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INDICE � EDITORIALE

o Editoriale a cura di Rosaria Carlino pag. 02

� A VOLTE RITORNANO

o Recensione a Metà di Sofia Casini pag. 03

� ARTICOLI

o Intervista di Rosaria Carlino e Didier Natalizi Baldi pag. 05

o Recensione Oriana Fallaci di Bianca Bettacci pag. 08

o Passione Puccini: Parte I – La Bohèmedi Costantino Benini pag. 10

o Fabula ΜΥΘΟΣ di Didier Natalizi Baldi pag. 14

o “Macbeth” My Hands are of Your Colour di Alice Azzara pag. 17

� POESIE

o Poesia “Arezzo” di Sara Badiali pag. 22

o Poesia di Pedro Salinas pag. 23

� CRITTOGRAMMI diEmilio Lorito pag. 24

� IPSE DIXIT pag. 25

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EDITORIALE Carissimi lettori, trascorse le vacanze e quel primo periodo dell'anno scolastico ancora relativamente rilassante, ecco che ci si immerge nel vivo delle lezioni e della vita della scuola, ed è proprio adesso che anche il Dedalus ripren-de e continua a posarsi sui nostri banchi. E come potrebbe non farlo? Bisogna ricordare che questo piccolo grumo di pagine e parole altro non è che l'occasione per qualsiasi stu-dente di esporsi e di esprimersi, di rendere gli altri partecipi di una scoperta o di uno sfogo o di un pensiero, ma è anche il modo in cui gli altri possono osservare se non ad-dirittura lasciarsi stimolare da ciò che vi de-positano gli altri: è uno spazio necessario. Per la realizzazione di questo numero e ov-viamente di quelli successivi ringraziamo la preside, che anche quest'anno ci concede di stampare a scuola; e a proposito di gratitu-dine, un saluto particolare va a Sofia Casini e Tommaso Caperdoni, ai quali auguro di pro-seguire i loro studi con lo stesso coinvolgi-mento con cui abbiamo portato avanti in-sieme questo esemplare progetto. Un altro punto cruciale di questo mese sono le elezioni dei rappresentanti d'istituto, che si terranno il 28: giunta al quinto anno, men-tirei se affermassi di provare la stessa curio-sità ed euforia di quando espressi il mio primo voto del genere: mi sembrava di av-viarmi definitivamente verso una matura-

zione e di avere adesso la possibilità e la ca-pacità di fare una scelta. Non sbagliavo, in-fatti, ma con il trascorrere dei quadrimestri ci si rende conto che mettere una crocetta è solo la prima di una serie di azioni che dob-biamo svolgere per crescere in modo auten-tico; non si deve cioè dare per scontata la nostra rappresentanza, essere per comodità e faciloneria indifferenti a quello che succe-de all'istituto una volta eletti i candidati. In-somma, non trattiamo i progetti e i valori di questa scuola come qualcosa che non ci ri-guardi, o che ci riguardi solo il 28 di ottobre, ma restiamoci intimamente attaccati, per-ché per quanto possa sembrare un banale luogo comune, dobbiamo essere noi i nostri primi portavoce.

Inferno senza fiamme L’indifferenza è inferno senza fiamme. Ricordalo, scegliendo tra mille tinte il tuo fatale grigio; se il mondo è senza senso, solo tua è la col-pa. Aspetta la tua impronta questa palla di cera. (Maria Luisa Spaziani)

Buona lettura,

Rosaria Carlino, a nome di tutta la redazione

DIREZIONE ROSARIA CARLINO – Caporedattrice SARA BADIALI – Impaginatrice

Continuate a scriverci: [email protected]

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A VOLTE RITORNANO “RECENSIONE A METÀ” DI SOFIA CASINI

RECENSIONE A METÀ

di Sofia Casini Molti di voi, notando il mio nome sull’indice, si saran-no forse stupiti che ancora, dopo esser stata “conge-data” una volta per tutte dal Liceo per far spazio a ge-nerazioni con la mente più fresca della mia, mi ostini a IMBRATTARE DI INCHIOSTRO non già I VOSTRI PENSIE-RI1 -ahimè- ma, ben più onestamente, questi poveri fogli. Vi prometto che in futuro non ricapiterà molto spesso, e che potrete leggervi in pace le nuove voci del Dedalus senza interferenze di sorta da parte mia. Pre-ciso subito che ho scritto questo articolo in preda non ad un attacco di nostalgia - è ancora presto - ma a quell’entusiasmo forse un po’ eccessivo e puerile che dicono esser tipico dei giovani e che spero non mi ab-bandoni mai. Durante l’estate mi sono imbattuta in un’opera molto importante e famosa di cui, lo ammet-to, non avevo mai sentito parlare. Mi riferisco a La storia dell’arte di E. H. Gombrich (1909-2001), uno dei più sacrosanti punti di riferimento per chiunque voglia intraprendere studi storico-artistici o semplicemente avvicinarsi ad un mondo, quello dell’arte, di cui magari subisce il fascino senza averne la minima cultura. Ne sono rimasta talmente ammaliata che ho capito di dover assolutamente scrivere qualcosa in proposito, una sorta di recensione che non indagasse il testo nel dettaglio ma che piuttosto restituisse un po’ delle e-mozioni che ho provato nel leggerlo. Il mio scopo non è certo fare propaganda di un libro di cui persone mol-to più qualificate di me hanno abbondantemente par-lato e che ha già venduto copie a sufficienza (ben 17 edizioni e non oso immaginare quante ristampe): mi piacerebbe invece condividere alcune riflessioni che ha fatto scaturire in me, con la speranza che anche chi di voi non lo leggerà mai possa godere del messaggio che vuole trasmettere, per quanto ho compreso io, e che a mio avviso riguarda un po’ tutti i campi del sape-re. La storia dell’arte comparve per la prima volta in In-ghilterra nel 1950, frutto di un intenso lavoro di ricerca scientifica ed editoriale che non si è più fermato fino all’edizione del 1995, l’ultima prima della morte dell’autore. L’inizio della prefazione recita:

1 (nota per i nuovi arrivati) sugli usi e abusi di questa felicissima formula cfr. numeri Dedalus a.s. 2016-2017

<<Questo libro è rivolto a tutti coloro che sentono la necessità di un primo orientamento nel mondo singo-lare e affascinante dell’arte. Vuole mostrare al princi-piante il panorama generale senza confonderlo con i particolari […] dandogli in tal modo la possibilità di consultare libri più specializzati. I lettori che ho avuto soprattutto presenti sono stati i ragazzi e le ragazze al disotto dei vent’anni, quelli che hanno appena scoper-to il mondo dell’arte. Ma credo necessario che i libri per la gioventù debbano essere diversi dai libri per a-dulti solo perché in essi bisogna fare i conti con la più esigente categoria di critici che esista, critici lesti a scoprire ogni traccia di gergo pretenzioso o di senti-mento spurio e ad adombrarsene. So per esperienza che sono questi i difetti passibili di mettere in sospetto per tutto il resto della vita nei riguardi di qualsiasi scritto sull’arte.>> Una propedeutica, dunque, che punta tutto sull’onestà. Lo scopo di Sir Gombrich non è tanto quel-lo di insegnare l’arte quanto di educare all’arte. “Vor-rei che il mio libro aprisse gli occhi piuttosto che scio-gliere le lingue”, confessa. A formare critici ci pensano i testi specialistici: egli vuole che chi legge le sue paro-le si appassioni e si innamori di alcuni tra i più mirabili prodotti dell’intelletto (?) umano che, a ben vedere, sono nati per essere - perdonatemi il linguaggio filoso-ficheggiante - e non per finire in un museo o oggetto di tanti appassionati e variamente interessanti sprolo-qui. Perché il risultato sia onesto anche il linguaggio deve essere tale: non semplicistico o sciatto, come spiega di seguito la prefazione, ma il più chiaro possi-bile, questo sì, a dimostrazione che il virtuosismo non è irrinunciabile - anzi. In appena 500 pagine e altrettante tavole (nell’edizione tascabile del 2008) l’autore ci presenta una lunga e veloce carrellata dei momenti più signifi-cativi della storia dell’arte, dalla preistoria agli ultimi decenni del Novecento, muovendosi non in termini di periodi e correnti ma mettendo in luce la mentalità di ogni epoca, responsabile di esigenze diverse e, di con-

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seguenza, dell’evoluzione del gusto artistico. Se si giu-dica un’opera in base a quanto essa corrisponda al progetto dell’artista, scopriremo che una maschera tribale non ha meno dignità di un dipinto di Raffaello. Questa considerazione di fondo, cui Gombrich tiene molto e che ribadisce più volte sotto varie forme, con-duce direttamente alla domanda: che cos’è l’arte? L’autore ha fatto voto di onestà e non può certo ri-spondere. Tuttavia, ribatte spesso sull’immagine dell’artista come una persona che, proprio come chi deve apparecchiare una tavola a festa, si preoccupa solo che nella sua creazione tutto sia “a posto”. Una definizione estremamente efficace del mistero dell’armonia che domina tanto un tempio greco quan-to un quadro degli astrattisti. Guardando il problema da questo punto di vista, ci rendiamo subito conto della ridicolezza dell’assunto, così radicato in noi a partire dal Rinascimento, che un’opera valga solo in relazione alla sua capacità di imitare fedelmente la natura, e a quanto sia in grado di superare quello che già è stato fatto. Un principio, questo, che ci portereb-be a bollare come indegna tutta l’arte egizia, così fer-mamente attaccata alle sue millenarie regole e deter-minata a rappresentare la realtà non per come si vede, ma per come è. Ogni volta che sorridiamo di fronte alla figurina stilizzata di un uomo, di profilo eppure con tutti gli arti perfettamente visibili,ricordiamoci che senza questa non sarebbe esistito nulla, dalle prime statue greche fino al cubismo e oltre. È inevitabile che una delle caratteristiche essenziali di questo libro, la sintesi, porti con sé il problema di fon-do di dover fare una selezione degli esempi da analiz-zare. Nella maggior parte dei casi,Gombrich si soffer-ma sulle figure più di spicco, diciamo pure più famose, che la storia dell’arte abbia mai contato: non perché tutti lo conoscono Michelangelo è meno bello, con buona pace dello snobismo, “che fa smarrire la pura capacità di godere l’arte e fa definire ‘molto interes-sante’ ciò che in realtà si trova repellente”. C’è sempre una buona ragione per amare un’opera, molto rara-mente per non apprezzarla.

