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1 UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA FACOLTÀ DI SCIENZE MATEMATICHE, FISICHE E NATURALI CORSO DI LAUREA IN FISICA Nunzia Simona Martorana Indagine non distruttiva e in situ di beni d’interesse culturale: metodi PIXE-α e XRD Tesi di Laurea Relatore: Prof.ssa Francesca Rizzo Correlatore: Dr.ssa Lighea Pappalardo ANNO ACCADEMICO 2011 – 2012

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CATANIA

FACOLTÀ DI SCIENZE MATEMATICHE, FISICHE E NATURALI

CORSO DI LAUREA IN FISICA

Nunzia Simona Martorana

Indagine non distruttiva e in situ di beni

d’interesse culturale:

metodi PIXE-α e XRD

Tesi di Laurea

Relatore: Prof.ssa Francesca Rizzo

Correlatore: Dr.ssa Lighea Pappalardo

ANNO ACCADEMICO 2011 – 2012

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Indice

Introduzione ................................................................. 5

Capitolo 1

Le Tecniche di indagine ................................................ 7

1.1 Spettroscopia Raman ................................................................ 8

1.2 Spettroscopia X ...................................................................... 10

1.3 Le tecniche IBA ...................................................................... 13

1.3.1 La tecnica RBS ............................................................... 14

Capitolo 2

Metodi PIXE-α e XRD ............................................... 16

2.1 Produzione di raggi X............................................................. 16

2.1.1 Tubo a raggi X…… ……………………………………..…….18

2.2 Interazione raggi X e materia ................................................. 19

2.3 Metodo XRD ............................................................................ 23

2.3.1 Principi di diffrazione ....................................................... 23

2.3.2 Apparato sperimentale ...................................................... 28

2.3.3 Analisi dello spettro .......................................................... 33

2.4 Tecnica PIXE .......................................................................... 35

2.4.1 Principio fisico ................................................................. 36

2.4.2 Analisi dello spettro ........................................................... 39

2.5 PIXE-α .................................................................................... 45

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Capitolo 3

Complementarità delle tecniche PIXE-α e XRD ............. 48

3.1 I minerali ................................................................. 50

3.2 Le ocre .................................................................... 51

3.2.1 Terra di Siena ....................................................... 51

3.2.2 Ocra rossa .......................................................... 52

3.2.3 Terra verde ......................................................... 54

3.3 Gli affreschi romani ..................................................... 55

Conclusioni ................................................................ 60

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Introduzione

Il lavoro esposto nella seguente tesi riguarda lo studio di tecniche non distruttive e

in situ per l’analisi di beni d’interesse storico-artistico. Tipicamente, le analisi che

si effettuano su opere d’arte sono atte sia a risolvere problematiche relative

all’impiego di materiali di restauro, in modo da garantire la conservazione dei

beni, sia alla conoscenza della data di fabbricazione, del paese d’origine, della

struttura chimico-fisica e degli eventuali cambiamenti nel tempo.

L’importanza delle tecniche di cui si tratta risiede nella possibilità di effettuare

misure non distruttive. Fino ad un recente passato, infatti, la composizione dei

materiali veniva stabilita con criteri prettamente stilistici, mentre in epoche più

moderne, con l’avvento di nuove tecnologie analitiche, utilizzando metodi chimici

distruttivi. Attualmente, si sfruttano fenomeni tipici della fisica atomica e

nucleare, basati sull’interazione tra la radiazione incidente (elettromagnetica o di

particella cariche) e la materia. Anche la possibilità di effettuare analisi in situ è di

fondamentale interesse; in questo modo, infatti, si evita di rimuovere il bene dal

luogo in cui è conservato, il che assume un ruolo fondamentale se l’opera d’arte

da investigare non è trasferibile presso i laboratori, come accade nel caso di opere

di particolar pregio, o se essa rappresenta parte di un edificio storico (colonne,

affreschi parietali).

Queste tecniche, oggi, costituiscono un mezzo consolidato di indagine dei

materiali, infatti molti laboratori industriali e di ricerca applicata sono forniti di

acceleratori dedicati a scopi analitici. Tra i principali centri di ricerca operanti in

Italia, si ricordano il laboratorio LANDIS, operante attraverso una collaborazione

tra il LNS-INFN, l’IBAM-CNR e il Dipartimento di Fisica e Astronomia di

Catania, i Laboratori Nazionali di Legnaro (Pd) e il Dipartimento di Fisica

dell’Università di Firenze.

I motivi per i quali l’utilizzo della Fisica Nucleare per l’Archeologia è sempre più

in crescita, sono riconducibili alla flessibilità e alla ricchezza di informazioni che

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si possono ottenere. Inoltre, negli ultimi anni, le tecniche basate sulla fisica

nucleare applicata allo studio dei Beni Culturali in genere hanno subito una

continua evoluzione volta a migliorarne il grado di accuratezza e ad ampliare la

gamma delle applicazioni, cercando di minimizzare il rischio di danneggiamento

del campione e i tempi di misura.

