Cosa ho a che fare io con gli schiavi?

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Un'edizione speciale di Firenze Dispari

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firenze*dispari

TI MOI ΣΥΝ ΔΟΥΛOIΣΥΝ

Cosa ho a che fare io con gli schiavi?

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C’è ancora spazio per la riflessione in politica? Ci deve e dovrà essere perché altrimenti la politica non è più tale ma si involve nella mera risoluzione di problemi prossimi senza alcuna prospettiva di futuro. Senza riflessione si lascia aperta la porta ai populismi di ogni genere e tipologia, ma pure alle derive xenofobe, come ha dimostrato il voto alle ultime municipali francesi, dove il Fronte National di Marine Le Pen ha superato il 20-30% nelle aree industrializzate depresse al confine con il Belgio e nel sud caratterizzato da un alto tasso di multietnicità.

Per questo la riflessione in politica è necessaria, per comprendere meglio le reali cause delle difficoltà del presente e cercare di valorizzare le opportunità del futuro.

Un futuro che passa dalla lotta all’evasione al superamento del politico showman, passando per la fine dei tatticismi senza anima. Tutti passaggi che oggi ci sembrano inevitabili e insuperabili, ma è necessario lasciarsi alle spalle per arrivare a una politica sì rinnovata, ma in senso positivo.

Senza le opportunità di riflessione si è davanti solo a una sequela di annunci-spot che durano il tempo necessario per raggiungere i titoli di apertura dei telegiornali, per poi finire nel dimenticatoio nell’arco di pochi giorni, con scadenze assecondate da una pletora di “fedeli” che si legano senza possibilità di ragionamento individuale al loro leader.

Per tutti questi motivi è importante capire dove siamo arrivati. Fermarci un attimo e riflettere cercando di andare oltre ai “Mi piace” o ai retweet di turno. Prendere un po’ di tempo per noi e per quello che vogliamo diventare.

Dario Cafiero

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Cosa ho a che fare io con gli schiavi? è un motto greco che Piero Gobetti inseriva sempre all’inizio dei suoi scritti. Scritti in cui Gobetti, pur essendo appena finita la Prima Guerra Mondiale, già sapeva che la “guerra più lunga e spietata” sarebbe stata quella della riforma del Paese. Una riforma per cui c’è bisogno di serietà e intensità di lavoro. Oggi come allora.

Claudio Fantoni

[1]  Gli incredibili |4|[2]  Siamo tutti uguali? |7|[3]  Tatticismo senz’anima |11|[4]  L’abito non fa il monaco |15|[5]  Rivoluzione democratica |19|[p.s.]  Primarie e democrazia consapevole |25|

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Gli incredibili

I politici della prima repubblica probabilmente risultava-no in gran parte noiosi. Sicuramente lo sarebbero oggi, se pa-ragonati agli attuali. La politica, nel bene e nel male, era tante cose ma certamente praticava poco la dimensione dello spet-tacolo. La televisione del tempo relegava la presenza dei diver-si leader di partito entro precisi confini, spicchi di palinsesto dal sapore molto istituzionale, decisamente formale. Il lin-guaggio era solitamente severo. Il massimo della trasgressio-ne lo poteva offrire Pannella con una protesta silenziosa. Non era l’epoca dei talk show, quelli in cui le voci si sarebbero con-fusamente sovrapposte le une sulle altre. Quella in cui per an-ni parte della comunicazione politica, tra una mortadella da sponsorizzare e una precisa descrizione delle ultime persona-li evacuazioni corporali, sarebbe finita in parte nelle mani di showman come Gianfranco Funari.

Tutto era molto diverso ma tutto si muoveva con forte ac-celerazione nella direzione di un cambiamento profondo. Per la politica ciò stava a significare una mutazione genetica che, ad esempio, spostava la prospettiva dalla riverente fascinazio-ne prodotta dalle personalità al culto dei personalismi. Quelli capaci di affascinare, ancora più che per la sostanza, per l’ec-cezionale spregiudicatezza nella conquista e nell’occupazione

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degli spazi di potere. Gli appuntamenti congressuali di partito si tradussero in vere o proprie celebrazioni carismatiche, co-me nel 1989, quando il PSI di Bettino Craxi fece ergere faraoni-camente una vera e propria piramide. Qualcuno ci stava spie-gando in modo plastico che la politica in bianco e nero lasciava spazio a quella a colori.

Lo show era quindi iniziato ma lo sviluppo si sarebbe ri-velato imprevisto e brutale. L’inchiesta mani pulite cancel-lò in breve tempo ogni possibile identificazione della politica con la compostezza. Dalle monetine lanciate a Craxi, passando per l’improbabile salivazione di Forlani, suo malgrado attore in un’aula giudiziaria, per approdare all’esposizione dei cap-pi da impiccagione mostrati in parlamento dai leghisti, nuovi protagonisti della politica a colori, quella che non avrebbe più interpellato la ragione ma avrebbe mirato continuativamen-te dritto alla pancia degli italiani. Niente più noia ma una sor-presa al giorno; niente più politici da guardare, magari con sospetto, comunque con antropologica reverenza. Ora i poli-tici erano gli incredibili, semplicemente soggetti a cui non era possibile dare credito. E lo spazio che a causa di ciò si rendeva libero e disponibile fu sconfinato. Quello che, con grande in-tuito e in piena disponibilità di mezzi e risorse, Berlusconi oc-cupò mettendo in atto una vera e propria guerra lampo. Il ri-sultato? Da quella discesa in campo nulla sarebbe stato uguale a prima. Il “nuovo” pervase tutto. In primo luogo la comuni-cazione, per cui i vizi, invece che un limite, finirono per esse-re utili strumenti di intercettazione di ulteriore consenso e lo scontro con tutte le istituzioni, i poteri e gli organi dello Sta-to che in qualche modo ostacolavano il cammino e i desideri del leader maximo, ulteriore mezzo di promozione di campa-gna elettorale permanente. Contro la minoranza, la magistra-tura, i diversi Presidenti della Repubblica, la categoria indefi-nita dei politicanti di professione, il sindacato, il Parlamento.