Al termine della lettura forse si sa poco o niente di arte, ma senz’altro si è maggiormente inclini a cercare di comprenderla in ogni sua forma. E visto che essa, per quanto nessuno sia ancora riuscito a definirla in modo convincente, ha probabilmente molto più a che vedere con la sensibilità che non con l’intelligenza, si può dire che la capacità di amarla non ècerto un tra-guardo da nulla. Credo che sia proprio questo il mes-saggio che Gombrich vuole trasmettere: amare una cosa è il primo passo per conoscerla. In uno dei primis-simi articoli che ho scritto per il Dedalus sentenziai esattamente il contrario, che non ci può essere amore senza conoscenza, e ora mi sento chiamata, se non a rinnegarlo, quanto meno a metterlo seriamente in discussione. In mille salse ci è stato e ci sarà detto che è meno faticoso studiare se lo si fa con passione. Io adesso, sull’onda emotiva scatenata da questo libro e consapevole di peccare di scarsa originalità, vorrei ribadirlo; e non lo dico con la certezza di chi parla dall’alto della propria esperienza, ma anzi con la spe-ranza che questo sia vero fino in fondo. Gombrich, al quale certo la passione non mancava, usa spesso il termine “commovente” per definire lo sforzo dell’artista nel creare qualcosa che abbia senso. Sono fortemente convinta che se non commuove - sia nel significatodi “smuovere” che di “emozionare” - anche lo studio più rigoroso sia vano. Il capitolo conclusivo recita così: <<Eccoci, infine, tornati al nostro punto di partenza. Non c’è una cosa che si possa chiamare Arte. Vi sono soltanto gli artisti, uomini e donne, cioè, che hanno avuto il mirabile dono di equilibrare forme e colori fin quando non siano state “a posto” e, cosa ancora più rara, che hanno un’integrità di carattere tale da rifiu-tare ogni soluzione parziale e sono pronti a rinunciare a tutti i facili effetti e a ogni superficiale successo pur di affrontare il travaglio e la fatica necessari a un lavo-ro sincero.>>

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INTERVISTA AI RAPPRESENTANTI D’ISTITUTO DI ROSARIA CARLINO E DIDIER NATALIZI BALDI

INTERVISTA AI CANDIDATI DELLE ELEZIONI DEL PROSSIMO 28 OTTOBRE

Intervistati della Lista 1 “Per aspera ad astra”: Alessandra Bartolucci e Francesco Colia Intervistati della Lista 2 “L'inverno sta arrivando”: Enrico Ferrabuoi e Federica Lelli

I: In tutti e due i vostri programmi si parla di amalga-mare Classico e Musicale. Cosa vuol dire per voi dal punto di vista teorico? Come pensate di realizzarlo dal punto di vista pratico? Lista 1 A.B.: “A livello della formazione i due indirizzi sono affini da certi punti di vista ma diversissimi da altri, sé importante avvicinare queste due scuole, an-che perché il senso di appartenenza allo stesso ceppo culturale è stato perduto durante questi anni e si è visto anche dalle piccolezze: per esempio, in aula ma-gna c'era il pianoforte, ma è stato portato via e quindi, veramente, piccole cose hanno segnato il distacco, poi gli iscritti sono quello che sono, sia al classico che al musicale, e l'indipendenza della nostra scuola è qual-cosa di fondamentale. A livello pratico si potrebbe partire dalla partecipazione del classico a iniziative proposte dal musicale, ad esempio la stagione concer-tistica, che è un'ottima iniziativa e penso che pochi ci siano andati.” F.C.: “Nella pratica non dovrebbero essere definite iniziative “del Musicale” o “del Classico”, ma del Pe-trarca, dell'istituto. Un altro punto di incontro è crolla-to quando è stato eliminato il corso facoltativo di lati-no al Musicale” Lista 2 E.F.: “Noi abbiamo aggiunto nella lista e ab-biamo detto alla propaganda che anche le attività extrascolastiche devono essere organizzate in modo da non sovrapporsi, ad esempio il fatto che il coro sia stato messo lo stesso giorno del corso di teatro ha impedito ad alcuni ragazzi di partecipare ad entrambe le attività, inoltre anche il saggio è stato svolto lo stes-so giorno. Quindi ci vuole più unita a livello delle atti-vità dato che siamo un unico istituto, alla fine faccia-mo materie simili (arte, filosofia...), siamo studenti, probabilmente diversi, ma è una diversità che si può conciliare.” F.L.: “Sì, poi teoricamente siamo molto divisi, anche fisicamente, avendo sedi diverse, e a volte ci sono addirittura delle antipatie verso chi fa il musicale; dal punto di vista pratico potremmo organizzare degli open day in cui chi fa il musicale partecipi di più (so-prattutto durante le visite alle scuole medie). Inoltre l'idea di Enrico era anche di unire il corso di teatro con il coro, fare una sorta di musical . Un altro modo per

amalgamare i due indirizzi potrebbe essere organizza-re gite in comune, come quella a Bibione; se poi que-ste gite vengono fatte in prima è più facile far svilup-pare un legame.” I.: “Parliamo adesso dell'organizzazione delle assem-blee, di come farne con altre scuole” Lista 2 E.F.: “Il nostro progetto ovviamente non pre-vede di fare tutte le assemblee con un'altra scuola, ma almeno una sì. L'assemblea con l'altro istituto non deve essere per forza sportiva come due anni fa per-ché magari non a tutti interessa. La scuola a cui ave-vamo pensato era il liceo Redi. Per quanto riguarda le assemblee individuali vorremmo prepararle in modo più preciso, ad esempio non guardando anche i film che sono stati fatti vedere gli anni passati, viste le la-mentele, e vorremmo anche - non forzatamente - promuovere i gruppi soprattutto nelle prime (noi sia-mo entrambi tutor).” I.: “E riguardo alla politicizzazione delle assemblee scolastiche?” Lista 2 F.L.: “Secondo me è necessario inserire discus-sioni politiche nelle assemblee, ma non a discapito degli altri temi: magari ad alcuni interessano meno e quindi occorre fare gruppi di diversi tipi, mi viene da pensare anche a quello dell'anno scorso sull'hiphop.” Lista 1 F.C.: “Per noi la cosa principale è riscoprire il valore di l'assemblea quindi qual è il suo scopo e cosa è servito per arrivare ad essa infatti tra i primi gruppi ce ne potrebbe essere anche uno che ripropone i dirit-ti dello studente; pensavamo poi a una divisione ora-ria in tre fasce: le prime due ore più impegnative, con conferenze, le due successive più di svago e l'ultima con della musica dal vivo.” A.B.: “Politicizzazione significa far conoscere tutte le strade politiche per dare la possibilità di scegliere con-sapevolmente, ci teniamo molto.” F.C.: “Bisogna formare lo studente come cittadino. Un'assemblea con altre scuole dà frutti solo in parte,

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perché dovrebbero riguardare solo un ambito che le accomuni.” I.: “Come si può ottenere una maggiore partecipazio-ne? Indicate tre degli ambiti extrascolastici che ritene-te fondamentali e su cui punterete.” Lista 1 F.C.: “Le conferenze sono importanti perché permettono di collegare ciò che si apprende sui ban-chi e dai libri con l'attualità di tutti i giorni, con quello che accade nel mondo, per farci capire che quello che succede non è niente di nuovo, magari sono problemi sorti in passato e già risolti. Le conferenze andrebbero fatte sia di mattina che di pomeriggio per dare la pos-sibilità a tutti di prendervi parte, magari anche duran-te le assemblee.” A.B.: “Il cineforum credo sia importantissimo, non andrebbe limitato solo alla sera prima dell'assemblea, ma fatto anche di pomeriggio: c'è chi si è lamentato della scomodità dell'orario (soprattutto chi abita lon-tano); è un punto da valorizzare che può dare spunti di riflessione.” F.C.: “I tornei, perché spesso gli sport vengono messi da parte e invece a nostro avviso costituiscono un collante fondamentale” Lista 2 F.L.: “Conferenze, magari a volte mattutine (sarebbero meglio per chi fa il musicale dato che han-no i rientri pomeridiani), se fossero pomeridiane an-drebbero fatte presto e che riguardino anche temi di attualità.” E.F.: “Il teatro, che come abbiamo detto prima an-drebbe forse messo in più stretta relazione con il co-ro.” F.L.: “Vorremmo sottolineare infine l'importanza dei tornei sportivi, ma non solo, anche particolari, come di scacchi e di briscola.” I: “Il vostro pensiero riguardo ai programmi dei prece-denti rappresentati d'istituto, ovvero: perché gli elet-tori dovrebbero ipoteticamente scegliere voi invece che gli stessi rappresentati dell'anno scorso?” Lista 2 E.F.: “Ci troviamo d'accordo con i precedenti rappresentanti riguardo agli open day e al questiona-rio; dovremmo essere scelti per l'impegno, perché fin dalla prima abbiamo cercato di rappresentare la scuo-la e siamo coscienti di avere questa volontà, si tratta di un impegno che deve essere premiato.”

