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INDICE

INTRODUZIONE P. I

CAPITOLO Ι DISAGIO GIOVANILE E DEVIANZA

1.1. Disagio, disadattamento e devianza p. 1

1.2. Aggressività come indicatore di disagio, disadattamento e devianza p. 11

1.2.1. Il piano sociologico p. 12

1.2.2. Il piano psicologico p. 17

1.2.3. Il piano bio-medico p. 19

1.3. Aggressività: cos’è e come si manifesta p. 20

1.4. Il bullismo p. 25

1.4.1. Tipi di bullismo p. 33

1.4.2. Il bullo p. 35

1.4.2.1. Il bullo aggressivo p. 37

1.4.2.2. Il bullo ansioso p. 38

1.4.2.3. Il bullo passivo p. 39

1.4.2.4. Bulli temporanei p. 40

1.4.3. La vittima p. 41

1.4.3.1. La vittima passiva p. 42

1.4.3.2. La vittima che provoca p. 43

1.4.3.3. Lo spettatore silenzioso p. 44

CAPITOLO ΙΙ IL GRUPPO DI PARI TRA “CENTRO” E “PERIFERIA”

2.1. Le caratteristiche del gruppo dei pari p. 48

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2.2. Il linguaggio adolescenziale e la cultura Hip Hop p. 58

2.2.1. Il gergo p. 61

2.2.2. La cultura Hip Hop p. 65

2.3. I luoghi di aggregazione p. 69

2.3.1. La scuola p. 70

2.3.2. I centri aggregazionali p. 71

2.4. La strada e il tempo libero p. 74

2.4.1. Il tempo libero p. 77

CAPITOLO ΙΙΙ EDUCARE IN STRADA

3.1. Cos’è l’educazione di strada p. 80

3.1.1. La strada come luogo educativo p. 89

3.2. Ruolo e compiti dell’educatore di strada p. 91

3.3. Intervista ad un operatore p. 98

3.3.1. L’intervista p. 98

3.4. Il progetto “On The Road” p. 104

3.4.1. Ex legge 285/97 una legge a tutela dei minori p. 104

3.4.2. Il progetto p. 106

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ΙNTRODUZIONE

Il fenomeno delle bande giovanili è una realtà immanente nella società

contemporanea e allo stesso tempo è un argomento problematico da affrontare

data la particolare fase evolutiva in cui si trovano gli adolescenti.

E' solo uno stereotipo culturale la convinzione, piuttosto diffusa, che

l'infanzia e l'adolescenza costituiscano una irrepetibile fase della vita umana

in cui non sono presenti preoccupazioni e angosce e l'esistenza scorre sempre

in una atmosfera serena e gioiosa. In realtà la condizione di chi si affaccia alla

vita è tutt'altro che facile: la fatica di crescere è notevole perché l'esperienza

di fallimento è continua, perché i dubbi predominano sulle certezze, perché

un profondo disagio è sempre presente anche se spesso non viene esplicitato.

La condizione di disagio è comune a tutta la generazione che si apre

alla vita ed il bisogno di un particolare e significativo sostegno da parte della

famiglia e della società in generale è identico per tutti i soggetti in

formazione. Alcuni, purtroppo, aggiungono alle normali difficoltà del

processo evolutivo situazioni di insufficienze oggettive individuali, familiari e

sociali che rendono molto più a rischio l'itinerario evolutivo e che rendono più

facile che il disagio si trasformi in disadattamento prima e devianza poi.

Alla base del fenomeno delle bande giovanili vi è appunto un disagio

caratteristico dell’età adolescenziale che può rimanere inespresso, ma che in

alcuni casi può portare alla devianza vera e propria. La mia analisi del

fenomeno delle bande giovanili parte proprio dallo studio del disagio in tutte

le sue forme, come base, per poi analizzare i vari comportamenti devianti

I

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caratteristici dell’età adolescenziale. Uno di questi è proprio il bullismo che si

costituisce come una degenerazione del comportamento aggressivo degli

adolescenti, in cui si assiste a prevaricazione, minacce, ricatti e aggressioni

fisiche da parte di un ragazzo o gruppi di ragazzi verso compagni della loro

stessa età. È stato questo l’argomento della prima parte del mio lavoro.

Nella seconda parte invece, ho analizzato le caratteristiche dei “gruppi”

di giovani, le abitudini, il modo di interagire tra loro e con la società, ed infine

il contesto in cui vivono. Durante l’adolescenza infatti, il giovane sente

l’esigenza di staccarsi dalla famiglia per intraprendere rapporti significativi

con i coetanei. Se, da una certa età in poi, la conferma della propria identità

viene ricercata fuori dai rapporti familiari, si può facilmente immaginare

quanta importanza abbiano i coetanei, soprattutto i compagni di classe,

durante l’adolescenza e quanto il rapporto con loro possa influire sul proprio

stato d’animo.

I giovani ricercano se stessi, prendendo le distanze dagli adulti, con un

linguaggio tutto loro cui solo loro hanno accesso o con il linguaggio del corpo

che sostituisce quello dell’abito; non più capi firmati dalla testa ai piedi per

proclamare una identità, ma tatuaggi e piercing, anche segreti, che parlano a

loro stessi e ai membri della stessa compagnia, in privato. Tutto ciò porta alla

formazione di una vera e propria subcultura, alternativa a quella degli adulti.

Ma per una riflessione adeguata sui giovani e sul loro modo di vivere

non si può prescindere dall’analisi dei luoghi in cui i giovani trascorrono il

loro tempo libero, i luoghi in cui i giovani si incontrano ed hanno modo di

interagire tra di loro. Luoghi che possono essere formali o informali. Tra i

II

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luoghi formali c’è sicuramente la scuola che costituisce il primo luogo in cui

un giovane può incontrare i suoi coetanei. Tra i luoghi informali invece, il più

importante è la strada, la piazza, il parcheggio, il muretto, le vie, i cortili,

giardini, campetti e panchine sono i luoghi della strada in cui i ragazzi si

ritrovano.

La strada rappresenta il luogo in cui i giovani ricercano l’aggregazione,

è il luogo dove si creano culture alternative, stili e modelli di comportamento,

ma è anche il luogo del disagio, di situazioni a rischio di emarginazione e

devianza se non addirittura di irrecuperabilità.

È in questo contesto che si colloca l’argomento della terza parte del

mio lavoro che si propone di offrire una risposta alla situazione di disagio in

cui si trovano i giovani che hanno fatto della strada il loro primo luogo

d’incontro. Questa risposta è costituita dal lavoro di strada. L’educativa di

strada è un approccio pedagogico che ha l’obiettivo di trasformare la strada da

luogo che produce disagio a spazio di relazioni e socialità in cui tanti ragazzi

crescono e passano il loro tempo. Questa metodologia, ad ogni modo,

rappresenta una rivoluzione rispetto alla tradizionale logica di intervento

educativo, secondo cui l’utente deve incontrare gli operatori recandosi nei

luoghi strutturati e predisposti a fornire servizi. In questo caso è l’educatore

che va incontro e raggiunge gli adolescenti nei luoghi della loro quotidianità.

Per approfondire i temi trattati precedentemente e per avere una

visione totale dell’argomento, ho pensato che sarebbe stato utile avere un

responso “sul campo”. È per questo che ho deciso di contattare un’educatrice

di strada, la quale mi ha fornito, attraverso una breve intervista, informazioni

III

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dettagliate circa l’educativa di strada ed in particolare sul progetto svolto

dalla cooperativa per cui lavora.

Il risultato di questo incontro, è stato la possibilità di raccontare la vita

di questi operatori ed illustrare dettagliatamente il progetto “On the Road”,

che li ha visti protagonisti.

IV

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CAPITOLO I: DISAGIO GIOVANILE E DEVIANZA

1.1. Disagio, disadattamento e devianza

L’identità dell’adolescente e del pre-adolescente è mutata nel corso

degli ultimi decenni con l’avvento della “società di massa”, della “società dei

consumi”, della cultura dei “media” e poi della crisi e trasformazione della

famiglia, del mutamento radicale dei valori sociali, dello stile di vita

complessivo. Il pre-adolescente e l’adolescente sono oggi dentro una fase

della vita che si è prolungata, per la dipendenza dalla famiglia, per

l’insicurezza economica, per lo stare a lungo in formazione. Tutto ciò

provoca disagio espresso in molte forme: nel ribellismo; nell’auto-lesionismo

(tipo bulimia o anoressia), nel vivere al limite le esperienze (sfide coi motori,

etc.) e delinea uno stato d’animo diffuso di tensione, di rabbia, di insofferenza

che si manifesta in famiglia, nella società e anche nella scuola con

atteggiamenti di rifiuto delle regole, di indifferenza alla cultura, di resistenza

all’impegno.

Questo, però, manifesta un disagio profondo di cui la scuola non può

ignorare l’esistenza, anzi: lo deve saper riconoscere e prepararsi a trattarlo

senza demarcarlo come devianza. Deve saperlo capire: cioè diagnosticare,

interpretare e affrontare.

Sempre più spesso capita di non distinguere più i reali significati dei

termini, utili a dare un giusto peso al lavoro degli operatori sociali così, il

1

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termine “devianza” appare facilmente sostituibile da quello di “disagio”,

oppure il “disadattamento” con quello di “emarginazione”.

In realtà, per comprendere correttamente questi termini occorre

conoscere le trasformazioni che hanno caratterizzato la nostra società negli

ultimi decenni. È avvenuta infatti, una modifica nel rapporto tra mondo

dell’infanzia e quello degli adulti e una modifica nel rapporto dei più giovani

con la famiglia e la società. Nuove forme di disagio e di povertà incombono

su questo universo ed incidono sulla qualità della vita. Alcune delle principali

cause della situazione a rischio dei giovani possono essere individuate

nell’altalenarsi delle relazioni significative, nella scarsa frequenza dei rapporti

di tipo primario e nell’inadeguatezza e precarietà delle relazioni familiari.

Per tutti questi motivi quindi appare evidente l’esigenza di prestare una

maggiore attenzione a questa fascia d’età e di conseguenza quella di attribuire

ad ogni termine il corretto significato. Per fare ciò è indispensabile analizzare

i quattro periodi che hanno caratterizzato il malessere giovanile:

1. in un primo periodo, intorno agli anni sessanta, c’è stata una

forte presenza di manifestazioni organizzate e visibili dell’insoddisfazione

giovanile. I giovani cominciarono a porre seri problemi di controllo sociale e

a farsi portavoce delle trasformazioni sociali di quei tempi. Nacque così un

primo interesse della ricerca sociale nei loro confronti;

2. negli anni settanta, i giovani furono attori passivi del diffondersi

della disoccupazione giovanili e attori attivi della rivoluzione elettorale che

provocò un aumento dei consensi nei confronti della sinistra. La categoria

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giovanile fu anche considerata come “classe” sfruttata dal mercato del lavoro

e dell’industria, una classe priva di diritti e opportunità;

3. nella terza fase, intorno agli anni ottanta, i giovani furono

considerati un problema degli adulti che, di fronte ad un futuro incerto,

investivano i figli delle loro attese e speranze. In questa fase si introdusse la

convinzione che il concetto di disagio fosse sintomo della difficoltà degli

operatori e dei ricercatori di inquadrare il malessere diffuso tra i giovani;

4. la quarta fase, infine, stabilisce il progressivo dissolversi del

concetto di disagio a causa dell’estendersi dei suoi vari significati. Si può

quindi definire il disagio come frutto dell’incapacità di trovare una soluzione

alla contraddizione fra centralità soggettiva e marginalità oggettiva1.

Esiste, tuttavia, un’ampia letteratura sul disagio giovanile, i cui termini

correlati sono disadattamento, devianza, marginalità. Associata ad esso è una

vasta tipologia di comportamenti messi in atto da soggetti in età evolutiva,

soprattutto preadolescenti e adolescenti, con un livello di gravità variabile. Si

parla di disagio:

non grave: che consiste in stati di malessere per esperienze di

insuccesso (scolastico, sportivo, relazionale) e che si esprime con

comportamenti di chiusura, di aggressività, di autosvalutazione;

intermedio, che si manifesta con comportamenti trasgressivi

spesso agiti nel gruppo e con il gruppo (uso occasionale di stupefacenti,

appartenenza a bande, intimidazioni a soggetti più deboli);

1Cfr., P. ALLUM, DIAMANTI, 50/’80, Vent’anni, Lavoro edizioni., Roma 1986.

3

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grave, che si manifesta con comportamenti autolesivi (bulimia,

anoressia, tossicodipendenza) e trasgressivi illegali (furti, spaccio,

ricettazione).2

Il disagio, quindi, è uno stato di malessere riferito al soggetto prima

che ad un ambiente esterno ad esso e può essere:

evolutivo: è il disagio legato alla crisi di crescita. Lo si ritrova in

tutte le epoche storiche, è un disagio transitorio e superabile3. Può

manifestarsi attraverso la conflittualità con i genitori o con attacchi di

malinconia;

socio-culturale: è il disagio legato al fatto di vivere in una

società complessa e in transizione. È tipico della società del benessere e come

quello evolutivo è superabile. L’adolescente è disorientato, confuso ed

incapace di orizzontarsi in questa complessità.

cronicizzante: è il disagio di quella minoranza che non avendo

risorse sufficienti si trova in una situazione di inadeguatezza. Rappresenta la

linea di confine tra disagio e disadattamento.

Il disagio scolastico è un esempio del disagio giovanile, che può

manifestarsi con comportamenti di disturbo in classe, irrequietezza,

iperattività, difficoltà di apprendimento,di attenzione, difficoltà di inserimento

nel gruppo.

2 Cfr. M. COLOMBO,articolo, Politiche Sociali e Servizi,1994. 3 Il disagio evolutivo può essere identificato con il disagio adolescenziale in cui il soggetto

si trova in una fase di transizione tra età infantile ed età adolescenziale, naturalmente il bambino non è preparato ai vari mutamenti nella sua persona, sia a livello affettivo e cognitivo, che a livello fisico e può reagirvi in modi differenti. Sono proprio questi cambiamenti a provocare disagio.

4

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Quindi è un fenomeno complesso legato sì alla scuola, come luogo di

insorgenza e di mantenimento, ma anche a variabili personali e sociali, come

le caratteristiche di personalità da una parte e la situazione familiare dall’altra.

Pensare a semplici spiegazioni causali per individuare i fattori responsabili

del disagio è riduttivo e potrebbe essere fuorviante.

Il disagio evolutivo, inoltre, può scatenare nei soggetti più deboli ed

esposti vere e proprie forme di disadattamento ed in questo senso il disagio

appare:

relazionale, perché interessa i rapporti che il giovane instaura con

se stesso, con la famiglia, con la scuola, con la religione, con i coetanei e con

i gruppi;

dinamico, perché è un fenomeno che può aumentare o diminuire

a seconda delle risposte e degli stimoli che il soggetto riceve dall’ambiente

educativo, connesso cioè, con gli atteggiamenti e gli stili

educativi che la famiglia e le altre agenzie formative riescono ad instaurare;

socio-culturale, in quanto collegato con condizioni strutturali di

vita che possono contenerlo.

Tutto ciò conferma come il disagio e il disadattamento siano connessi

ai processi di formazione dell’identità e si producono nell’ampia rete di

relazioni in cui l’adolescente vive questo delicato momento della sua

esistenza.

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L’uso a volte equivoco dei termini con cui si segnalano all’attenzione

degli studiosi e degli operatori i comportamenti dei minori “difficili”, richiede

una riconsiderazione anche dei concetti di marginalità4 e devianza.

Il concetto di “marginalità”, in particolare, è stato frequentemente

associato alla condizione minorile, e per comprenderlo nel suo spessore è

importante sottolineare che esistono diverse teorie che ne evidenziano le

caratteristiche, ma queste analisi sono state condotte per lo più su un piano

economico, in quanto pochi autori hanno affrontato il problema sul piano

culturale.

Secondo F. Ferrarotti “va inteso come marginale quel gruppo sociale

che vive e si è insediato lontano dal centro”5. Secondo F. Alberoni e G.

Baglioni invece, “nel marginale i livelli di aspirazione sono modesti, il

marginale secondo loro ha interiorizzato la scarsità come stile di vita, è

disposto alla rinuncia, diffida di un inquadramento economico-politico e le

sue aspettative sono disgreganti rispetto alla realtà razionalizzata”6.

Anche E. Fromm, che “definisce la marginalità psicologica come un

fallimento esistenziale da collegare alla irrazionalità dei comportamenti

sottolinea come i marginali abbiano relazioni primarie ed espressive, un

4 Il termine marginalità indica in sociologia, la non partecipazione, propria dei gruppi

marginali, ai privilegi propri delle strutture sociali, infatti i gruppi marginali sono proprio quelli che vivono ai margini delle strutture sociali

5F. FERRAROTTI, Sviluppo urbano e marginalità sociale, in La critica sociologica, 1970, n. 29, pp 151-155.

6 Cfr. F. ALBERONI, G. BAGLIONI, L’integrazione dell’immigrato nella società industriale, Il Mulino, Bologna 1965.

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controllo sulle tensioni più debole, ma nel contempo hanno una struttura

morale e culturale più forte”7.

Tuttavia, è stato opportunamente notato che occorre distinguere la

marginalità a livello di personalità dalla marginalità come situazione sociale,

essendo la prima un problema a carattere culturale e psicosociale e la seconda

il risultato di condizioni storico-culturali.

Il presupposto comune, in ogni caso, è che la definizione di marginalità

non caratterizza per un gruppo solo la mancanza di partecipazione bensì la

mancanza di partecipazione in quelle sfere che si considerano dover essere

incluse nel raggio di azione e di accesso dell’individuo o del gruppo.

In questa prospettiva la “devianza” si può caratterizzare come una delle

strategie di risposta messe in atto consapevolmente da soggetti in condizione

di marginalità rispetto alla fruizione delle risorse sociali. La devianza, quindi,

sarebbe nello stesso tempo, un indicatore, causa ed effetto di una società nel

suo complesso malata8.

L’esistenza di culture devianti con regole, tradizioni, codici

comportamentali, rivela infatti un mondo che vive ai margini della società, ed

è questa marginalizzazione che costituisce un concetto chiave

nell’interpretazione della devianza, poiché determina processi di

autoesclusione dei soggetti che non si identificano con la cultura della società.

7E. FROMM, Fuga dalla libertà, trad. dall’inglese, , Editore di Comunità Milano, 1972;

Anatomia della distruttività, , Mondatori, Milano 1975, p. 331. 8 Con il termine devianza si intende, nel senso generale del termine, l’allontanamento

patologico da ciò che è normale per natura o imposto come regola, quindi, ancora più in generale si configura come un allontanamento dalla norma. Nel senso più specifico però, la devianza rappresenta la risposta degli individui che, trovandosi in una situazione marginale all’interno della società di appartenenza, assumono comportamenti non conformi alle regole della società stessa, generando un ulteriore motivo di emarginazione dalla vita sociale.

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In questi anni più recenti, tuttavia, l’ottica si è alquanto modificata perché la

marginalità è ricondotta non solo all’autoesclusione dei soggetti, ma anche

alla organizzazione emarginante delle realtà urbane e sociali spesso dettate da

ragioni politico-economiche9.

Tutti i giovani, infatti, non possono fruire, nella maggior parte dei casi

di spazi e servizi idonei alla promozione sociale, culturale ed alla costruttiva

utilizzazione del tempo libero, e questo discorso vale soprattutto per i giovani

delle periferie urbane, la cui marginalizzazione si acuisce per gli aspetti di

deprivazione socio-economica-culturale che accompagna la loro situazione.

Ad ogni modo se spesso si tende ad identificare marginalità e devianza,

è importante specificare la differenza tra le due situazioni, in quanto anche da

una analisi superficiale si rileva come la disapprovazione o censura che si

realizza nei confronti dei devianti non avviene, invece, nei confronti di chi è

vittima delle ingiustizie e delle contraddizioni sociali. I marginali, infatti, non

sono necessariamente devianti, ma sono solo soggetti che vivono ai margini

di più estesi gruppi sociali.

Per devianza, invece, si intende ogni atto o comportamento (anche solo

verbale) di una persona o di un gruppo che viola le norme di una collettività e

che di conseguenza va incontro a una qualche forma di sanzione10.

9 Fino a qualche tempo fa si riteneva erroneamente la marginalità come una scelta di alcuni

individui di vivere un ruolo marginale nella società. Purtroppo non è sempre così in quanto ci sono soggetti che pur non scegliendo di far parte della “categoria” dei marginali, si ritrovano ad esserlo. La realtà delle periferie fornisce un esempio, in quanto, nella maggioranza dei casi le persone che vivono al di fuori del centro non possono usufruire dei servizi di cui disporrebbero altrimenti. Cfr. M. L. DE NATALE – Devianza e Pedagogia- Ed. La Scuola- - Brescia 1998, pp. 40-41.

10 Giuridicamente un individuo è ritenuto deviante quando i suoi comportamenti contrastano con le norma della società di cui fa parte. Infatti si parla di delinquenza o criminalità quando la devianza viene posta in relazione alla legge penale: ibidem p. 46.

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Intendiamo come devianti, dunque, quei comportamenti che vanno a

trasgredire le regole comuni di convivenza. La devianza può essere primaria

(contingente, occasionale), o secondaria (quando il soggetto assume

un’identità deviante) e può assumere una modalità autolesiva o

delinquenziale.

autolesiva: è quel tipo di devianza che rivolge la propria aggressività

verso il soggetto stesso (comportamenti suicidari, forme di

dipendenza,nevrosi alimentari).

delinquenziale: invece, è la devianza che rivolge la propria tensione

distruttiva contro terzi (vandalismo, risse, furti, aggressioni…).

Una definizione canonica vuole la devianza come comportamento che

viola le aspettative istituzionalizzate di una data norma sociale. Tutti i popoli

del mondo, da quelli organizzati in società e stati complessi a quelli che sono

ancora fermi ad una sorta di comunità tribale, convivono con la devianza, cioè

con comportamenti devianti dalle norme scritte o non scritte che regolano la

vita della comunità.

Il tema della devianza, è venuto assumendo sempre maggiore

importanza negli stati contemporanei, ricchi di leggi e diritti che regolano in

modo assai minuto tutta la vita, tutti i comportamenti delle persone. Nessuno

ormai se ne accorge, ma la libertà autentica di vita e di comportamenti si è

andata lentamente spegnendo, soprattutto nei popoli che vantano civiltà

complesse, a loro volta evolutesi in stati dalla normativa complessa. Quanto

più i popoli sono cresciuti e industrializzati, tanto più i loro membri sono stati

privati delle più elementari libertà, tanto più sono cresciuti i comportamenti

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devianti. La devianza si è affermata subito nella storia, e soprattutto nei tre

settori chiave della vita umana: il sesso, la proprietà, la rivalità fra le persone

ed ha avuto sviluppi notevoli nel tempo collegati anche alla crescita

tecnologica delle società. Il sesso ha visto la diffusione, accanto al

matrimonio monogamico, dell'adulterio, della pedofilia, del libero amore,

della poligamia, della prostituzione, dell'omosessualità, atteggiamenti devianti

soltanto in taluni casi e per talune norme, non devianti per altre, addirittura

criminali per alcune religioni e per alcune norme. La proprietà, invece, ha

stimolato il furto e la rapina, espressi talvolta nelle truffa, nell'usura, negli

intrecci truffaldini nelle società. La rivalità fra le persone, derivata da affari di

sesso, da affari veri e propri, da contrasti religiosi, dinastici, politici, ha spinto

alla violenza, alla tortura, all'omicidio. Sono queste le vere e proprie devianze

nei confronti di norme "naturali" insieme ad altre che da esse derivano e ad

esse fanno contorno.

Il comportamento deviante si manifesta in genere nel periodo

adolescenziale, l’adolescenza, in quanto fase di passaggio dall’infanzia alla

maturità della persona, è uno stadio nel quale entrano in gioco forze interne

ed esterne al singolo, psicologiche e sociali, la cui interazione può favorire,

accelerare, ritardare, impedire l’accesso consapevole alla vita adulta.