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Una serie di contro che consentivano di proporre all’elettore qualcuno da combattere ma soprattutto, come sempre acca-de con chi usa la categoria del nemico, di non dovere davve-ro affrontare gli argomenti sino in fondo, in modo compiuto. Per molti italiani la ragione di un sogno, un incubo per gli al-tri. Era uno della gente ma al contempo distante, come ogni venerabile monarca. Vicino ma irraggiungibile, non fosse al-tro per i gorilla che visibilmente lo hanno sempre attornia-to. Era l’apoteosi della politica a colori ma non ancora quella a 3D, non semplicemente spettacolare ma addirittura, illusoria-mente, palpabile. Quella ancora non era ma non avrebbe tar-dato ad arrivare. Era semplicemente dietro la porta che, una volta aperta, ci avrebbe mostrato Matteo Renzi. Il Presidente del Consiglio incaricato che sostiene il proprio discorso in una delle camere parlamentari con le mani in tasca. Quello che la scorta non la vuole perchè la sua scorta è la gente. L’amico sim-patico di cui non ammiri la vacanza su uno splendido yacht ma con cui in vacanza potresti davvero andarci, come con tuo fratello, tua cognata e i tuoi nipotini. Parabola conclusa.

Gli incredibili

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Il nostro è un Paese da record, basti pensare al misterioso concentrato di inventiva e di ingegno che lo contraddistingue. Ad alcuni italiani si devono infatti invenzioni come il telefono, la plastica, gli occhiali, il pianoforte, la prima autostrada, la pri-ma banca, la pila elettrica, la radio, il microchip e l’elicottero. E qui ci fermiamo per parsimonia. Non occorre andare indietro nel tempo, all’impero romano o al glorioso rinascimento, per comprendere che da noi l’eccellenza non costituisce un fatto accidentale. Del resto, per quanto noi si sia i primi a manifesta-re incredulità, l’Italia è stata una tra le principali potenze eco-nomiche del mondo. E lo è ancora oggi, considerato che nella classifica mondiale ci collochiamo al nono posto, dopo la Rus-sia, in termini assoluti di Pil nominale. Che dire dunque? Pur avendo perso nel tempo delle posizioni, dovremmo essere sod-disfatti. E così sarebbe se omettessimo di prendere in conside-razione il contesto, se non ci trovassimo in una crisi economica senza precedenti, se lo scivolamento non dipendesse da fatto-ri strutturali, se non avessimo raggiunto e sfondando la soglia del 130% di indebitamento pubblico in rapporto al Pil, quando questo, vale la pena ricordarlo, nel 1980 si attestava al 56,85%.

Siamo quindi un Paese da record ma non tutti sono positi-vi. Oltre che per indebitamento, in Europa primeggiamo per

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Siamo tutti uguali?

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evasione fiscale e per pressione fiscale sulle imprese e sui red-diti delle persone fisiche. Ma soprattutto c’è un fattore che ci sta tristemente contraddistinguendo: la corruzione.

I dati forniti di recente dalla Commissione europea presie-duta da Cecile Malmstrom, commissario per gli affari inter-ni, si sono dimostrati inattendibili. Le stime prodotte ripor-tano un costo complessivo a causa della corruzione nei paesi UE di 120 miliardi di euro di cui 60 sarebbero prodotti in Ita-lia. Le fonti utilizzate non giustificherebbero simili conclusio-ni. Sarebbero numeri gonfiati ma la domanda è: sono gonfia-te anche le cifre che indicano in 170 miliardi di euro all’anno il fatturato delle organizzazioni criminali? È fondato che la Guardia di Finanza indichi in più del 10% del PIL il giro di affa-ri delle mafie? La verità è che nessuno può offrire certezza dei numeri quando si tenta di quantificare fenomeni sommersi. Ma è altrettanto vero che, pur se in presenza di cifre ballerine, il problema esiste ed è macroscopico. La corruzione nel no-stro Paese rappresenta certamente il principale e più grave dei mali da cui siamo afflitti per virulenza, quantità, diffusione e penetrazione. Risultiamo infatti tristemente campioni quan-do si tratta di crimine organizzato e lo stesso avviene quando si guarda alla corruzione in politica e nella pubblica ammini-strazione. In tutti e due i casi, non privi di connessione tra di loro, siamo da record e ad aggravare la situazione si aggiunge un generale e pericoloso processo di assuefazione.

La corruzione è diffusamente percepita, dalle grandi al-le piccole cose, come pratica quotidiana perpetuata, senza di-stinzioni, da intere categorie. Si dice che “quelli che hanno partita iva evadono tutti le tasse”, che “i politici sono tutti cor-rotti” e che “tanto sono tutti uguali”. Si pensa che il male c’è e che con questo occorra conviverci (idea che sostenne pub-blicamente nel 2001 il ministro Lunardi a proposito, niente di meno che, della mafia). E se la soluzione non è il contrasto

Siamo tutti uguali?

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ma la convivenza, il risultato è che si rinuncia a rafforzare il proprio sistema immunitario. Semmai si fa il contrario. Si re-prime e si annulla anche la nostra capacità di scandalizzarci e di riprovare con decisione i comportamenti e gli atti illeciti, a partire da quelli scorretti che non necessariamente la legge sanziona. Il disgusto lo si esprime con parsimonia e lo si riser-va per ciò che ancora riesce a stupire per spettacolarità, non necessariamente per gravità.