Lista 1 A.B.: “ C'è una grande continuità, si tratta di portare avanti una rappresentanza che è stata valida, di cui le assemblee costituiscono un chiaro segnale; anche noi vogliamo puntare sulle conferenze, sul que-stionario; la politicizzazione è un punto di continuità-discontinuità. Dovrebbero votare noi per il senso di appartenenza alla scuola. Per me è un piacere dare una mano a questa scuola e trasmettere il piacere con cui la frequento.” I.: “E quanto al progetto Cosmos?” Lista 1 F.C. “Lo vorremmo proseguire ma fare anche delle serate specifiche della scuola, non necessaria-mente come il prom.” Lista 2 E.F.: “Il cosmos non porta grandi fondi né grande unione, quindi riproponiamo una serata su modello del prom di quattro anni fa ma con sponsor e possibilmente con meno spese di allora.” I.: “Si è fatto un gran parlare di scuola ecologica, qual è la vostra idea?” Lista 2 F.L.: La raccolta differenziata deve essere pro-seguita e curata, se una classe non vuole fare la rac-colta differenziata non è obbligata, ma riteniamo im-portante investire sulla sensibilizzazione ambientale. Vorremmo poi acquistare delle fontanelle per l'acqua pulita da bere anche al di fuori dei bagni.” Lista 1 A.B.: “Non la mettiamo tra le nostre priorità e non l'abbiamo presa in considerazione, comunque non esige un grande sforzo da parte degli studenti; le fontanelle non sono necessarie, perché l'acqua è po-tabile e se non si vuole bere quella dei bagni si può comprare a dieci centesimi dalla macchinetta.” I.: “Un esempio di una vostra proposta realistica che può non sembrare tale.” Lista 1 A.B.: “Ci si pone in generale di fare proposte che siano concretizzabili, il candidato non si deve pre-occupare solamente dell'esito delle elezioni, ma piut-tosto della realizzabilità delle sue proposte e di non deludere chi lo ha votato.” F.C.: “Non perché non proponiamo l'impossibile signi-fica che facciamo proposte scontate: hanno anche loro delle difficoltà ad essere attuate, ma sono realiz-

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zabili (ad esempio la biblioteca, la cui catalogazione deve essere velocizzata).” Lista 2 E.F. “Una nostra proposta del genere è quella che riguarda il progetto di attuare una convenzione con un bar per rimediare alle difficoltà con il servizio offerto dal paninaro. La “proposta” deve essere un'i-dea non campata in aria, ma su cui potersi informare, qualcosa alla portata di tutti in cui si possa riuscire con un po' d'impegno.” F.L.: “Riguardo la biblioteca, menzionata dalla Lista 1, va detto che, come rappresentanti degli studenti, pos-siamo fare richieste e spingere in una data direzione, ma non possiamo comunque intervenire direttamen-te.” I.: “Sapreste individuare una proposta dell'altra lista che non approvate?” Lista 2 E.F.: “L'insistere sulla necessità di una pale-stra.” Lista 1 F.C.: “Dato che l'altra lista non ha avanzato grandi proposte o grandi questioni che possano pre-occupare la scuola ora come ora, le loro idee sono tutte realizzabili e facili da mettere in atto, semplici, non essendo andati a fondo delle questioni più con-crete e decisive. Lista 2 E.F.: “Noi però ci siamo attenuti ai punti ripor-tati nel volantino, voi ne avete aggiunti molti altri du-rante la propaganda.” Lista 1 A.B.: “I vostri punti fondamentali non sono essenziali o rilevanti, semplicemente cercano in modo meschino di puntare sui voti dei “primini”: non andate al cuore dei problemi. Una scatola per i bisogni con fazzoletti e assorbenti non è così sorprendente.” Lista 2 F.L.: “Abbiamo semplicemente proposto cose che siamo sicuri di ottenere.” Lista 1 F.C.: “Con le nostre proposte abbiamo comun-que fatto un mezzo passo nel vuoto per toccare temi di diverso spessore pur rimanendo nel realizzabile.” Lista 2 F.L.: “Le proposte che abbiamo avanzato si ba-sano anche su ciò che i ragazzi di prima ci hanno ripor-tato, in quanto tutor, e abbiamo incluso anche le loro richieste nel programma non per raccattare voti, ma per dare rappresentanza anche a loro, che spesso so-no esclusi da una rappresentanza diretta.”

I.: “Quali sono le vostre opinioni e intenzioni riguardo al giornalino, all'orientamento e alla notte dei licei?” Lista 1 F.C.: “Oltre alle classiche iniziative per l'orien-tamento in uscita, si potrebbero invitare professori universitari che vengano a fare una lezione all'assem-blea nella prima fascia sopracitata.” A.B.: “Il giornalino si ricollega al tema della partecipa-zione, abbiamo professori che spingono i ragazzi con capacità a scriverci, è un'ottima cosa: comunque i docenti non devono intervenire direttamente al gior-nalino perché resti soprattutto un mezzo dello stu-dente per manifestare liberamente il proprio pensie-ro.” F.C.: “La notte dei liceo deve portare avanti i punti forti, l'identità e le eccellenze della scuola e valorizzar-li.” Lista 2 F.L. “Il giornalino va fatto ripartire dalle prime, li ho visti molto entusiasti; la notte dei licei è un'otti-ma cosa, partecipata dai più attivi licei d'Italia. Inoltre vorremmo porre l'attenzione su di un corso di prepa-razione al test di medicina per classi quarte e quinte tenuto dai docenti di matematica e fisica.” E.F. “Inoltre si potrebbe anche inserire un piccolo spettacolo teatrale all'interno della notte dei licei.” I.: “Come gestireste il denaro della cassa dello studen-te?” Lista 2 F.L. “Ovviamente lo utilizzeremmo per le no-stre proposte, che hanno dei costi. (Specchi nei bagni, orologi nelle classi...)” Lista 1 F.C.: “Li useremo per le necessità della scuola e per i problemi che sorgeranno, molti dei quali richie-deranno delle spese.” I.: “Perché gli studenti dovrebbero preferire la vostra lista?” Lista 1 F.C.: “I punti toccano tutti i valori fondamentali della scuola e cercano di dare voce a tutti i tipi di a-lunni e potrebbe rendere la scuola un posto più bello, migliore.” Lista 2 E.F.: “A questa scuola serve fantasia e valore, e per rappresentarla serve un grande impegno e una grande passione, passione che noi portiamo avanti da quando abbiamo iniziato questa scuola.”

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RECENSIONE: ORIANA FALLACI DI BIANCA BETTACCI

L’ingannevole libertà Andiam, ché la via lunga ne sospigne

Circa un mese fa, il 13 settembre, i quotidiani na-zionali riportano la notizia del ritrovamento del cadavere di Noemi Durini, sedicenne leccese uccisa crudelmente dal fidanzato poco più grande di lei. Per il mondo, o perlomeno per il nostro Paese, si tratta soltanto dell’ennesima vittima dei sempre più frequenti “delitti d’amore” . Infatti solo in Italia, stando a dati ISTAT, più di 6 milioni di donne hanno subito violenza fisica o ses-suale e tra queste, due ragazze su dieci (di età compresa tra i 15 e i 20 anni) dichiarano di essere state picchiate almeno una volta dal proprio par-tner. Inutile dire che la vicenda appena citata ha riaper-to il dibattito sul concetto che i giovani, anzi giova-nissimi, hanno dell’amore, se di amore si può par-lare. Se solo il 20% delle ragazze vittime di comporta-menti morbosi, come essere impossibilitate a fre-quentare determinate persone o a vestirsi in un certo modo o dover subire il controllo di cellulare e computer, li considera sbagliati e decide che devo-no finire, è chiaro che la percezione affettiva gio-vanile risulta confusa. Le ragioni che spingono alla violenza di genere so-no ovviamente molteplici e vanno ricercate non solo nell’indole del carnefice o nei raptus momen-tanei, ma anche nell’ancestrale concetto di posses-so e superiorità che contraddistingue l’istinto ma-schile. Ciò che induce i ragazzi caratterialmente fragili a sentirsi minacciati dalla crescente emancipazione

femminile e di conseguenza ad utilizzare l’aggressività per ribadire e difendere la propria condizione di superiorità, deve essere ricercato nell’influenza dello stereotipo dell’uomo virile nella cultura moderna. Per milioni di anni la figura del maschio è stata si-nonimo di forza, autonomia e dominio mentre quella femminile di fragilità, mansuetudine e sot-tomissione, poi a partire da un certo momento - mi riferisco alle prime attività femministe dellasecon-da metà del XIX secolo- si è iniziato a parlare di parità dei sessi e la società si è modificata inesora-bilmente. Come poteva un cambiamento così relativamente repentino e radicale non portare con sé conse-guenze difficili da affrontare? Di recente ho avuto modo di leggere “Il sesso inuti-le” di Oriana Fallaci e trovo che il testo, in maniera indiretta, offra numerosi spunti per l’analisi del ruolo della donna. La Fallaci, con la premessa che il gentil sesso, se-condo lei, non dovrebbe costituire né sui libri né altrove un argomento a sé stante “come lo sport, la politica e il bollettino metereologico”, nel 1960 accetta la proposta de «L’Europeo» di scrivere un pezzo riguardo al mondo femminile e in compagnia del fotografo Duilio Pallottelli parte alla volta dei Paesi in cui ritiene che la figura della donna sia concepita in maniera alienante, quindi sbagliata. Si tratta sia degli stati in cui alle donne non è per-messo essere autonome o avere gli stessi diritti degli uomini, sia di quelli in cui hanno preso il so-