Gli adolescenti, alla ricerca di una identità distinta da quella fornita

dalla famiglia, diversa dal modello offerto dal mondo degli adulti, cercano un

rapporto con gli altri, con i coetanei, una interazione formale, uno stare

insieme non precisato da norme di sottomissione. Sono alla ricerca di se

stessi, in una condizione di continua insicurezza e mediante i linguaggi, gli

10

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abbigliamenti, i gusti musicali ed estetici, esprimono quella che può essere

definita “una propria cultura”, o meglio una “subcultura”11 rispetto a quella

degli adulti.

1.2 Aggressività come indicatore di disagio, disadattamento e

devianza

Pochi argomenti di studio sono oggi più attuali di quello che riguarda

l’aggressività nell’uomo. Dalle violenze terrificanti e dichiarate alle più sottili

manifestazioni di intolleranza e di protesta, è un dilagare di atteggiamenti e

comportamenti che qualifichiamo genericamente aggressivi, spesso senza

comprenderne appieno il significato. Ma aggressive sono anche

manifestazioni di altro tipo, quelle per esempio che piuttosto che tendere alla

distruzione dell’altro e al sovvertimento clamoroso di uno status ampiamente

condiviso portano l’individuo a costruirsi un proprio spazio personale. E

aggressive possono anche essere considerate le motivazioni che inducono

gruppi minoritari ad affermare la propria identità e il proprio diritto ad un

confronto paritetico con gruppi di maggioranza.

Il discorso, dunque, si presenta lungo e difficile, ma ciò che più

interessa in questo caso è affrontare il problema dell’aggressività come

indicatore di disagio, disadattamento e devianza soprattutto per quanto

riguarda le generazioni più giovani. Per poter fare ciò, tuttavia, bisogna

considerare le prospettive che offrono i diversi saperi che si sono interrogati

11 L’espressione subcultura, nel senso generale del termine, indica una cultura inferiore e

scadente, riferita spesso alla cultura delle popolazioni primitive.

11

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sul problema dell’aggressività in relazione ai disturbi di comportamento dei

giovani.

1.2.1. Il piano sociologico

Affrontare il problema dell’aggressività, connessa ai disturbi di

comportamento dal punto di vista sociologico, significa superare le

concezioni che nel XIX e XX secolo escludevano i fattori sociali ed

economici come cause determinanti nella formazione della personalità

aggressiva.

Oggi, invece, fare riferimento alle nozioni di devianza, disagio e

aggressività, impone agli interlocutori che affrontano le questioni ad esse

legate, un riferimento culturale e scientifico forte al paradigma sociologico; al

punto che si può affermare che per potere definire correttamente tali concetti

si deve ricorrere obbligatoriamente alla teoria sociologica nelle sue diverse

espressioni.

Un’interpretazione sociologica complessiva dei fenomeni di devianza,

disadattamento, disagio e aggressività nella società industrializzata venne

messa a punto da E. Durkheim12 alla fine del XIX secolo; l’importanza del

contributo del sociologo francese è data dall’individuazione di un rapporto

12 Émile Durkheim (, Francia 15 aprile 1858 - Parigi 15 novembre 1917) è un pensatore

francese che si richiama all'opera di Auguste Comte (sebbene consideri alcune idee comtiane eccessivamente vaghe e speculative), e può considerarsi, con Karl Marx, Max Weber e Herbert Spencer, uno dei fondatori della moderna sociologia. Egli analizza soprattutto la divisione del lavoro, ovvero il farsi strada di differenze sempre più complesse e influenti tra le varie posizioni occupazionali. Pian piano, il lavoro viene considerato da Durkheim come il principale fondamento della coesione sociale, ancora prima della religione. Inoltre, con la divisione delle attività, gli individui diventano sempre più dipendenti gli uni dagli altri, perché ognuno ha bisogno di beni forniti da coloro che svolgono un lavoro diverso dal proprio.

12

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fondamentale tra “divisione del lavoro” e produzione dei “conflitti” come

elemento costante nella società capitalistica.

Infatti egli evidenzia come il sistema capitalista, attraverso le proprie

modalità di organizzazione del lavoro, produca la possibilità del conflitto ed è

proprio in rapporto alla costante presenza di tensioni e conflitti in seno alla

società che gli

individui sono esposti al rischio dell’ ”anomia”13, cioè al progressivo

distacco dal tessuto delle relazioni sociali e dal sistema comunicativo che

regge la solidarietà sociale, dovuto alla percezione di una mancanza di norme

e di regole.

Durkheim tuttavia, non ha un posizione critica nei confronti della

società capitalista, ma evidenzia nella conflittualità ad essa immanente

l’elemento di deviazione da un modello sociale naturale e normale basato

sulla solidarietà sociale. Partendo da questo presupposto Durkheim prende le

mosse per introdurre un secondo ribaltamento epistemologico relativo alla

definizione sociologica del rapporto tra normalità e devianza.

Egli spiega come i comportamenti devianti si configurino come

necessità sociale la cui funzione è di tipo positivo; i reati infatti,

rappresentano un fattore normale, oltre che inevitabile, di una società sana in

quanto ne misurano la moralità collettiva e ne rafforzano la coesione sul piano

del diritto. Infatti il reato necessita la sanzione, anche se essa, in termini di

13 Secondo il pensiero di Emile Durkheim , l'anomia è uno stato di dissonanza cognitiva tra

le aspettative normative e la realtà vissuta. Il concetto di anomia significa letteralmente "assenza o mancanza di norme". Parola derivante dal greco a-nomos. Nel caso di Durkheim il significato è quello di mancanza di norme sociali, di regola atte a mantenere, entro certi limiti appropriati, il comportamento dell'individuo. PIERANGELO BARONE, Pedagogia della marginalità e della devianza, Guerini Studio editore, Milano 2001, pp. 64.

13

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pena, non deve essere intesa come rimedio alla questione della criminalità,

quanto come un dispositivo che rinforza il principio della legittimità della

società e del potere che punisce e che dunque, permette alla società stessa di

riconoscersi sul piano della differenza con i comportamenti delinquenziali14.

Secondo questa prospettiva quindi, criminalità e devianza non sono

fenomeni patologici, di cui sia possibile valutare scientificamente le

dimensioni e analizzare le cause, ma sistemi complessi in cui determinati atti

e comportamenti vengono definiti, amplificati, riprodotti e utilizzati per

difendere interessi e sistemi di mantenimento del controllo.

Durante la prima metà del 1900, invece, è rilevante il ruolo che venne

ad assumere la Scuola sociologica di Chicago15, la cui importanza

sociologica, ma soprattutto quella delle sue ricerche, è relativa ai contributi

sui concetti di devianza e di marginalità che vengono definiti all’interno del

paradigma interpretativo della patologia sociale. In questa prospettiva la

devianza appare contemporaneamente come causa ed effetto della

disorganizzazione sociale, per cui la condotta deviante appare connotata da

una valenza antisociale.

Pochi anni dopo, intorno agli anni 1950-1960, si sviluppò per opera di

T. Parsons e di R.K. Merton, la corrente dello struttural-funzionalismo16,

riprendendo nei suoi aspetti più generali l’apporto teorico di Durkheim.

14 Ibidem, p. 65. 15 La scuola dell’ecologia sociale urbana, meglio nota come Scuola di Chicago dalla sua

sede, è stata la prima scuola di sociologia urbana negli Stati Uniti d’America. Venne fondata nel 1920 ed ebbe tra i suoi maggiori esponenti Robert Park, Ernest W. Burgess e Roderick D. Mc Kenzie. La suola affrontò per la prima volta uno studio sistematico della città dal punto di vista sociologico attraverso uno studio empirico della società urbana.

16 Lo struttural-funzionalismo spiega la società come un sistema dinamico di attività ripetitive, organizzate e interconnesse, le quali contribuiscono alla stabilità e all’armonia sociale. La

14

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A differenza di ciò che sosteneva il sociologo francese, secondo

Parsons17, la società è un organismo integrato che tende all’equilibrio e alla

stabilità, fondato su un bisogno di conformità che è espressione di

un’esigenza di tipo psichico che riguarda in modo generalizzato tutti gli

appartenenti ad un certo tipo di cultura; il sistema di valori, perciò, costituisce

la rappresentazione generale di tipo astratto degli elementi che a livello

concreto sono rintracciabili tanto nei gruppi sociali quanto nelle personalità

individuali.

Ad ogni modo ciò che caratterizza in modo significativo la riflessione

sociologica di Parsons, è la spiegazione del meccanismo di produzione della

devianza vista come il risultato di una socializzazione non riuscita. In tal

senso la devianza appare come un processo di azione motivata del soggetto

che, malgrado la disponibilità del sistema sociale, tende a deviare dalle

aspettative che gli altri si sono fatti rispetto al suo ruolo18.

Merton, invece, nel riprendere da Durkheim il concetto di anomia

sviluppa un’interessante teoria strutturale che vede interagire cultura e società

come vertici di un ipotetico asse fini-mezzi. Se infatti alla struttura culturale

Merton fa corrispondere la definizione delle mete culturali verso cui tendono i

bisogni individuali, alla struttura sociale egli attribuisce il compito di definire

i mezzi legittimi con cui ottenere il soddisfacimento di tali aspirazioni.

Secondo lo studioso l’anomia è quindi il risultato del distacco tra struttura

parola “strutturale” indica il modo in cui sono organizzate le attività ripetitive di una società (forme quali la famiglia, le attività economiche ecc.). Il termine “funzionale”, invece, si riferisce al contributo che un’attività ripetitiva fornisce al mantenimento della stabilità o all’equilibrio della società.

17 Talcott Parsons (Colorado, 13 dicembre 1902 - Monaco, 8 maggio 1979) per lungo tempo è stato il più celebre sociologo degli Stati Uniti, e uno dei più noti al mondo.

18 Ibidem., pp. 67 – 68.

15

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culturale e società, a seguito del quale il raggiungimento delle mete risulta

pregiudicato dall’insufficienza dei mezzi e da un indebolimento dell’impegno

dei soggetti nel perseguimento degli obiettivi culturali prescritti19. È la

disuguaglianza sociale dunque, a generare l’anomia.

Merton, inoltre, indica come condizioni che favoriscono l’insorgere del

comportamento deviante, insieme alla stratificazione sociale e al rischio

dell’anomia, la questione di una socializzazione non adeguatamente

sviluppata, che riguarda in particolare i soggetti culturalmente ed

economicamente svantaggiati; per i membri delle classi sociali inferiori,

infatti, la devianza, vista come abbandono dei metodi socialmente legittimati,

appare come l’unico mezzo a disposizione per mantenere vive le aspirazioni

al successo, sulla scorta di una educazione familiare inadeguata.

Un contributo importante alla comprensione del fenomeno è dato

anche da A.K. Cohen, il quale sviluppa e approfondisce ulteriormente la

tematica della devianza in rapporto al fenomeno delle “bande giovanili” e dei

comportamenti violenti e vandalici. Secondo Cohen al fenomeno della

sottocultura delinquenziale è particolarmente esposta la gioventù appartenente

alle classi proletarie, in quanto, esse si trovano in condizione di svantaggio

nel perseguimento degli obiettivi di successo culturale stabiliti dal sistema

sociale; questa situazione determina una reazione di opposizione che sfocia

nel comportamento reattivo verso i valori sociali dominanti, che porta

all’assunzione di atteggiamenti aggressivi e distruttivi20.

19 R. K. MERTON, Teoria e struttura sociale, Il Mulino, Bologna, 1959, pp. 263- 313. 20 Cfr. A. K. COHEN, Ragazzi delinquenti. Una penetrante analisi sociologica della cultura

della gang, Feltrinelli, Milano, 1963.

16

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1.2.2 Il piano psicologico

È ancora lontana dall’essere messa appunto una teoria psicologica

della devianza e dell’aggressività capace di fornire le coordinate scientifiche

necessarie a rendere chiara la formazione dei comportamenti e dei fenomeni

antisociali.

Tuttavia, la costante ricerca di un modello esplicativo di tipo causale

dei comportamenti antisociali, che ha caratterizzato la psicologia, rappresenta

l’elemento di maggiore continuità tra il sapere medico e i paradigmi

psichiatrico e psicologico.

Infatti, non si può prescindere dalla legittimazione epistemologica che

la psichiatria e la psicologia hanno ottenuto nel campo medico, ponendo

l’attenzione sulle patologie mentali ed elevandole a malattie organiche.

Partendo da questo presupposto, malattia e pericolosità sociale

costituiscono l’asse attorno al quale si è realizzata la specificità

epistemologica del sapere psichiatrico e psicologico.

Secondo la teoria psicologica se il deviante è pericoloso, è perché è

irresponsabile dal punto di vista psichico, e se è irresponsabile è perché è

malato. Ed è di conseguenza a questa affermazione che la psicologia è

divenuta, durante il XIX secolo, la Scienza della personalità patologica,

anormale e deviante ed è proprio durante questo periodo di tempo che

l’istanza patologica della devianza, nella prospettiva psichiatrica, ha raggiunto

il suo massimo splendore.

17

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È stato comunque dopo Freud, che le scienze psicologiche si sono rese

conto della relatività delle categorizzazioni nelle differenze tra normalità e

anormalità, in quanto è stata posta l’attenzione sul rapporto tra coscienza e

inconscio nella psiche di ogni soggetto. Lo stesso Freud, nella formulazione

dei fattori determinanti della condotta delinquenziale, ipotizza nel senso di

colpa del soggetto, legato alla non risoluzione del conflitto edipico21,

l’elemento scatenante dell’atto criminale.

Anche secondo Adler il comportamento criminoso può essere

ricondotto al problema di elaborazione di un sentimento di inferiorità il quale

è presente in ogni individuo, ma che, se non viene superato, può dare origine

ad un complesso di inferiorità che costituisce una delle condizioni scatenanti

dell’azione deviante. Oltre al contributo della psicanalisi, non vanno trascurati

gli studi condotti della psicologia sociale e dello sviluppo, applicati in

particolare all’adolescenza, i quali partono dall’identificazione del rapporto

tra identità e società come punto di analisi nell’insorgenza di fenomeni e

comportamenti devianti e aggressivi.

Lo studioso appartenente a questa branca del sapere che ha dato il

contributo più significativo è senza dubbio E.H. Erickson, il quale elabora un

modello interpretativo caratterizzato in senso psicosociale, pur essendo di

matrice psicoanalitica.

21 Sigmund Freud sosteneva che i primi cinque anni di vita del bambino sono dominati

psicologicamente dal cosiddetto complesso di Edipo (la struttura psichica in cui si organizzano i sentimenti amorosi e ostili che il bambino avverte nei confronti dei genitori e dal cui superamento dipende, secondo S. Freud, il futuro profilo psicologico del soggetto).

Dopo la prima grande frustrazione che il bambino subisce con lo svezzamento, ne subentra una nuova nel momento in cui egli, ancora fortemente legato alla madre, si accorge che questa non riversa tutto il suo affetto su di lui,ma anche sul padre. Questa frustrazione porta il bambino a essere attratto dal genitore di sesso opposto e lo induce a porsi in un atteggiamento di rivalità ostile nei confronti di quello del medesimo sesso.

18

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1.2.3. Il Piano bio-medico

Il linguaggio medico, tra la metà del XVIII e la metà del XIX secolo,

ridetermina il proprio oggetto costituendosi come modello di sapere

determinante nella nascita delle scienze umane.

Nell’articolazione discorsiva della medicina moderna si è compiuto il

passaggio epistemologico, che ha fatto del soggetto l’oggetto di indagine

scientifica ed è all’interno di questo sapere che è stato possibile

elaborare una riflessione scientifica sulla individualità.

La medicina riveste un ruolo fondamentale nell’introdurre e

supportare, sul piano della riflessione scientifica, la suddivisione tra

normalità e patologia su cui poggia l’asse epistemologico delle teorizzazioni

sulla devianza. Internamente a questa ripartizione nasce l’interesse scientifico

per l’individualità del soggetto per la lettura dei fenomeni devianti.

Tuttavia, l’importanza del significato dei concetti di salute e malattia

non basta a giustificare fino in fondo il ruolo fondamentale attribuito al sapere

biomedico nello studio dei comportamenti antisociali.

Occorre quindi esplicitare come la medicina sia arrivata a stringere

rapporti con il campo sociale nell’affrontare i problemi relativi allo stato di

salute o di malattia dell’individuo. Infatti, il rapporto tra stato di salute e

rischio di malattia, ha portato ad una condivisione disciplinare tra il campo

biologico e quello sociale, rendendo praticabile un comune terreno

d’indagine che si attestasse attorno alla dimensione della diversità e della

devianza dalla norma.

19

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Un altro aspetto da considerare nel rapporto tra medicina e

comportamento deviante riguarda la funzione giuridica del sapere bio-

medico. Quest’ultimo è attivo, nelle vesti della moderna psichiatria, nella

questione della perizia medico-psichiatrica in rapporto alle condotte

delinquenziali e criminali ed è proprio la questione delle perizie il punto di

maggiore evidenza del collegamento tra medicina e scienze umane.

1.3 Aggressività: cos’e’ e come si manifesta

Negli ultimi anni, la nostra società sembra investita da problematiche

educative particolarmente urgenti: aumento dei disturbi della condotta e

dell’aggressività anche nelle fasce d’età più giovani, la diffusione del

bullismo nelle scuole e l’aumento dei comportamenti devianti e antisociali.

Spesso queste espressioni vengono usate in maniera interscambiabile, ma in

realtà si tratta di situazioninon sovrapponibili. “L’aggressività”, ad esempio, è

un termine utilizzato per indicare “un comportamento intenzionalmente

diretto ad arrecare danno a persone, animali o cose”22.

Per quanto possa apparire semplice, tale definizione implica almeno tre

elementi su cui è opportuno riflettere.

In primo luogo, l’aggressività è relativa a ciò che una persona fa o

dice. Qualora un soggetto si limitasse a formulare pensieri o fantasie

aggressive, non è detto che si possa considerarlo aggressivo.

22Rivista GIUNTI – “Psicologia e scuola”, 121 anno XXV OTT/NOV. 2004 p. 43.

20

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Il secondo elemento riguarda l’intenzionalità dell’atto, anche se questa

ultima, si collega direttamente alla difficoltà della sua rilevazione.

Il terzo elemento, invece, riguarda il concetto di danno, in quanto

esistono differenti tipologie di danno e soprattutto la soggettività

dell’interpretazione di quest’ultimo23.

I manuali di psicologia definiscono l’aggressività come una “reazione

che produce stimoli lesivi su un altro organismo”24. In termini più semplici,

gli stimoli lesivi sono una fonte di danno fisico o psicologico: una percossa,

un insulto o perfino qualcosa di meno diretto, come diffondere voci spiacevoli

o scrivere lettere offensive. L’aggressività non è una reazione così semplice

come potrebbe apparire, e gli atti che ne derivano sono spesso dettati da un

complesso di emozioni: rabbia, gelosia, paura, odio, frustrazione e molte altre

ancora.

Il termine aggressività dunque, viene usato per designare una vasta

gamma di comportamenti molto diversi tra loro.

L’ambiguità di definizione dell’aggressività non riguarda solo il

linguaggio di tutti i giorni, ma anche in psicologia una delle maggiori

difficoltà nel parlare dell’aggressività deriva dal fatto che sotto questa parola

si celano comportamenti molto diversi tra loro.

Se ricerchiamo l’etimologia della parola aggressività, troviamo che

essa deriva dal verbo latino aggredior, composto di ad e di gradior. Gradior

significa

23 Ibidem., p. 44. 24 S LAWSON - Il Bullismo: suggerimenti utili per genitori e insegnanti, Editori Riuniti

Roma 2001 , p. 68.

21

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andare, procedere, avanzare, aggredire, mentre ad invece significa

verso, contro. Aggredior, dunque, significa assalire, andare verso,

intraprendere, cercare di ottenere.

La stessa parola, nella sua radice etimologica, ha in se la stessa

ambiguità che ritroviamo nel cercare di identificarla con un qualsiasi genere

di comportamento.

Il comportamento aggressivo si manifesta principalmente in due forme:

aggressivita’ emotiva: il comportamento aggressivo è scatenato da forti

sentimenti di paura o da una provocazione;

aggressivita’ strumentale: il comportamento aggressivo è usato come

mezzo per raggiungere uno scopo, senza che ci sia stata provocazione o

rabbia nei confronti della vittima25.

Le prime concettualizzazioni dei disturbi aggressivi e di altri

comportamenti socialmente devianti risalgono fino ai filosofi greci, che

cercavano di offrire una sistematizzazione di tali condotte rapportandole a

differenti modelli esplicativi.

Fondamentalmente sono cinque gli approcci alla spiegazione delle

condotte aggressive ed antisociali:

1. l’approccio religioso, per il quale il comportamento aggressivo

era essenzialmente connotato in termini di peccato e di violazione di regole

morali;

25 Ibidem., pp. 69.

22

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2. l’approccio legale, la cui attenzione è volta soprattutto alla

definizione dei criteri necessari per definire un atto aggressivo come crimine

da sanzionare;

3. l’approccio sociale, che concettualizza l’aggressività come

sintomo di condizioni sociali inadeguate;

4. l’approccio medico, che sposta il focus dell’indagine dal piano

intersoggettivo a quello intraindividuale, alla ricerca di possibili fattori

all’origine della condotta disturbata;

5. l’approccio psicoeducativo infine, secondo cui i comportamenti

devianti sono spesso il risultato di un carente apprendimento di abilità sociali

e comunicative, necessarie per interagire efficacemente con gli altri26.

Questi cinque approcci appartengono chiaramente a piani in parte

indipendenti, ma le loro interazioni sono talvolta rilevanti e significative, in

quanto le classificazioni dei disturbi della condotta prevedono alla base di

questi problemi una sistematica violazione di norme sociali.

Al fine di sistematizzare le diverse forme di comportamento aggressivo

e deviante, sono state proposte alcune classificazioni:

1. attivi o passivi: sebbene i primi siano più eclatanti, anche i

secondi possono produrre danni rilevanti;

2. diretti o indiretti: nel primo caso c’è un contatto non mediato tra

le persone coinvolte, nel secondo caso, invece, non si verifica un contatto

diretto;

26 Cfr. Rivista GIUNTI, “Psicologia e scuola”, 121 anno XXV OTT/NOV. 2004 pp. 41 –

42.

23

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3. autodiretti o eterodiretti: è opportuno mantenere distinti i

comportamenti aggressivi diretti contro terzi da quelli rivolti a se stessi, in

quanto le cause possono essere diverse27.

A seconda invece, delle motivazioni che spingono un individuo a

commettere un atto aggressivo, è possibile distinguere 5 categorie:

1. azioni aggressive strumentali: si tratta di atti volti ad ottenere un

vantaggio;

2. comportamenti irritanti: si concretizzano in una serie di

comportamenti fortemente irritanti e disturbanti per chi circonda il soggetto,

senza che ci sia alcun vantaggio da ottenere;

3. aggressività di tipo emozionale: il comportamento aggressivo è il

risultato di stati emotivi fortemente alterati, ed è un comportamento di tipo

impulsivo;

4. comportamenti aggressivi di tipo difensivo: è la tipica situazione

in cui l’atto aggressivo è provocato da altri ed è volto a difendere il soggetto;

5. comportamento antisociale: è un tipo di comportamento deviante

rispetto alle norme sociali, ma utilizzato per conformarsi al gruppo dei pari28.

Il confine tra queste categorie , ovviamente, non è netto, in quanto lo

stesso atto aggressivo potrebbe assolvere contemporaneamente a più funzioni.

Ne consegue che qualsiasi tipologia di classificazione si voglia

adottare, bisognerà comunque confrontarsi con una fenomenologia

estremamente eterogenea.

27 Ibidem., p. 47. 28 Ivi, pp. 47, 48.

24

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1.4 Il bullismo

Il comportamento aggressivo, degenera spesso nel fenomeno del

bullismo29, ma è opportuna una distinzione fondamentale tra aggressività e

bullismo, anche se quando si parla di questo fenomeno, il cui interesse sociale

è sempre crescente, ci si riferisce in realtà ad un insieme di comportamenti

aggressivi.