Ci indigniamo perchè c’è chi ha comprato con soldi pubbli-ci un paio di mutande verdi ma facciamo fatica a comprendere la ragione per cui un ministro di un altro paese si dimetta “so-lo” perchè non ha pagato i contributi alla colf. Non compren-diamo il motivo per cui un presidente come Clinton abbia su-bito l’impeachment. Pensiamo si sia trattato di un eccesso di puritanesimo, condanna dell’adulterio, e non si riesce a im-maginare che “tradimento, corruzione o altri reati gravissimi” (questi sono i casi per cui, secondo la Costituzione america-na, si può perseguire un Presidente), nel caso specifico l’ulti-mo delle tre fattispecie, consistesse non in ciò che era stato fat-to ma nella falsa testimonianza, nell’avere “semplicemente” mentito alla Nazione, al popolo che si rappresenta. Perchè in una democrazia, questo è il presupposto, la menzogna non è tollerabile in quanto inganno verso i cittadini da cui si è otte-nuto fiducia. E, soprattutto, se c’è inganno, una scorretta rap-presentazione dello stato delle cose, si impedisce agli elettori il pieno esercizio del diritto di scegliere veramente.

Certo, la corruzione non è tutta uguale. C’è quella crimi-nale che arriva a produrre morte, che sottrae alla collettività immani risorse economiche e, più in generale, non cruenta ma comunque profondamente dannosa, c’è quella che falsifi-ca la realtà per produrre benefici particolari e personali, co-me quella dei politici che mentono per ottenere o non perdere il consenso, per conquistare o non dovere perdere la propria

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poltrona. Quella di chi fa informazione e che, per le stesse ra-gioni, non restituisce ciò che dovrebbe: la verità dei fatti, l’o-nestà dell’opinione.

La corruzione non è quindi tutta uguale, così come non tut-ti siamo uguali. La criminalità dilaga ma c’è chi l’ha combat-tuta e chi ancora la contrasta attivamente. Per questo hanno perso la vita politici, magistrati, personale delle forze dell’or-dine, sindacalisti, giornalisti e semplici cittadini. Senza nes-suna retorica, veri eroi o “semplicemente” mirabili persone che hanno fatto prevalere la coscienza del bene comune e del-la giustizia rispetto al proprio interesse personale. Persone che noi non rispettiamo ogni qualvolta non esercitiamo il nostro dovere di distinguere. No, non siamo tutti uguali e sta a cia-scuno di noi il compito di non vanificare l’operato degli one-sti. Se non distinguiamo, a partire dai bugiardi, non cambia-mo davvero.

Siamo tutti uguali?

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Tatticismo senz’anima

La politica non può limitarsi all’astratto idealismo. Occor-re sempre una buona dose di pragmatismo. Questo perchè la politica deve avere sempre come obiettivo l’azione di gover-no, lo scopo di cambiare concretamente le cose in meglio. An-che quando ci si propone di offrire una testimonianza, lo si fa mirando al conseguimento di risultati futuri, utili e tangibi-li. Chi diversamente ritiene di interpellare esclusivamente le coscienze e riformare lo spirito trova un più adeguato ambito nella religione e nel culto. In questo caso il pensiero infatti può essere molto forte; gli effetti sulle persone assolutamente rile-vanti ma, non di rado, tutto ciò può trascurare o addirittura escludere la volontà di incidere nell’oggi perchè la prospettiva può riguardare esclusivamente altro, come il regno di Dio che verrà. L’idealità in questi casi può essere integralmente pro-iettata in un’altra dimensione e nelle esperienze più radicali ciò avviene in forme di totale alienazione rispetto al mondo in cui escatologicamente si è ma al quale non si appartiene, co-me nell’eremitismo e nella clausura. Se il religioso può quin-di giocare su più livelli, il politico invece ne può praticare solo uno, irrimediabilmente terreno e su un unico asse temporale che vede il passato come memoria di esperienza storica, il pre-sente su cui intervenire e il futuro come avanzamento pro-

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gressivo e proiezione del secondo. L’ideale dunque si realizza, in questo caso, nella unica dimensione possibile. Se ciò non avviene, banalmente non succede nulla perchè non vi è altro spazio o storia a cui guardare.

La politica appare dunque per certi versi debole e ciò av-viene anche perchè il suo campo d’azione è certo, quindi ac-certabile. Qualsiasi cosa si annunci o si compia è assoggetta-bile a verifica. Per questa ragione la politica non può aspirare all’infallibilità perchè presto o tardi viene smascherata. Così come non può propagandare certezze dal momento che il suo specifico è il relativo, in quanto agisce per elaborazione e non per rivelazione. La politica è fisiologicamente costretta alla concretezza, a mantenere i piedi saldamente ancorati al suolo. E nel momento in cui condivide e agisce in un contesto demo-cratico si obbliga anche al compromesso, dal momento che le idee e le scelte sono indiscutibili solo nelle teocrazie, i totalita-rismi e le monarchie assolute.

Il rapporto tra idealità ed effettiva praticabilità in politica costituisce quindi, con tutta evidenza, una questione centrale e perennemente aperta. Perchè, comunque la si intenda, ob-bliga a frequentare un confine mobile. Si tratta di una que-stione con cui si devono fare i conti oggi, così come li fecero i partiti socialisti e socialdemocratici a metà del secolo scor-so, quando giunsero a ripudiare, da progressisti, la conser-vazione ma allo stesso tempo la rivoluzione quale strumento utile a produrre le trasformazioni politiche e sociali auspica-te. Allora la scelta comportò l’archiviazione del marxismo e, più in generale, dell’utilizzo di schemi rigidi, basati su un im-pianto ideologico inflessibile. Venne accettato il fatto che fos-se necessario ridimensionare la volontà di produrre imme-diate e radicali trasformazioni per procedere, diversamente, per gradi, mediante l’attuazione di riforme legislative. La svol-ta che i partiti dell’epoca si imposero fu l’atto di fecondazione

