventi freddoe il freddo caldo, il duro molle e il molle duro e che il vivente muoia e venga 10

dal non vivente e che tutte queste cose si trasformino e che ciò che era e ciòche è ora per nulla siano uguali; anzi che il ferro che pure è duro, si logori 12

a contatto col dito, e così l’oro e le pietre e ogni altra cosa che sembra essere

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resistente, e che all’inverso la terra e le pietre vengano dall’acqua. Cosicché ne 14

viene di necessità che noi né vediamo né conosciamo la realtà. Perché non c’ècerto accordo in tutto questo. Mentre infatti diciamo che le cose sono molte ed 16

eterne e che hanno certi aspetti e resistenza, ci sembra che tutto si trasformie si muti da quel che ogni volta l’occhio ci fa vedere. È chiaro dunque che 18

non rettamente vedevamo e che quelle cose non rettamente sembrano esseremolteplici; infatti non si trasformerebbero se fossero reali, ma ciascuna sarebbe 20

tale quale precisamente sembrava. Nulla è infatti più possente di ciò che esisterealmente. Ma se si trasforma, ecco che l’essere perì e il non essere nacque. Così 22

dunque se ci fosse un molteplice esso dovrebbe essere tale quale è appuntol’uno. 24

DK 30 B 8; trad. it. cit. p. 319

1-8. Melisso muove da un’ammissionepuramente ipotetica: se il molteplice esistes-se, esso dovrebbero essere come l’uno, ov-vero immutabile, escluso dal divenire comel’essere parmenideo. Ma già in questa ipo-tesi la distanza da Parmenide è importan-te e significativa, poiché quest’ultimo nonaveva ammesso di principio né il divenientené il molteplice. Sembra invece che Melissopotrebbe riconoscere piena dignità ontolo-gica a un molteplice che fosse indiveniente.Se cioè rinvenisse in natura un principio fi-sico molteplice ma indiveniente, potrebberitenerlo a buon diritto essere e giustificaregrazie a esso il mondo empirico.

8-14. L’uomo ha una fiducia ingenua neisensi, ma questi attestano incontestabilentel’esistenza del divenire. Ora, se la realtà chedai sensi risulta deve appartenere appuntoall’ambito dell’essere, non può venire a tro-varsi soggetta al divenire. La conclusione èdel tutto parmenidea: le entità che i sensimostrano divengono, dunque non possonoessere.

14-21. È qui formulata in termini esplici-ti la tesi dell’inaffidabilità della conoscenzasensibile. Melisso dunque ha appurato chenel mondo empirico non c’è nulla che sia

molteplice ma indiveniente, e ritorna alleposizioni ontologiche del suo maestro do-po averne comunque mantenuto la fon-damentale tesi gnoseologica. Quando ve-diamo entità divenienti, crediamo di vede-re entità realmente esistenti, ossia «reali» (r.20): ma questo è un errore, poiché se ta-li cose esistessero davvero non potrebberodivenire.

21-24. Che cosa allora esiste? Melissoformula nuovamente la conclusione di Par-menide: soltanto l’essere. Tuttavia ha di-schiuso una nuova possibilità, almeno sottoil profilo logico – visto che essa non trovainvece riscontro su quello fisico: se ci fosseun molteplice tale e quale l’essere (qui chia-mato «l’uno»), allora esso potrebbe essereammesso. Mentre Parmenide aveva esclusonella stessa, totale misura, sia il molteplicesia il diveniente, Melisso è fermo solo nellarecisa negazione del secondo: il tempo chefa mutare le cose le precipita nel nulla, mase vi fossero entità immutabili diverse, l’af-fermazione secondo cui l’una non sarebbel’altra non viene più precepita da Melissocome contraddittoria. Saranno i Pluralisti atrasformare questa astratta prospettiva inuna nuova forma di naturalismo.

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Capitolo 5

I fisici pluralisti

La concessione di Melisso sussiste, come abbiamo visto, su di un piano esclusiva-mente logico. Sta ai Pluralisti inverare tale concessione nell’ambito fisico. Essi infatticredono di ravvisare un principio costituito da più elementi (le «radici dell’essere» diEmpedocle, le omeomerie di Anassagora e gli atomi di Democrito) e dunque apronoall’ammissione del molteplice, i quali elementi restano tuttavia in se stessi immutabilicome l’essere parmenideo.

L’esperienza ha adesso un fondamento logico incontraddittorio perché la congeriedelle entità che l’esperienza ci attesta e che sono soggette al divenire si ancora a deglielementi stabili. L’ammissione del divenire non contraddice più Parmenide perchénon è commercio fra l’essere e il nulla, ma solo l’aggregarsi e il disgregarsi in formecontingenti e diverse di elementi perenni e immutabili. In tal modo si salvaguardano leistanze logiche parmenidee ma, al contempo, si mette fine all’anatema sull’esperienza: iPluralisti attuano così il programma del σῶζειν τὰ φαινόμενα.

5.1 Empedocle

Filosofo apparentemente meno ricco e nuovo rispetto agli altri esponenti del cosiddet-to pluralismo e meno stimato nell’antichità, Empedocle conosce oggi una rivalutazionedovuta al riconoscimento dell’influenza assai vasta che ebbe in ambito non tantofilosofico in senso stretto, quanto culturale, religioso e letterario nel mondo romano.

5.1.1 I quattro elementi del principio

Empedocle pone quattro elementi, aggiungendo la terra come quarto, ol-tre i tre già detti [cioè acqua, aria, fuoco]. Dice infatti che essi permangono 2

sempre identici e non divengono, fuorché per quantità e piccolezza, in unitàaggregandosi e da un’unità separandosi. 4

DK 31 A 28; trad. it. cit. p. 339

1-2. Arduo stabilire le motivazioni per cuiquattro e proprio questi sono gli elementi ri-tenuti da Empedocle originari: è stata avan-zata l’ipotesi che si tratti di una derivazionedai quattro colori ritenuti allora fondamen-

tali o, come diremmo oggi, primari (il chepare, seppure piuttosto oscuramente, con-fermato da alcune testimonianze quali DK31 A 69a e A 92), né egli adeguatamentene distingue caratteristiche e proprietà (cfr.

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B 21, in cui tuttavia avanza qualche rilievodi carattere empirico a sostegno della suatesi). Singolarmente presi, questi elementi so-no già riscontrabili in altri pensatori: l’acquain Talete, l’aria in Anassimene, il fuoco neiPitagorici e in Eraclito, la terra nell’elementofreddo («notturno») della cosmologia par-menidea, ma certo non possiamo ritenereche egli li abbia sincretisticamente raccolti,troppo diversi essendo il suo metodo e i suoipresupposti. È invece sicuro e ampiamentedocumentato che sia stato il primo a par-lare di questa serie di quattro come di untutto unitario, denominato nel suo insiemeῥιξόματα τῶν πάντων: egli così inauguraquel gruppo di fisiologi che chiamiamo plu-ralisti, come invece sono stati definiti monisticoloro i quali reputavano essere uno solo ilprincipio. Questi elementi sono ovviamen-te da considerarsi primi e non vi è deriva-zione reciproca dell’uno dall’altro, come ciattesta Aristotele (Gen. et corr., I, 8, 325 b).