Quando si parla di bullismo, ci si riferisce in realtà ad un insieme di

comportamenti aggressivi piuttosto eterogenei.

Diciamo che un ragazzo è vittima di bullismo o di maltrattamenti,

quando un altro ragazzo o gruppo di ragazzi, gli dicono cose spiacevoli.

Il bullismo è finalizzato a provocare un danno ad altri o a cose ed

è intenzionale e volontario. Tuttavia mentre il comportamento aggressivo può

essere saltuario, quando si parla di bullismo ci si riferisce ad un fenomeno

caratterizzato dai seguenti aspetti:

esiste una differenza di potere tra il bullo e la vittima. Il bullo

prima di avviare le sue azioni valuta con attenzione la forza e il grado di

isolamento sociale della vittima;

è un atto spesso organizzato e sistematico;

è un comportamento ripetitivo e duraturo nel tempo, colpendo la

vittima o più vittime in maniera reiterata;

29 Il bullismo è un fenomeno sempre più diffuso nelle scuole elementari e medie. Il termine

bullismo è la traduzione italiana dall'inglese "bullying" ed è utilizzato per designare i comportamenti con i quali un singolo o un gruppo, ripetutamente, fa o dice cose per avere potere o dominare una persona o un altro gruppo1nota. Il termine "bullying" include sia i comportamenti del "persecutore" sia quelli della "vittima" ponendo al centro dell'attenzione la relazione nel suo insieme.

25

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il bullo si avvale spesso dell’ appoggio di complici, che possono

aiutare il ragazzo aggressivo nel perpetrare i suoi atti, ovvero possono

coprirne le responsabilità di fronte a terzi;

la vittima teme o non è in grado di difendersi, né di riferire ad

altri l’accaduto per diverse ragioni;

gli eventuali spettatori non intervengono per difendere la vittima

per paura di apparire deboli agli occhi del gruppo;

la vittima viene sostanzialmente deumanizzata, indebolendo

progressivamente la sua autostima, così da eliminare qualsiasi senso di colpa

nel bullo30.

Quindi come si può dedurre il bullismo è un fenomeno meno

estemporaneo dell’atto aggressivo e più pianificato.

Il tema del bullismo costituisce, attualmente, uno degli elementi che

maggiormente catalizza l’attenzione di insegnanti, psicologi e quanti si

occupano di problematiche scolastiche.

Si tratta, infatti, di un fenomeno particolarmente preoccupante, in

grado di compromettere in maniera significativa il funzionamento di una

classe o, talvolta, dell’intera istituzione scolastica. Tuttavia, anche se i

problemi di aggressività possono comparire in età prescolare, il bullismo vero

e proprio è raro nelle scuole materne, infatti si manifesta seriamente solo nella

scuola elementare.

A differenza della scuola materna, qui si riunisce un gruppo numeroso

di bambini di età diverse, con minore sorveglianza. La classe si trasformerà

30Rivista GIUNTI “Psicologia e scuola”, 121 anno XXV OTT/NOV. 2004 p. 46.

26

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rapidamente in una complessa gerarchia e, nonostante ci siano degli

aggiustamenti negli equilibri di potere, molti bambini assumeranno una

posizione di dominio nei primi anni della scuola primaria, che potrà

addirittura protrarsi in quella secondaria e non si tratta certo di una rosea

prospettiva per chi sta alla base della gerarchia. I modelli di bullismo

pertanto, si consolidano sopratutto in età prescolare e alla scuola elementare.

La maggioranza degli episodi, infatti, si verifica a scuola oppure sulla

strada da e verso la scuola31. Sebbene non sia sempre così, considerando la

struttura del sistema scolastico che concentra moltissimi bambini di età

diverse in un unico luogo da cui non è permesso allontanarsi, la cosa non

dovrebbe sorprendere, tanto più che è concessa loro la massima libertà con la

minima sorveglianza da parte degli adulti.

In alcuni casi, il bullismo e l’intimidazione possono continuare in

classe, e talvolta sono tollerati o addirittura incoraggiati dall’insegnante. A

volte è proprio l’insegnante a designare la vittima, riservandole un

trattamento particolare32.

Il bullismo a scuola, dunque, è senza dubbio un fenomeno di vecchia

data. Il fatto che alcuni ragazzi siano frequentemente e ripetutamente

molestati da altri è stato descritto in opere letterarie e molti adulti lo hanno

sperimentato direttamente. Sebbene molti siano a conoscenza di questo

31 Naturalmente un bambino che viene accompagnato dai genitori a scuola, è molto meno

probabile che sia vittima di bullismo, rispetto ad un altro bambino che va a scuola da solo. Ciononostante non è sempre così in quanto si possono verificare casi di bullismo anche all’interno del cortile o addirittura nella stessa classe.

32SARAH LAWSON Il Bullismo: suggerimenti utili per genitori e insegnanti, Editori Riuniti, Roma 2001, pp. 22, 23.

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gravoso problema, solo di recente, agli inizi degli anni Settanta, ci si è

impegnati in uno studio sistematico di tale fenomeno.

Per diversi anni questi tentativi sono stati per lo più limitati alla

Scandinavia. Verso la fine degli anni Ottanta e agli inizi degli anni Novanta,

il bullismo è stato oggetto di attenzione da parte sia dell’opinione pubblica

che degli studiosi in diverse nazioni, tra cui Giappone, Regno Unito, Olanda,

Canada, Stati Uniti e Australia. Alla fine degli anni Sessanta e agli inizi degli

anni Settanta, in Svezia, la società ha iniziato a prestare attenzione ai

problemi relativi al fenomeno del bullismo, e tale attenzione si è diffusa

rapidamente negli altri paesi scandinavi. Le autorità scolastiche, tuttavia, non

si sono interessate direttamente al problema sino ad epoca recente.

Solo pochi anni fa, infatti, un’equipe di psicologi, coordinata da Ada

Fonzi33 ha compiuto una vasta indagine in otto regioni italiane da cui è

emerso che circa il 41% dei bambini che frequentano le elementari si dichiara

vittima di qualche forma di violenza a scuola e il 23% ammette candidamente

di compiere

prepotenze sui compagni. Nel passaggio dalla scuola elementare alla

media si registra, invece, una diminuzione significativa di casi di bullismo

che scende dal 41% al 26%.

I dati della ricerca confermano, inoltre, che il nostro Paese, non solo

non si discosta in quanto a presenza del fenomeno da altri Paesi europei, ma

che anzi li supera. Dalle ricerche effettuate, si evince che il numero di

33 Ada Fonzi, sulla base degli studi di Dan Olweus e di Whitney e Smith, ha condotto una ricerca sul bullismo in Italia. Attraverso un questionario anonimo presentato a 1379 alunni, in cui si chiedeva ai soggetti se fossero stati vittime di bullismo o se comunque erano a conoscenza di persone che lo fossero state, ha ottenuto dei dati sconcertanti. Infatti secondo questa ricerca, il fenomeno è risultato più elevato che in altri paesi.

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bambini italiani coinvolti dal fenomeno è doppio rispetto ai loro coetanei

europei. Se infatti, si riscontra il 6% di bullismo in Finlandia, il 15% in

Norvegia, il 12,5% in Spagna, nel nostro paese la percentuale sale

vertiginosamente. Nelle scuole elementari il 57,2% delle prepotenze fisiche e

verbali avviene in classe o nei cortili dedicati alla ricreazione, nelle medie la

percentuale si abbassa di poco (51,9%)34.

Molto di quello che sappiamo sul bullismo, comunque, lo dobbiamo al

lavoro di Dan Olweus35, un’autorità indiscussa del settore in campo

internazionale, il quale è stato il primo ad interessarsi in modo sistematico al

fenomeno del bullismo.

Una definizione in senso lato di bullismo, compare proprio grazie allo

studioso norvegese, che lo definisce in questo modo: “. Uno studente è

oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando

viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe

in atto da parte di uno o più compagni36”.(Olweus, 1986; 1991)

Come nel caso della condotta aggressiva, un’azione viene definita

offensiva quando una persona infligge intenzionalmente o arreca un danno o

un disagio a un’altra. Alcune azioni offensive possono essere perpetrate

attraverso l’uso delle parole (verbalmente), per esempio minacciando,

rimproverando, prendendo in giro o ingiuriando; altre possono essere

commesse ricorrendo alla forza o al contatto fisico, per esempio picchiando,

34 Cfr. DAN OLWEUS, Bullismo a scuola; ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono Editore

GIUNTI, Usa 1993, pp. 109, 110. 35 Dan Olweus, professore di psicologia all’Università di Bergen (Norvegia), è stato il

primo studioso, agli inizi degli anni 70, a essersi occupato in modo sistematico del fenomeno del bullismo.

36 Ibidem, pp. 11 – 12.

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spingendo, prendendo a calci, tormentando o dominando un altro. In certi casi

le azioni offensive possono essere perpetrate anche senza l’uso delle parole o

del contatto fisico: beffeggiando qualcuno con smorfie o gesti sconci,

escludendo intenzionalmente dal gruppo o rifiutando di esaudire i suoi

desideri.

Il bullismo può essere perpetrato da un singolo individuo - il bullo - o

da un gruppo. Il bersaglio del bullismo può essere un singolo individuo – la

vittima - o un gruppo.

Va sottolineato, però, che il termine bullismo non è usato quando due

studenti, pressappoco della stessa forza fisica o psicologica, litigano o

discutono. Per parlare di bullismo è necessario che ci sia un’asimmetria nella

relazione. Lo studente esposto ad azioni offensive ha difficoltà nel difendersi

e si trova, in qualche modo, in una situazione di impotenza contro colui o

coloro che lo molestano.

Il bullismo, quindi, nel senso generale del termine, indica il fenomeno

nel suo complesso comprendendo il comportamento del persecutore e quello

del perseguitato e si manifesta con delle specifiche modalità.

“In ogni classe come in ogni ambiente che permetta l’interazione tra

più individui ci possono essere conflitti e tensioni di vario tipo, ma anche

molte interazioni moderatamente aggressive: alcune hanno come obiettivo il

divertimento, altre il bisogno di autoaffermazione, altre ancora la misurazione

dei rapporti di forza fisica, soprattutto tra coetanei maschi. Se c’è un

potenziale bullo, ciò sortirà dei precisi effetti: le interazioni saranno dure, più

irruente e violente. Il temperamento irascibile del bullo presente all’interno di

30

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ogni contesto, i suoi marcati bisogni di autoaffermarsi, di dominare e di

sottomettere gli altri, lo fanno sentire forte. Perfino le avversità e le

frustrazioni di poco conto lo spingono all’uso di mezzi violenti e lo portano a

reagire in maniera intensa, spesso aggressiva. I suoi attacchi, per la forza

fisica di cui è dotato, sono spesso per gli altri motivo di sofferenza.

Il bullo preferisce comunque scontrarsi coi ragazzi più deboli, da cui è

certo di potersi difendere e non ha paura di litigare anche con gli altri: di

solito si sente piuttosto forte e sicuro. Se in classe c’è un ragazzo frustrato e

passivo, ansioso, insicuro, timoroso di essere assertivo e aggressivo e

fisicamente debole, viene presto scoperto dal bullo e diviene l’anello debole

della catena: non reagisce se attaccato, piange, è incapace di difendersi.

Generalmente non partecipa ai giochi pesanti con gli altri ragazzi della classe;

si sente, ed è effettivamente, assai isolato ed emarginato. Per il prevaricatore,

il ragazzo frustrato è il bersaglio ideale; la sua ansietà, la sua incapacità di

difendersi e la sua tendenza al pianto conferiscono al bullo un netto senso di

superiorità e supremazia, fornendo una sorta di soddisfazione a reconditi

impulsi di vendetta.

Il bullo generalmente vuole che gli altri si uniscano a lui,

coinvolgendo i suoi più intimi amici nell’atto di attaccare il ragazzo frustrato.

Vi è sempre qualcosa nell’aspetto esteriore di quest’ultimo, nei suoi vestiti o

nei suoi modi di fare che può essere oggetto di attacco. Per il bullo, osservare

gli altri compagni che molestano la vittima è altrettanto piacevole che farlo in

prima persona. Per diversi motivi, i problemi che si vengono a creare restano

sconosciuti al mondo degli adulti.

31

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Di quando in quando anche gli altri ragazzi della classe possono

molestare e ingiuriare il ragazzo preso di mira. E’ un bersaglio sicuro: ognuno

sa che è debole, che non osa reagire e che nessuno dei ragazzi più forti è

pronto a difenderlo. Dopo che uno di questi lo ha attaccato, quelli che lo

molestano successivamente provano di rado sensi di colpa per tali azioni. Si

sviluppano così delle credenze che innescano un processo di

deumanizzazione37 della vittima: è un essere miserabile e privo di valore,

quindi merita di essere picchiato. Si avvia allora una graduale emarginazione

della vittima tra i coetanei. La sua inferiorità nel gruppo dei pari è

ulteriormente comprovata dagli attacchi e dalle ingiurie manifeste: è ovvio,

per chiunque, che è un buono a nulla. Altri compagni non diventano amici

della vittima per il timore di diventare anch’essi oggetto di attacchi, di

disprezzo e di disapprovazione. Altri ancora temono di finire nella stessa

situazione. Alla fine, l’isolamento è totale38”.

Questa è una situazione che potrebbe verificarsi all’interno di ogni

classe e che purtroppo è una realtà per alcuni ragazzi.

Il bullismo, comunque, non si verifica soltanto a scuola, ma sfiora la

vita di tutti, adulti e bambini. Fuori dalla scuola, il bullismo può verificarsi

nei luoghi

di aggregazione dei ragazzi, in famiglia, e perfino tra amici ed in ogni

fase della vita può avere effetti profondi e duraturi sulla vittima. Il timore e

37 Il processo di deumanizzazione della vittima è piuttosto comune quando si parla di

bullismo, in quanto i prevaricatori, tendono a considerare la vittima come un oggetto, come un essere che merita le punizioni e i maltrattamenti che gli vengono inflitti ed il fatto di non considerarlo come una persona, con dei sentimenti e degli stati d’animo, contribuisce alla scomparsa del senso di colpa nei persecutori.

38 Ibidem., pp. 35, 36, 37.

32

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l’attesa della prevaricazione successiva possono impadronirsi di ogni

momento del giorno e debordano negli incubi notturni, causando ansia e

depressione che non lasciano tregua.

Il lavoro e la famiglia diventano fardelli insopportabili, e la più piccola

richiesta o il minimo inconveniente possono essere la goccia che fa traboccare

il vaso in un soggetto al limite della sopportazione. Questa situazione può

provocare l’isolamento all’interno della famiglia e l’esclusione dalla vita

sociale con conseguenti fallimenti sul lavoro e a scuola.

1.4.1 Tipi di Bullismo

Ad ogni modo, per comprendere più a fondo le dinamiche e le

caratteristiche di questo fenomeno è possibile distinguere almeno quattro

classi di comportamenti definibili bullismo.

bullismo fisico: la forma più classica ed intuitiva di bullismo,

che si esplica attraverso un contatto diretto tra l’allievo aggressivo e la vittima

(spinte, pugni, calci…). La maggior parte delle indagini epidemiologiche sul

fenomeno compiute in passato, hanno focalizzato l’attenzione soprattutto su

questa forma di bullismo, in quanto è il più semplice da individuare e quello

che produce i danni più evidenti, anche se non sempre i più gravi.

bullismo verbale: schernire, umiliare la vittima attraverso gli

insulti, il sarcasmo o la diffusione di maldicenze sul suo conto. E’ un’altra

33

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forma di bullismo piuttosto diffusa, sebbene talvolta considerata, a torto,

meno grave del bullismo fisico. Le conseguenze di questo tipo di aggressività

sono spesso dei danni rilevanti all’autostima ed al benessere emotivo del

ragazzo colpito, nonché un suo progressivo isolamento dai compagni di

classe. Il bullismo fisico può essere spaventoso e pericoloso, ma quello

verbale causa alla vittima danni altrettanto devastanti perché può comportare

depressione, angoscia e perdita di autostima; inoltre passa più facilmente

inosservato da genitori e insegnanti. Il bullismo verbale/emotivo può essere

infatti potenzialmente più rischioso di quello fisico;

bullismo non verbale diretto: talvolta, anche la ripetizione di

gesti volgari ed offensivi compiuti da uno o più allievi nei confronti sempre

dello stesso compagno, può essere considerata atto di bullismo. Le

conseguenze per la vittima sono un serio incremento dei livelli di ansia nei

confronti delle situazioni sociali; tendenza ad evitare i compagni e tutte quelle

occasioni sociali in cui si può essere oggetto di tale forma di derisione;

riduzione della propria autostima ecc… Purtroppo anche questa forma di

bullismo non viene sempre considerata con la dovuta attenzione da parte

dell’adulto, che può erroneamente ritenerla solo una forma di immaturità o di

maleducazione da parte degli allievi coinvolti.

bullismo indiretto e manipolativo: una delle forma più subdole e

preoccupanti di bullismo. Consiste fondamentalmente nella manipolazione e

nella rottura dei rapporti di amicizia di cui gode la vittima, al fine di portarla

34

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ad un progressivo isolamento sociale. Anche in questo caso, le conseguenze

possono essere particolarmente destabilizzanti: completo crollo

dell’autostima, sentimenti di depressione collegati al proprio stato di

solitudine, sviluppo progressivo di una radicata incompetenza sociale ecc…

Inoltre questo stato di isolamento rende il soggetto ancora più esposto a tutte

le altre forme di bullismo. Nonostante le conseguenze siano così

drammatiche, spesso questo tipo di bullismo viene trascurato, per due ragioni

fondamentali. In primo luogo, è difficile da rilevare, al contrario

dell’aggressività fisica che lascia segni evidenti e immediati. In secondo

luogo, è problematico comprendere quando l’isolamento sociale di alcuni

allievi è frutto di questa forma di bullismo, oppure è il risultato di scarse

abilità sociali possedute dal ragazzo. Anzi, in alcuni casi, la vittima può

essere accusata dagli adulti di essere incapace a stabilire delle amicizie,

aggiungendo così la beffa al danno già subito. Questa forma manipolativa di

bullismo è più frequente tra le ragazze39.

1.4.2 Il Bullo

Sicuramente i “bulli” nel senso generale del termine, non sono una

novità di oggi, ma fino a qualche anno fa si identificavano con immagini di

personaggi, talvolta divertenti, dal comportamento solo un po’ sfrontato e

ridicolo per mettersi al centro della scena e guadagnarsi l’attenzione degli

altri. Oggi non è più così. Al termine bullo si associa quasi sempre

39Cfr. Rivista GIUNTI – Psicologia e scuola, 122 Anno XXV dic/gen, 2004-2005, pp 46 –

47.

35

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un’immagine di persona spavalda, arrogante, trasgressiva e violenta che mira

deliberatamente a intimidire e a fare del male per affermarsi e sottomettere gli

altri40.

Una caratteristica distintiva dei bulli, implicita nella loro stessa

definizione, è l’aggressività verso i coetanei. Ma i bulli sono spesso

aggressivi anche verso gli adulti, sia genitori che insegnanti.

Un comportamento da bullo, dunque, è un tipo di azione che mira

deliberatamente a far del male o danneggiare; spesso è persistente, talvolta

dura per settimane, mesi e persino anni ed è difficile difendersi per coloro che

ne sono vittime. Alla base della maggior parte dei comportamenti

sopraffattori c’è un abuso di potere e un desiderio di intimidire e dominare.

Alcuni comportamenti da bullo possono essere molto sottili. Una volta

che un alunno o un gruppo di alunni abbiano stabilito una relazione di

dominanza rispetto a un altro alunno o gruppo di alunni, talvolta è loro

sufficiente solo uno sguardo minaccioso per ribadire la propria situazione di

forza.

Generalmente, però, i bulli hanno un atteggiamento positivo verso la

violenza e verso l’uso di mezzi violenti. Sono spesso caratterizzati da

impulsività e da un forte bisogno di dominare gli altri, mentre mostrano

scarsa empatia nei confronti delle vittime41. I bulli hanno spesso un’opinione

relativamente positiva di se stessi. Se sono maschi, tendono ad essere

fisicamente più forti dei maschi in generale e delle vittime in particolare. Il

40MARIALINA LEONE, Bullismo:malessere sociale o predisposizione genetica?, Carello editore, 2000, Roma, p. 5.

41 L’empatia è la capacità di immedesimarsi negli stati d’animo dell’altro. L’assenza di questa caratteristica nel bullo è attribuibile alla deumanizzazione della vittima, il non considerarla come una persona con dei sentimenti impedisce l’empatia tra bullo e vittima.

36

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bullo prova soddisfazione nel far soffrire, fisicamente e psicologicamente, il

suo bersaglio umano anche se questo manifesta chiaramente il suo profondo

disagio o addirittura dolore fisico e interiore. Il comportamento del bullo si

protrae nel tempo ed anche per questa ragione porta la sua vittima a vivere

l’ambiente scolastico come un luogo insicuro e ostile.

In genere il persecutore utilizza come arma per farsi temere e quindi

per rendere la vittima docile al comando, la sua maggiore età o la sua forza

fisica.

1.4.2.1. Il bullo aggressivo

Questo è il bullo che tutti noi conosciamo: sicuro di se, spavaldo, duro

e insensibile verso i sentimenti degli altri. Probabilmente è circondato da

amici ed è molto popolare nel gruppo dei pari, si da importanza e si prende

quello che vuole, non si sottomette subito all’autorità ed è un elemento

difficile da gestire per insegnanti e adulti. Può essere coinvolto anche in altre

forme di comportamento antisociale, come furti e atti vandalici42. Il bullo

aggressivo deve imparare a controllare la sua aggressività e a riconoscere e

valutare i bisogni e i sentimenti degli altri.

Si tratta di un soggetto con buoni livelli di autostima; generalmente

non presenta difficoltà sul piano cognitivo, anzi possiede delle ottime capacità

di pianificazione, che utilizza per progettare e attuare i propri comportamenti

aggressivi, evitando di essere scoperto dall’adulto. Presenta livelli ridotti di

attivazione emozionale: può apparire freddo, comunque possiede un buon

42 S. LAWSON, Il Bullismo: suggerimenti utili per genitori e insegnanti, Editori Riuniti, Roma 2001, p. 32.

37

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livello di autocontrollo emotivo. Queste abilità gli permettono di scegliere

accuratamente la vittima, in modo di evitare rischi di ritorsione. Inoltre è

quasi assente la tendenza ad empatizzare con la vittima: di conseguenza,

raramente prova quei sensi di colpa che, se sperimentati, potrebbero agire da

freno ad ulteriori atti aggressivi. E’ spesso presente anche una forte capacità

di leadership43, che permette al ragazzo di circondarsi di complici fidati. Tali

caratteristiche, nel complesso rendono il bullo un soggetto spesso popolare ed

apprezzato dai compagni. Ha bisogno di essere seguito da vicino sia a casa

che a scuola e gli si impone una serie di regole alle quali attenersi senza

eccezioni, accompagnate da punizioni che dovrà innanzitutto comprendere e

quindi scontare, in caso di trasgressione. Le regole, però, devono essere

realistiche e il comportamento positivo va lodato e premiato con la stessa

assiduità con cui si condanna e si punisce quello negativo.

1.4.2.2. Il bullo ansioso

E’ probabile che questo soggetto sia contemporaneamente vittima e

bullo. La sua personalità è caratterizzata da bassa autostima, ansia e instabilità

emotiva. E’ anche probabile che il bullo ansioso non sia molto popolare tra i

compagni e che vada male a scuola. In questo caso, si registrano elevati livelli

di attivazione emozionale: il ragazzo si presenta impulsivo, con scarso

controllo sui propri stati emotivi, dando luogo spesso ad eccessi di rabbia

imprevedibili ed estemporanei. Presenta di frequente difficoltà a livello

43 La capacità di leadership del bullo spesso lo porta a coinvolgere nelle sue azioni contro le vittime altri compagni i quali lo seguono perchè vogliono stare dalla parte del più forte per paura di diventare una delle sue vittime o per non sentirsi esclusi dal gruppo di amici. Di conseguenza a questa aggregazione si può anche assistere alla formazione delle bande giovanili o meglio baby gang.