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pravvento e hanno dato alla società uno stampo quasi completamente matriarcale. Tra le pagine del romanzo sorto dall’inchiesta gior-nalistica si compie un vero e proprio cammino che, dimenticando pregiudizi e luoghi comuni, ritrae persone autentiche, ogni giorno in lotta per difen-dere o modificare la propria condizione sociale. Il “viaggio intorno alla donna” comprende le mu-sulmane emarginate, le orgogliose e tradizionaliste indiane, le indipendenti matriarche di Kuala Lum-pur , le offese e solitarie cinesi, le devote giappo-nesi, le flebili hawaiane e le americane risolute. Ognuno di questi personaggi è animato, in base alla società in cui vive, da valori morali differenti però rappresenta ugualmente le varie modalità di approccio con il mondo, che caratterizzano anche le donne dei Paesi che non registrano, almeno in apparenza, alcun tipo di divario di genere. Ci sono ragazze in Italia che hanno la possibilità di vivere il più completo tipo di libertà, quello intel-lettuale, ma ci sono allo stesso tempo ragazze che, pur non indossando uno chador o un niqab o un burka, vengono considerate alla stregua di un og-getto della cui conquista ci si può vantare e di cui si può usufruire nel modo e nel tempo che più ci ag-grada.

Spesso la libertà viene confusa con l’identificazione nel gruppo ovvero siamo indotti a credere che fa-cendo o pensando le cose che la maggioranza ri-tiene normali - in questo caso: non mi preoccupo che il mio fidanzato non mi rispetti visto che tutti fanno così- si possa essere più evoluti. La libertà è una conquista molto delicata che ne-cessita prudenza e riflessione. Come durante un lungo viaggio ci affrettiamo im-pulsivamente a raggiungere l’agognato arrivo ma nella foga ci dimentichiamo di quello che stiamo lasciando indietro, così il cammino della libertà deve essere perseguito ma sempre ricordando di non compiacersi per un piccolo risultato, né di perdere completamente di vista altri valori altret-tanto importanti. Leo Valiani scrisse che la libertà consiste nello sfor-zo di cambiare il proprio destino con la ragione e la volontà e io mi permetto di aggiungere che la prin-cipale forma di rispetto, di indipendenza, nasce dentro ciascuno di noi e perciò, prima di esaspera-re un ideale talmente importante, bisogna riflette-re bene su ciò che riteniamo vero e giusto e ado-perarsi per raggiungerlo. La libertà è il mezzo che ci permetterà di muoverci.

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PASSIONE PUCCINI

Passione Puccini: Parte I - La Bohème[scritto da Costantino Benini]

Il 23 settembre 2017, nel corso della rassegna « Passione Puccini » dell’Opera di Firenze, va in scena il nuovo allestimento dell’opera « La Bohème » di Giacomo Puccini, appunto.

Come di consueto, prima di passare al commento della rappresentazione, ritengo necessario scrivere alcuni cenni storici e la trama dell’opera.

Nel 1893, Giacomo Puccini era già molto popolare, quando si mise a lavorare, insieme ai due librettisti Luigi Illica e Giuseppe Giacosa ad un melodramma ispirato al romanzo “Scènes de la vie de Bohème” di Henri Murger, già trasformato dall’autore stesso in un dramma teatrale. Il 18 maggio, Puccini si in-contrò a Milano con un altro giovane compositore, Ruggero Leoncavallo, diventato popolare grazie all’opera “Pagliacci”, da poco andata in scena. Du-rante l’incontro, Puccini comunicò la sua idea, pro-vocando una querelle: Leoncavallo stava infatti lavorando allo stesso soggetto e lo accusò pubbli-camente di scorrettezza. In una lettera pubblicata sul Corriere della Sera, Puccini minimizzò la fac-cenda: avevano semplicemente avuto la stessa idea contemporaneamente, e sarebbe stato il pubblico a giudicare. Ovviamente, la lettera insi-nuava che la sua La Bohème sarebbe riuscita me-glio di quella di Leonbestia, come il compositore

chiamava il rivale. Effettivamente le cose andarono così: il 1 febbraio 1896 l’opera pucciniana andò in scena a Torino diretta dal giovane Arturo Toscanini con enorme successo (tutt’oggi è l’opera più poplare del compositore), grazie anche al soggetto innovativo, mentre la versione di Leoncavallo, adata in scena l’anno successivo, cadde subito nell’oblio.

Il Quadro I è ambientato in una soffitta parigina, dove abitano quattro bohémiens (giovani artisti squattrinati che vivono alla giornata). bre del 1830. Due di loro, il pittore Marcello (bartono) e il poeta Rodolfo (tenore) si lamentano del freddo. In particolare, Marcello paragona il ghiacio che si sta impossedendo di lui ad una sua vechia fiamma che l’ha abbandonato, Musetta (s

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UCCINI DI COSTANTINO BENINI

La Bohème

» dell’Opera di Firenze, va in scena il

Come di consueto, prima di passare al commento della rappresentazione, ritengo necessario scrivere

chiamava il rivale. Effettivamente le cose andarono così: il 1 febbraio 1896 l’opera pucciniana andò in scena a Torino diretta dal giovane Arturo Toscanini con enorme successo (tutt’oggi è l’opera più popo-lare del compositore), grazie anche al soggetto innovativo, mentre la versione di Leoncavallo, an-

n scena l’anno successivo, cadde subito

Il Quadro I è ambientato in una soffitta parigina, dove abitano quattro bohémiens (giovani artisti squattrinati che vivono alla giornata). Èil 24 dicem-bre del 1830. Due di loro, il pittore Marcello (bari-tono) e il poeta Rodolfo (tenore) si lamentano del freddo. In particolare, Marcello paragona il ghiac-cio che si sta impossedendo di lui ad una sua vec-chia fiamma che l’ha abbandonato, Musetta (so-

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prano). I due partono con una serie di metafore sull’amore (quelle di Marcello in particolare sono di carattere misogino). Alla fine decidono di accen-dere un fuoco. Marcello sta per bruciare una sedia, ma Rodolfo lo ferma: meglio bruciare il dramma a cui sta lavorando. Mentre parte del dramma bru-cia, i due vengono raggiunti dal filosofo Colline (basso). I tre finiscono di buttare le pagine del dramma nel fuoco, che però dura poco. Colline e Marcello se la prendono scherzosamente con Ro-dolfo, ma vengono interrotti dal musicista Schau-nard (baritono), che porta molte provviste e dena-ro, che, come lui racconta, si è guadagnato suo-nando per tre giorni di seguito per Lorito, un vec-chio pappagallo di un ricco lord inglese, fino alla morte dell’animale. Gli altri tre si avventano sulle provviste, ma vengono fermati da Schaunard, che gli intima di non toccare niente, poiché la sera del-la vigilia è necessario mangiare fuori, soprattutto adesso che hanno dei soldi. I tre optano per il Caffè Momus, un ristorante popolare che si trova al Quartiere Latino. In quel momento qualcuno bussa alla soffitta: è Benoît (basso buffo), il padrone di casa, venuto a riscuotere l’affitto del trimestre. I quattro lo fanno accomodare e bere. Approfittan-do dell’ebbrezza causata dall’alcool, dirottano la conversazione sulle proprie preferenze in fatto di donne, dicendo che l’hanno visto una sera appar-tarsi con una ragazza. Benoît ci ride sopra. Durante la conversazione confessa di avere una moglie. I bohèmiens fingono di scandalizzarsi e lo cacciano fuori senza pagare, poi si accingono a partire. Ro-dolfo resta un attimo da solo per finire di lavorare all’articolo di fondo de “Il Castoro”, la rivista per cui lavora, ma non gli vengono idee. Mentre sta ragionando, bussano alla porta: è una giovane ra-gazza che abita in una camera al piano inferiore, cui si è spento il lume. Rodolfo la fa entrare, ma la ragazza si sente male e sviene. Il poeta la fa acco-modare, preso dal panico. La giovane si riprende e Rodolfo le accende il lume. Lei ringrazia e fa per uscire, ma si ferma sull’uscio, accorgendosi di aver perso la chiave. La corrente le spenge nuovamente il lume. Il poeta la raggiunge per riaccenderlo, ma si spenge anche il suo lume. Nel buio i due si met-tono a cercarla. Rodolfo la trova, ma se la infila in tasca, deciso a rimanere con la ragazza, cui si avvi-cina fino a sfiorarle la mano. Sentendola congelata, il poeta la invita a riscaldarsi: tanto è inutile cerca-re al buio. Una volta che la giovane si è accomoda-

ta, lui si presenta, invitandola a fare lo stesso (“Che gelida manina”). La ragazza si presenta: si chiama Lucia, anche se tutti, per un motivo a lei ignoto, la chiamano Mimì (soprano). Vive da sola in una stanzetta bianca al piano di sotto ed è una ricama-trice di fiori, che passa il tempo aspettando la pri-mavera (“Sì. Mi chiamano Mimì”). I due vengono interrotti dalla voce degli altri tre, che chiamano Rodolfo a gran voce. Il poeta li rassicura, dicendo che li raggiungerà a breve. Gli altri si allontanano. Rimasti soli, Rodolfo dichiara il suo amore, che è ricambiato. Mimì gli chiede se può venire con loro e il poeta accetta. I due si allontanano, inneggian-do all’amore (“O soave fanciulla”).