2-4. Gli elementi originari rimangono im-mutati e questo è l’aspetto eleatico di Em-pedocle: anch’egli non ammette infatti lacontaminazione dell’essere col nulla e dun-que il divenire va altrimenti spiegato. Essofinisce per essere «aggregazione» e «sepa-razione» di elementi originari in sé sempreidentici e di cui varia solo lo stato in relazio-ne agli altri, mentre non esistono il nasceree il morire in senso assoluto. Come infattiasserisce B 17, ogni cosa mortale si formada elementi immortali. Scrive Empedocle:«Fanciulli! breve volo hanno i loro pensieri| essi credono che possa nascere ciò cheprima non era, | o che alcuna cosa periscae si distrugga del tutto» (DK 31 B11, ma cfr.anche B 12). Empedocle, seguendo Parme-nide, non ammette il divenire inteso comesorgere dal nulla o finire nel nulla, ma in basealla logica di Melisso lo riconosce come va-riare dello stato di realtà perenni, le quattroradici dell’essere.

5.1.2 L’Amicizia e la Contesa

Ed Empedocle fa un maggior uso delle cause che non costui [scil. Anassa-gora], ma non ancora in maniera sufficiente, né in esse si ritrova quanto prima 2

è già stato stabilito: spesso in effetti per lui l’amicizia separa, mentre la contesaunisce. Quando infatti il tutto a causa della Contesa si distingue negli elementi, 4

allora il fuoco si riunisce in un’unica massa e così ciascuno degli altri elementi;quando poi, a causa dell’Amicizia, gli elementi si riuniscono di nuovo nell’uno, 6

è necessario che di nuovo si separino parti da ciascuno di essi. Empedocle,a differenza di quanti lo precedettero, per primo introdusse la distinzione 8

all’interno della causa, ponendo non già un unico principio del movimento,ma altri due diversi e contrari. E ancora per primo disse che quattro sono gli 10

elementi considerati sotto la specie materiale.DK 31 A 37; trad. it. cit. p. 343-4

1-7. Leggiamo qui da un lato la posizio-ne di Empedocle e dall’altro, indistricabil-mente connessa, la critica di Aristotele; dob-biamo cercare, in sede interpretativa, di se-pararle. Se infatti valutiamo questa testimo-nianza alla luce di B 17 (v. 1 sgg.) capiamoche per il nostro filosofo le cose risultano siadall’aggregazione che dalla separazione,ma non anche che ogni nascita è perciò ilperire di uno stato precedente come il mo-rire è il formarsi contemporaneo di qualco-sa di nuovo. Questo non significa pertanto,come Aristotele scrive fraintendendo, cheEmpedocle tenda a identificare i contrari

al modo di Eraclito (cfr. su questo la chia-ra testimonianza di Platone, Sofista, 242d).Il testo ci riferisce brevemente dei due pe-riodi estremi della cosmologia, quando laContesa e l’Amicizia dominano.

7-11. Aristotele ci fa cogliere un aspet-to che in Empedocle pare effettivamentepresente, ancorché solo in nuce: mentre neipensatori precedenti il principio svolgevatutti i compiti riguardanti la genesi e la costi-tuzione strutturale delle cose, ora troviamodistinti ciò di cui le cose sono fatte, ossia lamateria, da ciò da cui le cose sono fatte,ossia la causa.

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5.1.3 Il ciclo del cosmo

Duplice cosa dirò: talvolta l’uno si accrebbe ad un unico essere da moltecose, talvolta poi di nuovo ritornarono molte da un unico essere. Duplice è 2

la genesi dei mortali, duplice è la morte: l’una è generata e distrutta dalleunioni di tutte le cose, l’altra prodottasi, si dissipa quando di nuovo esse 4

si separano. E queste cose continuamente mutando non cessano mai, unavolta ricongiungendosi tutte nell’uno per l’Amicizia, altre volte portate in 6

direzioni opposte dall’inimicizia della Contesa. <Così come l’uno ha appreso asorgere da più cose> così di nuovo dissolvendosi l’uno ne risultano più cose, 8

in tal modo esse divengono e la loro vita non è salva; e come non cessano dimutare continuamente, così sempre sono immobili durante il ciclo. [. . .] Tutte 10

queste cose sono eguali e della stessa età, ma ciascuna ha la sua differenteprerogativa e ciascuna il suo carattere, e a vicenda predominano nel volgere del 12

tempo. E oltre ad esse nessuna cosa si aggiunge o cessa di esistere: se infatti sidistruggessero, già non sarebbero più; e quale cosa potrebbe accrescere questo 14

tutto? e donde venuta? e dove le cose si distruggerebbero, dal momento chenon vi è solitudine [vuoto] di esse? ma esse son dunque queste [che sono], 16

e passando le une attraverso le altre, divengono ora queste ora quelle cosesempre eternamente uguali. 18

DK 31 B 17, vv. 1-12 e 26-34; trad. it. cit. pp. 377-8

1-9. Il divenire è inteso da Empedoclecome caratterizzato da un andamento cicli-co: periodicamente le cose si raccolgono,con moto progressivo, nell’unità di un solocorpo, lo Sfero, e quindi subiscono un pro-cesso, analogo e inverso, di disgregazioneraggiungendo la separazione assoluta. Ledue forze che operano in questo processoiterantesi all’infinito sono, com’è noto, Ami-cizia e Contesa: non basta riconoscere cheil divenire è dovuto al rapportarsi in certeforme degli elementi materiali, ma si deveanche chiarire perché ciò avvenga. L’ideanon è del tutto inedita, dal momento che,ad esempio, anche Anassimandro avevareso operante la capacità cosmogonicadell’infinito attraverso un vortice ecc. Maqui per la prima volta alla forza causale siriconosce esplicitamente una dignità parialla materia che è principio. Tuttavia Empe-docle non riconduce la dinamica della na-scita e della morte a un’unica causa, bensìa due, ancora una volta per uno scrupolo dimatrice eleatica: le cause hanno da essereoriginariamente diverse e ciascuna in pos-sesso di una sua immutabile e non ambiguanatura (al pari dell’essere parmenideo). Taliforze vengono personificate come due enti-tà divine, ma sono quindi intese al modo di

sostanze corporee (in questo momento nonsi distingue ancora fra l’astratto e il concre-to), mescolate alle altre cose (tanto pocochiaramente il concetto di causa è distintoda quello di sostanza); inoltre, entità definitemamescolate alle cose, non hanno assuntonetta emancipazione rispetto alla concezio-ne del dio personale della mitologia dell’etàclassica. Queste due figure non rappresen-tano un’allegoria dell’accadere naturale,ma sono intese come davvero esistenti dalfilosofo. Il loro operato si svolge secondo unalegge necessaria, espressa in differenti modi(la legge e divino decreto di DK 31 B 115, ilgiuramento o contratto inviolabile di B 30),per cui Empedocle mostra di essere in pos-sesso di una peraltro non sempre chiara eadeguatamente generalizzata teoria fisicadi carattere deterministico.