38

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cognitivo, che possono sfociare in veri e propri disturbi dell’apprendimento.

Sono possibili disturbi dell’umore e il ricorso a sostanze stupefacenti.

Le conseguenze per il bullo sono due: in primo luogo un soggetto così

irascibile ed imprevedibile andrà incontro ad un progressivo isolamento

sociale, in secondo luogo, il bullo ansioso non sceglie in maniera razionale le

sue vittime; piuttosto, la sua tendenza a reagire in modo imprevedibile a

qualsiasi atteggiamento provocatorio dei suoi compagni potrà portarlo a

scontrarsi prima o poi, con un ragazzo più forte di lui, col quale finirà in una

posizione di inferiorità: da possibile bullo diventerà vittima dell’aggressività

altrui.

Il senso di fallimento lo spinge al bullismo, da cui ricava una

sensazione di potere e di successo che non riesce ad ottenere altrimenti. Il

bullismo concentra su di lui quella attenzione che tanto desidera, anche se si

manifesta sottoforma di paura e punizione. Comportarsi male può essere un

modo per vivere all’altezza dell’immagine negativa che si ha di se: sentendosi

dei cattivi soggetti, si comportano di conseguenza.

1.4.2.3. Il bullo passivo

Questo bambino ha un ruolo gregario nel branco. Non gli interessa

tanto prevaricare gli altri, quanto invece essere parte del gruppo ed è quindi

disposto a fare cose che sa non essere giuste, in parte per farsi accettare, e in

parte perché non si sente responsabile personalmente di quelle azioni. Il bullo

passivo può anche sentirsi più sicuro all’interno del branco, piuttosto che

correre il rischio di essere vittima. E’ possibile che si rende conto del male

39

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che infligge alla vittima, per poi sentirsene colpevole in seguito. Dato che il

bambino non ha un bisogno o un desiderio reale di prevaricare gli altri,

abbandonerà questo atteggiamento se gli svantaggi superano i vantaggi.

1.4.2.4. Bulli temporanei

Non tutti bulli si comportano così per problemi radicati nel loro

processo di crescita o per la loro situazione familiare. A volte eventi

traumatici possono innescare un comportamento aggressivo. Se trattato con

attenzione, il bullismo temporaneo tende a svanire quando le forti emozioni

che lo hanno scatenato si sono placate44.

I bulli sono spesso circondati da un gruppo di due o tre coetanei, da cui

sono sostenuti e che simpatizza per loro.

Il bullismo, infatti, si presenta spesso come fenomeno di gruppo.

Sono cinque i fattori che inducono il bullo e i complici a

coalizzarsi(Menesini, 2000; Sullivan, 2000; Perry, 1988):

compiere un atto aggressivo in gruppo rende molto più difficile

l’ intervento degli insegnanti, sia nell’accertamento dei fatti sia

nell’assunzione di provvedimenti disciplinari. Infatti, è ben diverso adottare

sanzioni nei confronti di un singolo allievo che ha colpito un compagno ed

assumere le stesse misure nei confronti di un gruppo di sette-otto ragazzi, che

insieme hanno aggredito la vittima. Nel secondo caso, gli aggressori potranno

fornirsi giustificazioni a vicenda;

44 Ibidem, p. 33.

40

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il bullo può rappresentare un modello positivo per i compagni.

Infatti, si mostra forte, è in grado di sfidare l’autorità dell’insegnante a spesso

i vantaggi che ottiene con il suo comportamento aggressivo possono essere

superiori agli svantaggi ed alle punizioni ricevute;

in gruppo, diminuiscono le inibizioni sociali. Di conseguenza,

talvolta si ritrovano nei gruppi aggressivi anche soggetti che, presi

singolarmente, non metterebbero in atto quei comportamenti devianti;

Il gruppo ha anche l’effetto di diluire le responsabilità

individuali, imitando il comportamento dei compagni e condividendole con

gli altri;

Lo stesso fenomeno di deumanizzazione della vittima può

indurre gli altri compagni a considerarla responsabile, almeno in parte, del

fatto di subire l’aggressività del bullo45.

1.4.3 La vittima

Le vittime del bullismo, invece, presentano una scarsa autostima e

soprattutto nutrono poca fiducia nelle proprie capacità fino a diventare

ansiosi, timidi e chiusi in se stessi. Possono avere difficoltà nel sentirsi

accettati dagli altri, convincendosi di essere incapaci di concludere qualcosa

di positivo.

Questo atteggiamento può attirare ulteriori maltrattamenti e il risultato

del bullismo subìto a scuola è un adulto imprigionato a vita nel ruolo di

45 Cfr. Rivista GIUNTI, “Psicologia e scuola”, 122 Anno XXV dic/gen, 2004-2005, pp.

49,50.

41

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vittima. La vittima è un soggetto ipersensibile e percepisce se stesso come

vulnerabile e impotente di fronte al suo torturatore subendone passivamente le

angherie più efferate. Ha paura, inoltre, di raccontare quello che subisce

perché teme ritorsioni e di non essere creduto; scivola, così, giorno dopo

giorno, nel buio della totale disistima verso se stesso, incapace di tagliare i

lacci psicologici della sottomissione che ha ormai interiorizzato. I ragazzi

complici di coetanei aggressori, possono manifestare le caratteristiche che

sono comuni alle vittime. Anche solo chi è testimone del bullismo può

rimanere coinvolto sentendosi angosciato e in colpa, spaventato all’idea di

poter essere la prossima vittima. Il bullismo quindi non è una normale e

innocente marachella da bambini, ma è dannoso e pericoloso per tutti quelli

che ne vengono coinvolti.

Si è cercato di suddividere in categorie le vittime, che si

distinguerebbero sommariamente in due tipi: la vittima passiva e la vittima

che provoca.

1.4.3.1. La vittima passiva

Le vittime passive sono solitamente più deboli dei ragazzi in generale,

più ansiose e insicure degli studenti in generale. Inoltre sono spesso caute,

sensibili e calme. Se attaccate da altri studenti, in genere reagiscono

piangendo e chiudendosi in se stesse. Le vittime passive, soffrono anche di

scarsa autostima e hanno un’opinione negativa di se e della propria

situazione. Spesso si considerano fallite e si sentono stupide, timide e poco

attraenti. Solitamente, vivono a scuola una condizione di solitudine e di

42

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abbandono. Di regola, non hanno un buon amico in classe46. Il bambino

timido e tranquillo è una vittima facile e invitante. E’ un soggetto ansioso,

con scarsa autostima, incapace di difendersi, che crolla facilmente di fronte

allo scherno, allo minacce e all’aggressione del bullo.

Il comportamento e l’atteggiamento delle vittime passive segnalano

agli altri l’insicurezza, l’incapacità, nonché l’impossibilità o difficoltà di

reagire di fronte agli insulti ricevuti. Ragazzi con tali caratteristiche hanno

probabilmente difficoltà ad affermare se stessi nel gruppo dei coetanei. Ci

sono perciò buone ragioni per credere che queste peculiarità contribuiscano a

renderli vittime del bullismo. Nello stesso tempo, è ovvio che l’attacco

ripetuto da parte dei coetanei aumenti considerevolmente la loro ansia, la loro

insicurezza e la valutazione negativa di se stessi.

1.4.3.2. La vittima che provoca

Questa vittima attira su di se il bullismo a causa del suo

comportamento sopra le righe47. E’ un soggetto irascibile, che crea situazioni

conflittuali e reagisce agli insulti e al bullismo, forse aggravandoli.

Si tratta di ragazzi che presentano difficoltà di autocontrollo

comportamentale, deficit d’attenzione ed impulsività.

46 Le vittime passive non sono soggetti aggressivi, né molesti; per questo, non si può

spiegare il bullismo attribuendolo alle provocazioni delle vittime stesse. Spesso questi ragazzi hanno un atteggiamento negativo verso la violenza e l’uso di mezzi violenti. Se sono maschi, probabilmente sono fisicamente più deboli della media.

47 Le vittime che provocano a differenza delle vittime passive, con il loro comportamento disturbante possono determinare negli altri tali livelli di irritazione, da indurre una risposta aggressiva nei loro confronti.

43

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Questi studenti hanno spesso problemi di concentrazione e si

comportano in modo tale da causare irritazione e tensione; alcuni di questi

possono essere definiti iperattivi. Non è raro che il loro comportamento

provochi reazioni negative da parte di molti compagni o di tutta la classe. Le

dinamiche del bullismo connesse alla presenza di vittime provocative

differiscono in parte da quelle che coinvolgono vittime passive.

Etichettare i bambini/ragazzi come vittime per natura serve soltanto a

spostare la responsabilità e il senso di colpa dal bullo alla vittima. Non v’è

dubbio che alcuni bambini sono meglio equipaggiati di altri a resistere agli

attacchi dei bulli, perché hanno autostima, senso dell’umorismo e la capacità

di prendere la vita come viene, ma sarebbe sbagliato considerare la vittima

come un soggetto con qualche carenza o , in qualche misura, colpevole.

Tuttavia, dal punto di vista del bullo, alcuni bambini/ragazzi sono vittime

molto più facili di altri. Anche se non possiamo predire con certezza quale

singolo individuo diventerà una vittima, possiamo identificare dei fattori che

espongono a rischi decisamente maggiori.

Il bullo è alla ricerca proprio di quei punti deboli che può facilmente

scoprire e quindi sollecitare, provocando una risposta immediata e intensa che

gli conferisce potere sulla vittima. Questo punto debole può avere origine

nella famiglia, essere causato dai genitori o dai compagni, e venire

identificato più facilmente dal bullo per alcuni tratti che contraddistinguono la

vittima dagli altri.

Nel fenomeno del bullismo, oltre alla vittima, al bullo e ai suoi

complici, troviamo un quarto protagonista:

44

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1.4.3.3. Lo spettatore silenzioso

Spesso i ragazzi che assistono agli episodi di bullismo preferiscono

tacere o far finta di non aver visto. Le ragioni di questo loro comportamento

sono facilmente intuibili: non si intromettono perché hanno paura di

ritorsioni; oppure, ritengono che la vittima in qualche modo sia responsabile

di quanto accade; ancora, temono di diventare vittime a loro volta; ritengono

che il bullismo sia un fatto inevitabile; infine, non riescono ad empatizzare

con la vittima e, quindi, non sono motivati ad intervenire.

Finora si è parlato genericamente di soggetto bullo o vittima. Tuttavia,

esiste una forte eterogeneità fra i ragazzi che assumono comportamenti

aggressivi, così come tra quelli che diventano vittime.

Le etichette di vittima e di bullo possono essere fuorvianti. In moti casi

le ragioni che spingono un bambino a essere vittima o bullo sono le stesse;

succede addirittura che lo stesso soggetto rivesta simultaneamente entrambi i

ruoli o che si sposti da uno all’altro, in momenti diversi della sua crescita e

vita scolastica.

Peter Stephenson e David Smith48, due psicologi dell’età evolutiva, che

hanno condotto ricerche nelle scuole di Cleveland, individuano la chiave del

fenomeno nello squilibrio all’interno dell’interazione. Il bullo è più forte,

fisicamente o socialmente, o per entrambi gli aspetti, ed è pertanto destinato a

vincere sempre, mentre la vittima, più debole, perderà sempre.

48S. LAWSON, Il Bullismo: suggerimenti utili per genitori e insegnanti, Editori Riuniti– Roma 2001, p. 20.

45

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Un altro dato importante riguarda la differenza dei comportamenti

bullistici tra ragazzi e ragazze.

Infatti, anche se non è sempre così, le ricerche e l’osservazione del

fenomeno hanno dimostrato che i ragazzi sono più diretti delle ragazze nel

loro approccio con il bullismo, tanto che fino a poco tempo fa era

universalmente accettato il principio che i ragazzi fossero più inclini al

bullismo delle ragazze, a causa della loro natura più aggressiva.

In realtà, una ricerca più recente ha rilevato che le femmine hanno le

stesse probabilità di commettere episodi di bullismo, anche se questi si

manifestano in forme differenti, e non sono sempre riconosciuti da insegnanti

e genitori come tali. Non sono stati condotti molti studi per stabilire quanto la

separazione dei maschi dalle femmine incida sulla percentuale e sulla natura

del fenomeno, ma i dati esistenti indicano che le scuole miste sono più sicure

per ragazzi e ragazze.

Probabilmente la radice del problema è la mancanza di una guida forte

nella vita dei ragazzi: lo scarso controllo di adulti e genitori. Il fenomeno, in

realtà, colpisce chiunque. Spesso la vittima si trova semplicemente nel posto

sbagliato e al momento sbagliato, il ragazzo che dopo la scuola torna a casa

da solo, è un bersaglio più facile di chi cammina in mezzo agli amici o di chi

si fa venire a prendere dai genitori, ma il fatto che viva in una strada diversa

rispetto agli amici non dice assolutamente nulla di lui come persona.

I parametri migliori per valutare il problema, in ogni caso, sono

probabilmente le osservazioni di coloro che lavorano a stretto contatto con i

ragazzi: insegnanti, assistenti sociali, psicologi e altre figure professionali ed

46

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educative. Michelle Elliot, insegnante e psicologa dell’età evolutiva,

fondatrice di Kidscape49, afferma che il bullismo è non soltanto in crescita,

ma che anche le modalità di aggressione dei bulli sono più perverse: si usano

coltelli fiammiferi, quando prima si davano pugni e calci. Questa

accentuazione della violenza e della gravità del fenomeno si accompagnano

all’abbassamento dell’età: è successo addirittura che un bambino di sette anni

desse fuoco a un suo coetaneo.

Sarebbe, comunque poco realistico pensare che si possa cancellare

completamente il fenomeno del bullismo: ci saranno sempre alcuni ragazzi

che sentendosi spaventati, infelici, inadeguati o semplicemente insopportabili,

ritengono che ferire o intimidire gli altri, aiuti a colmare le proprie lacune. Se,

però, genitori, scuola e ragazzi lavorano congiuntamente, gli effetti del

bullismo possono essere minimizzati, talvolta usati addirittura a vantaggio di

tutti.

49 Kidscape è una agenzia di volontariato che si trova in Gran Bretagna che ha il compito di

effettuare ricerche sulla natura e sulla frequenza del bullismo e di approntare programmi di formazione per chi lavora a contatto con i ragazzi al fine di riconoscere e di prevenire il fenomeno.

47

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CAPITOLO ΙΙ: IL GRUPPO DEI PARI TRA “CENTRO”E “PERIFERIA”

2.1. Le caratteristiche del gruppo dei pari

Con il termine adolescenza si intende il periodo che intercorre tra

l’infanzia, la fanciullezza e l’età adulta. Durante l’infanzia avviene in modo

ininterrotto un processo di crescita, ma la crescita accelera e acquista un

significato decisivo quando il bambino giunge all’età di dodici anni. Egli

cresce in qualità e quantità. Non c’è solamente un aumento di statura e di

peso, uno sviluppo della capacità mentale e della forza fisica, ma anche un

cambiamento di modo di essere, un’evoluzione della personalità50. È una fase

evolutiva dunque, che va all’incirca dai 14 anni ai 18-19 anni e si caratterizza

per una serie di trasformazioni fisiologiche, psicologiche e sociali, le quali

portano ad una trasformazione globale della personalità del ragazzo che

attraversa questa fase di transizione. A questo proposito M. Debesse afferma

che: “L’adolescenza è un’età chiusa, volutamente segreta, che sfugge ai

perché o dà risposte non sempre attendibili; essa è anche un’età mutevole, il

cui modo di manifestarsi può disorientare l’osservatore più attento; e si

illude facilmente sul proprio conto”.51Il significato peculiare

dell’adolescenza, tuttavia, è stato compreso pienamente solo in epoca recente,

infatti, “ l’adolescenza è stata a lungo trascurata. Oggi invece, essa suscita

un forte interesse in un pubblico sempre più vasto, così come lo farebbe un

nuovo continente appena scoperto. I romanzieri, vi cercano spesso i loro

50G. CASTLLIO, L’adolescenza e i suoi problemi, Ed. Le Monnier, , Pamplona 1981, p. 18. 51M. DEBESSE, L’adolescenza, ed. A.V.E., Roma 1966, p. 17.

48

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personaggi. Gli uomini di stato contano su di essa. I giornalisti la incensano

senza riserve e si tende a creare intorno ad essa una specie di mistica”52.

L’idea di gruppo è immediatamente presente all’esperienza quotidiana

di ciascuno, non altrettanto immediata invece è la definizione. Si potrebbe

dire in generale che il gruppo è una forma particolare di vita associativa che si

distingue da ogni altra per le sue particolari caratteristiche di ordine

psicosociale. Le sue dimensioni generalmente ridotte, la vicinanza anche in

senso fisico delle persone che lo compongono, l’immediatezza dello scambio

e della comunicazione, fanno si che i suoi membri possano intrattenere

costanti relazioni reciproche e possano percepirsi vicendevolmente come

persone al di la di ogni possibile mediazione di ruolo e posizione. Questo

comporta uno stretto intersecarsi di dinamiche individuali e sociali, che

costituiscono le peculiarità della vita di gruppo. In effetti tutti i fenomeni

interazionali tra persone che a vicenda si percepiscono e si riconoscono come

tali comportano una serie di processi e di strutture di ordine psicologico sia

sul piano cognitivo sia su quello emozionale: valutazioni, giudizi,

atteggiamenti, correnti di simpatia, repulsioni e attrazioni. Nell’ambito di un

gruppo la partecipazione all’elaborazione delle idee, alle decisioni, ai compiti

è molto più intensa, più immediata e personale, di quanto non sia in altre

forme della vita associativa. La percezione di sé come membro di un gruppo

serve come polo di articolazione particolare del comportamento e della

personalità in quanto il gruppo può diventare punto di riferimento, luogo di

convalida di atteggiamenti e di idee: in sintesi, pensare ed agire in quanto

52 Ibidem, pp. 9 e 21.

49

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membro di un gruppo non è come pensare ed agire in quanto individui isolati.

Infine la percezione che la persona ha del gruppo in quanto gruppo, sia verso

l’interno sia verso l’esterno, costituisce una base per la coordinazione

collettiva dell’agire comune e per il sentimento di solidarietà e di

appartenenza53.

Fare parte di un gruppo, rafforza la propria autostima, ci si sente più

forti perché non soli, il gruppo conferisce un’identità e senso di appartenenza

ai suoi membri.

I gruppi, si possono distinguere in gruppi informali54 e gruppi

formali55. I primi si caratterizzano per l’assenza di controllo da parte degli

adulti e per il fatto di non avere particolari finalità e vengono definiti

variamente a seconda del luogo privilegiato in cui svolgono l'attività in

comune56. I gruppi formali invece, a differenza di quelli informali, sono

costituiti da ragazzi che hanno interessi comuni e che in qualche modo si

trovano a far parte dello stesso gruppo perché obbligati da determinate

circostanze, come l’appartenere allo stesso gruppo – classe o ad una squadra

sportiva.

Tuttavia bisogna distinguere ulteriormente i gruppi a seconda delle

dimensioni del gruppo stesso, infatti, esistono i piccoli gruppi (costituiti da

meno di 5-6 ragazzi) all’interno dei quali tendono a stabilirsi rapporti faccia a

53 P. A. AMERIO, P. BOGGI CAVALLO, A. POLMONARI, M. L. POMBENI, Gruppi di

adolescenti e processi di socializzazione, Il Mulino, Bologna 1990, pp. 34, 35. 54 Si intende per gruppi informali quei tipi di gruppi composti da ragazzi che non hanno

necessariamente uno scopo, un obiettivo o un interesse comune, ma che si formano attraverso scelte autonome da parte dei ragazzi stessi.

55 Per gruppi formali si intendono gruppi composti da ragazzi uniti tra loro da interessi, scopi o obiettivi comuni (quali la classe scolastica o la squadra sportiva).

56P. Bertolini ”La responsabilità educativa” p. 227.

50

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faccia, scambi centrati su forme di confidenza e di intimità che possono

scivolare in rapporti disdici. Un rapporto privilegiato tra due ragazzi non è

ovviamente controproducente in assoluto, anzi le relazioni amicali possono

suscitare sentimenti di solidarietà e pratiche di aiuto reciproco spesso

favorevoli a un cambiamento del modo di rapportarsi all’altro. Lo scopo della

vita di gruppo non è tanto quello di favorire amicizie, quanto quello di

provocare, attraverso l’esperienza del fare insieme, una rivisitazione del

proprio modo di pensare l’”altro generalizzato” e di rapportarsi ad esso.

Nei grandi gruppi (costituiti da più di dieci ragazzi), invece, tendono a

svilupparsi, in modo quasi automatico, delle gerarchie interne fondate sulla

distribuzione di ruoli e di potere che spesso annullano qualunque forma di

comunicazione e conoscenza reciproca tra i ragazzi. Anche in questo caso, il

dispositivo della gerarchia non è non è da evitare in assoluto in quanto esso

permette una certa organizzazione del gruppo stesso. I ragazzi addestrati a

dominare la realtà trovano nel grande gruppo un terreno favorevole per

riproporsi come leader tendenzialmente indifferenti al punto di vista altrui; i

ragazzi più propensi a subire le costrizioni di una realtà di cui non si sentono

attori, riescono facilmente a mimetizzarsi in un gruppo che per le sue stesse

dimensioni consente loro di scomparire come protagonisti.57

Tuttavia bisogna precisare che lo sviluppo della socialità

dell’adolescente, comincia con il superamento dell'egocentrismo infantile

verso i 9/11 anni, ma è solo verso i 15/16 anni che il sentimento della socialità

57P. BERTOLINI, L. CARONIA, Ragazzi difficili: pedagogia interpretativa e linee di intervento, Ed. La Nuova Italia, , Firenze 1993, pp. 143, 144.

51

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orienta il soggetto verso rapporti di parità con gli altri e verso forme ideali di

amicizia che non devono più rispondere alla necessità di avere compagni con

cui giocare e divertirsi ma amici con cui coltivare ideali o condividere idee. In

questo periodo della vita diventano fondamentali gli amici, che non sono più

dei compagni di giochi ma dei confidenti e delle persone con cui confrontarsi.

Si sente l’esigenza di fare parte di un gruppo di coetanei con cui trascorrere il

tempo libero, condividere interessi, confrontarsi.

La figura dell’amico del cuore in questo periodo acquisisce grande

importanza, ci si sente più sicuri quando si è con lui, lo si vede spesso come

uno da imitare, da cui trarre spunto per formarsi un’identità.

Durante l’adolescenza le relazioni con i coetanei acquistano quindi

molta importanza e provocano preoccupazioni ed interessi non trascurabili.

Gli adolescenti sono interessati a stabilire relazioni sociali e, pertanto,

scelgono attività dove tali relazioni possano essere facilmente allacciate. Ed è

in questo interesse sociale che si riscontrano le maggiori differenze tra i

gruppi di adolescenti e quelli dei fanciulli. I primi tendono, quando le

circostanze ambientali lo permettono ad una collettività mista di ragazzi e di

ragazze e a scegliere attività convenienti ad ambedue i sessi; inoltre le attività

dei gruppi di adolescenti sono principalmente di natura sociale mentre quelle

dei fanciulli sono piuttosto di tipo avventuroso. D’altra parte l’adolescente

possiede maggiormente la coscienza di appartenere a un gruppo, dà maggiore

importanza all’esperienza soggettiva nella sua vita di gruppo, ed è più

sensibile ai sentimenti di accettazione o di rifiuto di cui si sente oggetto.

52

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All’interno del suo gruppo di pari l’adolescente sperimenta i suoi

bisogni sociali ed affettivi, trova un contenitore e un sostegno, utilizza

l’identità collettiva per consolidare quella personale; è nel gruppo che

l’adolescente si definisce e si attribuisce un valore personale. Il gruppo quindi

è un'area che permette o meglio facilita il passaggio dall'infanzia all'età

adulta, dalla famiglia alla società.