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del Riformismo. Essi optarono per quella che possiamo defi-nire la via pragmatica. Si trattò di un passo avanti, almeno tale lo hanno considerato in molti nei decenni successivi. Il rifor-mismo inaugurò una nuova stagione e aprì nuove prospettive per la sinistra. Chi con passione e sicuramente con sofferenza scelse e indicò una strada difficile da praticare e da fare com-prendere non perse però il senso di una visione, non abban-donò la prospettiva ideale, il perseguimento e la realizzazione di una società libera, giusta e fondata sull’eguaglianza. I rifor-misti ritenevano che il mondo non sarebbe mai stato perfetto ma che poteva essere reso meno imperfetto. Più che prospet-tare un sogno, indicavano la strada e un lungo cammino da compiere. Non si facevano illusioni ma si può credere che im-maginassero ottimisticamente un po’ meno imperfezione tra i propri eredi. Perché, oggi, tra questi militano molte persone generose, che con passione dedicano le proprie energie a ser-vizio del bene comune. Ma, allo stesso tempo, non si può ne-gare l’evidenza di fenomeni degenerativi. Non si può non rico-noscere che vi è un problema legato a un diffuso carrierismo fine a sè stesso e che questo, in coerenza con il principio secon-do il quale si promuove la crescita di un mediocre perché uno bravo potrebbe alla fine essere un concorrente temibile, ab-bia portato a una profonda e generalizzata selezione al ribas-so della classe dirigente. Così come non si può non prendere tristemente atto della estrema volatilità delle posizioni. Di un bizzarro modo di intendere la fermezza delle proprie risolu-zioni. Per cui, con il “portare avanti una sola parola” si inten-de banalmente, a prescindere dal merito e da ciò che si è detto sino a un minuto prima, sostenere quella gradita al vincente di turno. I padri del riformismo non immaginavano certo di avere tra i propri eredi 101 indegni parlamentari della Repub-blica italiana. Che nulla hanno a che a vedere con chi il potere mira a ottenerlo per migliorare la società e non come fine a sé

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stesso; chi si adopera per fare vincere un progetto, fortemen-te saldato a una spinta e una motivazione ideale chiara, com-provabile e non a prescindere. Chi le istituzioni le serve e non se ne serve. Per queste ragioni i 101, emblematicamente, so-no i figli illegittimi del riformismo, per nulla portatori di un pragmatismo responsabile. Essi sono i protagonisti di un puro tatticismo senz’anima, il male che la sinistra deve sconfiggere per ripartire davvero.

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L’abito non fa il monaco

Il 27 febbraio 2014, quasi all’unanimità, la direzione nazio-nale del Partito Democratico vota la richiesta di adesione al Partito dei Socialisti Europei. Il 1° marzo, la Presidenza del PSE accoglie la richiesta. Nel giro di pochi giorni viene quindi for-malmente portato a termine un percorso che negli anni passa-ti era stato causa di più di un mal di pancia all’interno del PD. Coerentemente con l’efficientismo che contraddistingue que-sta nuova fase politica appena inaugurata, viene offerta l’occa-sione di toccare con mano cosa voglia dire la politica del “detto, fatto!”. Il tutto accade con una tale velocità e “sobrietà” cele-brativa che chi ritiene si tratti di una svolta storica non fa in tempo nemmeno a comprare una bottiglia di spumante per festeggiare. La nuova stagione prevede che ciò che c’è da fare si faccia e senza indugio si passi subito ad altro. Il punto è che non c’è tempo da perdere, nemmeno per spiegare che l’ingres-so del PSE non è stato un banale adempimento formale; non una questione di collocazione geografia nell’ambito della po-litica europea, realizzato per ragioni di “opportunità” tattica.— Vuoi perchè siamo post ideologici, vuoi perchè, ammet-tiamolo, siamo affetti da analfabetismo sociopolitico seconda-rio, anche solo il pensiero che occorra riflettere suona come un eresia nell’era dei “fatti e non delle parole”. Quella in cui gli

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intellettuali non sono più di moda, tanto che si stenta a sentir-ne la voce e il porre delle domande spesso appaia come cattiva educazione, una trasgressione al nuovo galateo.

Eppure le domande e le risposte servono, oggi più che mai. Chiederci quale sia la direzione verso la quale abbiamo intenzione di muoverci, non affidandoci fatalisticamente al-la buona volontà e la capacità di un leader, non solo è legitti-mo ma urgente. Stabilire con chiarezza quale sia il modello di società che intendiamo promuovere costituisce una questio-ne primaria. E non basta darsi un nome per risolvere il pro-blema. Non è sufficiente collocarsi in un gruppo e nemme-no, per quanto utile e positivo, mettere sul tavolo un paio di azioni di governo che sappiano di sinistra. Ciò che occorre è un progetto organico chiaro, che tenga conto di tutte le com-plessità presenti ma che non si proponga come ambiguo. Ciò di cui abbiamo bisogno è che la sinistra stabilisca e dica con chiarezza cosa vuole fare e agisca di conseguenza. Essere cer-ti che il cosiddetto riformismo progressista non finisca per confondersi con quello della destra per cui garanzie e diritti sono indefinitamente comprimibili in favore di una astratta efficienza di mercato e tutto è privatizzabile, comprese la sa-nità e l’istruzione… Essere chiari, in modo da fugare il dub-bio che quando si dice di premiare il merito non lo si fa con le stesse intenzioni della destra americana che ci parla di “hard love” (amore duro) che non vuol dire altro se non arrangiati. Perchè il merito è di sinistra se si tratta di mettere in sala ope-ratoria solo ed esclusivamente persone competenti. Diversa-mente è di destra quando l’accesso agli studi universitari e al-la specializzazione in chirurgia è consentito solo a chi se la può permettere perchè di famiglia benestante.