9-10. Lo sfondo parmenideo di tuttaquesta teoria del divenire viene a questopunto nuovamente espressa poiché le coseson dette insieme mutare a restare immobilinell’intero ciclo delle trasformazioni.

10-18. La conclusione insiste sul carat-tere eterno e immutabile della totalità, chenon ammette alcun rapporto fra essere enon essere, come abbiamo visto sopra.

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5.2 Anassagora

Grosse novità speculative sono presenti in questo pensatore che rovescia la tradi-zionale impostazione della fisica sino a questo momento seguita da tutta la filosofiapresocraticica.

5.2.1 Le omeomerie sono il principio

Dal momento che Anassagora pone come princìpi le omeomerie e Democri-to gli atomi, infiniti per numero l’uno e l’altro, indagando dapprima l’opinione 2

di Anassagora, [Aristotele] ci indica anche il motivo per cui Anassagora è giun-to a tale supposizione e dimostra che lui deve dire che non solo il miscuglio 4

intero è infinito per grandezza, ma anche ciascuna omeomeria, in quanto haallo stesso modo del miscuglio intero tutti i componenti e non solo infiniti, 6

ma infinite volte infiniti. A tale concezione Anassagora giunse perché ritenevache niente si produce dal non ente e che ogni cosa si nutre del simile. Vedeva 8

infatti che tutto viene dal tutto, anche se non immediatamente ma secondoun ordine (in realtà dal fuoco l’aria, dall’aria l’acqua, dall’acqua la terra, dalla 10

terra la pietra e dalla pietra di nuovo il fuoco e anche dando lo stesso cibo, adesempio il pane, molte cose e dissimili si producono, la carne, le ossa, le vene, i 12

nervi, i capelli, le unghie, le ali, e, se se ne dà il caso, anche le corna, e in effettiil simile si accresce mediante il simile). Perciò suppose che fossero nel cibo e 14

che anche nell’acqua, se di questa si nutrono gli alberi, ci fosse legno, corteccia,frutta. Quindi diceva che ogni cosa è mescolata in ogni cosa e che la nascita 16

avviene per separazione. [. . .] Vedendo dunque che da ciascuna di quelle coseche adesso risultano dalla divisione tutte le cose si separano, ad esempio dal 18

pane la carne, l’ossa e il resto, quasi che in esso pane tutte le cose si trovinonello stesso tempo e mescolate insieme, da ciò egli supponeva che tutte le cose 20

fosser mescolate insieme prima della separazione.DK 59 A 45; trad. it. cit. pp. 573-4

1-7. Anassagora non si accontenta del-l’unico principio dei monisti, ma neppuredella quadruplice radice dell’essere di Em-pedocle, come con chiarezza ci indica Sim-plicio, autore di questa testimonianza; in unaltro luogo della Fisica questi aveva infattiscritto: «i princìpi corporei [Anassagora] fe-ce infiniti: infatti tutti gli omeomeri, come ac-qua o fuoco o oro, sono ingenerati e incor-ruttibili, ma appaiono prodursi e distruggersisolo mediante composizione e separazio-ne, giacché tutti si trovano in tutte le cosee ogni cosa è caratterizzata da ciò che inessa predomina. Così oro appare ciò in cuic’è molto oro, anche se vi si trovano tutti»(DK 59 A 41). La ragione è di natura con-cettuale, non empirica. Infatti Anassagoranon richiede un maggior numero di princì-pi perché reputa i quattro di Empedocleinsufficienti a costituire, in differenti composi-

zioni, l’infinita varietà delle realtà empiriche(avrebbe in questo caso potuto porne dieci,venti, cento anziché infiniti), quanto per unamotivazione logica che ha Parmenide allabase. Il filosofo sente come contraddittorioche qualcosa possa derivare da qualchecosa d’altro: se cioè una entità, poniamodella carne, derivasse come composto dalcombinarsi di altre sostanze che non sonocarne, deriverebbe da cose che non sonoessa, cioè dal suo non essere, il che è vie-tato dal principio parmenideo di non con-traddizione; ogni cosa invece non può chederivare dalla sua stessa natura, deve ave-re un principio distinto e a essa congenerecome origine.

Per conseguenza non soltanto nella ma-teria originaria e unica c’è tutto, come nel-l’infinito di Anassimandro ecc., ma anchein ogni singolo elemento delle materie che

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noi constatiamo nella nostra esperienza: co-me ci suggerisce il celebre frammento DK59 B 6, «in ogni [cosa] ci potranno esseretutte [le cose]». Tale singolo elemento, chia-mato «omeomeria» – per quanto vi sianoseri dubbi sul fatto che tale espressione sipossa far risalire allo stesso Anassagora, cheusa in suo luogo «semi» (σπῆρματα) oppu-re l’ancor più generico «sostanze» o «cose»(χρῆματα), e non invece ad Aristotele – èperciò dotato di una precisa connotazionequalitativa che rispecchia in pieno le carat-teristiche che noi riscontriamo nella nostraesperienza quotidiana.

7-17. Lo spunto per questa considerazio-ne viene ad Anassagora dalla nutrizione: èfacilmente rilevabile che a noi, mangiandocarne, crescono unghie e capelli, e dal mo-mento che tali nature non possono derivaredalla carne, che rispetto a loro è altro, sia-mo costretti a pensare che nella carne siano«nascosti», cioè contenuti in piccole quanti-tà non percepibili, anche unghie e capelli.Come tutti gli altri pluralisti il filosofo intendela nascita e la morte come aggregazione

e separazione di elementi eterni che, di persé, rimangono immutabili, essendo nel suointendimento (ancora una volta di chiaramatrice eleatica) vietato ogni rapporto tral’essere e il nulla.