Il contatto con il gruppo dei pari assume dunque grande rilevanza

proprio in concomitanza con i primi tentativi di emancipazione del ragazzo

dalla famiglia: infatti il tentativo di superamento della dipendenza dagli adulti

è legato all'instaurarsi di nuovi legami nell'ambito del gruppo dei pari e di

nuove regole condivise con i coetanei. Il gruppo adolescenziale fonda un

proprio linguaggio e propri valori orientando atteggiamenti e comportamenti

del singolo. L'appartenenza al gruppo, grazie alle regole stabilite, richiede

autentiche dimostrazioni di fedeltà, determinando quei fenomeni di

conformismo e di contagio che caratterizzano i gruppi adolescenziali. La

psicologia dei gruppi, tuttavia, varia in rapporto all'età di coloro che li

compongono, secondo la loro patologia mentale, secondo la cultura alla quale

essi appartengono.

Ma come accade per gli adulti, le relazioni del gruppo sono presenti

nel corso dell'evoluzione della vita del bambino e dell'adolescente e la

tendenza al raggruppamento presenta un carattere specifico già dalla più

tenera età.

Nell'età scolare, infatti, la proposta del "gruppo-classe" assorbe e

soddisfa la quasi totalità dell'attrazione per il gruppo, che caratterizza allora la

53

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dinamica psichica del bambino; questo gruppo organizzato dall'adulto

privilegia i comportamenti di affiliazione, tradizionalmente funzionali

all'apprendimento, danneggiando spesso la creatività. Il gruppo vero e

proprio, tuttavia, si può formare solo in seguito ad una presa di distanza nei

confronti dell'adulto. Questa soluzione sembrerebbe essere per l'adolescente

l'unica possibile per accedere all'autonomia. Così il gruppo gli permetterà di

separarsi dal suo nucleo familiare. Per questo motivo, il riconoscimento e

l'elaborazione del divario tra il suo ideale dell'io e quello del gruppo gli

permetterà di costruirsi il suo futuro ideale dell'io e di accedere ad un'altra

tappa della socializzazione, utilizzando l'ideale gruppale come sostegno dei

suoi oggetti di identificazione.

La socievolezza crescente durante l’adolescenza, il bisogno di far parte

di un gruppo, di essere accettato dai coetanei, quindi, non è fortuita, né

casuale, né senza importanza. Il gruppo “spontaneo” di adolescenti è una

esigenza dello sviluppo adolescenziale nella nostra società moderna. Tuttavia

essendo l’adolescenza una riorganizzazione della personalità su di una base di

indipendenza; tale riorganizzazione è dovuta a molteplici fattori di ordine

personale e ambientale e cambia radicalmente il senso della motivazione

dell’età precedente. Infatti l’adolescente ricerca uno status indipendente, non

si accontenta più di uno status fondato sull’accettazione di una autorità

superiore. L’adolescente per il suo status è più vicino all’adulto che al

bambino, e vuol essere trattato da adulto, vuol essere riconosciuto come

54

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persona indipendente. 58 Attraverso la ricerca e la formazione del gruppo gli

adolescenti rispondono all’esigenza appunto di dare una soluzione alla

privazione di status indipendente nella società urbana, ma il gruppo per

l’adolescente risponde anche ad altre esigenze di questa età. Infatti, il gruppo,

con l’appoggio emotivo che fornisce, aiuta l’adolescente ad emanciparsi dai

suoi genitori: perché quando l’adolescente deferisce al gruppo il diritto di

proporre norme di condotta, egli afferma per ciò stesso, il diritto

all’autodeterminazione proprio perché non è diverso dai suoi coetanei. Inoltre

il gruppo è un mezzo protettivo contro l’autorità e le interferenze dell’adulto:

infatti esso permette esperienze ed apprendimenti di ogni genere e, quando lo

permetta l’ambiente, offre la occasione ai ragazzi e alle ragazze di stare

insieme. Infine, il gruppo riduce la massa delle frustrazione, e non solo di

quelle che sono legate all’adolescenza stessa, ma anche di quelle che toccano

solo determinati adolescenti. Una ulteriore componente fondamentale

all’interno dei gruppi è la solidarietà dei componenti che rende i gruppi molto

compatti, infatti, i giovani si sostengono reciprocamente e si contrappongono

al mondo degli adulti.

Il gruppo di compagni domina i pensieri ed il comportamento

dell’adolescente, infatti, è estremamente difficile che egli violi

deliberatamente le regole del gruppo. Il gruppo di compagni è composto da

individui che si trovano approssimativamente allo stesso livello di sviluppo

emotivo; età cronologica o capacità intellettuale, malgrado entrambe abbiano

un certo peso, non sono elementi determinanti. Benché, in apparenza, il

58 G. LUTTE, L’adolescente e il suo gruppo: un reattivo sociometrico per la scuola secondaria, Pas – Verlag, Zurich – Schweiz, 1964, pp. 9, 10.

55

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gruppo sembri dominato dall’autorità di alcuni dei suoi componenti, la sua

forza coesiva interna consiste per la maggioranza dei suoi membri, nella

reciproca empatia emotiva. Può accadere che individui eccessivamente incerti

cerchino di inserirsi in un gruppo incompatibile con la loro personalità, ma in

questo caso essi imitano i componenti del gruppo per ottenerne

l’approvazione; tendono però a rimanere al limite del gruppo mentre gli

autentici componenti ne formano l’elemento intrinseco59.

Malgrado il severo controllo che domina il gruppo, l’alleanza non dura

per sempre; quando uno dei componenti si dimostra disubbidiente, viene

escluso dal gruppo. Può anche darsi che egli si allontani di sua spontanea

iniziativa, se il corso del suo sviluppo emotivo si rivela diverso da quello dei

compagni, considerati nel loro complesso. Durante i periodi in cui il grado di

maturazione dell’individuo è soggetto ad accentuate oscillazioni, egli può

entrare a far parte di più di un gruppo. Si atterrà alle norme che regolano la

vita del gruppo che è, per il momento, maggiormente conciliabile col proprio

stato emotivo, per passare in seguito senza eccessive esitazioni ad un altro

gruppo, allorché l’ascesa o il regresso del suo livello di maturità

influenzeranno i suoi bisogni e le sue capacità60.

Accanto ai vantaggi dell’appartenere ad un gruppo, tuttavia, si possono

intravedere degli aspetti negativi: protetti dal gruppo ci si sente forti e si

possono commettere azioni sconsiderate dettate da sensazioni di onnipotenza,

59 Cfr. I. M. JOSSELYN, L’adolescente e il suo mondo, trad. di Giuliana Beretta, Giunti

Barbera, 1964, Firenze. 60 Ibidem, p. 51.

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si possono assumere comportamenti contrari ai propri principi per la paura di

contraddire il gruppo e rimanere soli.

Spesso infatti gli adolescenti commettono trasgressioni in gruppo, ma

raramente, questi gruppi hanno le caratteristiche della banda dedita

abitualmente ad atti delinquenziali da cui ricavare profitto. Si tratta invece di

solito di gruppi formati da un nucleo di tre o quattro amici, in prevalenza

minorenni, a cui si aggiungono compagni più o meno occasionali, che

trascorrono in luoghi abituali di ritrovo gran parte del proprio tempo libero in

attesa di scoprire cosa fare e dove andare e soprattutto come divertirsi.

Improvvisamente però, e quasi insospettatamente, si ritrovano coinvolti

nell'iter di un procedimento penale per aver commesso un'azione di cui per lo

più ignorano la gravità e le conseguenze.

Ad ogni modo, il fenomeno della devianza di gruppo in Italia è

diversificato rispetto alle bande intenzionalmente organizzate e strutturate

gerarchicamente per commettere reati che si possono riscontrare in Paesi

europei ed extra europei. Laddove si verificano episodi di devianza commessi

da gruppi con modalità più o meno differenziate, si tratta comunque

principalmente di minori che spesso presentano gravi problematiche socio-

economiche e familiari. Considerando quindi l’insieme delle funzioni che il

gruppo di coetanei assume, si comprende la sua importanza nello sviluppo

adolescenziale almeno nella nostra cultura urbana e industriale.

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2.2. Il linguaggio adolescenziale e la cultura hip hop

L’uomo, nella sua evoluzione sociale e culturale, ha avvertito la

necessità non solo di comunicare con i suoi simili, ma di tramandare le sue

esperienze di vita e le sue invenzioni. L’uomo sociale è nato ed è cresciuto di

pari passo con il linguaggio, cioè con quella somma di suoni (parole)

articolati e ponderati che l'essere umano emette in numero quasi illimitato di

combinazioni.

La lingua ha due generi di espressione: l'intellettuale e l'affettivo.

L'espressione intellettuale permette a chi scrive di vedere quel che ha da dire

con calma, di rileggere il già scritto per disporre il pensiero in proposizioni il

più coordinate possibile, in modo da fornire non solo un pregevole contenuto,

ma anche una forma di espressione comprensibile a tutti. L'espressione

affettiva invece, comporta la necessità non solo di pensare e di esprimersi nel

tempo stesso, ma anche di dover pensare, nel momento in cui si esprime il già

pensato, a quello che si deve dire subito dopo. Ciò comporta,

necessariamente, la volontà di esprimere i nostri pensieri e sentimenti allo

stato grezzo, data la contingente immediatezza, in modo che la parola usata

sia compresa in ogni caso da chi ci ascolta. Ed ecco, quindi, che usiamo non

solo le espressioni immediate di nostri sentimenti, ma anche le frasi fatte, di

dominio comune, ed i modi di dire presi dal nostro dialetto (a volte anche

espressioni volgari): parole che vengono spontanee in mancanza di modi di

dire più ricercati, che non si ha il tempo di realizzare nella mente nell'urgenza

dell'esprimersi. Queste ultime considerazioni comportano una ulteriore

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distinzione sulle componenti dell'espressione affettiva: la lingua espressiva e

la lingua dell'uso.

La lingua espressiva ama la formulazione imprecisa, istintiva, del

pensiero o del sentimento, poichè conta su un uditorio che è, o può essere

portato, nello stesso stato d'animo di chi parla, e quindi può comprenderlo in

tutto ciò che è sottinteso, ma è richiamato all'attenzione da determinate parole

come da gesti abituali o mnemonici.

La lingua dell'uso, altra componente dell'espressione affettiva, obbliga

chi parla o scrive di porsi al livello medio degli ascoltatori o lettori; ciò

perchè, per farsi comprendere, bisogna usare soltanto quelle parole che si è

certi tutti riescono a capire. Praticamente la lingua dell'uso è una lingua

approssimativa, generica, fatta più di segni di idee e di cose piuttosto che di

parole che servono ad indicare quelle idee e quelle cose.

Ogni contesto, ogni luogo ed ogni situazione richiede un modo di

comunicare e dunque anche un linguaggio differente ad ogni occasione.

Anche nel gruppo di adolescenti si può notare un utilizzo abbastanza

particolare del linguaggio comune.

Come ben sappiamo l’adolescenza è una fase molto ampia in cui

avviene un’evoluzione continua e significativa, ed in cui non è possibile

proporre delle generalizzazioni. Si costituisce essenzialmente come un

periodo di “iniziazione” alla vita adulta, che comporta la celebrazione di

alcuni rituali, elementi visibili attraverso i quali le società conferiscono il

riconoscimento dello stato adulto. I più anziani avevano il dovere di

trasmettere ai giovani il loro sapere e, una volta che questi erano diventati

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adulti, il potere. Oggi questi rituali sono sempre meno frequenti e le

generazioni più anziane spesso non rappresentano più per i giovani né una

fonte di sapere, né un modello da imitare. Ecco perché i giovani tendono a

distinguersi dalle generazioni che li hanno preceduti, anche attraverso

l'utilizzo di particolari codici comunicativi ed interpretativi che consentono

loro di spiegarsi e di comprendersi con un linguaggio nuovo e originale, il

quale porta alla formazione di un vero e proprio lessico adolescenziale61.

All’interno del lessico adolescenziale è poi possibile ricavare lessici ancora

più particolari e ristretti a gruppi di dimensione molto variabile, classificabili

secondo una vasta tipologia di appartenenze.

Si passa così da un “dialetto di riferimento” (o parlata geografica) ad

una “categoria sociale e di ambientazione” (studenti, operai, città, periferia,

paese…) ad una “categoria di gruppi” (metallari, skinhead, ambientalisti,

motorizzati …). La caratteristica dominante del lessico giovanile riguarda

l’uso di termini non convenzionali e di espressioni che sarebbero considerate

improprie e censurabili in altri contesti.

Così si viene a creare un vero e proprio gergo62 che i giovani utilizzano

per nascondere le loro situazioni camuffe (quelle "in cui si fa qualcosa di

nascosto"). Come se proteggessero i loro atti più proibiti - o più deprecati

61 Per lessico adolescenziale si intende il particolare modo di esprimersi dei giovani, allo

scopo di prendere le distanze dagli adulti e comprende una serie di espressioni esclusive di una determinata fascia di età. Il modo di parlare degli adolescenti è costituito da parole che la maggior parte delle volte sono sconosciute agli adulti, ed in questo modo, arrivano a costituire un vero e proprio gergo o anche dialetto, paragonabile ai dialetti comunemente riconosciuti dalle popolazioni dei vari centri urbani.

62 La parola “gergo” deriva probabilmente dall’antico francese jargon, che significava “gorgheggio degli uccelli”, quindi una lingua incomprensibile. In effetti, anche oggi parliamo di “gerghi” quando vogliamo riferirci a una varietà particolare di lingua usata da un numero ristretto di persone, spesso (ma non sempre) a fini criptici, di segretezza (pensiamo per esempio al gergo della malavita!).

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dagli adulti - non solo frequentando luoghi interdetti a chi è più vecchio e

isolandosi fisicamente, ma anche erigendo una barriera linguistica. Che è, tra

l'altro, una barriera sicura: così sicura che permette di trasgredire senza

nemmeno sottrarsi allo sguardo degli eventuali censori.

2.2.1. Il gergo

Il termine gergo (molto in uso anche slang, preso dall'inglese) è un

vocabolo usato comunemente per definire un qualsiasi sotto-linguaggio

utilizzato da specifici gruppi di persone. Generalmente ogni generazione o

gruppo etnico sviluppa un suo gergo, per il semplice fatto che parlano più

spesso "tra loro" che "con gli altri", oppure deliberatamente per non farsi

capire da chi non fa parte del gruppo.

I gerghi o varietà giovanili condividono con gli altri alcune

caratteristiche importanti: prima di tutto, il linguaggio gergale ha sempre

come utenti un gruppo omogeneo di persone legate da un’attività lavorativa o

un interesse o una condizione (per es., andare a scuola, frequentare la stessa

palestra, la stessa discoteca, lo stesso bar, nel caso dei giovani); in secondo

luogo, i gerghi hanno come fine l’autoaffermazione del gruppo

(particolarmente sentita è l’appartenenza al “branco” nel periodo

dell’adolescenza) e, nel caso degli studenti e dei giovani, anche il

divertimento; infine, i gerghi hanno tutti un carattere convenzionale, nel senso

che si innestano in modo parassitario nella lingua, ne rubano e ne trasformano

il lessico.

61

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Le varietà giovanili, tuttavia, presentano un altro aspetto importante e

peculiare: la loro instabilità e transitorietà. Infatti, il gruppo di utenti cambia

continuamente e questo fa sì che anche il gergo usato si rinnovi a un ritmo

incredibile (un ritmo “generazionale”).

È difficile quindi parlare di un unico gergo giovanile, poiché, oltre alla

rapidità con cui si trasformano queste varietà linguistiche, dobbiamo

considerare anche la loro eterogeneità dal punto di vista dello spazio e dei

registri di formalità: un adolescente di Napoli si esprimerà in modo diverso da

uno di Venezia, ed entrambi useranno parole differenti parlando con un

professore invece che con un amico.

Esistono poi all’interno del gergo giovanile dei termini particolari che

descrivono alcune categorie di persone: soprattutto di giovani e soprattutto in

base al loro abbigliamento, al comportamento e alla musica che ascoltano. A

parte i truzzi e i fighetti (altro termine rassicurante, non solo adolescenziale,

indicante "ragazzi vestiti con abiti griffati e costosi"), si parla anche di

cabina, "ragazzi metà truzzi metà fighetti che si muovono sempre in

autovetture particolarmente elaborate soprattutto dal punto di vista estetico,

vestiti da truzzi, gomito fuori, e musica da discoteca a palla": chiunque e a

qualunque età ha presente questi cabina; ma nessuno che non sia adolescente

ha mai trovato un termine così divertente per definirli - forse non ha mai

neppure trovato un termine, divertente o meno. E il divertimento è un aspetto

pregevole di questa famiglia di termini: perché il loro intento non è solo

descrivere, ma prendere in giro alcune categorie di individui.

62

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Il mondo adolescente è una galassia di pianeti a volte in collisione fra

di loro, e non solo con i meteoriti provenienti dal mondo adulto. E ogni

pianeta vuole distinguersi dagli altri: definendo cos'è attraverso

comportamenti, vestiti e generi musicali; e definendo cosa non è - un truzzo,

un fighetto, un cabina.

Il linguaggio giovanile appare dunque piuttosto pittoresco. L'originalità

di linguaggio è una caratteristica specifica dell'adolescenza. Per la sua

connotazione affettiva si presenta dotata di spontaneità, mosso dalle

impressioni e che appare più agile e sciolto che non linguaggio logico.

”La sua tendenza all'originalità lo porta a far uso di pronuncie

stravaganti, che talvolta possono essere capolavori di finezza ed altre volte

sguaiatezze plateali. Frequente è pure l'uso dell'antitesi per l’indubbio vigore

che conferisce all'idea. L'adolescente poi, facilmente confonde l'idea giusta

con la formula elegante. Così, egli raccoglie, quanto più può, parole ed

espressioni di proprio gusto, ne crea altre, mutua vocaboli e locuzioni

straniere, credendo di riuscire ad incarnare più compiutamente e più

vivamente quelle sue idee, che per lui stesso hanno contorni indefiniti è in

una parola un phraseur”63.

Inoltre vi è uno sforzo di adeguazione espressiva che è già cosciente

nell'adolescente, tanto cosciente da divenire talvolta tormentoso.

L'adolescente dimostra di tendere a portare "impressione" ed "espressione"

sopra uno stesso "livello" affettivo… da questa constatazione deriva un primo

tratto fondamentale del fenomeno di espressività, o meglio, di

63R: TITONE, L'insegnamento delle materie linguistiche e artistiche, Zurich, Pas-Verlag, 77, 78.

63

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“autoespressività” nell'adolescente: l'inadeguatezza dell'espressione di fronte

all'impressione ed il conseguente senso di insufficienza. A tale inadeguatezza

espressiva collegata al desiderio di annullarla non risponde, tuttavia,

praticamente un effettivo sforzo per colmarla.

Ci si può, infine, chiedere se l'adolescente abbia coscienza

dell'evolversi del significato delle parole, specie di quelle di carattere

affettivo. “Il significato delle parole sono io, e quando cambio io…”, afferma

suggestivamente un adolescente. Pertanto, il problema della mutazione di

significato è caratteristicamente legato alle parole concernenti direttamente o

indirettamente il mondo affettivo; non esiste tale problema per le parole che

riguardano gli argomenti più comuni, più superficiali: non vi è in questi

campi un vero dissidio tra parola ed “impressione” 64.

Secondo alcuni psicologi, il fatto centrale del fenomeno pubertario

risulta essere la scoperta e l'affermazione dell’”Io” personale, insieme ad una

tendenza dinamica egocentrica che dominerà e influenzerà l'orientamento

generale del comportamento adolescenziale in funzione “auto-affermativa”65.

Anche il linguaggio assumerà questo tipo di caratteristica.

L'auto-affermatività del linguaggio adolescenziale ha inoltre una

connotazione più a tonalità affettiva che lo pervade. La dialettica sentimentale

64Ibidem, pp. 80, 81, 82. 65 L'auto-affermatività o assertività può essere definita come lo stile comunicativo che

caratterizza un individuo socievole, sicuro di sé e aperto al confronto. La condotta assertiva rimuove gli ostacoli che impediscono il contatto con gli altri e minimizza i rischi di in comprensione. La persona assertiva, infatti, sa innanzitutto comprendere gli altri e rispettarli; allo stesso modo, però, è in grado di salvaguardare i propri diritti. L'ambiente scolastico è molto importante per correggere alcuni squilibri che la nostra società continua a mantenere; a volte si tratta di un'occasione di crescita irripetibile per allievi che provengono da particolari contesti socioculturali. Scegliendo di educare all'assertività si può favorire il benessere dell'allievo, ma si può anche incidere, indirettamente, sul tessuto sociale.

64

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dell'adolescente è, infatti, il derivato di una logica di sentimenti espressa in un

linguaggio di sentimenti.

L'adolescente quando parla tende ad affermare il suo personale

pensiero, il quale a sua volta è legato al suo personale modo di sentire. Egli è

un deciso affermatore delle sue ragioni pertanto, la psiche dell'adolescente è

trasportata da due opposte tendenze: la tendenza a seguire le suggestioni della

sua sentimentalità “immaginativa”, e la tendenza ad affermare dei puri

rapporti logici tra le idee. Ma le due tendenze nell'adolescente non si

oppongono: esse tendono costantemente a fondersi nella “logica

sentimentale”, la quale fa si che il giovane, pur credendo di affermare

l'universale validità di un concetto, non fa che dare sfogo ad un impulso

sentimentale larvato di rigore logico.

Quando si parla di lingua dei giovani, dunque, in genere si intende

lingua degli adolescenti: il loro gergo, quel bagaglio di neologismi,

deformazioni, iperboli di cui nessuno, a parte loro, deve possedere le chiavi.

Anno dopo anno, quel linguaggio che era stato una carta d'identità, e un

simbolo di appartenenza a un gruppo, a un'età, a un mondo, può sfuggire.

Così si inizia a usare un modo di parlare più neutro, con confini meno

marcati: il linguaggio degli adulti. Una lingua che serve a comprendersi, non

a distinguersi.

2.2.2. La cultura hip hop

La funzione primordiale del gruppo dei coetanei durante l’adolescenza

è quella di soddisfare le esigenze dello status indipendente durante questo

65

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periodo della vita. Ciò spiega perché di frequente in questi gruppi regni un

orientamento anti-adulto pronunciato.

L’adolescente, cioè, è contro gli adulti perché questi sono i

rappresentanti di una casta privilegiata, che gli nega ciò a cui aspira.

L’opposizione è spiegata anche dal fatto stesso dell’esistenza di una

sottocultura, che sopravvive come tale nella misura in cui diverge dalla

cultura più generale.

La sopravvivenza della sottocultura come fonte di status, spiega anche

il conformismo che è stato spesso rilevato come caratteristica dei gruppi di

adolescenti. Questo conformismo, molto più forte che nei gruppi di bambini e

di adulti, si manifesta in vari modi: nel modo di parlare e di vestire, nelle

preferenze, nelle opinioni, nei disgusti, nei pregiudizi. Una delle

contraddizioni dell’adolescente è proprio questo gregarismo, questo

conformismo, e perfino questa schiavitù all’opinione degli altri, di fronte al

bisogno e al desiderio di indipendenza che è la linea maestra

dell’adolescenza. In realtà tale opposizione è solo apparente: nella nostra

società, l’adolescenza trova nel gruppo la forma più soddisfacente di status;

ma questo è legato a una determinata struttura di valori che non esisterebbe se

ognuno fosse libero di agire secondo la propria volontà66.

Una delle sottoculture più largamente diffuse è la cultura hip hop che

ha delle origini proprio nella disgregazione della società e nel non

riconoscimento del ruolo di gruppi di adolescenti all’interno della società

66CFR. G. LUTTE, L’adolescente e il suo gruppo: un reattivo sociometrico per la scuola

secondaria.

66

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stessa, fino alla formazione di una cultura alternativa e di opposizione alla

cultura dominante.