Oggi, noi ci troviamo in una situazione di grave difficoltà sociale ed economica che non si risolverà solo e semplicemen-te con una ventata di ottimismo. In questo contesto la sinistra

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non può permettersi di balbettare e certamente non lo può fa-re a proposito del tema dei temi: l’eguaglianza, oggi vera e pro-pria emergenza nazionale.

Nel nostro paese la disuguaglianza sta stabilendo costan-temente nuovi record. L’Italia è al secondo posto in Europa per disparità nella distribuzione dei redditi. Quasi la metà della ricchezza del paese è in mano al 10% delle famiglie ita-liane. I residenti che sono a rischio povertà o esclusione so-ciale hanno raggiunto la quota del 30% della popolazione. Il reddito della fascia più giovane della popolazione negli ultimi 20 anni è sceso del 15%. Abbiamo un sistema giudiziario che per inefficienza tradisce il principio secondo il quale la leg-ge è uguale per tutti. Parliamo di 130 mila processi prescritti in un anno per cui la legge risulta effettivamente uguale solo per tutti coloro che possono permettersi un buono avvocato capace di destreggiarsi in un simile ginepraio. Il sistema so-cio sanitario pubblico prevede disparità di qualità di presta-zione per aree geografiche per cui in alcune regioni abbia-mo garantito un servizio e un’assistenza universale gratuita di buono, se non ottimo livello, e in altre il servizio manife-sta carenze tali da consentire certezza di cure solo a chi è in grado di rivolgersi a strutture private a pagamento. La pres-sione fiscale, formalmente elevata per tutte le categorie, nei fatti costituisce un’ulteriore fattore di diseguaglianza sociale. Per virtù o per necessità abbiamo chi paga quanto previsto, quindi cede cospicua parte del proprio reddito reale al fisco e un’altra parte che si concede, evadendo, un vantaggio e un privilegio illegittimo e illegale.

L’abito non fa il monaco. Essere entrati nel PSE ci dà il di-ritto di presentare una carta d’identità ma chi siamo non lo stabilisce un foglio e allora occorre che ci si qualifichi con la nostra azione. Ciò varrà in Europa e, ancora prima, vale nel nostro paese.

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Le politiche in favore dell’eguaglianza saranno la cartina di tornasole. Ci vorranno parole e azioni chiare negli obietti-vi. Non si tratta di mettere in campo massimalismi o radicali-smi di alcun genere ma non vi è dubbio che si deve intervenire senza titubanza e con assoluta urgenza. Chiarendo subito che oggi siamo in presenza di due riformismi, quello progressista di sinistra e quello liberista di destra, più un terzo, il peggiore. Quello che si camuffa e che a sinistra ci lascia intendere che la contrazione dei diritti, la svalutazione dei salari, le privatizza-zioni indistinte, anche dei servizi fondamentali sono la nostra unica possibilità di salvezza.

Abbiamo bisogno di sinistra, vera, seria, consapevole e responsabile. Ancora di più ne abbiamo bisogno quando ci si trova in una fase recessiva e la sperequazione sociale aumen-ta. Quando si governa sull’onda di un ciclo economico espan-sivo ci si rende meno conto del limite che hanno le politiche ultra liberiste. Questa, ad esempio, fu la fortuna di un lea-der come Tony Blair che intaccò poco del sistema thatcheria-no ma si trovò a governare in un periodo fortunato. Diver-samente, quando ci si trova in una congiuntura sfavorevole, come quella attuale, ogni azione o mancata azione di gover-no produce effetti visibili. Certamente li produce in modo particolarmente sensibile sulle fasce più deboli della popola-zione. Poniamo dunque come priorità lo sviluppo economi-co ma avendo chiaro che l’obiettivo da perseguire è il benes-sere nell’eguaglianza. Lo sviluppo economico fine a sè stesso non costituisce un fine nobile. Come sosteneva Adam Smith in “La Ricchezza delle nazioni”, lo sviluppo economico è un obiettivo desiderabile solo se serve a promuovere lo svilup-po civile. E Adam Smith era un deciso sostenitore del libero mercato senza vincoli. Figuriamoci!

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Rivoluzione democratica

Dal 13 al 15 novembre del 1959, a Bad Godesberg si tenne il Congresso straordinario del Partito socialdemocratico te-desco. L’evento costituì un punto di svolta rispetto alla storia dei partiti socialisti continentali, sino ad allora caratterizzati dall’adesione al marxismo. Nella piattaforma programmatica che venne approvata furono richiamati i valori fondamenta-li di libertà, giustizia e solidarietà. Ciò che però rappresentò il vero punto di svolta fu la dichiarazione in cui si affermò che il socialismo si realizzava soltanto attraverso la democrazia e che la democrazia si compiva attraverso il socialismo. Non si trattò per nulla di qualcosa di scontato. Certamente non lo fu per l’e-poca e, forse può sorprendere, non lo è ancora oggi.

I socialdemocratici tedeschi, senza ambiguità, riconobbero che la democrazia non era solo un mezzo ma anche un fine. In una peculiare ambivalenza, essa era considerata come lo stru-mento idoneo a conseguire l’eguaglianza e, al contempo, con-creta realizzazione di eguaglianza. Fuori da ogni retorica, essi stabilirono che, anche per chi avesse condiviso l’assunto che “il fine giustifica i mezzi”, non vi era nessun fine che giustifi-casse il sacrificio o la compromissione della democrazia, per-ché essa costituiva di per sè stessa un fine. Era forma di gover-no ma anche obiettivo di governo.