17-21. Il processo di formazione delle co-se ha luogo come separazione dall’origi-naria unità detta migma (cfr. DK 59 B 13),secondo un principio nuovo rispetto a tuttigli altri pensatori che abbiamo fino a oraincontrato. È il filosofo stesso a esprimere ilsuo punto di vista su ciò con queste parole:«Del nascere e del perire i Greci non hannouna giusta concezione, perché nessuna co-sa nasce né perisce, ma da cose esistenti[ogni cosa] si compone e si separa. E cosìdovrebbero propriamente chiamare il na-scere comporsi, il perire separarsi» (DK 59 B17). Ciò consente ad Anassagora di salvareil molteplice attribuendogli un tipo partico-lare di divenire (che non contamina l’esserecol nulla) e al contempo di non violare ilprincipio parmenideo, almeno nella sua piùliberale versione melissiana.

5.2.2 L’intelligenza ordinatrice e il cosmo

Insieme erano tutte le cose, illimiti per quantità e per piccolezza, perchéanche il piccolo era illimite. E stando tutte insieme, nessuna era discernibile a 2

causa della piccolezza: su tutte predominava l’aria e l’etere, essendo entrambiillimitati: sono infatti queste nella massa totale le più grandi per quantità e per 4

grandezza.Tutte le altre [cose] hanno parte a tutto, mentre l’intelletto è alcunché di 6

illimite e di autocrate e a nessuna cosa è mischiato, ma è solo, lui in se stesso.Se non fosse in se stesso, ma fosse mescolato a qualcos’altro, parteciperebbe di 8

tutte le cose, se fosse mescolato a una qualunque. Perché in ogni [cosa] c’è partedi ogni [cosa], come ho detto in quel che precede: le [cose] commiste ad esso 10

l’impedirebbero di modo che non avrebbe potere su nessuna cosa come l’haquand’è solo in se stesso. Poiché è la più sottile di tutte le cose e la più pura: ha 12

cognizione completa di tutto e il più grande dominio e di quante [cose] hannovita, quelle maggiori e quelle minori, su tutte ha potere l’intelletto. E sull’intera 14

rivoluzione l’intelletto ebbe potere sì da avviarne l’inizio. E dapprima ha datoinizio a tale rivolgimento dal piccolo, poi la rivoluzione diventa più grande e 16

diventerà più grande. E le [cose] che si mescolano insieme e si separano e sidividono, tutte l’intelletto ha conosciuto. E qualunque [cosa] doveva essere e 18

qualunque fu che ora non è, e quante adesso sono e qualunque altra sarà, tuttel’intelletto ha ordinato, anche questa rotazione in cui si rivolgono adesso gli 20

astri, il sole, la luna, l’aria, l’etere che si vengono separando. Proprio questarivoluzione li ha fatti separare e dal raro per separazione si forma il denso, 22

dal freddo il caldo, dall’oscuro il luminoso, dall’umido il secco. In realtà molte[cose] hanno parte a molte [cose]. Ma nessuna si separa o si divide del tutto, 24

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l’una dall’altra, ad eccezione dell’intelletto. L’intelletto è tutto uguale, quellopiù grande e quello più piccolo. Nessun’altra [cosa] è simile ad altra, ma 26

ognuna è ed era le [cose] più appariscenti che in essa sono in misura massima.DK 59 B 1 e B 12; trad. it. cit. p. 602

1-5. Anassagora immagina che in ori-gine tutto esista mescolato e costituito daparti tanto piccole da rendere impossibilel’identificazione di alcuna qualità determi-nata. Da questamassa originaria (chiamataμίγμα) come si passa alla precisa organiz-zazione del cosmo, qual è il motivo per cuiha luogo la separazione?

6-14. Il principio in questione dev’essereunitario come unico e coerente è il mondoche origina e dev’essere separato per poterconservare il suo potere su tutto, laddovese fosse mescolato avrebbe valore e ca-pacità paritetiche al resto e non varrebbecomematrice di discernimento e di organiz-zazione. Esso viene chiamato νοῦς, che noiparafrasiamo con l’espressione «Intelligenzaordinatrice».

L’Intelligenza organizzatrice è pura, cioènon composta, sempre uguale a se stessa,onnisciente nonché dotata di illimitato pote-re. La sua funzione centrale è di essere forzacosmogonica che dispone il mondo (que-sto non poteva essere frutto del caso, tantoordinato e armonico si presentava) secondouna modalità intelligente (per lo stesso moti-vo esso non poteva obbedire a una ciecanecessità naturale). Non è del tutto chiarodai testi di Anassagora in nostro possesso seegli intendesse poi tale Intelligenza comeentità per intero incorporea o soltanto comela più fine materia reperibile: la sua intenzio-ne ci orienta verso la prima supposizione,mentre le sue espressioni ci fanno inclinarepiuttosto per l’altra alternativa; sappiamod’altro canto come non fosse stata ancoraconcepita una opposizione netta fra il ma-teriale e lo spirituale. Inoltre l’Intelligenza, daun lato detta separata, informa di sé tutte lealtre cose e in esse è contenuta in ugualemisura. Quest’Intelligenza organizza teleolo-gicamente il cosmo: il che significa che se inAnassimandro – ma è solo un esempio: tuttii Presocratici sono deterministi a eccezionedel nostro Anassagora – il vortice muoven-

dosi separa inconsapevolmente il pesantedal leggero, qui è per separare il pesantedal leggero che il vortice si mette in moto,seguendo un predefinito disegno.

13-27. Non diamo grande spazio alladottrina cosmologica di Anassagora, cheinteressò già gli antichi meno di altri aspettidel suo sistema, non presentando elementidavvero nuovi rispetto ad altre cosmologie,soprattutto quella di Anassimene, che ven-ne subito riconosciuta come il suo più direttoantecedente. Basti ricordare che la forma-zione del mondo è dovuta a un movimentorotatorio prodotto dall’Intelligenza in un pun-to determinato e poi propagatosi a tutta lamassa materiale originariamente indetermi-nata, da cui si distinguono in una prima fasele solite coppie di contrari: il raro e il denso, ilfreddo e il caldo, l’oscuro e il chiaro, l’umidoe il secco. Per effetto del moto rotatorio ildenso e umido va al centro e il rado e cal-do verso la periferia (cfr. DK 59 B 15), il caldoproduce vapori, i vapori l’acqua, questa laterra e infine da essa la roccia. Il moto ro-tatorio strappa alcune masse rocciose cheper il calore prodotto dal moto vorticoso di-vengono gli astri: tutto è spiegato medianteuna chiara progressione meccanica.

La teoria di Anassagora soffre così diun’ambiguità di fondo, poiché egli da unlato è spinto ad attribuire un movente finali-stico all’operato dell’Intelligenza, ma dall’al-tro, quando una spiegazione rigorosa vienerichiesta e dove è possibile, si affida assaipiù volentieri a un’organizzazione meccani-cistica. Al pari degli Ionici rispuntano alloravortici, forze centrifughe e centripete e viadicendo, della qual cosa già Platone (Fedo-ne, 97e sgg. = DK 59 A 47) e quindi Aristotele(Metaph., A 4, 985a 18 sgg. = DK 59 A 47) sidolsero, vedendo prima affermato un prin-cipio teleologico che condividevano e poiquello stesso negato a favore di un ciecodeterminismo.