L'hip hop nello specifico è un movimento culturale che nasce alla fine

degli anni Settanta come espressione della cultura di strada del South Bronx,

quartiere di New York caratterizzato da una dura quotidianità fatta di

violenza, droga e criminalità. L'abbondante presenza di palazzi abbattuti o

abbandonati, nella zona, era una conseguenza del progetto di ricostruzione

autostradale realizzato in quegli anni, che avrebbe permesso ai veicoli

provenienti da Manhattan, l'area ricca della Grande Mela, di uscire

rapidamente dalla città passando sopra agli edifici della zona povera senza

doverla attraversare. In questo contesto di degradazione urbana bande di

ragazzini pieni di immaginazione, ma a corto di soldi, iniziano a forgiare un

nuovo stile che stravolgerà completamente il concetto d'arte riportandolo, per

certi versi, alla sua più originale purezza quella che per generazioni era stata

soppressa nell’intento di cancellare le vecchie origini.

Dalla musica alla danza, dalla pittura alla vita vera e propria, l'arte

viene concepita come creazione spontanea e dirompente ovunque e

comunque, al di fuori dell'ambito commerciale. Dipingere illegalmente

graffiti su di un vecchio muro nel ghetto avversario significa crearsi un

proprio codice di autoregolamentazione e rinnegare il sistema d'arte

convenzionale, in quanto si produce un'opera non vendibile, accessibile a

tutti,e anonima per glie sterni.

Proprio per le circostanze di illegalità che circondano il disegno, il

nome nella firma viene sostituito con uno pseudonimo, chiamato "tag"

67

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(firma), che talvolta compone il graffito stesso. I creatori della nuova cultura

si autodefiniscono "bboys" (termine tuttora utilizzato per i seguaci dell'hip

hop), e cioè i ragazzi del Bronx, ma anche i "black boys", i "bad boys" e i

"break-boy" o "boogie-boy" - coloro che ballano ai "block party" (evento di

strada che coinvolge il vicinato); le ragazze vengono invece definite "fly-girl"

o "b-girl".

I fattori che hanno influenzato la cultura hip hop sono complessi e

numerosi. Sebbene la maggior parte delle influenze possono essere

rintracciate nella cultura africana, la società multiculturale di New York è il

risultato di diverse influenze musicali che hanno trovato il loro modo di

esprimersi all'interno della musica hip hop. Il fenomeno hip hop si presenta

come un vero e proprio movimento d’avanguardia, di tipo composito, teso a

raccogliere la sfida del profondo sradicamento esistenziale, e del

disorientamento nella percezione e nella costruzione dell’identità del

soggetto. Con la denominazione di cultura hip hop, ci si riferisce alle diverse

forme che ne caratterizzano l’espressione sociale e sono:

1. lo MC abbreviazione del termine Master of Ceremonies (maestro

di cerimonie);

2. il DJ;

3. il Writing ovvero l’arte dei graffiti;

4. la Breakdance stile dinamico di danza introdotto dai portoricani.

68

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Attraverso queste forme si delineano le tracce di una vera e propria

filosofia di vita che rivela un approccio culturale trasgressivo e dirompente

rispetto ai modelli sociali dominanti67.

La composizione delle modalità di espressione attraverso cui si è

affermato l’hip hop, evidenziano una grande attenzione verso le più

importanti forme della comunicazione, dalla parola al corpo, attraverso

l’immagine e il suono, affinché si potesse dare espressione al disagio

giovanile, alle storie di quotidianità marginale, alla rabbia legata al degrado

sociale ed esistenziale dei giovani che abitano le strade delle periferie;

permettendo di amplificare attraverso la musica, la gestualità, le ritualità, le

tags sui muri, il bisogno di comunicazione e di affermazione dell’identità;

permettendo, insomma, a milioni di ragazzi appartenenti alle comunità

socialmente marginali di poter dire “io ci sono e non mi arrendo68”.

2.3. I luoghi di aggregazione

Per una adeguata riflessione pedagogica sulla devianza e sul disagio

minorile non si può prescindere da un’analisi dei luoghi in cui giovani

trascorrono il loro tempo, luoghi in cui un ragazzo può conoscere altri ragazzi

della sua età o quasi, con cui potrà scambiare opinioni, punti di vista, in cui

potrà dare sfogo alla sua voglia di socialità. I luoghi elettivi dei giovani non

possono essere altri che gli scenari quotidianamente abitati, più o meno

67 Cfr. PIERANGELO BARONE, Pedagogia della marginalità e della devianza, Ed. Guerini

Studio, , Milano 2001, p. 171. 68 Ivi

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volontariamente o consapevolmente dai minori, dagli adolescenti e dai

giovani.

I luoghi di incontro dei giovani possono essere luoghi formali e

informali. Tra i luoghi formali vi è indubbiamente la scuola che oltre ad avere

una funzione pedagogica per i giovani che la frequentano, si costituisce allo

stesso tempo come luogo ideale di incontro tra giovani. Il secondo luogo di

incontro che si propone a metà strada tra formalità e informalità è il centro

aggregazionale in cui i giovani sono liberi di partecipare alle attività che più

preferiscono, sotto il vigile controllo però, di educatori specializzati. I luoghi

informali invece sono quei luoghi scelti autonomamente dai giovani ed in cui

trascorrono il loro tempo libero. Questi luoghi possono essere la sala giochi

sotto casa o il bar dell’angolo o ancora la piazzetta o più in generale la

“strada”.

2.3.1. La scuola

La scuola occupa uno spazio tutt’altro che trascurabile del tempo e

dell’esperienza esistenziale dei ragazzi. Essa può essere indubbiamente

esperienza significativa e importante, in termini sia oggettivi che soggettivi,

ma non sempre assolve alla funzione educativa alla quale è deputata.

A volte accade che un ragazzo “difficile” a scuola incontri

stimolazioni e motivazioni nuove, capaci di coinvolgerlo in un impegno

gratificante e di fargli provare il senso di relazioni interpersonali costruttive,

ma allo stesso modo può accadere che la scuola venga vissuta dal ragazzo

come un ulteriore banco di prova contrassegnato da insuccessi che intaccano

70

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la sua autostima, mettendolo in un confronto impari con compagni più

fortunati, dal quale difficilmente non esce perdente69. Indubbiamente i primi

processi di socializzazione avvengono proprio nella scuola. Nella scuola

materna questa socializzazione avviene in maniera spontanea, per il desiderio

di giocare con i compagni e quindi quasi inconsapevolmente. A partire dalle

scuole elementari e medie fino alle superiori questo desiderio di avere un

compagno con cui giocare, si trasforma gradualmente in desiderio di

socializzazione. La scuola si configura come il luogo più adatto allo scopo in

quanto l’adolescente frequentandola quotidianamente ha la possibilità di

interagire con altri adolescenti e di instaurare rapporti di amicizia. Oltretutto

l’adolescente non essendo libero di muoversi autonomamente non avrebbe

molte possibilità di incontrare altri ragazzi della sua età con cui interagire, la

scuola gli offre questa possibilità che altrimenti non avrebbe. Inoltre i rapporti

che si instaurano in questo modo possono portare alla formazione di gruppetti

all’interno della stessa classe, rapporti che possono durare anche dopo la fine

del ciclo di studi. All’interno delle mura scolastiche ad ogni modo si assiste ai

primi processi di socializzazione dell’adolescente e quindi al suo ingresso nel

circuito di rapporti interpersonali che condizionerà il corso della sua stessa

esistenza.

2.3.2. I centri aggregazionali

La realtà italiana dei centri di aggregazione, destinati ai minori, agli

adolescenti e ai giovani, con una esplicita finalità pedagogica di carattere

69 Cfr. G. MILAN, Disagio giovanile e strategie educative, Città Nuova, Roma 2001, p. 32.

71

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extrascolastico, ha una storia piuttosto recente che può essere fatta risalire alla

metà degli anni Settanta; ciò riguarda soprattutto la gestione di questi da parte

degli Enti Locali, delle congregazioni religiose e delle associazioni culturali

laiche o cattoliche di quei centri con una caratterizzazione prevalentemente

orientata alla fruizione del tempo libero di tipo ricreativo.

Negli anni Ottanta, tuttavia, si possono intravedere i primi progetti

pilota. Il cento di aggregazione si inserisce in qualche modo, nello spazio

istituzionalmente scoperto del tempo libero extrascolastico, con un obiettivo

di “prevenzione secondaria70”, cioè orientato all’intervento su quelle fasce

sociali considerate “a rischio” di devianza. Si configura sul piano

organizzativo come luogo con una bassa regolamentazione e strutturazione

interna: facilmente accessibile anche solo con modalità di carattere

occasionale, con una rarefazione di esplicite forme di controllo rispetto alla

presenza e alla partecipazione alle attività e con una pronunciata variabilità

interna delle proposte ludiche e animative che vanno dalle realizzazioni di

feste all’organizzazione di eventi musicali o culturali, all’organizzazione di

tornei sportivi ecc…

Si può comprendere dunque la differenza del centro di aggregazione

con il suo apparato caratterizzato da flessibilità e variabilità continua, rispetto

al dispositivo dell’istituzione scolastica caratterizzato da rigidità e formalità.

L’elemento chiave che differenzia i due dispositivi non è solo basato sul fatto

che l’insegnante deve mantenere la disciplina per poter trasmettere qualche

70 La definizione di “prevenzione secondaria” appartiene ad uno schema di origine

sociosanitaria che individuava tre livelli di prevenzione dei fenomeni di devianza, di tipo primario, secondario e terziario, oggi ampiamente superato.

72

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contenuto cognitivo mentre l’educatore o l’animatore deve solamente far

divertire per farli socializzare meglio. La questione rinvia alle modalità

attraverso cui viene declinato il dispositivo dei centri di aggregazione, nelle

sue dimensioni specifiche di strutturazione dello spazio, di articolazione del

tempo e di messa in gioco dei corpi.

Per quanto riguarda la strutturazione dello spazio va considerato il fatto

che lo spazio costituisce un operatore essenziale nella definizione del rapporto

con i minori, adolescenti e giovani in quanto l’uso degli spazi del centro, la

loro strutturazione, diventa condizione la fondamentale nella relazione

educativa caratterizzandosi, soprattutto nella prima fase del contatto e

dell’accoglienza , come contenitore aperto, destrutturato e di libero accesso,

su cui impostare un lavoro di condivisione e costruzione di regole e codici

d’uso. In generale comunque l’uso degli spazi e la loro destinazione ad

attività strutturate sono soggetti ad una continua rimappatura sulla base delle

esigenze e delle domande dei ragazzi.

Allo stesso modo per quanto riguarda la dimensione del tempo, anche

l’articolazione e i ritmi delle attività dei centri di aggregazione sono definiti

prevalentemente in funzione dell’utenza che interagisce con gli educatori. Le

programmazioni delle attività settimanali o mensili sono soggette a continue

evoluzioni sulla base di ciò che i gruppi spontanei possono volta per volta

determinare. I centri di aggregazione quindi cercano di valorizzare le esigenze

e le domande inespresse dei ragazzi.

La dimensione della corporeità rappresenta infine un terzo operatore

significativo nella definizione del dispositivo dei centri aggregazionali. Per

73

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corpo qui si intende l’elemento di mediazione della relazione tra adulto e

adolescente, in quanto nelle maggior parte dei rasi gli educatori sono parte

attiva nelle proposte che fanno e nelle attività che conducono a livello di

presenza concreta e materiale, a livello, appunto, corporeo. Quindi si può

facilmente notare come la messa in gioco dei corpi che scaturisce

dall’esperienza dei centri di aggregazione sancisca la definizione di un

modello che si propone come alternativa pedagogica al dispositivo

scolastico71.

2.4. La strada come luogo d’incontro e il tempo libero

La “strada” è, anche nell’immaginario collettivo, il luogo di fuga per

eccellenza e, in questa funzione di “contenitore” di tanti vagabondaggi

esistenziali, essa coinvolge tutti i suoi accessori: piazze, muretti, sagrati e

giardinetti.72

L’appellativo “ragazzi di strada” si riferisce, nel linguaggio comune,

alle crude esperienze di tossicodipendenza e prostituzione giovanile, presenti

soprattutto nelle squallide periferie di grossi centri urbani, che non

risparmiano molti preadolescenti. Sono situazioni limite che, pur non essendo

molto diffuse, richiedono naturalmente interventi mirati sul piano educativo e

spesso terapeutico. Esperienze “di strada” più comuni e fortunatamente meno

dense di problematicità sono invece quelle che coinvolgono un numero

71P. BARONE, Pedagogia della marginalità e della devianza: modelli teorici e specificità

minorile, Guerini Studio, Milano, 2001, pp. 111, 112, 113. 72 Cfr. G. MILAN, Disagio giovanile e strategie educative, Città Nuova, Roma 2005, p. 36.

74

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maggiore di adolescenti, spesso nel complesso arcipelago dei gruppi

spontanei, senza tuttavia condurli nella devianza precedentemente citata.

E. Toffano Martini scrive che “nel raggrupparsi spontaneo di soggetti

d’ogni età, oggi come ieri, possono tuttavia insinuarsi dinamiche pericolose,

che sfociano in esiti diseducativi”73. Queste esperienze comuni di strada

raccolgono dunque, soprattutto ragazzi che a scuola o a casa hanno

accumulato una serie di microtraumi affettivi e relazionali, di squalifiche e

rifiuti, e che cercano compensazioni proprio nella “strada”, luogo di “fuga” da

quei contesti formali e controllati, aggregandosi quasi sempre in piccoli

gruppi spontanei e naturali.

I luoghi dove ragazzi e giovani si ritrovano, possono essere la piazza, il

parcheggio, le vie, i cortili, il muretto, spiazzi in prossimità del bar, angoli di

parchi, giardini, campetti e panchine. I molti piccoli “gruppi informali”, che si

danno appuntamento quotidianamente nei diversi luoghi eletti a loro prima

dimora, costituiscono un arcipelago di esperienze che, pur essendo a rischio

di devianza, occupano per lo più un’area intermedia tra il disagio e la

devianza. Resta prevalente, ad ogni modo, l’esperienza di una trasgressione

soft, leggera, fuori dalla norma quel tanto che basta a percepire e raccogliere

qualche nuova immagine di sé e qualche risposta alle molte domande che né a

casa, né a scuola trovano ascolto.

Leopoldo Grosso afferma che “Fuori non c’è nessun incontro

drammatico, per lo meno all’inizio. Il vero dramma è che fuori si incontra

esattamente l’altro identico a sé. Fuori questi ragazzi incontrano esattamente

73 E. TOFFANO MARTINI, Lo scenario problematico dei contesti di vita, op. cit. pp. 90.

75

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la loro fotocopia […], coloro che hanno fatto l’identico percorso […]. Se

fuori incontri la tua fotocopia non c’è nessuno stimolo di crescita, di

imitazione, di identificazione per le differenze, non c’è nessuno stimolo per

avviare a quello che non sei; se fuori c’è la tua controfigura, il problema

principale da risolvere è come passare il tempo. Il tempo è un enorme tempo

vuoto che non ha niente a che vedere col tempo libero, perché il tempo libero

è qualcosa che uno pensa quando sta studiando, sta lavorando, se lo

immagina, se lo prefigura ed in qualche modo ne anticipa il consumo già

mentalmente, prima ancora di goderselo. Questo è , invece, un tempo vuoto

tutto da riempire, dove la dimensione principale è la noia e, quindi, la

principale attività di ricerca è come “ammazzare” il tempo”.74

La vita di strada, dunque, anche se prevede il continuo parlare tra i

compagni, presenta in certi casi un appiattimento relazionale all’interno di

una informe propinquità di tanti “esseri-eco”75, ed è caratterizzata

dall’assenza di progettazione, dal vivere il tempo senza valorizzarlo come

reale risorsa per la propria crescita e per quella altrui. Il concetto di strada ad

ogni modo racchiude in sé numerosi elementi negativi, infatti, la strada come

tutti i luoghi aperti, sono luoghi difficilmente controllabili. Ma la strada

rappresenta anche il luogo in cui i giovani ricercano l’aggregazione, in cui

ricercano delle relazioni che non siano quelle familiari o della scuola. È il

luogo in cui si creano delle culture alternative , degli stili e dei modelli di

74 L. Grosso, “Il disagio, la strada, quali interventi possibili?”, Gruppo Abele, Milano, 1999. 75Cfr. A. Mitscherlinch, “Verso una società senza padre. Idee per una psicologia sociale”,

Feltrinelli, Milano 1970, pp. 353.

76

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comportamento, ed è soprattutto il luogo in cui vivono i gruppi di giovani e

dove si possono osservare le implicazioni emotive da cui sono coinvolti.

La strada, però, non è solo il luogo di relazioni e di divertimento, ma

anche il luogo del disagio, di situazioni a rischio di emarginazione e devianza,

abbandono e solitudine, se non addirittura di irrecuperabilità.

2.4.1. Il tempo libero

È libero il tempo che possiamo dedicare ad attività gradevoli,

frequentemente l’espressione “tempo libero”, viene utilizzata come sinonimo

della parole “ozio”, quando in realtà si tratta di due concetti molto diversi tra

loro. La natura del tempo libero tuttavia, si comprende solo se confrontata con

il concetto di lavoro; si può intendere il lavoro come un’attività faticosa e

posta al servizio di qualche fine.

Le attività del tempo libero sono più piacevoli di quelle lavorative, si

realizzano con meno sforzo e con più possibilità di scegliere cosa si vuol fare.

Il concetto di tempo libero però è mutato nel corso della storia. In Grecia il

tempo dedicato all’ozio aveva un senso positivo, fin dall’inizio dell’età

moderna invece, l’importanza attribuita ai valori legati all’utilità, ha condotto

a una valutazione negativa dell’ozio, considerato come oziosità, pigrizia e

veniva tollerato solo come un mezzo per riposarsi e poter affrontare poi un

lavoro ancora più arduo. Attualmente dedicare il tempo libero all’ozio ha

77

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riacquistato un significato positivo, anche se la parola ozio conserva nel

linguaggio comune un senso peggiorativo76.

Il problema del tempo libero si pone a tutte le età della vita , perché è

una necessità permanente, ma nell’adolescenza assume particolare importanza

a causa dell’influsso che può avere per la maturazione della personalità del

giovane e per la sua integrazione sociale. Il processo di mutamento a cui è

sottoposto l’adolescente causa conflitti e frustrazioni che rendono necessario

il riposo, lo svago e la compagnia degli altri. Gli interessi del tempo libero

cambiano di oggetto a seconda della fase evolutiva che si attraversa, ad

esempio i giochi infantili sono sostituiti da divertimenti nuovi, come il ballo,

gli spettacoli sportivi e i motori. Tuttavia il tempo libero di cui dispongono i

giovani è meno di ciò che si pensa infatti il 35% dei ragazzi ed il 50% delle

ragazze del liceo dispongono ogni giorno di una sola ora o meno di tempo

libero, le cause possono essere individuate nell’intensità dell’orario

scolastico, nel numero eccessivo di compiti e nella carenza del metodo di

lavoro.

Un dato significativo è la notevole mancanza di buon senso

nell’utilizzo del tempo libero quando esiste. Si avverte la mancanza di

hobbies; l’estrema passività dovuta alle influenze ambientali; la mancanza di

criteri per la scelta di letture e films; l’assenza di senso critico in ordine ai

programmi televisivi; la scarsa partecipazione ad attività culturali e artistiche;

la preferenza per lo sport standardizzato a scapito di pratiche sportive come la

marcia ed escursioni con la tenda; l’abuso di divertimenti commercializzati.

76 Cfr. G. CASTILLO, L’adolescenza e i suoi problemi, Le Monnier, Pamplona, 1981, pp. 129, 130.

78

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Gli studenti però, lamentano la mancanza di luoghi adatti per divertirsi,

l’indifferenza degli adulti per il tempo libero dei giovani e la dipendenza

economica dai genitori, non avendo la possibilità di autofinanziare i loro

divertimenti. Tuttavia la mancanza di buon senso nell’uso del tempo libero si

manifesta in tre modi: omissione di attività formative, interesse per attività

dannose e atteggiamenti inadeguati. Le attività inadeguate in relazione all’uso

del tempo libero può portare alla pigrizia, al disordine e noia. Gli adolescenti

infatti, sono più inclini alla noia dei bambini perché la loro curiosità è meno

ampia e poi perché hanno più bisogno di novità. La noia genera, a sua volta,

attività distruttive con cui cercano di compensare la mancanza di novità delle

occupazioni abituali.

L’abuso di divertimenti commercializzati ha effetti importanti sugli

adolescenti: l’eccessiva spesa e la necessità di trovare denaro in qualche

modo; la massificazione; il divismo cinematografico e sportivo.

Le attività del tempo libero dannose per gli adolescenti si collegano

all’uso dei mass media. Insieme con le grandi possibilità educative che vanno

indicate e utilizzate, i mass media producono spesso il gregarismo,

l’infantilismo mentale, la mancanza di riflessione77.

77 Ibidem pp. 132, 133.

79

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CAPITOLO ΙΙΙ: EDUCARE IN STRADA

3.1. Cos’ è l’educazione di strada

L’ultimo decennio ha visto entrare in gioco anche in Italia, dopo

lunghe e significative esperienze sia in Sudamerica che in Europa, il “lavoro

di strada”. Anche se su basi sperimentali, questo tipo di approccio educativo

si è progressivamente legittimato dal punto di vista dell’intervento

pedagogico nelle situazioni di maggiore problematicità sociale, fino a

diventare un punto di riferimento per le politiche istituzionali di carattere

socio – sanitario.

Il lavoro di strada appare come uno scenario pedagogico composito

che vede al suo interno approcci e metodologie non sempre raccordabili, e

che lascia affiorare differenze importanti sul piano degli obiettivi da

perseguire e dei destinatari a cui rivolgersi. Emergono priorità di intervento

che si configurano soprattutto sul versante della prevenzione mirata in

particolare ai gruppi di adolescenti, considerati come soggetti maggiormente

esposti ai rischi di devianza . Tuttavia in rapporto alle tipologie di intervento,

il lavoro di strada copre una vasta gamma di obiettivi strategici in rapporto ai

minori, agli adolescenti e ai giovani, che vanno dalla promozione, passando

per la prevenzione, alla “riduzione del danno78”.

Il lavoro di strada nasce intorno agli anni ’70 in America e poi in

Europa, sperimentando delle azioni di carattere preventivo soprattutto con

soggetti devianti come tossicodipendenti e prostitute; si sviluppa poi in

78 Cfr. R. Maurizio, “Il lavoro di strada in Italia: rassegna di eventi e temi”, op cit., pp. 13,

15.

80

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America Latina con riferimento ai minori, poveri o abbandonati. Negli anni

seguenti questo tipo di lavoro si è via via presentato anche in Italia,

soprattutto quando si è fatto il passaggio dalla centratura sul servizio alla

centratura sulla persona e il lavoro sociale si è trasformato da interno alle

istituzioni a lavoro sul territorio. Si è riusciti a vedere la strada non più come

luogo a rischio e pericoloso, ma come uno spazio di relazioni e di socialità in

cui tanti ragazzi crescono e passano il loro tempo. Da qui è nata l’idea del

lavoro di strada come supporto alla persona nel contesto in cui vive, senza

sradicarlo dal proprio territorio. I diversi tipi di lavoro di strada:

Prevenzione terziaria: Si rivolge a soggetti che hanno un disagio

conclamato (ad esempio tossicodipendenti, persone sieropositive, persone

senza fissa dimora, prostitute....): andando in strada, a contatto con questi

soggetti, si cerca di ridurre i danni della loro situazione e eventualmente

preservare e riattivare le risorse ancora presenti in loro.

Prevenzione secondaria: Si rivolge a dei soggetti o a dei gruppi

che sono a rischio, cioè in contatto con certe problematiche, ma non ancora

completamente coinvolti in esse. Un esempio può essere quello dei gruppi che

vivono in contesti economicamente sfavorevoli oppure in situazioni degradate

o vicino a situazioni di uso di sostanze. La prevenzione, in questo caso, si

avvale della presenza dell’educatore in strada, della relazione con questi

gruppi, dell’informazione su tematiche specifiche e dell’animazione del

territorio.