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Tuttavia la democrazia, quale forma di governo, come è inevitabile che sia, manifestava e continua a manifestare i propri limiti. Winston Churchill disse: « Molte forme di gover-no sono state sperimentate e saranno sperimentate in questo mondo di peccato e di dolore. Nessuno ha la pretesa che la de-mocrazia sia perfetta o onnisciente. Infatti, è stato detto che la democrazia è la peggior forma di governo a eccezione di tutte le altre forme che sono state sperimentate di volta in volta.».

Churchill, in qualità di Primo ministro britannico negli anni della seconda guerra mondiale, rappresentò simbolica-mente e concretamente uno dei difensori più ostinati della de-mocrazia nel nostro continente. Tuttavia, proprio per il ruolo che svolse non poté fare a meno di toccarne con mano i limi-ti funzionali. Quelli che si rendono particolarmente evidenti in occasione di situazioni di particolare emergenza, come una guerra o una profonda crisi economica, che per essere affron-tate richiedono decisioni rapide e pochi tentennamenti, come quelli che inevitabilmente si presentano in un sistema in cui il potere è garantiscamente distribuito e non affidato a un uomo solo al comando.

Limiti oggettivi che costituiscono il rovescio della meda-glia per chi sostiene che il potere debba essere saggiamente e oculatamente distribuito. Tuttavia limiti innegabili che sto-ricamente hanno portato intere popolazioni, con la speranza o, se si preferisce, con l’illusione di uscire da una situazione di grave difficoltà, ad auto-comprimere gli spazi di democra-zia, sino all’estremo di votare ed eleggere, in una sorta di ba-ratto per il quale si cedeva libertà in cambio di speranza di salvezza, veri e propri dittatori, considerati messianicamente capaci di traghettare il proprio paese e tutti i cittadini fuori dai problemi.

Ciò è quanto, emblematicamente, avvenne nell’Italia che divenne fascista e nella Germania che fu nazista. Dittature che

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si realizzarono e consolidarono in paesi democratici, sulla ba-se di un reale consenso diffuso e, nei casi specifici, con propo-ste e azioni di governo che contemporaneamente guardavano sia agli elettori di destra che a quelli di sinistra. Ciò avvenne in un contesto nel quale la classe politica del tempo aveva perso credibilità e in cui l’ipotetica funzionalità prevalse su conside-razione di carattere valoriale superiore. I risultati ex post sono sotto gli occhi di tutti ma in quegli anni la percezione fu gene-ralmente più che positiva. “I treni viaggiavano in orario” si di-ce ma ciò è con tutta evidenza una banalità. Ma altrettanto ba-nale sarebbe non tenere conto che gli italiani dell’epoca videro realizzare celermente importanti opere e riforme, molto spes-so utili alle classi meno abbienti. Fu creato l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (I.N.P.S.); l’Istituto Nazionale per l’As-sicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (I.N.A.I.L.); l’Istitu-to Autonomo Case Popolari; con Regio Decreto la settimana la-vorativa fu ridotta a 40 ore. Si effettuarono importanti opere di bonifica e furono creati istituti come l’I.R.I. e l’I.M.I.. La can-cellazione della democrazia sembrava avere portato reale effi-cienza. Ciò valse per l’Italia e ancora di più per la Germania. Il risultato parziale fu quindi funzionalmente giudicato positivo. Quello finale fu però inequivocabilmente il disastro e, alla fi-ne il popolo si scoprì antifascista. Ma ciò avvenne alla fine. Non certo nel durante, quando il consenso era effettivo e enorme-mente diffuso. Chi criticava nella fase “positiva” veniva invi-tato a lasciare lavorare il Duce e tacciato di essere un “disfatti-sta”. I fatti e i successi che per un certo periodo si susseguirono resero ai più, se non insopportabile, quantomeno non com-prensibile l’opposizione di personaggi come Piero Gobetti che dichiarava: “Non possiamo stare neutrali, non possiamo rima-nere in benevola attesa, neanche un istante. Mai come oggi c’è stato bisogno di critica libera e coraggiosa”; “Non è lecito guar-dare con fiducia esperimenti che la storia ci addita dannosi”.

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Gobetti, ancora prima che criticare singole azioni, reagiva e contestava il fatto che si fosse di fronte a una deriva politica, civile e culturale. La sua era una critica sostanziale, senza ap-pello, per cui non occorreva attendere che l’albero desse i suoi frutti per giudicare. Se il terreno di cultura era la mancanza di democrazia, la sottrazione di libertà, conseguentemente l’in-giustizia, c’era poco da attendere. Le radici erano marce e l’u-nica attitudine possibile era “l’intransigenza”. Questa era la sola opzione praticabile per Gobetti. Come per i socialdemo-cratici tedeschi, da liberale non vi era spazio per alcuna rivolu-zione che non fosse democratica. Non erano contemplabili ec-cezioni. Ciò valeva ieri e ovviamente vale anche oggi.

Gobetti visse in un contesto assai diverso da quello in cui viviamo noi oggi. Rispetto a quegli anni il quadro è profonda-mente cambiato. L’Italia non è la stessa. Nei paesi dell’Unione europea non sono presenti regimi dittatoriali. Ma ciò non si-gnifica che tutto si muova nella direzione giusta.

L’Europa contemporanea conosce, infatti, al suo inter-no la presenza e l’attivismo di forze nazionaliste, razziste; di movimenti e personaggi dalla forte connotazione populista. Non sempre si tratta di manifestazioni residuali. In alcuni contesti siamo di fronte a fenomeni decisamente allarmanti, vedi il trionfo di questi giorni del Fronte nazionale di Mari-ne Le Pen e quello eclatante dell’Ungheria, membro della UE, che, solo due anni fa ha approvato una costituzione dai con-tenuti smaccatamente fascisti.