Il Quadro II è ambientato nel Quartiere Latino, che è affollato di venditori, fra cui Parpignol (tenore), giocattolaio che attira a sé una gran quantità di bambini, contro il volere delle madri. Schaunard si compra un corno francese, mentre Rodolfo regala una cuffietta rosa a Mimì, che l’ha sempre deside-rata. I cinque arrivano al Momus, dove Rodolfo presenta Mimì agli altri. Marcello si mostra sprez-zante, ma Rodolfo spiega che non ce l’ha con lei, ma con Musetta. Mentre i ragazzi ridono e scher-zano, arriva proprio Musetta, seguita dal suo vec-chio, ma ricchissimo amante, Alcindoro (basso buf-fo), che lei tratta come un cane. Marcello si incupi-sce, ma fa finta di nulla. Musetta lo vede e fa di tutto per attirare la sua attenzione, non riuscendo-ci. Mimì è l’unica a capire che lei è ancora innamo-rata del pittore. Alla fine Musetta decide di cantare una canzone estremamente provocante (“Quando men vo”), che scandalizza Alcindoro e mette a dura prova Marcello, che ancora non cede. Allora Mu-setta finge di avere male ad un piede, intimando al vecchio di andare a comprarle delle scarpe più lar-ghe. Alcindoro va subito, lasciando la ragazza sola. A quel punto Marcello cede e si riaccende l’amore tra i due. L’idillio è interrotto dall’arrivo del conto, estremamente caro. I bohémiens non sanno come fare, ma Musetta prende il conto e lo fa unire con quello suo e di Alcindoro, poi i sei si allontanano, mentre Alcindoro torna e, vedendo il prezzo da pagare, sviene.

Il Quadro III è ambientato alla dogana d’Enfer, da-vanti alla quale si trova il Cabaret di cui Marcello

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sta dipingendo la facciata. Mimì si avvicina al do-ganiere chiedendo indicazioni per il cabaret stesso. Il Sergente glielo indica. In quel momento esce una donna, cui Mimì chiede di chiamare Marcello, che esce e, vedendo la ragazza, la invita ad entrare, ma lei rifiuta, sapendo che lì dentro c’è Rodolfo. Allora confessa di essere disperata: Rodolfo è estrema-mente geloso, e qualsiasi cosa che lei faccia lo met-te in agitazione, le grida contro. Perfino quando lei dorme, lui cerca di scoprire cosa sta sognando. Marcello le consiglia di vivere il loro amore più alla leggera, come fa lui con Musetta: è per questo che la loro relazione è forte. Mimì dice che lei non è adatta e che lei e Rodolfo hanno più volte provato a lasciarsi, ma invano. Marcello guarda nella lo-canda e si accorge che Rodolfo (arrivato da lui do-po una litigata con Mimì) si sta svegliando e lo sta cercando, allora dice a Mimì di andare via. Lei si allontana, ma la curiosità è più forte e si nasconde dietro un albero per origliare. Rodolfo esce e con-fida a Marcello di voler lasciare Mimì, poiché lei è una civetta che tenta di sedurre tutti gli uomini che incontra. Il pittore capisce che l’amico non è since-ro, allora Rodolfo rivela la verità: è profondamente innamorato di Mimì, ma lei è gravemente malata di tisi e probabilmente è condannata e lui non è nelle condizioni di poterla aiutare. Mimì apre gli occhi e, di fronte alla prospettiva della morte, piange silenziosamente. Un violento colpo di tosse tradisce la sua presenza. Rodolfo le corre incontro, invitandola ad entrare, ma lei rifiuta. In quel mo-mento si sente la risata di Musetta, che sta parlan-do con un signore. Marcello si fionda dentro, preso dalla gelosia. Rimasta sola con lui, Mimì dà il suo addio Rodolfo: tornerà a vivere da sola. Chiede al poeta di radunare le poche cose che ha lasciato da lui e di fargliele avere. Se vuole può tenere la cuf-fietta rosa, che si trova sotto al guanciale, in ricor-do del loro amore (“D’onde lieta uscì”). I due si dicono addio, ma decidono di lasciarsi in primave-ra, perché stare da soli al freddo invernale sarebbe terribile. In quel momento escono, litigando, Mar-cello e Musetta, che rivendica la sua libertà sessua-le, rinfacciandogli di essere un amante, non suo marito. Le due coppie, alla fine, si separano.

Il Quadro IV è ambientato nella soffitta. Marcello e Rodolfo, affranti dal dolore, si punzecchiano a vi-cenda, e se la prendono con i loro strumenti di la-voro, struggendosi nella nostalgia del loro amore (“O Mimì, tu più non torni”). Entrano Schaunard e

Colline col cibo, riportando il buon umore. I quat-tro, mangiando, fingono di essere nobili, ridendo e scherzando, ma mentre Colline e Schaunard fingo-no di sfidarsi a duello per un’immaginaria dama, entra improvvisamente Musetta: mentre passeg-giava ha trovato Mimì morente, che si stava diri-gendo da loro. Mentre salivano le scale, la ragazza si è sentita male. Rodolfo e Marcello si precipitano a prenderla e la mettono a letto. Mimì si riprende, e rassicura Marcello sui sentimenti di Musetta, che si toglie gli orecchini e li dà a Marcello, perché li venda, chiami un dottore e prenda un cordiale. Lui si allontana, mentre Musetta va a prendere un manicotto, per assecondare un desiderio appena espresso da Mimì (che sta dormendo), forse l’ultimo. Colline dà il suo addio al suo pastrano, che va a vendere (“Vecchia zimarra senti”) e dice a Schaunard di lasciare i due amanti soli. Mimì apre gli occhi: voleva restare sola con Rodolfo, cui rivela un’ultima volta i suoi sentimenti e ricorda con lui la notte del loro primo incontro (“Sono andati? Fin-gevo di dormire”). Musetta torna col manicotto e Marcello con il cordiale. Mimì li ringrazia e chiude gli occhi. Musetta prega per la guarigione della ragazza (“Madonna benedetta”), ma Schaunard per primo si accorge che è troppo tardi: Mimì è morta. Rodolfo è l’ultimo ad accorgersene, e si ac-cascia sul cadavere della fanciulla, invocando, inu-tilmente, il suo nome.

Il cast è stato eccellente.

Il giovanissimo soprano kazako Maria Mudryak è stata una Mimì perfetta, molto delicata ed elegan-te, anche se a tratti un po’ troppo civettuola, più simile a Musetta. Molto intensa in “Mi chiamano Mimì”, e molto commovente nell’aria “D’onde lieta uscì”.

Il tenore Matteo Lippi è stato un Rodolfo fantasti-co, appassionato, un po’ malinconico, anche se un po’ debole negli acuti. Molto bella la sua interpre-tazione di “Che gelida manina”.

Il baritono Benjamin Cho è stato un Marcello molto equilibrato nel mostrare gli aspetti del suo perso-naggio: triste, ma appassionato, impulsivo, a tratti rabbioso.

Il soprano Angela Nisi è stata una Musetta molto particolare: ha dato poco spazio al suo lato civet-

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tuolo (sebbene sia emerso tutto in “Quando men vo”), per dare più spazio al suo lato romantico e delicato (emerso nella brevissima preghiera “Ma-donna benedetta”)

Il basso GoranJurič è stato un Colline molto buono. È riuscito ad evidenziare come, sebbene in un con-testo tragico, l’aria “Vecchia zimarra senti”, è tutto sommato un’aria dal testo comico, pur mantenen-do il suo patetismo. Purtroppo il suo personaggio, se non fosse per quest’aria, non permetterebbe all’interprete di esibire le sue effettive doti.

Deludenti i bassi buffi, William Hernandez e Ales-sandro Calamai, che hanno reso dei personaggi seri Benoît e Alcindoro, che dovrebbero essere invece personaggi estremamente comici.

Francesco Ivan Ciampa è stato un ottimo direttore, capace di rendere il lato comico e quello tragico della partitura, in particolare nel quartetto (o me-glio, nel doppio duetto) alla fine del Quadro III. Tuttavia, in alcuni punti (e più evidentemente nel

finale) ha dato un’interpretazione un po’ troppo personale, che strideva con le indicazioni del com-positore.

Il regista Bruno Ravella è stato molto bravo nel rendere la capacità di Puccini di musicare le “picco-le cose”, con una regia minimalista, ma efficace, anche se a tratti troppo seria per quello che avreb-be dovuto essere. Interessante la scelta di ambien-tare il dramma in un’epoca non definita, perfetta-mente adattabile al XIX secolo come ai giorni no-stri, come se la storia fosse attuale e rivolta a tutti.

Molto bella e suggestiva la scenografia minimalista di Tiziano Santi, che rifletteva perfettamente lo stato d’animo dei personaggi.

Insomma, a parte alcune piccole pecche, è stato un gran bello spettacolo che auguro a tutti di vedere, un giorno.