Prevenzione primaria: Si rivolge a tutta la popolazione,

indipendentemente dal disagio o da un possibile rischio, quindi tutti i soggetti

81

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sono il target di questa prevenzione. Naturalmente il nostro obiettivo primario

sono i giovani; anche qui gli strumenti di lavoro sono la relazione,

l’animazione, l’informazione e il contatto anche con gli adulti, proprio per

creare una rete di sostegno al singolo individuo.

Tra le diverse forme di impegno sociale, il lavoro di strada è forse

quella più difficile da definire. Si tratta, infatti, di un modo di intervenire sul

territorio a cui si fa ricorso per le finalità più diverse. Ci sono, ad esempio, le

unità di lavoro di strada che si occupano in particolare di tossicodipendenza, e

che operano nel quadro delle politiche di prevenzione e di “riduzione del

danno79”. E ci sono operatori presenti sulla strada per raggiungere altre

categorie di persone emarginate, come le ragazze prostitute e i senza-casa. In

tutte le ipotesi il lavoro di strada si configura come un servizio sociale vero e

proprio, dai contenuti predefiniti, e che prevede l’utilizzo di figure

professionali competenti, accanto agli operatori volontari.

L’educativa di strada si configura, dunque, come una strategia

pedagogica che si indirizza a luoghi e contesti di vita ben definiti, e risulta nel

contempo coerente con l’idea della “pedagogia di comunità80” e con

79 La politica della “riduzione del danno” (RdD) detta anche “teoria della limitazione del

danno” nasce dalla constatazione della presenza di uno o più danni collegati alle tossicodipendenze(cfr. Manconi,1991). Si può definire in alcune sue forme un tentativo di mediare sia le posizioni estremiste del proibizionismo sia quelle dell’antiproibizionismo anche se, nella gamma di interventi che propone vi è una tendenza verso una soluzione non repressiva dei problemi e soprattutto dei comportamenti di consumo. L’idea di fondo è quella di riuscire a convivere con la droga limitando il più possibile i danni da essa causati

80 Il concetto di “comunità” viene utilizzato nel linguaggio corrente con accezioni non sempre concordi. Etimologicamente il termine comunità deriva da cum-munia (doveri comuni) o da cum-moenia (mura, fortificazioni). Il prefisso cum esprime l’idea di relazione. La comunità tuttavia, è una dimensione aperta e complessa, alla quale è quasi impossibile dare confini stabili a causa delle dinamiche psico-socio-culturali che la costituiscono. Il compito dell’educatore è quello di rinforzare pedagogicamente, attraverso proposte che stimolino la promozione pedagogica del tessuto sociale di riferimento.

82

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l’impostazione del “lavoro di rete81”. È in altre parole uno degli ambiti di

applicazione del lavoro di comunità, una delle direzioni attraverso cui è

possibile potenziare le reti e il sostegno sociale ed educativo in un

determinato territorio82. Il lavoro di strada con bambini e ragazzi non è

dunque autocentrato, ma prende significato sociale nella misura in cui si

sviluppa nel quadro di una rete di persone e di realtà organizzate che si

incontrano per lavorare insieme, avendo come obiettivo prioritario

l’accoglienza e la promozione di chi è più debole. Ne deriva che la

collaborazione con le famiglie dei ragazzi e con le altre realtà presenti nel

territorio è parte essenziale dell’impegno di radicamento sulla strada.

Questa metodologia, ad ogni modo, rappresenta una rivoluzione

rispetto alla tradizionale logica di intervento educativo, secondo cui l’utente

deve incontrare gli operatori recandosi nei luoghi strutturati e predisposti a

fornire servizi. In questo caso, è l’operatore che va incontro e raggiunge gli

adolescenti nei luoghi della loro quotidianità.

L’educazione esce dagli spazi e dai tempi formali ed artificiali delle

istituzioni e si fa presente nella quotidianità della vita dei ragazzi83. Il lavoro

di strada infatti, si configura come un’azione dal basso. Agire dal basso

significa provare a vivere una esperienza di radicamento nel territorio. Ci si

radica nelle situazioni di marginalità sociale quando si sceglie di “starci”,

mettendoci tempo, passione, la vita propria con la vita altrui.

81 Il lavoro di rete viene realizzato con e sulle reti formali e informali presenti sul territorio. Riguarda la formazione e la connessione di gruppi di auto-aiuto in presenza di disagio. In altre parole, l’intervento di rete non si dirige sui singoli individui, né sulle strutture sociali, ma sulle reti di relazioni come possibili fonti di problemi e come luoghi di loro possibile soluzione.

82 Cfr. G. MILAN, Disagio giovanile e strategie educative, Città Nuova, Roma 2005, p. 147. 83 Cfr. F. SANTAMARIA, Per una qualificazione educativa del lavoro di strada, in

Animazione Sociale, 6-7, 1998, p. 58.

83

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L’educativa di strada perciò, rappresenta un tipo di risposta nuova al

disagio adolescenziale , rappresenta un nuovo modo di incontrare il piccolo

mondo dei ragazzi. In altre parole si configura come un insieme di modalità

innovative attraverso le quali riproporre i problemi cruciali del rapporto io-tu,

della dimensione del noi, dello stare insieme efficacemente , facendo qualcosa

di costruttivo e di educativo, rivolgendosi al protagonismo giovanile84. Gli

interventi educativi, nella prospettiva “di strada”, dovrebbero orientarsi nelle

tre direzioni, tra loro correlate e integrate, del “soggetto”, della “relazione” e

del “contesto”.

Per quanto riguarda la dimensione del soggetto, l’educazione di strada,

deve arrivare al singolo, l’azione pedagogica ha il compito di rispondere alla

crisi di identità del ragazzo, sul piano dell’identità personale, lasciando in

secondo piano l’operatività nella direzione dell’animazione socioculturale.

Nella direzione della “relazione”, invece, gli interventi educativi hanno lo

scopo di sollecitare e migliorare varie competenze relazionali, interpersonali e

sociali, dei soggetti educativi. In tal senso, l’educazione di strada può essere

luogo di apprendimento, di abilità, di comunicazione con l’altro e gli altri. La

vicinanza relazionale di un educatore capace di incontro, di dialogo, può

offrire un coerente modello di impostazione dei rapporti interpersonali, che

può influenzare positivamente il minore, orientandolo a mettere in atto

modalità relazionali simili.

La metodologia pedagogica, specifica dell’educativa di strada,

dell’”accompagnamento” o dell’”affiancamento”, che implica un camminare

84 Ibidem, pp. 32.

84

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insieme, fianco a fianco, condividendo le esperienze dell’adolescente,

permette l’esercizio di una relazione intensa.

È proprio nel gioco della relazione che l’educatore acquisisce sul

campo credibilità e autorevolezza , la relazione quindi, viene a configurarsi

come un autentico valore dal quale prendere le mosse e, nel contempo, al

quale tendere costantemente in tutto il processo educativo. Le relazioni

interpersonali che si stabiliscono “nella strada” possono esprimersi in modo

spontaneo, creativo, attribuendo poca importanza alle formalità, che spesso

inibiscono la comunicazione di aspetti sostanziali dell’esperienza di ciascuno,

e valorizzando invece i momenti ricchi e pregnanti dell’incontro a tu per tu.

L’educatore quindi, non deve trascurare l’importanza dei momenti

come l’incontro casuale od occasionale con i ragazzi, la reciproca

presentazione, l’invito, il fissare un appuntamento, le fasi di arricchimento e

consolidamento di una relazione di fiducia, le dinamiche di attaccamento e di

stanziamento e le possibili fughe.

È evidente dunque, se si pensa all’importanza di tali momenti, che

possono stabilire e potenziare legami interpersonali forti, quanto debba essere

di qualità l’atteggiamento relazionale di fondo dell’educatore rispetto a

ciascuno dei ragazzi che incontra. Altra metodologia tipica nell’educativa di

strada è il lavoro pedagogico con i piccoli gruppi. Il piccolo gruppo può

essere l’ambito ideale per la pratica di esperienze costruttive, perché può

essere palestra di innumerevoli esercitazioni relazionali e progettuali capaci di

affinare il senso di appartenenza, la socialità, la collaborazione e la

solidarietà. Il piccolo gruppo può favorire nel ragazzo la consapevolezza di

85

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non essere un’identità isolata, ma una identità plurale che si esplica solo con

gli altri e per gli altri.

Il lavoro di strada, dunque, proprio attraverso l’acquisizione di valori

umani e sociali, può promuovere l’educazione di ciascuno, nel senso di

aiutare gli adolescenti a riscoprire il principio del dono che crea vincoli, ma

non dipendenza, e il principio conseguentemente dell’aver cura di un qualche

noi, in modo che investendo sul noi si apprenda un modo diverso di aver cura

di sé85.

Operare pedagogicamente nei confronti del contesto, secondo

l’approccio dell’educativa di strada, significa far sì che i singoli ragazzi e i

piccoli gruppi informali possano ritrovare se stessi, più autenticamente,

all’interno di un tessuto socio-culturale-educativo integratore, capace perciò

di ascoltare, accogliere e valorizzare i loro bisogni, coinvolgendoli in

esperienze e attività delle quali essi dovrebbero essere protagonisti,

provocando così in loro il recupero di quella personalità, personale e sociale.

Si tratta perciò di allestire un contesto di rete e di comunità in cui i ragazzi si

sentano ospitati, non rifiutati.

L’educativa di strada, dunque, in sintesi, prevede le seguenti fasi:

1. osservazione partecipata – conoscenza – comprensione del

gruppo, delle sue dinamiche, delle sue risorse;

2. contatto – aggancio con i gruppi, prima costruzione di relazioni

significative, assertiva comunicazione della funzione dell’educatore e del

patto di reciproca collaborazione;

85 Ibidem, pp. 32.

86

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3. progettazione comune delle attività da svolgere;

4. individuazione dei possibili legami e delle alleanze da stabilire

con le reti formali e informali della comunità;

5. consolidamento delle relazioni interpersonali e del senso di

appartenenza al gruppo e alla comunità;

6. conclusione dell’intervento – pratiche di restituzione –

separazione86.

L’importanza dell’educativa di strada comunque, è costituita dal fatto

di permettere ai giovani di avere una possibilità di relazione con una figura

adulta, un tipo di relazione che gli permetta di poter affrontare argomenti che

rimarrebbero inespressi altrimenti, perché sono argomenti che non si possono

affrontare con i coetanei e tantomeno con la famiglia. L’educativa di strada

inoltre, permette agli operatori di conoscere in tempo reale tutto ciò che

avviene sul territorio ed in particolare agli adolescenti ed in questo senso

funge da monitoraggio costante di una eventuale situazione a rischio.

Il lavoro di strada impone di operare in modo flessibile, tra normalità e

disagio, facendo attenzione ai cambiamenti del disagio, costruendo la

condivisione di regole e promuovendo la dignità della persona con risposte

progettuali. Svolge funzioni connotate in senso preventivo e promozionale

attraverso l'ascolto, informazione e orientamento, educazione come

valorizzazione delle potenzialità e delle risorse delle persone.

Il lavoro di strada richiede l’adattamento delle tecniche di

comunicazione e delle modalità d’intervento in base al contesto, al fine di

86 Cfr. G. MILAN, Disagio giovanile e strategie educative, op cit. pp. 157, 158.

87

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rendere il servizio accessibile alla persona che realmente vive il disagio,

consentendo l’individuazione e la condivisione dei rischi per la persona, sia

dal punto di vista sanitario che in termini di degrado psicologico e sociale.

Come supporto all’operatività di strada, il lavoro con gli operatori grezzi

consente di costruire dei percorsi che attivino processi di consapevolezza, del

proprio ruolo sociale, nelle figure di riferimento o di contatto con i giovani

che abitano la strada. Per questo motivo gestori di locali, autisti di mezzi

pubblici, baristi, edicolanti, negozianti, adulti, quotidianamente sono i

terminali di una rete sociale che va consapevolizzata, valorizzata e supportata

nel proprio agire a favore delle giovani generazioni.

L’educativa di strada, inoltre, si sviluppa in tre sostanziali livelli di

intervento nel territorio:

Animazione di strada: un lavoro di connessione delle risorse del

territorio attraverso la funzione di facilitatore sociale e mediatore

dell’animatore che permette ai giovani di dare corpo alle esigenze di

realizzazione personale e di gruppo, stimolandoli nell’autogestione di attività

e promuovendo al contempo le relazioni intergenerazionali all’interno della

stessa comunità locale.

Educativa di strada: un lavoro finalizzato alla prevenzione del

disagio e della devianza dei gruppi informali, facilitandone la comunicazione

interna ed esterna per migliorare l’inserimento nel tessuto sociale.

L’identificazione e l’approccio di gruppi “a rischio” permette di offrire anche

un supporto nel percorso di crescita degli adolescenti inseriti in tali contesti.

88

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Lavoro di comunità: si propone di organizzare e promuovere

l’autosviluppo della comunità territoriale in modo che risponda ai bisogni dei

diversi soggetti che in essa vivono, attivando processi comunicativi e

partecipativi per aumentare la soggettività e il protagonismo.

Ad ogni modo, l’attenzione che viene rivolta all’educativa di strada

dipende da diverse ragioni, in primo luogo essa rappresenta una possibile

risposta al bisogno di trovare nuove forme di intervento sociale capaci di

superare gli insuccessi delle politiche socio-educative centrate sulla

realizzazione di centri e servizi di accoglienza, in secondo luogo per trovare

nuove modalità di avvicinare le istituzioni ai giovani che non presentano

situazioni di disagio o devianza, ma non aderiscono a proposte organizzate di

socializzazione.

3.1.1. La strada come luogo educativo

Per strada si può intendere una via, un itinerario, un percorso, un

cammino. La strada è un luogo geografico carico di significato, ha una

dimensione simbolica per i giovani anche nella realtà attuale. La strada va

intesa sia come luogo fisico, che come luogo simbolico e sociale. Un luogo

fisico perché in strada le persone passano una parte considerevole del loro

tempo, però è anche il luogo dove tante forme di disagio si manifestano, si

formano o comunque si possono incontrare (ad esempio: barboni, prostitute,

situazioni di spaccio e consumo di droga, gruppi giovanili devianti ecc). La

strada è anche un luogo simbolico e sociale, cioè uno spazio in cui ci si può

89

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relazionare con gli altri, con il proprio territorio, dove si può intessere una

rete sociale, al di fuori delle proprie mura, le mura di casa.

La strada può essere concepita come luogo di socialità, cioè spazio

privilegiato di incontro e aggregazione, comunicazione, di relazioni

interpersonali, come luogo che può diventare educativo, come un nuovo

spazio di azione pedagogica.

La strada come dispositivo pedagogico rinvia ad una significazione

simbolica particolare, in quanto evoca un immaginario profondamente

contaminato da rappresentazioni e miti culturali che sono stati prodotti, in

particolare nel corso del xx secolo, quando la strada ha cominciato ad indicare

la possibilità ambivalente di un’espressione metaforica dello sviluppo e della

crescita, insieme a quella del rischio e alla pericolosità sociale. Questa

ricchezza metaforica aumenta sensibilmente se la strada diviene luogo

principale dell’intervento pedagogico, come accade nel lavoro di strada, per

cui i richiami culturali assumono una valenza senza precedenti nella

definizione di uno specifico immaginario pedagogico. Nell’immaginario

culturale la strada appare in prevalenza come il luogo in cui va in scena volta

per volta l’emarginazione, la trasgressione, la follia, il rischio, e che nello

stesso tempo è stata celebrata come persistente mito romantico e libertario87.

Tuttavia la strada, grazie all’azione di diverse agenzie di volontariato,

che fin dagli anni sessanta hanno fondato un nuovo collegamento con gli

svantaggiati delle zone urbane, ha intrapreso un nuovo percorso verso una

riconsiderazione del suo ruolo.

87 Cfr. P. BARONE, Pedagogia della marginalità e della devianza: modelli teorici e specificità minorile, Guerini Studio, Milano 2001, pp. 117, 118.

90

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Attraverso gli anni e soprattutto grazie all’avvento di questa nuova

strategia educativa, l’immagine della strada come luogo che produce disagio,

si sta gradualmente trasformando nell’immagine di un luogo d’incontro sano

e protetto. La strada è diventata un luogo in cui poter raggiungere ragazzi in

difficoltà che in altri luoghi non si potrebbero incontrare, ragazzi che con

poca probabilità raggiungerebbero gli educatori per esprimere i loro

problemi, le loro perplessità. Gli educatori, incontrando questi ragazzi nel

loro luogo d’incontro privilegiato, offrono loro la possibilità di avere un

contatto con delle persone che possono aiutarli ad uscire da un brutto “giro” o

almeno gli offrono la possibilità di essere ascoltati. In questo modo la strada

può divenire un luogo privilegiato di lavoro per gli educatori ed un luogo

educativo per i ragazzi che la frequentano. La strada è considerata, dunque,

un nuovo spazio di azione pedagogica, un luogo nel quale è possibile attivare

il processo educativo, alla pari di quelli istituzionali e strutturati, come, ad

esempio, la scuola.

3.2. Ruolo e compiti dell’educatore di strada

È difficile riuscire a chiarire il profilo professionale dell'educatore di

strada, sia perché tale figura è relativamente nuova, sia perché è

continuamente aperta ad evoluzioni legate all'operatività stessa. Descrivere

con accuratezza cosa si intenda quando si parla di lavoro di strada è

un'operazione ardua in quanto non vi è un'uniformità terminologica per

denominare tale figura professionale. Vi è una proliferazione terminologica

per indicare chi svolge lavoro di strada, chiamandolo ora operatore di strada,

91

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ora educatore di strada, ora animatore socio-culturale o ancora unità mobili. È

come se, pur riferendosi spesso alla stessa figura professionale, ogni progetto

tentasse di dare una propria definizione di quello che è il lavoro di strada

testimoniando così una arretratezza concettuale della teoria della tecnica

rispetto all'operatività stessa.

Ad ogni modo l’educatore di strada, in linea di massima deve avere un

atteggiamento non giudicante, ma di curiosità verso ogni tipo di soluzione

culturale che il giovane proponga per stabilire un rapporto significativo, e che

contemporaneamente riesca a sollecitare la curiosità stessa dei ragazzi al fine

di un lavoro produttivo con loro. Ciò però non significa accettare e

giustificare in maniera incondizionata gli stili individuati nel gruppo.

Deve presentarsi come un mediatore delle comunicazioni con le

istituzioni (scuola, assistenti sociali), e con gli adulti in genere nei luoghi, per

lo più informali, in cui questi si rapportano con i giovani; Ed infine deve

sapersi impegnare in un rapporto stabile.

Una delle scommesse con la quale, oggi, sono chiamati a confrontarsi

gli operatori che si occupano di lavoro sociale è quella di riuscire a mettere a

punto "macchine preventive" capaci al contempo di soddisfare i bisogni

naturali di protagonismo dei giovani e di ridurre i rischi cui possono andare

incontro durante il loro percorso di ricerca di significati da attribuire alla

propria esistenza. Non a caso gli operatori sociali vengono sempre più visti

come agenti di cambiamento e di sviluppo sociale e culturale, opera tanto

92

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difficile quanto complessa poiché significa confrontarsi con "setting88" di

lavoro sostanzialmente diversi da quelli "tradizionali" (quali le istituzioni

pubbliche e private) e che sono caratterizzati da confini (formali e mentali)

più sfumati e dall'introduzione di una molteplicità di variabili che possono

interferire e decretare il successo o il fallimento di un intervento.

Nell’educativa di strada e più in generale in ogni fase del percorso

educativo, gli atteggiamenti dell’educatore possono aiutare il ragazzo ad

acquisire maggiore autostima, a promuovere la propria autonomia, a diventare

soggetto di relazioni positive con se stesso, con gli altri e con il mondo.

L’educatore, la sua personalità, il modo di interagire con i ragazzi, hanno un

ruolo fondamentale ai fini dell’educazione, per questa ragione è importante

chiarire i compiti dell’educatore ed in particolare dell’educatore di strada.

Lo specifico dell’educatore è vivere con il ragazzo e questo vivere si

trasforma in un punto di vista privilegiato se mediato da un buon livello di

competenza professionale. Infatti, il punto centrale non è spendere del tempo

con il ragazzo, vivere semplicemente accanto a lui, ma trasformare una

prossimità spaziale, temporale e affettiva in un rapporto di comunicazione

tendente alla conoscenza autentica dell’altro. La strada privilegiata per fare

ciò è proprio la condivisione di esperienze purchè l’educatore partecipi a

88 Il setting è un luogo fisico e mentale, temporalmente determinato, che permette la lettura

dei fenomeni che accadono e che determina l'individuazione di ciò che è significativamente importante. Gli educatori di strada normalmente si recano là dove i giovani si incontrano, svolgendo lavoro di animazione e di socializzazione volto al miglioramento delle relazioni interpersonali, alla conoscenza di nuove opportunità sociali, culturali, di lavoro e modi altri di impiegare il proprio tempo libero. Il setting dell'educatore è, quindi, la strada, un contesto strutturalmente più aperto e meno rigido rispetto a quello che fino ad ora siamo stati abituati a pensare quando si parla di setting.

93

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queste con quel sottile dosaggio tra implicazione e di stanziamento che

costituisce lo strumento di una conoscenza89.

L’educatore dovrebbe far in modo di partecipare a esperienze di vita

del ragazzo il più possibile autentici, il che può essere partecipare ad un

gioco, conoscere i suoi amici, frequentare il suo ambiente abituale. Questa

strategia o modo di agire è valido soprattutto per gli educatori di strada.

L’educatore di strada quando decide di intraprendere questo percorso di

lavoro è consapevole di dover adottare delle strategie diverse conseguenti alla

differenza di contesto e di utenza. Infatti nell’educativa di strada è l’educatore

che deve, in un certo senso, attirare l’attenzione del ragazzo in modo di

intraprendere una relazione significativa con quest’ultimo. Il fatto di scendere

sul campo ed andare incontro a dei ragazzi e cercare una relazione con loro

implica innanzitutto un strategia di approccio adeguata alla circostanza e

naturalmente delle tecniche e metodologie differenti. Proprio per il fatto che

l’educativa di strada non si aggancia, almeno inizialmente, ad una richiesta

esplicita dei possibili utenti, che raramente intendono affidarsi alle agenzie

educative tradizionali, l’approccio personalizzante dell’educatore al ragazzo

risulta imprescindibile e va visto come momento–chiave di accesso alla

relazione educativa, solo così, attraverso atteggiamenti di ascolto e di

empatia, la domanda educativa può essere motivata, compresa e riformulata

dall’educatore stesso.

Un ulteriore compito dell’educatore di strada è quello di favorire la

costruzione di legami, di intrecci educativi tra singoli e istituzioni, tra reti

89 Cfr. P. BERTOLINI, L BARONIA, Ragazzi difficili: pedagogia interpretativa e linee di intervento, La Nuova Italia, Firenze 1993, pp. 98, 99.

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formali e informali, e la strada, in tal senso, può risultare il più efficace

catalizzatore di incontri, di relazioni, di legami collaborativi.

Quello che viene richiesto all’educatore dalla necessità di orientare in

senso educativo il contesto è un impegno immane, anche perché è per certi

versi nuovo rispetto al suo tradizionale bagaglio di competenze professionali.

Tutto l’ambiente di vita dei ragazzi, diventa campo e oggetto della riflessione

pedagogica e dell’operatività dell’educatore, il quale in questa dimensione,

non si limita ad imprimere significato educativo alla sua relazione con il

singolo ragazzo, o con il gruppo, ma svolge una più ampia funzione di

contatto, collegamento e mediazione tra le fonti formali e informali di

educazione, promuovendo incontri, attività, esperienze che diffondano il

sapere acquisito, e contribuiscano perciò a rendere pedagogicamente più

competente l’intera comunità.

L’educatore, insomma, dovrebbe farsi rappresentante credibile dei

bisogni educativi dei ragazzi, evitando di partire dalle posizioni di forza di

quanti operano all’interno delle tradizionali istituzioni deputate

all’educazione, ma dalla strada.