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5.3 L’atomismo di Democrito

Di Democrito già nell’antichità era nota la sapienza vastissima (che solo in minimaparte troverà testimonianza in questa sede); ma giova maggiormente porre l’attenzionesulla coerenza con cui egli elaborò le sue conoscenze, deducendo dai fondamentali princì-pi la fisica come l’astronomia, l’etica al pari dell’antropologia, segno della caratteristicapretesa della filosofia alla totalità.

5.3.1 Gli atomi sono il principio

Analogamente, anche il suo [di Leucippo] discepolo Democrito di Abderapose come princìpi il pieno e il vuoto, chiamando essere il primo e l’altro 2

non essere: essi, infatti, considerando gli atomi come materia dei corpi, fannoderivare tutte le altre cose dalle differenze degli atomi stessi. Le differenze 4

sono: misura, direzione, contatto reciproco, che è quanto dire forma, posizionee ordine. Essi ritengono infatti che per natura il simile è posto in movimento 6

dal simile e che le cose congeneri sono portate le une verso le altre e checiascuna delle forme, andando a disporsi in un altro complesso, produce un 8

altro ordinamento; di modo che essi, partendo dall’ipotesi che i princìpi sonoinfiniti di numero, promettevano di spiegare in modo razionale le modificazioni 10

e le sostanze e da che cosa e come si generano i corpi; perciò essi anche diconoche soltanto per coloro che considerano infiniti gli elementi tutto si svolge in 12

modo conforme a ragione. Ed affermano che è infinito il numero delle formenegli atomi perché nulla possiede questa forma qui a maggior ragione di 14

quest’altra: tale è infatti la causa che essi adducono della loro infinità.DK 68 A 38; trad. it. cit. p. 684

1-4. Scrive Aristotele in un fondamenta-le passo (da cui deriva questo di Simplicio):«Leucippo e il suo discepolo Democrito pon-gono come evidenti elementi il pieno e ilvuoto, chiamando l’uno essere e l’altro nonessere, e precisamente chiamando essere ilpieno e il solido, non essere il vuoto e il raro(onde essi affermano che l’essere non è af-fatto più reale del non essere, perché nean-che il vuoto è <meno reale> del corpo), epongono questi [elementi] come causema-teriali degli esseri» (DK 67 A 6). Qui alle novitàper così dire tecniche nell’identificazione diun nuovo principio si affianca una posizioneontologica di assoluto rilievo: nonostante losfondo eleatico (già constatato sia in Em-pedocle sia in Anassagora), ha luogo conla filosofia atomistica l’affrancamento daldivieto parmenideo del non essere, che si ri-conosce dotato di una sua esistenza. Infatti ilvuoto da un lato è chiamato non essere, madall’altro esiste come condizione del movi-mento (e precisamente dell’infinita caduta)degli atomi.

4-13. Come per Anassagora, anche pergli Atomisti l’essere è composto da un’in-finità di elementi: ma questi, a differenzadelle omeomerie, sono indivisibili e qualitati-vamente indeterminati. Il moto degli atomirichiede il vuoto quale fondamentale condi-zione e poiché gli atomi, in quanto effettivicostituenti della realtà, sono l’essere, il vuo-to non può che definirsi come il non essere;ma entrambi, atomi e vuoto, sono condizio-ni necessarie di quanto c’è e dunque tutti edue, a loro modo, sono essere. Il vuoto deveesistere alla luce del movimento, impossibilenel pieno dal momento che un corpo nonpuò accoglierne un altro (impossibili sareb-bero anche la rarefazione e la condensa-zione, la crescita). L’essere è divisibile, pre-sentando l’alternanza fra spazi pieni e spazivuoti, ma non all’infinito: se si potesse proce-dere senza limite alla divisione, alla fine legrandezze sarebbero nulle e si produrrebbecosì l’annientamento dell’intero campo del-l’essere (esso, composto di grandezze nulle,diverrebbe nullo).

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13-15. Non solo infiniti sono gli atomi: in-finite sono anche le loro forme (tesi conte-stata in seguito da Epicuro). Non c’è infattialcunmotivo per cui una certa forma risulti a

essi più adatta di un’altra e in questo modorisulta più agevole spiegare l’infinita varietàdelle cose composte dagli atomi stessi.

5.3.2 La cosmologia atomistica

I mondi son infiniti e sono differenti per grandezza: in taluni non vi è nésole né luna, in altri invece sono più grandi che nel nostro mondo, in altri 2

ancora ci sono più soli e più lune. Le distanze tra i mondi sono diseguali,sicché in una parte ci sono più mondi, in un’altra meno, alcuni sono in via 4

di accrescimento, altri al culmine del loro sviluppo, altri ancora in via didisfacimento, e in una parte nascono mondi, in un’altra ne scompaiono. La 6

distruzione di un mondo avviene per opera di un altro che si abbatte su diesso. Alcuni mondi sono privi di esseri viventi e di piante e di ogni umidità. . . 8

DK 68 A 40; trad. it. cit. p. 685

1-8. Cadendo gli infiniti atomi nello spa-zio infinito a differente velocità, il moto vor-ticoso che li contraddistingue li conducea incontri e scontri che stanno all’originedell’insorgenza dei vari mondi. Atomi similiavranno un comportamento simile e tende-ranno ad associarsi fra loro (come abbiamoletto sopra, in 6.1, rr. 6-8), ma l’aleatorietàdegli urti produrrà anche aggregati non per-fettamente omogenei. I mondi in tal modosorti risulteranno del pari infiniti.

Tutto il processo cosmogonico, pur nonobbedendo ad alcuna logica intelligente oteleologica come quella messa in campoda Anassagora, non per questo è casuale.Democrito ritiene che tutto abbia una cau-sa e che perciò si produca per necessità na-

turale e non a caso (Aristotele gli attribuiscequest’ultima opinione, ma sbaglia); analo-gamente pensava Leucippo, l’unico testocompiuto del quale in nostro possesso ci di-ce che «Nulla si produce senza motivo, matutto con una ragione e necessariamente».Il suo meccanicismo è in questo senso de-terministico e lo conferma il frammento DK68 B 118, secondo il quale Democrito «pre-feriva trovare una sola spiegazione causaleche divenir padrone del regno dei Persiani».Questo assunto fallisce non tanto nei suoiprincìpi, quanto nella sua concreta realiz-zazione, perché di moltissimi accadimenti ilfilosofo non era poi in grado di identificareed esibire la causa, cosicché sembra porlia caso.