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ΜΥΘΟΣ DI DIDIER NATALIZI BALDI

ΜΥΘΟΣ

<<Alò, i cartoni son finiti, s’ Iddio vole, mo’ se va a letto e de corsa eh!>> mi disse con usato af-fetto e consueta foga mia nonna, <<Ma non-na!...>>, mentre tentavo di pensare ad un qual-che argomento da opporre, vidi che il nonno non si era ancora levato dal divano e anzi, cosa assai strana a vedersi, si era ancora più aggrap-pato ai suoi braccioli, come se stesse per iniziare la partita della Fiorentina o, che so, della nazio-nale; così dissi con tono falsamente innocente <<Nonno, te tra eni qui?>>. Non si voltò su-bito, ma la TV ebbe il tempo di gracchiare qual-cosa, di far vedere strane immagini ed egli di-venne un fiume in piena: <<Therewas a ship! No, quella era un’altra cosa... - avevo gli occhi spalancati, e lui riprese - Tanto tempo fa, figlio-lo, c’era un paesino, pochi cristiani eh, mica tan-ti, si chiamava Buca Quadrata, che nome eh! Tutto costruito, neanche a dirlo, in una depres-sione, forse alluvionale, forse vulcanica, abitata fin dai primordi della civiltà (si diceva che fosse dapprima usata come fossa biologica… mah!). Ebbene nei mille secoli passati erano arrivati i Greci, e dopo di loro i Romani, quindi le guerre civili e gli Unni, ah! gli Unni, poi l’impero si era dissolto pian piano, senza botti, senza follie né guerre, un impero che tante ne aveva passato e a tante battaglie ormai era usato, vennero i Bi-zantini e i Longobardi, i Goti e i Visigoti, ma gli abitanti di quel simpatico villaggio non ne senti-rono il passaggio: vivevano protetti nelle loro case, dai tetti rossi, dai muri gialli e dalle fon-damenta marroni, senza che il mondo all’esterno vi penetrasse troppo, giusto qualche tonnellata di merci, milione di sesterzi, centinaia di libri, cose così, da poco. Quelle poche anime avevano sempre deciso tutto insieme, che si fosse trattato di disinfestare la palude che la Buca, questo il nome più affettuoso, era diven-tata dopo che Giove aveva pensato bene di far

piovere, oppure dell’introduzione di quei culti bacchici, (Eh no eh! Gabrielino l’aiva letta bene αἰ Βάκχαι, mica se faceva fregare così semplice eh!). Insomma, Buca Quadrata aveva, come tut-te le città del mondo, le sue tradizioni di chiusu-ra incondizionata all’esterno, i suoi contatti col ricco e il bello ma anche i suoi capopopolo (la democrazia non esiste manco tra venti anime!) e nell’anno MDCCCLVI dalla fondazione, nel me-se di Raccoltadellemelagranile dopo che si ra-dunarono e divennero radunati, alzandosi in mezzo a loro prese la parola Beppe dalla lingua veloce: “Bucaioli! Noi fummo già liberi figli d’Iperide dall’ampio bacino tortuoso e di Man-gina dai bei crini roventi d’aureo ammanto co-verti, noi abbiam combattuto con zanzare e formiche, con pernici, olivi e pure con gli aspri platani, a volte perdendo ma mai gettando lo scudo, ben piantati invece per terra. Abbiam tollerato quell’imper di pastori, che da noi passò per liberarsi dal fango che Lucilio gettò, abbiam versato tributi e garantito le schiere e mai prima d’ora abbiam capito d’esser diversi, inconcilia-bilmente diversi, infinitamente diversi, immen-samente diversi, diversi, diversi, diversi…” Si stava perdendo dietro la sua stessa foga, la quale invero meriterebbe una spiegazione… Quando tutta Europa e non solo si chiudeva in castelli e i signori ingrassavano con pingui vac-che e l’imperatore… e l’imperatore non contava più dei rappresentanti di Istituto… ecco allora anche Buca Quadrata si riunì per decidere il da farsi, i pareri tra i politici furono molti ma vinse l’idea di costruire una torre che comprendesse tutto il centro abitato, lasciando fuori solo i ser-vi, le donne e i bambini (tanto mica votavano!). La costruzione iniziò, impiegando solo servi, donne e bambini ma poco dopo, del tutto in-spiegabilmente, la torre crollò su sé stessa ucci-dendo anche diversi strateghi, probuli e giudici-

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vespe. In quel momento Poggio Rotondo, il pae-sino vicino che già da tempo aveva ampliato i propri confini includendo i potentati di Monte-collina, Buuu e Pianura Vulcanica, oltre al prin-cipato di Vaiorimani, decise che era giunto il momento di appropriarsi del florido quanto ric-co, quanto colto, quanto pieno di zanzare, pae-se di Buca Quadrata. Il potente esercito cittadi-no non poté far fronte all’invasione imminente e Moro d’Ascia, capo delle armate vittoriose, entrò sfilando indisturbato tra l’aspra palizzata di paglia, mentre al parlamento si discuteva se una capigliatura mossa avrebbe generato più panico nei nemici che le classiche triple crocchie dei giovani bucaioli. I secoli che seguirono furo-no di alti e bassi, pian piano i signori ereditari di Poggio Collina concedettero la cittadinanza agli uomini della Buca e con essa il diritto di parola e scorreggia (non già quello di scatarro chiara-mente, il quale era riservato ai proprietari di almeno tre alberghi in Via della Vittoria). Le ten-sioni sembrarono allentarsi, forse anche perché gli idiomi parlati nelle due zone erano tanto di-versi che per intendersi non era necessario solo un interprete ma almeno

proprio a stare bassi eh! Il grande problema che generò lo scontro fu quando, raccolti tanti e va-lorosi interpreti, cumulativamente con più di 12 ore di stage alle spalle (e t’assicuro che la scuola lavoro sulle spalle è pesa di molto!), un amba-sciatore di Buca si recò, dopo quasi 154,35periodico anni nell’inospitale regione di Poggio Rotondo. Quello che vide stordì tanto i suoi occhi che non seppe significarlo per verba: non rovi cupi di spine rivolte ad ogni pia anima che li avvicinasse, non feci sparse per tutta la contea con l’ordine e la maestria che solo un lama coi suoi sputi poteva eguagliare, nemmeno persone che discutevano tirandosi pugni e schiaffi, ma rigogliosi verdi prati fioriti (che pa-revan presi da Windows), panchine e olivi e fiori in ogni cortile di ogni scuola, le persone ad in-

neggiare al loro Re, magnanimo e illuminato; davvero pareva che quell’abietto loco fosse l’immagine personificata del mal governo della monarchia. “Ah! Gli stolti non conoscono la luce della democrazia, – Disse Mario l’ambasciatore, esperto diplomatico cresciuto tra risse e brisco-le al bar Crepuscolo - le meravigliose lotte inte-stine, i vermi che si infiltrano, i più stolti che comandano, il disprezzo per la bontà e la gene-rosità, l’amore per la perversione! Qui non al-berga quest’aurea semenza che l’uom solo sep-pe generare”. Ma ciò che lo ferì profondamente nell’orgoglio fu saper che i soldi pazientemente raccolti da anni d’usura nella Buca venivano spesi indistintamente per tutto il regno di Pog-gio! Fu questa goccia a far traboccare il vaso, a far parlare così aspramente Beppe dal pelo irsuto: “Diversi, diversi… Insomma! Siamo inconcilia-bilmente – “che fa ricomincia?!” chiese preoc-cupato Luca – dissimili (SCANDITO) da quei buz-zurri di Poggio Rotondo: tanto per cominciare è la tettonica stessa a dircelo, insieme alla topo-logia naturalmente, vien poi la lingua, così soa-ve, leggera, sibillina, strisciante la nostra quanto grossa, possente, adatta per battere il tamburo la loro; è infine il denaro a porre la pietra finale sul coperchio della pentola del diavolo che non fa i coperchi della pentola del diavolo…” s’era incantato un’altra volta e in questa occasione non riuscì neppure a terminare il discorso; non-dimeno la folla era in giubilo: donne che si strappavano il reggiseno, uomini le mutande, vecchie le calze, vecchi il pannolone e persino i bambini il ciuccio! Tutte le ben ventitré anime con diritto di voto di Buca Quadrata avevano deciso: INDIPENDENZA! Fu organizzato in fretta e in furia un referendum dal valore categorico e im-perativo per tutti: “Indipendereed… indipende-remo!” era il grido di battaglia dei bucaioli. Non v’erano schede né matite, si votava svuotando e feci in una o nell’altra buca, cosicché chi aveva diritto di cantare con Benigni poteva produrre una ben più grande influenza sull’esito delle vo-tazioni. Neanche a dirlo il Sì vinse 4 a 3. Un così ampio margine e una sì grande partecipazione al voto dettero a Beppe d’Acacia, alter ego Ge-