La democrazia per sua natura si mostra essere sempre in qualche modo fragile. La sua affermazione non è mai defi-nitiva e per questo necessità di continua tutela e, gobettania-mente, di rinnovata intransigenza verso ciò che la minaccia. In particolare modo verso ciò che forse rappresenta il pericolo maggiore perché si spaccia subdolamente per sua esaltazione ma mira alla sua neutralizzazione: il populismo.

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Il Populista è subdolo perché è un sostenitore dell’idea che la legittimazione del potere politico derivi unicamente dal po-polo e proprio perché pone la questione in questi termini ap-pare come un campione della democrazia, uno del popolo, con il popolo e per il popolo. In realtà egli sfrutta il consenso come se si trattasse di una cambiale in bianco, invece che un man-dato. La legittimazione che gli deriva dai cittadini viene pre-sto assunta come un improprio salvacondotto, utile, in nome dell’“interesse del popolo”, “a legittimare un superamento dei limiti di diritto posti, dalla Costituzione e dalle leggi, all’eser-cizio del potere politico stesso”. Il populista non ha necessaria-mente un legame con una particolare ideologia politica (destra o sinistra). Quel che conta è il rapporto diretto tra il capo cari-smatico e le masse popolari. Ciò che si frappone tra lui e il po-polo è il “male”, ciò che non consente di raggiungere i grandi risultati che diversamente si potrebbero ottenere. I corpi in-termedi di rappresentanza, come i partiti, i sindacati e le cate-gorie, vanno screditati o comunque resi ininfluenti. Se hanno poca cedibilitá, si lavora perché perdano pure quella residua. I politici, tranne lui e i suoi accoliti, sono casta. Le istituzioni democratiche, spesso inutili, se non dannose. Il parlamento, la dimora di vituperabili “schiaccia bottoni”. Le norme e le rego-le, sempre e comunque, a prescindere da puntuale valutazione, “l’inutile burocrazia”, governata da “dannosi burocrati”.

Il populista ha sempre una scusa mai una responsabilità di fronte agli insuccessi. È sempre colpa di qualcun altro se le cose non vanno per il verso giusto. Se poi sono finiti i ca-pri espiatori ci si inventa qualcosa di nuovo su cui deviare l’attenzione. Magari si invadono le Falkand (o Malvinas), co-me fece, nel 1982, il generale Leopoldo Gualtieri, l’allora Pre-sidente della Giunta militare che governava l’Argentina, in quei giorni percorsa da una contestazione civile su larga sca-la e in piena crisi economica.

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Il populista è pericolosissimo perché comunque fonda il suo potere antidemocratico sul consenso e per questa ragio-ne finisce per essere anche demagogico. Inganna, mente e na-sconde la verità per fini elettorali. Quando il popolo realizza tutto ciò, rischia di essere troppo tardi e di trovarsi tra le mani un conto salato da pagare.

Il populista però spesso ha ragione ed è per questo che raccoglie consenso. La sua ragione sta nel fatto che i proble-mi di cui parla esistono davvero, che il cambiamento è effet-tivamente necessario e la classe politica del momento non è credibile. Ha ragione ma il problema è che lui non costituisce la soluzione. Lui è l’ultimo stadio della malattia da cui si deve guarire. Non è la cura ma il peggiore di sintomi.

I seguaci del leader populista, come all’interno di grup-pi numerosi, non sono riducibili a una banale categoria o prototipo. Ci sono persone sincere, opportunisti della pri-ma, seconda o della terza ora. C’è sicuramente un po’ di tut-to. Certamente c’è la fila dei servitori che sperano di ottenere qualcosa dal leader.

Il punto è che la democrazia non è mai qualcosa di defini-tivamente conquistato o realizzato. Non è facile da proteggere perché deve essere cosa viva e non si può chiudere in cassafor-te. La democrazia è una prassi quotidiana, uno stile di vita. È un processo di rivoluzione costante.

Ed è per questo e in questo senso che noi siamo chiamati sempre a essere intransigenti rivoluzionari democratici.

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[p.s.]

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Perchè la democrazia sia praticata è necessario individua-re e applicare gli strumenti più idonei a garantire la rappre-sentanza nonchè la promozione di un contesto ambientale che consenta scelte consapevoli. La democrazia è, tra le altre cose, un sistema di regole certe, utili a impedire la supremazia della “legge del più forte”; a garantire pari opportunità di genere e di censo sia per l’elettorato passivo che per quello attivo, ovve-ro sia per chi si candida che per chi vota.

Gli strumenti che vengono scelti e condivisi sono impor-tanti. Per questo il dibattito sulla definizione di una nuova legge elettorale, nonché degli assetti istituzionali, è questio-ne assai delicata. Una materia per cui è corretto sostenere che non si debba perdere tempo ma è del tutto irresponsabi-le ed estremamente pericoloso procedere in modo frettoloso e approssimativo.

La ricerca del più efficace e migliore equilibrio possibile tra governabilità e rappresentanza non è cosa che si risolve e si può liquidare con qualche battuta. L’obiettivo non può es-sere l’interesse di un singolo partito o di un leader particola-re ma la volontà di consentire agli elettori di scegliere e che queste scelte poi producano azione di governo in un ambito di precise garanzie democratiche che, in prospettiva, prevedano

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la possibilità reale dell’alternanza e non consentano dittature della maggioranza di turno.

Gli strumenti democratici, come una legge elettorale, so-no dunque importanti e incidono direttamente nell’affer-mazione dei principi di uguaglianza e libertà. Se impropria-mente costituiti e utilizzati possono, diversamente, essere sfruttati dalle oligarchie per stravolgere la stessa democrazia e indirizzare gli interessi e il potere in favore di una cerchia ristretta di soggetti.