5.3.3 Le qualità sensibili

. . . dice Democrito, ritenendo che tutte quante le qualità sensibili, ch’eglisuppone relative a noi che ne abbiamo sensazione, derivino dalla varia ag- 2

gregazione degli atomi, ma che per natura non esistano affatto bianco, nero,giallo, rosso, dolce, amaro: infatti l’espressione «per convenzione» equivale, 4

per esempio, a «secondo l’opinione comune» e a «relativamente a noi», cioènon secondo la natura stessa delle cose, la quale egli indica con l’espressione 6

«secondo verità» [. . .]. Così tutti quanti gli atomi, essendo corpi piccolissimi,non posseggono qualità sensibili, ed il vuoto è uno spazio nel quale tali corpu- 8

scoli si muovono tutti quanti in alto e in basso eternamente o intrecciandosi invario modo tra loro o urtandosi e rimbalzando, sicché vanno disgregandosi e 10

aggregandosi a vicenda tra loro in composti siffatti; e in tal modo produconotutte le altre maggiori aggregazioni e i nostri corpi e le loro affezioni e sensazio- 12

ni. Suppongono, poi, che i corpi primi siano inalterabili [. . .], anzi che neppurepossano subire per qualche forza esterna quelle modificazioni a cui tutti gli 14

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uomini (che traggono la loro scienza dalle sensazioni) li credono soggetti;cioè dicono, per esempio, che nessun atomo può riscaldarsi o raffreddarsi, e 16

similmente disseccarsi e inumidirsi, e meno che mai diventare bianco o nero o,in breve, ricevere alcun’altra qualità per qualsivoglia modificazione. 18

Democrito, che assegna una determinata forma atomica a ciascun sapore,fa derivare il dolce dagli atomi rotondi e di discreta grandezza, l’acre dagli 20

atomi di figura grande con asperità e con molti angoli e senza rotondità,l’acido o acuto – come dice il nome stesso – dagli atomi cauti, angolosi, a 22

curve, sottili e non tondeggianti; l’agro invece dagli atomi tondeggianti, sottili,angolosi e a curve; il salato, da quelli angolosi e di discreta grandezza, obliqui 24

e isosceli; l’amaro, da quelli tondeggianti, aventi una curvatura uniforme epiccola grandezza; il grasso, da atomi leggeri, rotondi e piccoli). 26

DK 68 A 49 e A 129; trad. it. cit. pp. 688-9 e 713

1-18. Il primo passo (che pure presen-ta considerazioni di varia natura) ci imponedue quesiti: 1) perché gli atomi non han-no qualità?; 2) perché noi percepiamo gliatomi come qualitativamente determinati?

1) In virtù delle note premesse parmeni-dee gli atomi devono risultare eterni, indivisi-bili, incorruttibili, immutabili, assolutamentesemplici. Dal momento che essi incarnanosemplicemente l’essere, lo possono fare inun solo modo, o si arriverebbe all’assurditàdi una molteplicità di esseri diversi (perciòreciprocamente negantisi). Di conseguen-za l’atomo deve portare con sé solo quellecaratteristiche per cui un corpo è e non in-vece è un determinato corpo: se un atomofosse bianco e un altro nero, l’uno non sareb-be l’altro e verrebbero così reintrodotte nelcampo degli atomi (dell’essere) la diversitàe la negazione (il non essere). Questo princi-pio d’altro canto non va inteso in modo cosìradicale che davvero escluda la benchéminima variazione: se per i motivi appena vi-sti le differenze qualitative sono negate, nonlo sono quelle quantitative, ovvero formaordine e disposizione.

2) Se così si caratterizzano gli atomi presidi per sé, come possiamo spiegare le diffe-renti caratteristiche qualitative con cui noipercepiamo i loro composti? Alcune dellequalità dei corpi derivano dalla loro confor-

mazione atomica: sono il peso, la durezza,la densità, che pure variano perché sonopercepite come diverse a seconda del mo-mento e della persona che le percepisce.Altre qualità dipendono invece dall’intera-zione fra l’oggetto percepito e il soggettopercipiente e derivano dalla diversa confi-gurazione dell’apparato sensibile. In questocaso gli Atomisti si trovano davanti al me-ro fatto delle sensazioni e si rendono con-to che è necessario giustificarlo in modoconsequenziale rispetto alle loro premesse,ma non riescono a dedurlo con rigore dallastruttura e dal comportamento degli atomistessi. Questo ci mostra come gli Atomisti ab-biano cercato, più di tutti gli altri pensatorisuccessivi a Parmenide, di accordare al me-glio esperienza e ragione, esigenza che delresto esprimono in forma esplicita in alcuniluoghi.

19-26. Il secondo passo spiega come gliAtomisti cercassero di dedurre, scendendofin nei minimi particolari, le singole sensazio-ni dalla conformazione atomica. Le moti-vazioni sono decisamente ovvie: atomi lisciprodurranno effetti piacevoli sugli organi delgusto e pertanto sapori gradevoli, laddoveatomi che, per la loro conformazione, pun-gono e graffiano avranno risultati negativi ecioè sapori sgradevoli.

5.3.4 L’anima e la conoscenza

Alcuni ritennero l’anima composta di fuoco; perché è il fuoco tra tutti glielementi quello composto di particelle più sottili ed il più incorporeo; inoltre 2

esso possiede come proprietà originaria quella di muoversi e di mettere inmoto le altre cose. Democrito poi ha trovato una soluzione ancor più sottile, 4

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per spiegare perché [l’anima] possiede ambedue queste proprietà. Anima eintelletto infatti sono la stessa cosa e questo elemento sarebbe composto di corpi 6

primi indivisibili e atto a produrre il movimento a cagione della piccolezzadelle particelle che lo compongono e della loro forma. . . 8

Leucippo, Democrito ed Epicuro affermano che la sensazione ed il pensierosi producono via via che penetrano in noi idoli dall’esterno; né l’una né l’altro 10

infatti possono sorgere in alcuno, indipendentemente dall’idolo che entra innoi. 12

DK 68 A 101 e A 30; trad. it. cit. pp. 706-7 e 659

1-5. Le caratteristiche che l’anima de-ve presentare sono due: l’incorporeità e lamobilità. Quanto alla prima, è chiaro che,in conseguenza del suo generale presup-posto materialistico, la filosofia atomistica ri-tiene anche l’anima materiale e compostadi atomi; nondimeno essa dev’essere quan-to di più lieve esiste. La mobilità altro nonè che la sua forza vivificatrice e il pensierorientra in questo ambito. Mescolati agli ato-mi «materiali» vi sono gli atomi dell’anima,che pongono i primi in movimento secondole diverse facoltà e le loro rispettive sedi: ilcervello per il pensiero, il cuore per l’ira, ilfegato per il desiderio ecc. Democrito mo-stra di considerare la differenza fra corpo eanima, privilegiando la prima e deducen-done una serie di insegnamenti morali: nonsi tratta di un’assoluta eterogeneità di natu-ra, ma semplicemente di una pur cospicuadiversità di composizione atomica; ha benscritto Zeller che «Lo spirito è per lui, comeper altri materialisti, il corpo più perfetto» (Lafilosofia dei Greci nel suo sviluppo storico,Parte I, Vol. V, La Nuova Italia, Firenze 1969,p. 234).