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orge Washington, l’ardire di proclamare irrevo-cabilmente l’Indipendenza: “Referendari di cie-lo, dell’aria, dell’acqua, del mare, di terra e di sotterra, camice sporche di mota della rivolu-zione e delle milizie che al momento non ab-biamo. Un’ora segnata dallo sterco batte ineso-rabilmente alle nostre porte di paglia: la dichia-razione d’indipendenza è stata consegnata, nel senso che ora gli si manda eh!, agli ambasciatori di Poggio e Rotondo!” (ancora non aveva mica capito che era un paese solo) le grida di gioia si alzarono alte quanto alto si alzano le alte altane altere degli alti… decreti legge: “Finalmente Li-beri!”. Chiaramente, quando la decisione fu re-capitata dopo nove duri anni di traduzione, al governo centrale, l’emozione non fu altrettanto accesa, molto di più! Ci furono feste di giorno e di notte: finalmente si erano liberati di quella buca, ehm, palla al piede! Vennero poi tempi peggiori: si venne a sapere che i Saraceni avrebbero devastato l’area, di-struggendo ogni forma di civiltà e di gioia. Il per-fido Re di Poggio Rotondo allora volle chiamare gli ex amici di Buca Quadrata per offrir loro la sua protezione dalla minaccia imminente; ma i

saggi bucaioli non cedettero, disprezzarono l’inumana generosità di quell’uomo oscuro e si prepararono a resistere all’assalto da soli, co-stasse quel che costasse! Si fortificarono le mu-ra di paglia, si accumulò la paglia, ci si armò di paglia, si verificò sé pesasse più un chil di piom-bo o uno di paglia e si attese il nemico con una pagliuzza in bocca. Melmelchimkavazarotmika-vriot, VII re della dinastia dei Cazzarrottam-mammetereezzala non si fece attendere e si diresse dritto verso Poggio Rotondo, forte dei molti alleati venuti dai paesi limitrofi, i poveri mussulmani dopo trentasette secondi di com-battimento capirono di non avere scampo e si diressero verso Buca Quadrata mettendola in men che non si dica a ferro e fuoco. Nulla più restava di quegli splendidi monumenti di sterco e, cosa mirabile a dirsi, nemmeno un grammo, altro che chilo, di paglia! Tutto era finito, finito, finito…>> Il nonno si addormentò distrutto, la nonna mi intimò di andare a letto ma io non potei in alcun modo prender sonno perché, benché la stranezza e talora bassezza dell’eloquio, la storia aveva dato da pensare… Ὁ μύθος δελοῖ ὁτι...no, questo sta a voi!

Didier NataliziBaldi

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MY HANDS ARE OF YOUR COLOUR DI ALICE AZZARA

MY HANDS ARE OF YOUR COLOUR Le malattie mentali nell'opera di Macbeth, in particolare nel personaggio di Lady Macbeth e nell'opera shake-

speariana in generale. “They met me in the day of success...” È con queste parole che William ci presenta uno dei più realistici, sfaccettati e meglio caratterizzati del suo uni-verso. Senza dubbio, uno dei più umani ed incisivi.

MarziyaDavudova e Abbas MirzaSharifzade interpretano Lady Macbeth e Macbeth nel 1935

Lady Macbeth, malvagia e fredda signora di Inverness, (che nella scena in cui compare per la prima volta non parla con sue parole, ma attraverso la lettera scrittale dal marito), è da considerare la reale artefice dell'a-troce delitto contro re Duncan: è lei l'elemento forte della coppia, mentre Macbeth è afflitto da mille dub-bi, provenienti da una (pressoché) salda moralità, mi-nata dall'ambizione messa in lui dalla profezia delle Tre Streghe. Macbeth all'inizio rifiuta il piano minuziosamente pre-parato dalla moglie (in cui il coniuge avrebbe dovuto pugnalare il sovrano, per poi far ricadere la colpa sulle guardie poste fuori dalla sua stanza), preoccupato per le sorti della corona e del paese stesso, ma soprattut-to dal fardello che sarebbe costretto a sopportare sulla sua coscienza; in seguito, ammaliato dalle pro-messe della moglie e dalla sete di potere, accetta non solo il piano della donna, ma addirittura di essere il diretto esecutore del delitto. Ma ecco che appena

compiuto l'omicidio, rimane talmente sconvolto dalle sue azioni da rischiare di perdere completamente la stabilità mentale; e così colpito da non riuscire nem-meno a seguire il piano stabilito, portando con sé i pugnali insanguinati senza neanche rendersene conto, e costringendo la Lady a riportarli sul luogo del delitto e ad imbrattare i vestiti delle guardie. Nell'evolversi della vicenda Macbeth è sempre più tormentato dalla consapevolezza dell'omicidio e dall'ambigua profezia delle Tre Streghe, tanto che comincia visibilmente a perdere contatto con la real-tà, iniziando a vedere addirittura il fantasma di Ban-quo, del cui omicidio è anche responsabile, poiché la profezia riguardava anche lui ed i suoi figli. Anche in questo momento, è la moglie che prende in mano la situazione: durante un banchetto, mentre il marito appare in preda al delirio causato dalla visione dello spirito, tenta di salvare le apparenze, affermando che il sovrano non è nuovo a tali comportamenti.

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Il nuovo re riesce a malapena a trovare conforto rifu-giandosi nuovamente nel mondo del soprannaturale e consultando le Tre Streghe, le quali gli rivelano una nuova profezia, apparentemente favorevole, ma che gli si rivelerà fatale negli ultimi attimi di vita: Macbeth morirà mentre la profezia si compie in tutte le sue parti, rendendolo quasi lo zimbello del destino (quel ''fortune'sfool'' con cui si definisce anche Romeo nella sua opera), che per i suoi sogni di gloria ha lasciato indietro il proprio lato umano. Lady Macbeth, fredda e calcolatrice, riesce a manipo-lare a suo piacimento l'animo del marito, riuscendo addirittura a non macchiarsi le mani lei stessa del cri-mine fisico; per tutta la vicenda mantiene il suo com-portamento altero ed indifferente ai sentimenti, senza che alcuna delle terribili violenze la scuota.

Ma l'inizio dell'atto V sembra segnare un profondo cambiamento addirittura nel suo altero animo: da un discorso fra un medico ed una dama di compagnia apprendiamo che la donna sta vagando per le sue stanze nel cuore della notte, in preda al sonnambuli-smo, una notte oscura e accusatrice, nella quale com-prende finalmente di essere artefice dell'uccisione di un altro essere umano. E tale notte reale non è molto diversa da quella metaforica che si perpetuerà nel suo animo a partire da questo momento, trascinandola sempre di più in un vortice di follia totale, a causa della quale arriverà addirittura al suicidio (di cui ap-prendiamo solo nelle ultimissime battute), pur di libe-rare la propria mente da un tale carcere.

Lady Macbeth sonnambula - Johann Heinrich Füssli

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JudiDench e IanMcKellen in una rappresentazione del 1979

Il disagio interiore non la fa chiudere in se stessa, ma piuttosto le fa assumere una serie di comportamenti molto particolare, di cui il primo e più importante è rivolto proprio alle sue mani: la donna, durante il son-nambulismo, non può fare a meno di strofinarle, tor-mentarle, torcerle. Chiede alle domestiche acqua, unguenti e profumi per lavare il loro apparente can-dore, pur ammettendo a se stessa che non potranno mai essere pulite da una macchia così tremenda, la macchia del sangue del re. E ciò non è solo il delirio di una donna folle: Lady Ma-cbeth vede letteralmente sulla sua pelle il risultato delle sue azioni malvagie e assume la consapevolezza che non potrà mai cancellarle, diventandone comun-que ossessionata (a questo proposito, consiglio di

guardare la versione interpretata da JudiDench nel 1979, con IanMcKellen nella parte di Macbeth). Shakespeare è qui riuscito a darci la rappresentazione letteraria e teatralizzata (quindi, se possibile, ancora più drammatica) di un disturbo ossessivo-compulsivo secoli prima che fosse studiato a livello medico e scientifico. Dal punto di vista medico, è definito come un disturbo psichiatrico, classificato fra i disturbi d'ansia; può es-sere presente come entità autonoma o come una componente legata ad altri disturbi, che nella maggior parte dei casi si accomunano a dismorfismo corporeo, dipendenze o disturbi dell'alimentazione. Inoltre, il disturbo della dama di Inverness risulta an-cora più specifico: esso è detto ''disturbo da contami-

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nazione mentale'' e si presenta nel caso in cui il sog-getto si senta sporcato o contaminato da ricordi di esperienze traumatiche (che possono anche non esse-re ricordate, restando comunque come una sensazio-ne a livello di inconscio), pensieri violenti oppure lega-ti alla sfera sessuale, spesso a causa di convenzioni sociali restrittive che rendono tali argomenti dei veri e propri tabù. Chi è affetto da questo disturbo sente il bisogno di pulire costantemente se stesso o l'ambien-te in cui vive, ma senza mai riuscire a liberarsi comple-tamente del tutto dalla sensazione di essere stato ''contagiato''; infatti, Lady Macbeth ammette di aver tolto la macchia, ma continua a sentire l'odore del sangue sulle sua mani fino alla fine. L'opera, edita intorno al 1605, ma ispirata ad eventi e e personaggi realmente esistiti intorno al 1040 (Sha-kespeare utilizza come fonti le Chronicles di Raphael-

Holinshed, accurato resoconto storico di Scozia, In-ghilterra ed Irlanda, edito nel 1578), e opportunamen-te romanzati, grazie ai suoi sfaccettati personaggi, ha ispirato diversi studi, primo fra i quali quello degli psi-cologi Zhong e Liljienquist nel 2006, intitolato ''Washingawayyoursins'' e mirato a dimostrare la cor-relazione tra pulizia mentale e pulizia fisica partendo proprio dall' ''effetto Lady Macbeth'' e facendo anche considerazioni sulla correlazione tra pulizia e riti reli-giosi. In uno degli esperimenti, ad esempio, fu chiesto ai partecipanti di richiamare alla mente esperienze passate piacevoli o spiacevoli, dopodiché furono date loro da completare le parole ''SH_ _ ER'', ''W_ _ H'' e ''S_ _ P''; oltre il 60% delle persone a cui era stato chiesto di ricordare esperienze negative aveva scritto le parole ''shower'', ''wash'' e ''soap'', pur essendoci altre possibilità (shaker, shiver, wish, with, stop...).