Fondamentalmente dunque, le funzioni dell’educatore di strada sono:

1. costituzione di relazioni significative con i singoli, sostenute dai

fondamentali atteggiamenti educativi;

2. esercizio della relazione a-simmetrica accompagnata da una

parità dialogica e dalla capacità di porgere elementi della propria storia e, in

particolare, della propria adolescenza;

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3. accostamento a valori, inclusi pure nella dimensione

dell’educazione autentica: responsabilità, testimonianza, rispetto

dell’originalità-unicità di ciascuno, creatività, socialità, altruismo;

4. pratica dell’intenzionalità e della ricerca rispetto al senso

dell’esistenza e alla scelta di una filosofia di vita, di una fede religiosa,

all’apertura alla trascendenza;

5. orientamento all’azione sostenuta dalla riflessione e da una

coerente progettualità;

6. potenziamento dei legami con le reti formali e informali, del

senso di appartenenza alla comunità, empowerment90 di comunità91.

Tuttavia per la difficoltà, appena evidenziata, del compito

dell’educatore di strada, la maggioranza delle volte questo lavoro viene svolto

in equipe, infatti l’educatore di strada è un co-educatore e per questo motivo

vengono costituite unità mobili formate da almeno due educatori.

L’educatore di strada, quindi, è una persona fortemente motivata che

sta in mezzo ai giovani laddove questi si incontrano. Frequenta le

aggregazioni formali ed informali, svolge un’azione di collegamento tra i

giovani e le istituzioni, sa operare con elasticità e pone la sua attenzione in

particolare verso le fasce di disagio.

90 Empowerment è la parola inglese che può essere tradotta in italiano con "conferire

poteri", "mettere in grado di". Deriva dal verbo "to empower" che include una duplice sfumatura di significato intendendo sia il processo per raggiungere un certo risultato, sia il risultato stesso, cioè lo stato "empowered" del soggetto. Empowerment si connota come "processo" e "prodotto", risultato cioè di un'evoluzione di esperienze di apprendimento che portano un soggetto a superare una condizione di impotenza. Un "saper fare" e "saper essere" caratterizzati da una condizione di fiducia in sé, capacità di sperimentare, di confrontarsi con la realtà circostante.

91 Cfr. G. MILAN, Disagio giovanile e strategie educative, op cit. p. 158.

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Il ruolo dell’educatore di strada consiste nell’attivare una relazione che

comporta la conoscenza dello stile di vita e della cultura di base e l’indagare

costantemente sulla percezione che il soggetto ha dei servizi e dell’operatore.

È una persona costantemente attenta ai messaggi espressi e inespressi della

strada, capace di inserirsi nelle aggregazioni naturali degli adolescenti, per

individuare situazioni particolarmente a rischio e casi di disagio non evidenti,

nonché operare in un’ottica di prevenzione dell’assunzione di comportamenti

devianti. Deve conoscere la realtà territoriale, le varie organizzazioni e

istituzioni in ambito di disagio giovanile e possiede abilità organizzative e

tecniche di animazione necessarie per un intervento di strada.

Nell’avvicinare il ragazzo l’educatore di strada gli offre la possibilità

di sperimentare relazioni sociali positive, di sentirsi accolto e accettato, di

recuperare un’immagine positiva di se attraverso la valorizzazione delle sue

capacità. L’approccio, quindi, è orientato a creare un clima di accoglienza

incondizionata, accettazione, ascolto, per poter instaurare un rapporto di

fiducia tale da supportare i ragazzi nell’itinerario di crescita. In particolare,

l’educatore sa “perdere tempo” con i ragazzi, seguirli nei loro giochi e

distaccarsi dalla rigidità dei servizi strutturati. In definitiva l’intervento

dell’educatore di strada ha una duplice funzionalità:

1. migliorare la condizione di singoli adolescenti e i loro rapporti

con gli adulti;

2. prevenire il disagio agendo sulle situazioni definite a rischio

attraverso la promozione del benessere delle comunità locali.

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3.3. Intervista ad un operatore

Per approfondire i temi trattati precedentemente e per avere una

visione totale dell’argomento, ho pensato che sarebbe stato utile avere un

responso “sul campo”. È per questo che ho deciso di contattare la Cooperativa

sociale “Hakuna Matata”, sita in Bari, e nello specifico, l’educatrice Eleonora

Lascaro, la quale mi ha fornito, attraverso una breve intervista, informazioni

dettagliate circa l’educativa di strada ed in particolare sul progetto svolto

dalla cooperativa per cui lavora.

L’incontro è avvenuto presso la loro sede, dove ho potuto attestare le

competenze del singolo operatore e l’efficienza della loro unità di intenti.

Attraverso delle semplici domande ho potuto comprendere a fondo

l’importanza di questa strategia educativa, ma soprattutto la difficoltà di

realizzazione di un così grande impegno. La mia intervista è stata a domande

aperte e molto flessibile proprio per dare spazio all’esplicazione di tutte le

sfaccettature di un argomento così vasto.

3.3.1. L’intervista

L’incontro tra me e l’educatrice intervistata ha avuto inizio attraverso

una breve esplicazione del motivo della mia presenza in cooperativa e

dell’intervista. Dopo aver spiegato la ragione che mi ha portato ad

approfondire l’argomento dell’educativa di strada, ho dato inizio all’intervista

vera e propria. Le domande poste all’educatrice avevano l’obiettivo di

chiarire, attraverso la sua esperienza in prima persona, le dinamiche che si

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sviluppano durante lo svolgimento di un progetto di educativa di strada.

Queste sono state le domande da me poste all’educatrice Eleonora Lascaro:

D. Da quanto tempo lavora in questa cooperativa?

R. Lavoro all’interno della cooperativa “Hakuna Matata” da 4 anni.

D. Qual è e in cosa consiste il suo ruolo all’interno della cooperativa?

R. Sono entrata a far parte della cooperativa in un primo momento

come educatrice professionale lavorando per sei mesi in strada, in seguito

sono diventata coordinatrice del progetto, per poi diventare coordinatrice di

tutta l’area socio – educativa della cooperativa.

D. Di cosa si occupa e quali sono gli obiettivi che si prefigge di

realizzare un progetto di educativa di strada?

R. L’educativa di strada è una metodologia di intervento per la

prevenzione e risocializzazione dei giovani a rischio assolutamente

innovativa. La differenza con le precedenti risposte al problema sta nel

superamento del vecchio schema, in cui l’utente si reca presso l’istituzione in

cerca di un servizio, nell’educativa di strada invece, è l’operatore che cerca un

contatto con l’utente anche senza una esplicita richiesta di aiuto da parte di

quest’ultimo. Gli operatori si recano nei luoghi di aggregazione dei giovani,

cercano un contatto con loro, trascorrono del tempo il loro compagnia ed è la

condivisione di esperienze e momenti di quotidianità che permette agli

operatori di capire i disagi nascosti e poterli quindi risolvere.

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D. In che modo vi proponete di raggiungere i vostri obiettivi?

R. Il primo passo da compiere è effettuare un monitoraggio della città

in generale per poi soffermarsi sui quartieri considerati più a rischio. Una

volta individuate le aree in cui operare, gli animatori si adoperano per attirare

l’attenzione dei ragazzi attraverso la musica o l’utilizzo di semplici giochi

come il pallone. Successivamente ai primi contatti è il turno degli educatori

che con l’aiuto di domande apparentemente comuni cercano di delineare il

background sociale di ciascun ragazzo. Gli operatori di strada solitamente

preferiscono non svelare la loro professione e i loro veri intenti per poi

esplicarli una volta ottenuta la fiducia dei ragazzi. A questo punto si da inizio

alle attività messe in preventivo nel progetto. Spesso, gli operatori

conquistano una piccola vittoria accogliendo le richieste dei ragazzi

dimostrando l’effettiva riuscita dell’intento.

D. Quali sono le caratteristiche dei destinatari dei vostri interventi?

R. L’educativa di strada si rivolge ad un’utenza di giovani di età

compresa tra i 13 ed i 18 anni all’incirca. A volte può capitare che ragazzi più

grandi o più piccoli rientrino a far parte dei nostri progetti senza tuttavia

sconvolgere le nostre attività ed i nostri metodi. I giovani a cui faccio

riferimento sono ragazzi che hanno fatto della strada una seconda casa,

ragazzi che trascorrono le loro giornate a cercare un modo di impegnare il

tempo libero e la maggior parte delle volte non è un modo costruttivo, anzi. Il

nostro obiettivo è appunto quello di fornire a questi ragazzi si una valida

100

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alternativa di impiego del loro tempo, ma anche aiutarli a comprendere i

valori basilari che molte volte le famiglie non sono state in grado di

spiegargli.

D. Ci sono degli strumenti in particolare che utilizzate per svolgere al

meglio il vostro compito?

R. Gli strumenti che utilizziamo nei nostri progetti sono dei più

svariati, a cominciare dal mezzo di trasporto, fino ad arrivare agli oggetti che

utilizziamo per far giocare i ragazzi. Per quanto riguarda il bus “On the

Road”, oltre a permetterci gli spostamenti da una zona all’altra della città, si è

rivelato uno strumento utile al nostro scopo. Il bus, attrezzato con quattro

computer e tutto il materiale che serve per l’educativa (giochi, libri, volantini

ecc…), è diventato una caratteristica distintiva della nostra cooperativa in

quanto uno dei ragazzi ha avuto la possibilità di dare sfogo alla sua creatività

artistica realizzando un murales sul bus indicante i nomi delle due equipe che

facevano parte del progetto (Rap e Hip Hop).

D. Quali sono i contesti in cui si rende necessario il vostro intervento?

R. I contesti che richiedono l’intervento dell’educativa di strada cono

costituiti da quartieri in cui i giovani non hanno luoghi dove incontrarsi se

non la strada, la maggior parte delle volte queste zone non sono neppure

collegate dai mezzi di trasporto con il resto della città creando una sorta di

isolamento per i giovani che non hanno possibilità di spostamento. Come

accade spesso nelle medio – grandi città la periferia, quindi, con i suoi scarsi

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collegamenti con le zone centrali, dimostra di essere il fulcro nonché il

principale motivo di disagio per i giovani che, per passare il tempo non hanno

che una panchina, una piazza o un bar.

D. Quali sono le figure professionali coinvolte in un progetto di

educativa di strada?

R. Il lavoro di strada si avvale della cooperazione tra diverse figure

professionali. Un responsabile del progetto, con la funzione di coordinatore

delle attività, delle equipe e del progetto nel complesso. Oltre a questa, vi è la

figura dell’animatore che si occupa della realizzazione delle attività ludiche e

di animazione ed infine vi è l’educatore professionale che si occupa di

favorire il processo di crescita dei minori e di coordinare la collaborazione

all’interno dell’equipe.

D. Quali caratteristiche e competenze deve possedere un educatore di

strada?

R. Sulla figura professionale dell’educatore di strada purtroppo c’è

poca chiarezza, fondamentalmente le competenze che deve possedere sono le

stesse che deve possedere ogni educatore, ma con qualche caratteristica

distintiva. Innanzitutto deve avere un atteggiamento non giudicante nei

confronti dei comportamenti dei ragazzi, deve sapersi comportare da amico

ma al contempo da educatore, quindi accettare gli atteggiamenti dei ragazzi e

cercare di far comprendere la scorrettezza di questi ultimi qualora ci fosse,

deve saper lavorare in equipe e soprattutto deve essere fortemente motivato.

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Inoltre deve essere capace di recepire i messaggi inespressi dei giovani e

sapersi inserire nel mondo di questi senza sconvolgerlo, semplicemente

vivendolo insieme a loro.

Studiare da un libro un argomento come l’educativa di strada,

sicuramente chiarisce le idee su questa metodologia di intervento rivolta ai

giovani in difficoltà, ma certamente non spiega implicazioni emotive che

coinvolgono gli operatori durante lo svolgimento di questo tipo di progetto

educativo. Apprendere dall’esperienza di un addetto ai lavori, le sfumature

imprevedibili dei progetti che gli educatori mettono in pratica, aiuta a

comprendere a pieno sia le dinamiche concrete di cui essi si avvalgono, che i

testi puramente didattici e nozionistici. Vista l’importanza e la complessità di

questo argomento, la complementarietà di teoria e pratica è a mio parere la

soluzione ideale per avere ben chiaro il concetto di educativa di strada.

Durante l’intervista, molte delle informazioni ottenute dall’educatrice

Eleonora Lascaro, hanno trovato riscontro sui testi da me utilizzati per

l’apprendimento teorico.

Queste congruenze dimostrano la piena autorevolezza delle ricerche fin

qui fatte sull’argomento, ma anche che nessun testo universitario, così come

nessun ricercatore, sarà mai in grado di quantificare il rapporto di complicità

e confidenza instaurato tra un educatore ed un giovane che, altrimenti,

sarebbe rimasto in difficoltà. Il paragrafo che segue rappresenta la risposta

all’ultima domanda da me posta all’educatrice Eleonora Lascaro:

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D: Tra i tanti progetti di educativa di strada portati a termine dalla

vostra cooperativa può descrivermene uno che riassuma al meglio il vostro

modo di operare?

3.4. Il progetto “On the Road”

Il progetto “on the road” nasce il 7 gennaio 2003, nell’ambito del

secondo piano territoriale per l’infanzia e l’adolescenza ex Legge 285/9792,

dal Comune di Bari. La Legge Nazionale 28 agosto 1997, n. 285

“Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e

l’adolescenza”, si occupa di realizzare interventi a favore dell’infanzia e

dell’adolescenza, programmando a livello teorico possibilità di intervento.

Grazie a questa legge, per la prima volta, sono stati stanziati dei fondi a

favore di progetti indirizzati agli adolescenti.

3.4.1. Ex legge 285/97 una legge a tutela dei minori

La legge n. 285/97 recante "Disposizioni per la promozione di diritti e

opportunità per l'infanzia e l'adolescenza" assume fra le proprie finalità la

promozione sia di interventi rivolti alle situazioni di difficoltà, marginalità e

disagio in cui si trovano molti minori e le loro famiglie, sia di interventi che

riconoscano i bambini come soggetti di diritti ed offrano loro opportunità

nella vita quotidiana delle proprie comunità. L’ambito di intervento della

92 La legge nazionale 285/97 “Disposizioni per la promozione di diritti e di opportunità per l’infanzia e l’adolescenza” del 28 agosto 1997, assume tra le proprie finalità la promozione sia di interventi rivolti alle situazioni di difficoltà, marginalità e disagio in cui si trovano i bambini, gli adolescenti e le loro famiglie, sia di interventi che riconoscano i bambini e gli adolescenti come soggetti di diritti ed offrano loro opportunità nella vita quotidiana delle proprie comunità.

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legge consente di attivare iniziative realizzate secondo le seguenti linee

fondamentali:

integrazione degli interventi e delle competenze in particolare tra

finalità sociali ed educative, da perseguire attraverso un lavoro di rete, che

preveda l’adozione di strumenti formali, quali gli accordi di programma;

collaborazione tra tutti i soggetti pubblici e privati, impegnati a

livello istituzionale e non, in attività a favore dell’infanzia e dell’adolescenza:

enti locali, aziende sanitarie, provveditorati agli studi, centri per la giustizia

minorile, associazionismo, cooperazione sociale, volontariato;

promozione del ruolo degli enti locali di coordinamento delle

risorse presenti sul proprio territorio, superando la frammentarietà degli

interventi e la scarsa informazione sugli stessi;

necessità di operare secondo tempi e modalità di lavoro predefiniti

e condivisi da tutti i soggetti coinvolti, al fine di evitare sprechi di risorse.

Gli obiettivi prioritari, della legge sono:

1. promozione e sviluppo di una cultura e di tutte le forme di

accoglienza dei minori,

2. promozione di attività di prevenzione diffusa,

3. sviluppo di interventi specifici per la tutela delle situazioni di

maggior rischio e difficoltà, quali abuso o sfruttamento sessuale, abbandono,

maltrattamento e violenza sui minori,

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4. miglioramento della qualità dei servizi e degli interventi

fondamentali con cui affrontare le situazioni emergenziali e la

sperimentazione e diffusione sul territorio regionale di servizi innovativi a

livello locale, rivolti alla prima infanzia, ai bambini ed alle famiglie, alla

fascia pre-adolescenziale e adolescenziale.

3.4.2. Il Progetto

Uno dei progetti di attuazione delle legge 285/97 è rappresentato da

quello svolto dalla Cooperativa Sociale “Hakuna Matata”, la quale ha avuto la

possibilità di intraprendere questo percorso di lavoro con e per i giovani di

alcuni quartieri di Bari. Il progetto ha avuto una durata di circa tre anni e

mezzo in cui gli operatori hanno contattato circa trecento ragazzi tra i 14 e i

18 anni dei quartieri di San Paolo-Stanic, Libertà e San Girolamo Fesca. In

questo periodo di tempo hanno lavorato attivamente con circa 180 ragazzi,

svolgendo varie attività allo scopo di attirare l’attenzione dei giovani. Oltre

alla cooperativa “Hakuna Matata”, altri enti hanno partecipato al progetto “in

rete”; la Cooperativa Sociale Gea che si occupa di supervisione e

formazione, la Cooperativa Sociale Esedra che, invece, si occupa di

pubblicità e promozione, ed infine la Cooperativa Sociale Get, la quale si

occupa del settore di produzione di audiovisivi e multimedialità.

Lo svolgimento del progetto ha attraversato diverse fasi, la prima delle

quali, naturalmente è stata la mappatura del territorio e l’osservazione dei

gruppi nel loro ambiente e nella loro quotidianità.

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Durante la fase di osservazione non c’è stato alcun contatto tra gli

operatori e gli adolescenti. Attraverso la fase di mappatura si è potuto

osservare il contesto in cui il progetto avrebbe avuto luogo. All’interno dei

quartieri osservati la caratteristica più importante che si poteva notare era la

mancanza di strutture adatte ai giovani, l’assenza di collegamenti con la città

e conseguentemente la noia dei ragazzi che non avevano un modo costruttivo

per impegnare il tempo libero.

Successivamente a questa fase di osservazione e alla decisione degli

interventi da realizzare, gli operatori sono entrati in contatto con i giovani. Gli

operatori che hanno partecipato al progetto sono stati suddivisi in due equipe

composte da quattro operatori ciascuna, una denominata “rap” e l’altra “hip

hop”. La prima ha lavorato sul quartiere Libertà, mentre l’altra sul quartiere

S. Paolo. Le equipe sono composte da due animatori e due educatori

professionali con ruoli e compiti differenti. Gli animatori hanno il compito di

entrare per primi in contatto con i ragazzi e, con tecniche animative (palloni,

palloncini, clave e vari strumenti per la giocoleria), attirano l’attenzione dei

ragazzi i quali si avvicinano maggiormente agli operatori. Solo

successivamente a questo primo approccio effettuato dagli animatori vi è

l’intervento degli educatori professionisti, i quali attraverso domande generali

entrano in contatto con i giovani per capire le situazioni eventuali di disagio,

ma soprattutto per cercare di instaurare un rapporto con i ragazzi. In ogni

quartiere ogni gruppetto era composto da circa 30 ragazzi di età compresa tra

i 12 ed i 18 anni, anche se a volte l’età si discostava da quella prestabilita,

senza tuttavia creare problemi agli operatori.

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OBIETTIVI

Il progetto “on the Road” mira a sviluppare un’azione educativa

“informale” sperimentando nuove forme e metodologie di approccio, tramite

l’educativa di strada e attraverso i cosiddetti “streetworkers”, ovvero

educatori di strada93.

Gli obiettivi prioritari del progetto sono stati:

trasformare la strada da luogo che produce disagio, a spazio

d’incontro sano e protetto, realizzando iniziative di socializzazione e di

aggregazione e offrendo ai giovani nuovi strumenti e opportunità,

innescare processi di valorizzazione e autopromozione

dell’adolescente con il tutoraggio degli animatori e degli educatori di strada

nella loro doppia funzione connettore/filtro verso altri servizi dedicati a

questa fascia d’età,

mettere in risalto il valore della strada intesa come risorsa,

trasformare i luoghi di aggregazione dei giovani, nei contesti

territoriali in cui si trovano, in luoghi sani.

DESTINATARI

I destinatari del progetto sono gruppi di pre-adolescenti e adolescenti

di età compresa tra i 12 e i 18 anni dei quartieri S.Paolo - Stanic, Libertà - S.

Girolamo – Fesca e che hanno fatto della strada, per volontà o per obbligo, il

loro punto di riferimento e di aggregazione.

93 Tutti i dati e le informazioni inerenti il progetto “On the road” e la Cooperativa Sociale “Hakuna Matata”, sono stati forniti da operatori della stessa.

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METODOLOGIA E ORGANIZZAZIONE DEL PERCORSO

PRIMA FASE

La prima fase di attuazione del progetto è stata la mappatura del

territorio attraverso l’osservazione dei contesti e degli eventuali destinatari

del progetto. La conoscenza dei gruppi naturali presenti nel territorio

rappresenta dunque una tappa fondamentale per intraprendere un

avvicinamento. Il lavoro educativo con i gruppi del territorio è stato costruito

attraverso delle fasi preliminari, nel corso delle quali vengono selezionati

alcuni dei gruppi con i quali si pensa di poter avviare un processo di

avvicinamento. Nella prima fase si cerca di conoscere le realtà informali di

aggregazione attraverso una mappatura dei gruppi naturali. Successivamente

alla scelta dei gruppi con i quali avviare un processo di avvicinamento, si

cerca di completare l’aggancio con il gruppo.

SECONDA FASE

In seguito alla prima fase di mappatura del territorio e di osservazione

dei gruppi, si è passati al momento progettuale, dove gli operatori sono entrati

in contatto con i giovani. Il contatto è avvenuto, in un primo momento, con

gli animatori, i quali, utilizzando diverse tecniche di aggancio e di

animazione, hanno attirato l’attenzione dei giovani. In un secondo momento,

invece, gli educatori, attraverso metodi di aggancio meno espliciti, hanno

cercato di instaurare un clima di relativa fiducia con i ragazzi.

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TERZA FASE

Una volta stabilito il contatto e soprattutto ottenuta la fiducia dei

ragazzi, si è passati alla fase operativa. Durante la fase operativa, vi è stato

l’inserimento dei giovani in attività socio – educative e ludico – ricreative

scelte e condivise con l’utente stesso attraverso un progetto partecipato.

ATTIVITA’ SVOLTE

Durante il progetto “On the Road”, sono state svolte attività tra le più

svariate, con la partecipazione sia dei ragazzi che degli operatori, e tutte le

attività sono state svolte sulla strada. Le due equipe composte da educatori

professionali ed animatori qualificati, hanno incontrato per circa tre anni i

gruppi agganciati durante lo svolgimento del progetto nei loro principali

luoghi di aggregazione: strade, vie, piazze, bar e circoli dei quartieri.

Durante tutta la durata del progetto gli operatori hanno operato con più

di 300 tra ragazzi e ragazze, tutti coinvolti nelle attività di:

cabaret, scrittura di racconti di strada, cortometraggi, cineforum,

laboratori audio – visivi, radio “On the Road”, tornei sportivi, gruppi di

ascolto, discussione e progettazione di attività di autogestione, tutoraggio

nell’ambito scolastico e lavorativo.

Attraverso le attività svolte con i giovani hanno potuto entrare a far

parte del loro mondo , fatto di panchine, di bar, di incontri che in un certo

senso hanno riempito le loro giornate allontanandoli dall’impiego sbagliato

del tempo libero e consentendogli di fare attività più costruttive e sane.

L’obiettivo non è tanto quello di allontanare i ragazzi dalla strada, quanto

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quello di trasformare la strada da luogo che produce disagio in un luogo di

incontri costruttivi e positivi.

L’obiettivo generale è stato raggiunto, alcuni dei ragazzi incontrati

dagli operatori sono tornati a frequentare la scuola, altri hanno intrapreso un

percorso lavorativo e qualcuno di loro proprio all’interno della cooperativa

che ha dato vita al progetto “On the Road”. Tutto ciò dimostra che qualcosa si

può fare; operando nel modo giusto, con i metodi giusti e con le persone

giuste si possono aiutare dei giovani in difficoltà che hanno fatto della strada

un modo di vivere.

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