5-8. Democrito non ha distinto netta-mente la percezione dal pensiero, tenden-do a ricondurre il secondo alla prima: è perquesto che tende a riportare l’intelletto al-l’anima, poiché sia la percezione che il pen-siero non sarebbero chemodificazioni mate-

riali dell’anima, pur essamateriale. Dall’altrolato egli attribuisce al pensiero valore assaimaggiore, poiché la percezione sensibileè da lui detta oscura e il pensiero per con-tro autentico; gli è anche chiaro che i sensisi fermano alla superficie e che solo l’intel-letto può adeguatamente indagare su ciòche per i nostri sensi è troppo sottile, ovverol’essenza atomica della realtà. Democritocoglie la continuità, ma anche evidenzia lostacco fra l’opinione e la scienza. Si leggaad esempio il frammento DK 68 B 11: «Vi so-no due forme di conoscenza, l’una genuinae l’altra oscura; e a quella oscura apparten-gono tutti quanti questi oggetti: vista, udi-to, odorato, odorato, gusto e tatto. L’altraforma è la genuina e gli oggetti di questasono nascosti [alla conoscenza sensibile odoscura]. [. . .] Quando la conoscenza oscuranon può spingersi ad oggetto più piccoloné col vedere né coll’udire né coll’odoratoné col gusto né con la sensazione del tatto,ma <si deve indirizzar la ricerca> a ciò cheancor più sottile, <allora soccorre la cono-scenza genuina, come quella che possiedeappunto un organo più fine, appropriato alpensare>».

9-12. Il termine «idolo» (εἴδωλον) è da in-tendersi qui nel senso etimologico di «imma-gine». Nel passo è chiaramente affermatala matrice sensibile di ogni conoscenza.

5.3.5 L’etica e la civiltà

Dicono poi che gli uomini di quelle primitive generazioni, conducendouna vita senza leggi e come quella delle fiere, uscivano alla pastura sparsi chi 2

di qua chi di là, procacciandosi quell’erba che era più gradevole di saporeed i frutti che gli alberi producevano spontaneamente. Erano continuamente 4

aggrediti dalle fiere, e l’utilità apprese loro ad aiutarsi a vicenda; e, riunitisi insocietà sotto la spinta del timore, cominciarono a poco a poco a riconoscersi 6

dall’aspetto. E mentre prima emettevano voci prive di significato e inarticolate,

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gradatamente cominciarono ad articolar le parole; e, stabilendo tra di loro 8

espressioni convenzionali per designare ciascun oggetto, ebbero a creare unmodo, noto a tutti loro, per significare tutte le cose. Ma poiché simili raggrup- 10

pamenti di uomini si formarono in tutte le regioni abitate della terra, non cipoté essere una lingua di ugual suono per tutti, poiché ciascuno di quei gruppi 12

combinò i vocaboli come capitava; ecco perché svariatissimi sono i caratteridelle lingue e perché quei primi gruppi furono la prima origine di tutte le varie 14

nazioni. Quei primi uomini, dunque, vivevano in mezzo ai disagi, perché nullasi era ancora trovato di quanto è utile alla vita: erano ignudi di ogni vestimento, 16

non abituati ad avere un’abitazione e ad usare il fuoco, del tutto ignari diun vitto non selvaggio. Giacché, non avendo idea che si potesse conservare il 18

loro vitto agreste, non facevano punto provviste di frutti per l’eventualità delbisogno: per cui, durante l’inverno, molti di essi morivano, e per il freddo, e per 20

mancanza di vitto. Ma non tardò molto che essi, ammaestrati dall’esperienza,si rifugiarono d’inverno nelle spelonche e riposero quei frutti ch’erano atti ad 22

esser conservati. Conosciuto poi il fuoco e le altre cose utili alla vita, poco doposi trovarono anche le arti e tutti gli altri mezzi che possono recar giovamento 24

alla vita in società. Così, in generale, maestro di ogni cosa agli uomini fu l’usostesso, rendendo familiare l’apprendimento di ciascuna abilità a questo essere 26

ben dotato e che ha come cooperatrici per ogni occorrenza le mani e la ragionee la versatilità della mente. 28

DK 68 B 5; trad. it. cit. p. 744

Il passo è tratto da un’opera di Ecateo diAbdera, a noi giunta indirettamente perchériportata in ampi stralci da Diogene Laerzioe da Diodoro Siculo. Tale scritto rielaboravala cosiddetta Piccola cosmologia, un lavorooriginale di Democrito dove si descriveva-no la formazione del nostro mondo, l’originedella vita animale nonché il sorgere dellaciviltà umana. Nonostante la serie impres-sionante di mediazioni nella trasmissione te-stuale, talune informazioni genuine sembra-no essere rimaste e questo stralcio possiededunque una sua affidabilità.

1-7. Si noterà innanzitutto come il cam-mino qui descritto che conduce dalla con-dizione ferina alla convivenza civile e allacultura sia narrato senza far mai ricorso almito o alla fantasia. Se tuttavia la spinta al-l’associazione è naturale (deriva dal «timo-re» della r. 5), ciò che ne viene è per controconvenzionale; niente è regalato agli uomi-ni, non c’è alcun Prometeo, ma tutto è otte-nuto gradualmente attraverso l’esperienza,

come già in Senofane.7-15. Il nome è una proprietà soggettiva

delle cose e dunque convenzionale (nondunque φύσει bensì νόμῳ) al pari di sapori,odori ecc. Esso non rispecchia la cosa chenomina,ma è una semplice etichetta a essaapposta e che funziona in virtù dell’accor-do fra gli uomini di usare lo stesso insieme disuoni per indicare lo stesso oggetto. L’Atomi-smo è l’unica scuola presocratica a soste-nere, in contrapposizione alla ben più diffu-sa concezione naturalistica del linguaggio,una concezione convenzionalistica.

14-28. La parte finale ricostruisce il de-collo della civiltà umana intorno alla fun-zione svolta dal fuoco, considerato comesempre principio di ogni tecnica e di ognicultura; l’emancipazione dal mito si coglienel privilegiamento del futuro sul passato,nell’idea di un miglioramento progressivoche costituisce la storia stessa, ormai perintero nelle mani degli uomini.