Macbeth, Banquo e le Tre Streghe - Johann Heinrich Füssli

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Lady Macbeth afferra i pugnali - Johann Heinrich Füssl

Certo, altri riferimenti a malattie mentali o a di-mensioni del subconscio sono frequenti in Shake-speare: basti pensare al complesso di Edipo in Amleto, in cui il protagonista ha un amore quasi morboso nei confronti della madre, nell'esempio magistrale di Sogno di una Notte di Mezza Estate, in cui la dimensione onirica fa da padrona (un particolare spesso citato è quello dell'atto II, sce-na II, in cui Lisandro tenta di sedurre Ermia, che rifiuta ogni tipo di approccio, probabilmente non per un suo desiderio, ma per delle convenzioni sociali ormai stabilizzate in lei; in seguito, la fan-ciulla si sveglia dopo un incubo in cui viene strito-lata da un serpente, particolare interpretato come riferimento alla sfera sessuale). La tragicità di Macbeth è tale da incantare il pub-blico ancora adesso: è un'opera in cui è rappre-sentata una tale malvagità che è impossibile re-starne indifferenti. Inoltre, il vero protagonista, ciò che governa tutta la vicenda, impossibile da controllare, è il fato. E non è un caso che nel mondo del teatro anglo-sassone circoli la superstizione che la tragedia sia maledetta, tanto da credere che porti sfortuna pronunciare il suo nome: ci si riferisce all'opera

solo come ''Scottishtragedy'', la ''tragedia scozzese''. Di dicerie del genere ne è pieno il teatro dall'alba dei suoi tempi, e tutte dovrebbero essere rispetate: e forse si sono sviluppate proprio in questo mondo poiché moltissimo è determinato dal caso, che influisce sul fattore umano, la più importante caratteristica che rende il teatro quello che è. Un altro mondo che nasce, cresce e si sviluppa su assi di legno, in cui i personaggi esistono fintanto che non si chiude il sipario; e ciò non è un male: essi esistono finché il pubblico crede alla loro esisteza, finché loro stessi credono di essere capaci di imprese straordinarie, perché in quel brevissimo attimo, sono reali per chi è convinto che lo siano, senza alcuna differenza con le persone che li oservano da lontano. Per questo il teatro resterà semprela cosa più semplice che potessimo inventare, è un gioco infinito, che continua finché ci sono dei giocatori. Per farlo esistere, non c'è bisogno di nient'altro che un uomo e una parola. E qualcuno disposto a credervi. Alice Azzara

solo come ''Scottishtragedy'', la ''tragedia

Di dicerie del genere ne è pieno il teatro dall'alba dei suoi tempi, e tutte dovrebbero essere rispet-tate: e forse si sono sviluppate proprio in questo mondo poiché moltissimo è determinato dal caso, che influisce sul fattore umano, la più importante

ratteristica che rende il teatro quello che è. Un altro mondo che nasce, cresce e si sviluppa su assi di legno, in cui i personaggi esistono fintanto che non si chiude il sipario; e ciò non è un male: essi esistono finché il pubblico crede alla loro esisten-za, finché loro stessi credono di essere capaci di imprese straordinarie, perché in quel brevissimo attimo, sono reali per chi è convinto che lo siano, senza alcuna differenza con le persone che li os-

Per questo il teatro resterà sempre così attuale. È la cosa più semplice che potessimo inventare, è un gioco infinito, che continua finché ci sono dei giocatori. Per farlo esistere, non c'è bisogno di nient'altro che un uomo e una parola. E qualcuno

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POESIA “AREZZO” DI SARA BADIALI, VINCITRICE DEL CONCORSO NAZIONALE DI POESIA DELL'ISTITUTO BENALBA

“Arezzo” di Sara Badiali, prima classificata e vincitrice del concorso Nazionale di Poesia curato dall’Istituto Be-nalba ed intitolato “I Territori dell’appartenenza”.

AREZZO

Dopo di me, sarà il figlio a misurare i rintocchi dei passi; è stato il gioco di tutti non calpestare i vuoti tra sassi.

Nel tuo candore di essere puro mio figlio dei figli di questa città: hanno memoria le case e le strade nate su humus di amarezza e viltà.

Possente opera di storia fossile in mezzo a scorci di vita passata creatura errabonda guidi i tuoi passi su vie d'una storia ormai dissestata.

Sui Tuoi occhi gravavano deserti figlio dell'Uomo dipinto su tela. Cristo morente nel Tuo abbraccio sveli l'ultimo spasimo che salvò l'uomo.

La linfa di queste dormienti terre, in seno a valli scoscese sul vento, scorre in vene di lacrime e sangue; la loro storia è una corrente di estasi e tormento.

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POESIA [III] SI, POR DETRÁS DE LAS GENTES TE BUSCO. NO EN TU NOMBRE, SI LO DICEN, NO EN TU IMAGEN, SI LA PINTAN. DETRÁS, DETRÁS, MÁS ALLÁ. POR DETRÁS DE TI TE BUSCO. NO EN TU ESPEJO, NO EN TU LETRA, NI EN TU ALMA. DETRÁS, MÁS ALLÁ. TAMBIÉN DETRÁS, MÁS ATRÁS DE MÍ TE BUSCO. NO ERES LO QUE YO SIENTO DE TI. NO ERES LO QUE ME ESTÁ PALPITANDO CON SANGRE MÍA EN LAS VENAS, SIN SER YO. DETRÁS, MÁS ALLÁ TE BUSCO. POR ENCONTRARTE, DEJAR DE VIVIR EN TI, Y EN MÍ, Y EN LOS OTROS. VIVIR YA DETRÁS DE TODO, AL OTRO LADO DE TODO —POR ENCONTRARTE—, COMO SI FUESE MORIR. PEDRO SALINAS (DA “LA VOZ A TI DEBIDA”, MADRID, SIGNO, 1933)

[III] SÍ, AL DI LÀ DELLA GENTE TI CERCO. NON NEL TUO NOME, SE LO DICONO, NON NELLA TUA IMMAGINE, SE LA DIPINGONO. AL DI LÀ, PIÚ IN LÀ, PIÚ OLTRE. AL DI LÀ DI TE TI CERCO. NON NEL TUO SPECCHIO E NELLA TUA SCRITTURA, NELLA TUA ANIMA NEMMENO. DI LÀ, PIÚ OLTRE. AL DI LÀ, ANCORA, PIÚ OLTRE DI ME TI CERCO. NON SEI CIÒ CHE IO SENTO DI TE. NON SEI CIÒ CHE MI STA PALPITANDO CON SANGUE MIO NELLE VENE, E NON È ME. AL DI LÀ, PIÚ OLTRE TI CERCO. E PER TROVARTI, CESSARE DI VIVERE IN TE, E IN ME, E NEGLI ALTRI. VIVERE ORMAI DI LÀ DA TUTTO, SULL’ALTRA SPONDA DI TUTTO —PER TROVARTI — COME FOSSE MORIRE. PEDRO SALINAS (TRADUZIONE DI EMMA SCOLES DA “LA VOCE A TE DOVU-TA”, EINAUDI, TORINO, 1979)

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CRITTOGRAMMI DI EMILIO LORITO

CRITTOGRAMMA Completa gli spazi con l’aiuto delle definizioni per scoprire a quale lettera corrisponde ogni numero! A numero uguale corrisponde lettera uguale. Una volta completata la tabella sarà possibile leggere nelle colonne evidenziate il titolo di una commedia aristofanea

A) Oggi usato come insulto, originariamente questo vocabolo indicava le persone affette da carenza di iodio

B) È sia colpevole che originale

C) Sinonimo di scherzo

D) Variazione di intestazione

E) Filosofo e scrittore statunitense a cui si ispirò lo stesso Nietzsche

F) Il protagonista del carme lll di Catullo

A 1 2 3 4 5 6 7 B 8 3 1 1 9 4 7 C 10 9 1 3 11 5 9 D 12 7 13 4 14 2 9 E 3 13 3 2 16 7 6 F 8 9 16 16 3 2 7

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IPSE DIXIT Prof S.: “Per fare una rivoluzione cosa ci vuole?” Alunno A.: “Un fiore...?”

Prof M.: (Riferendosi al paradosso di Zenone) “Infatti la retta contiene infiniti punti.” Alunno N.: “Quindi Achille non si muove perché si mette a contare i punti?”

Prof C.: “Ora parleremo dei numeri immaginari...” Alunno L.: “Cioè tipo settordici?”

Alunno G: “Prof, posso chiedere una cosa che non c'entra con la lezione? Devo chiederlo sennò non riesco a stare attento.” Prof S.: “Va bene...” Alunno G.: ”Ma se io avessi parcheggiato la moto in mezzo a un marciapiede, potrei prendere una multa? E se sì, di quanto?”

Prof S.: “Quando è finito l'illuminismo?” Alunno M.: “Quando hanno spento le luci...”

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Arezzo - Via Giuseppe Garibaldi 55

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LETTERA AL FRATELLO THEO, VINCENT VAN GOGH