L’antidoto perchè ciò non accada esiste ed è il dotarsi di chiare e formali regole di diritto, il cui rispetto sia garantito e, assolutamente non meno importanti, regole sociali che crei-no le condizioni utili e necessarie perchè si formino cittadini consapevoli. Quindi, in primo luogo, il riconoscimento di un ruolo centrale alla scuola e all’università pubblica e, non va di-menticato, l’accesso a un’informazione libera e veritiera.

Traducendo il tutto in parole povere: a tutti noi deve essere garantita la possibilità di votare ma, perchè davvero si possa scegliere, occorre che sia chiaro per chi o per cosa si sta votan-do o per cosa ci si sta candidando. Perchè un appuntamento elettorale sia realmente e pienamente un’occasione di eserci-zio democratico è necessario quindi che si realizzino una serie di condizioni, sia per chi deve esprimere il voto sia per chi si candida. Di fronte a una elezione non è importante partecipa-re, non si tratta di un banale evento, ma contare. Si partecipa a un compleanno per esprimere il proprio affetto; si parteci-pa a una manifestazione per confermare un punto di vista. A votare invece si va per misurarsi e decidere non per offrire un banale contributo di immagine. Non per fare una comparsata. Questa va bene in teatro. Le elezioni contengono per loro stes-sa natura elementi spettacolari ma non sono uno show. Chi se lo dimentica o pensa il contrario, rende un pessimo servizio. Si vota e ci si candida per vincere ma si mette in conto di pote-

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re perdere. Il confronto ha senso anche quando la controparte è particolarmente forte e può risultare difficile se non impos-sibile ribaltare la situazione. Ciò vale per i singoli come per gli interi partiti. Se così non fosse, in molti casi si potrebbe rite-nere di sospendere le elezioni ogni qual volta i sondaggi ci in-dicassero una previsione di vittoria certa per qualcuno. Ma ciò evidentemente non ha senso e sarebbe gravissimo. Quel che conta, per questo ci si candida e si vota, è che si realizzi un con-fronto e che il risultato, qualunque esso sia, sia frutto di una scelta. Ovvero che a chi si è candidato sia stata garantita la ne-cessaria agibilità e chi ha votato abbia avuto l’occasione di co-noscere e quindi di decidere consapevolmente. Chi sostiene, di fronte a previsioni di astensionismo, che sia “meglio sempre e comunque votare”, ha dunque ragione nella misura in cui rinnova la necessità e l’opportunità che ciascuno di noi sfrutti realmente la possibilità di scegliere. Ma ciò che conta davvero è che questa possibilitá sia reale. Se così non è, il problema non è l’astensionismo ma il fatto che sia compromesso l’esercizio di un diritto; che non sia garantita la serietà e la correttezza del-la consultazione; che vi siano dubbi, peggio ancora certezze, di vizi e irregolarità. Perché, se un percorso elettorale è falsa-to, l’importante è ripristinare la legalità e la legittimità. Certa-mente non indugiare in proclami demagogici.

Questo vale certamente per gli appuntamenti elettorali san-citi dalla costituzione e dalla legge ma ugualmente, sia da un punto di vista etico che giuridico, per quelli decisi, vedi le pri-marie, e ordinati da soggetti non istituzionali come i partiti.

In questi casi siamo dinanzi a una autodeterminazione di una libera associazione che con il proprio statuto stabilisce quali siano le ragioni e i modi perché un gruppo di perso-ne operi congiuntamente e costituisca comunità di intenti e azione. Se lo statuto è arbitrariamente carta straccia, lo è di conseguenza anche la comunità, ovvero la comunione di in-

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tenti e gli obblighi previsti per i singoli. In altre parole se le regole che governano un partito, comprese quelle statutarie, vengono cambiate siamo nell’ambito della naturale e legitti-ma evoluzione. Se, diversamente, qualcuno si permette siste-maticamente e, soprattutto, impunemente di non rispettarle, siamo alla disgregazione e alla costituzione di qualcos’altro. Il partito non c’è più.

Se gli strumenti di consultazione elettorale si utilizzano in modo scorretto, non per consentire di scegliere ma per fa-re semplicemente campagna elettorale, si produce un enor-me danno. Si crea disaffezione perché il trucco, presto o tar-di, viene scoperto e, insieme alla credibilità, viene a mancare la partecipazione.

Per quanto riguarda il PD, a cui va riconosciuto il merito di essere l’unico partito ad avere usato così diffusamente uno strumento come le primarie, forse è il caso che si proceda a ef-fettuare un po’ di manutenzione regolamentare. Fare elegge-re i segretari di partito, ad esempio, con primarie aperte può essere molto affascinante ma non ha alcun senso. Soprattutto quando queste, in occasioni in cui davvero servirebbero, sem-brano essere svolte di malavoglia, di fretta e furia come per la scelta dei candidati al Parlamento italiano o per nulla, come le candidature alle prossime elezioni europee.

Ma, al di là delle regole, ciò che c’è davvero da sperare è che queste non siano già un ricordo; che non siano trasforate in uno strumento residuale attivabile o disattivabile ad libi-tum e ad personam; che i diversi successi ottenuti in passato non vengano vanificati da una serie di atti sconsiderati e il-legittimi. L’avere impedito, ad esempio, lo svolgimento del-le primarie a Firenze per la scelta del candidato sindaco, nei tempi e nei modi previsti, ha prodotto un serio danno alla credibilità del PD fiorentino. La votazione effettuata dall’As-semblea cittadina del 14 gennaio scorso che negava le prima-

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rie per incoronare quale unico candidato il sindaco uscente, è stata per varie ragioni un errore e, cosa assai più grave, una decisione illegittima, così come decretato dalla Commissio-ne Nazionale di Garanzia.

C’è da augurarsi che certe attitudini stiano costituendo uno scivolone e un cedimento temporaneo. Diversamente il problema non sarà candidarsi nel PD ma altro.

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