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Nota bibliografica

Di nessuno dei filosofi presocratici ci è giunta direttamente una qualcheopera, tanto meno intera: come allora siamo informati sulle loro idee? Median-te citazioni e testimonianze di terzi che riportarono passi delle loro opere eparafrasarono il loro pensiero (non dimentichiamo inoltre che la cultura arcaicaè prevalentemente orale). Noi chiamiamo questi ultimi dossografi in quantoscrittori delle opinioni (δόξαι) altrui e comprendiamo sotto questa denomina-zione filosofi di prima grandezza, storici della filosofia, semplici enciclopedistio eruditi: si va da Platone (IV sec. a.C.) a Simplicio (VI sec. d.C.).

Non bisogna credere che più un reperto dossografico è antico, più è fededegno: ad esempio Platone, quasi contemporaneo di Democrito, è spesso di-stratto e mescola citazioni a parafrasi, laddove Simplicio, vissuto un millenniodopo i Presocratici, è fonte ricchissima e accurata (soprattutto per Parmenide,Empedocle e Anassagora). Aristotele cita poco, ma spesso fa riferimenti ancheampi ai punti di vista di altri pensatori. Teofrasto, che dopo di lui diressel’Accademia, organizza l’aristotelismo in relazione alle filosofie precedenti, masi basa per lo più sulla testimonianza aristotelica e non sente il bisogno diverificarla sulle fonti. D’altro canto i nostri reperti dossografici sono prevalen-temente di età assai tarda e perciò redatti da studiosi che si fondavano a lorovolta su compendi precedenti, assai in uso in età ellenistica (talora di secondae anche di terza mano), ma che era impossibile verificare sugli originali.

Trascurando fonti minori e indipendenti, i principali dossografi sono 1)Plutarco (filosofo accademico del II sec. d.C.); 2) Sesto Empirico (filosofoscettico vissuto alla fine del II sec. d.C., che utilizza a sua volta fonti indirettedi età ellenistica); 3) Clemente Alessandrino (convertitosi al Cristianesimo evissuto a cavallo tra il II e III sec. d.C.); 4) Ippolito (del III sec. d.C., teologocristiano); 5) Diogene Laerzio (vissuto nel III sec. d. C., autore delle celebriVite dei filosofi, a loro volta derivanti da fonti ellenistiche); 6) Giovanni Stobeo(del V sec. d.C., attento soprattutto all’etica); quindi tutti i Neoplatonici, finoall’importantissimo Simplicio.

Ma le cose sono in realtà più complicate – tali da porre gravi problemiai filologi moderni – per svariate ragioni: le citazioni sono indirette, nonesistendo nei codici antichi segni diacritici analoghi ai nostri due punti evirgolette e perciò – a meno che non si tratti di versi, ma anche qui le cose nonsempre vanno lisce – di difficile individuazione soprattutto nel caso di passibrevi, inseriti di seguito nel testo del dossografo; ciò significa che talvolta èassai arduo individuare i frammenti all’interno delle testimonianze. Inoltrele citazioni venivano per lo più fatte a memoria (era assai scomodo andarein cerca nei testi soprattutto se si trattava dei più antichi, redatti su papiri)

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e perciò sovente inesatte, per non parlare di non infrequenti casi di erroneaattribuzione da parte di chi cita; infine il significato originale veniva spessodeformato dall’inserimento in un contesto affatto estraneo.

A causa della difficoltà di identificare testimonianze su e frammenti dipensatori presocratici, è stato necessario un vasto lavoro di ricerca: il filologotedesco Hermann Diels (1848-1922) è riuscito in un’opera grandiosa di raccoltae ordinamento che aveva conosciuto in precedenza solo parziali e insoddisfa-centi tentativi. Egli pubblicò a Berlino nel 1903 la prima edizione de I frammentidei Presocratici (includente anche i Sofisti), seguita da svariate altre: la quartaedizione, datata 1922, ricevette anche da Walther Kranz (1884-1960) un essen-ziale contributo, cosicché oggi l’opera – di cui sono uscite diverse altre edizioni– porta entrambi i nomi (il DK del nostro modo di indicare i frammenti). Illavoro di preparazione consistette nella raccolta delle testimonianze antiche,nell’individuazione dei frammenti e nella selezione di quelli autentici, nellascelta delle lezioni più attendibili. L’ordinamento, in quell’opera, venne attuatomeccanicamente: dapprima le testimonianze sui Presocratici (contrassegnatecon la lettera A), quindi i frammenti (indicati dalla lettera B), infine le imitazioni(collocate sotto la lettera C), in alcuni casi per organizzazione tematica, in altrisecondo l’ordine alfabetico dei dossografi. L’operazione non è così automaticaquanto può sembrare, poiché in certi casi è opinabile la distinzione nel testostabilita fra testimonianza e frammento, ma in questa sede non è possibileentrare nella discussione dei meriti e dei limiti dell’opera di Diels.

In italiano quella raccolta è stata tradotta quasi per intero, a eccezione deipassi di interesse puramente stilistico ove una versione non aveva alcun senso,da studiosi diversi presso l’editore Laterza di Bari nel 1969 (quindi ristampata)col titolo I Presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni. Duesillogi parziali sono: I presocratici. Frammenti e testimonianze, vol. I, a cura diA. Pasquinelli, Einaudi, Torino 1958 (ristampata in seguito), bloccatasi al soloprimo volume per la morte del curatore; tale edizione, arricchita da intelligentinote, pur fondata quanto al testo sul Diels-Kranz con taluni aggiornamenti, sene distacca perché propone un ordinamento tematico dei frammenti. Quindi: IPresocratici. Testimonianze e frammenti da Talete a Empedocle, a cura di A. Lami,sempre basata sul Diels-Kranz ma con svariati aggiornamenti, limitata nellascelta delle testimonianze ma col testo greco a fronte. I tre volumi de La sapienzagreca curati da G. Colli, pubblicati da Adelphi, Milano rispettivamente nel 1977,1978 e 1980, presentano solo pochi pensatori (di quelli da noi considerati,gli Ionici ed Eraclito) e si basano su un’impostazione del tutto peculiare,teoreticamente impegnata ma non rigorosa sotto il profilo filologico. Infine IPresocratici, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2006, versione integrale delDiels-Kranz dovuta a diversi collaboratori con testo greco a fronte. Per quantoriguarda le edizioni di autori singoli sono da seguire i testi della FondazioneLorenzo Valla, pubblicata da Mondadori di Milano (dove sono finora uscitidue volumi rispettivamente dedicati a Eraclito e a Empedocle) e soprattutto laBiblioteca di Studi Superiori de La Nuova Italia di Firenze, dove troviamo tuttii Presocratici maggiori in edizioni esemplari dal punto di vista della cura deltesto e rilevantissime per le introduzioni e il commento.