Nel primo capitolo del lavoro, si presentano le differenti tecniche di analisi

descrivendo i principi fisici su cui esse si basano, tra queste un’attenzione

particolare viene dedicata alle tecniche: PIXE, RBS, PIGE, spettroscopia

molecolare Raman e XRF.

Nel secondo capitolo sono trattate, in dettaglio, le tecniche di analisi PIXE-α e

XRD, sviluppate e/o utilizzate presso il laboratorio LANDIS dei LNS/INFN-CNR

di Catania. Verranno, altresì, descritti gli strumenti, le peculiarità di ogni metodo,

i processi fisici coinvolti e le informazioni qualitative e quantitative che si

possono ottenere. Nel terzo capitolo sono riportati degli esempi di spettri acquisiti

con le tecniche PIXE-α e XRD, al fine di evidenziare come l’utilizzo combinato

delle due tecniche permetta di ottenere informazioni particolareggiate sul

campione investigato. Infatti l’insieme dei dati ottenuti adoperando entrambe le

tecniche permette di risalire non solo agli elementi chimici presenti nei differenti

campioni, ma anche alla loro composizione mineralogica. Inoltre, verrà riportato il

risultato di una misura ottenuta analizzando uno standard, tramite il PIXE-α, e la

metodologia correntemente adoperata per la determinazione dell’analisi

quantitativa.

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Capitolo 1

Le tecniche di indagine

L’archeometria è una disciplina che si occupa dello studio di materiali di interesse

storico-artistico, il bene costituisce l’oggetto primario dell’indagine e gli obiettivi

dell’analisi sono molteplici: caratterizzazione della composizione fisico-chimica,

datazione e determinazione dei cambiamenti del materiale nel tempo.

Le tecniche di indagine di cui si tratta permettono di analizzare “singoli” campioni

per poi collocare le informazioni in un quadro storico abbastanza vasto, infatti la

conoscenza dei parametri prima citati può permettere di individuare il grado di

sapere tecnologico di un popolo antico, scovare i falsi d’autore, fornire

informazioni sul degrado dell’opera e, quindi, sui metodi di restauro. Tra le

tecniche esistenti, sono di notevole interesse quelle che utilizzano strumenti di

misura portatili che consentano l’analisi dell’oggetto direttamente presso il luogo

in cui esso è custodito (analisi in situ) e, soprattutto, che non arrechino alcun

danno strutturale all’oggetto in esame (analisi non distruttive) [1].

Sono denominate non distruttive tutte le tecniche che preservano l’integrità del

campione analizzato, non richiedendo il prelievo di porzioni del bene oggetto di

studio.

Le tecniche utilizzate in archeometria si basano sull’interazione radiazione-

materia. Da tali tecniche si possono ottenere informazioni sia di tipo qualitativo

che di tipo quantitativo. Sono qualitative quelle informazioni che permettono di

identificare composti chimici o elementi, quantitative quelle che permettono di

determinarne la concentrazione.

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Si possono distinguere differenti tecniche in base al tipo di informazione che si

vuole ottenere e alle caratteristiche del materiale che si vuole studiare:

spettroscopia atomica, spettroscopia molecolare, spettroscopia X, diffrazione.

In questo capitolo sono descritte alcune delle tecniche spettroscopiche

comunemente adoperate quali la spettroscopia Raman, il metodo XRF, le tecniche

IBA ( Pixe, Pige e RBS).

1.1 Spettroscopia Raman

La spettroscopia Raman [2] è una tecnica non invasiva che si basa sull’interazione

radiazione-materia, lo studio si effettua sullo spettro (Figura 1.1) che segue

dall’interazione.

Figura 1.1: Spettro Raman

Quando una radiazione elettromagnetica monocromatica incide su un materiale in

parte passa indisturbata attraverso il campione, in parte interagisce elasticamente

subendo una diffusione (scattering alla Rayleigh); un numero inferiore di fotoni

(circa 1 su 106) interagisce con le molecole attivando i loro moti roto-vibrazionali

(interazione anelastica). Le molecole assorbono energia passando ad uno stato

eccitato, dal quale diseccitandosi, emettono fotoni con frequenze maggiori o

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minori rispetto alla frequenza della radiazione incidente. Lo spettro risultante

presenta tre righe di emissione, quella centrale è associata allo scattering

Rayleigh, le altre due sono denominate righe Stokes e anti-Stokes.

Le due righe sono disposte simmetricamente rispetto alla riga Rayleigh e la

differenza di energia rispetto a questa corrisponde all’energia ceduta o acquistata

dalla molecola. Lo spettro Raman a differenza degli spettri di emissione o di

assorbimento, dipende solo dalle caratteristiche del campione, cioè non si ottiene

esclusivamente a frequenze incidenti fissate, ed è quindi come un’impronta

digitale del materiale.

Essendo la misura unicamente basata sulla determinazione delle lunghezze d’onda

delle righe Stokes e anti-Stokes, la spettroscopia Raman rientra nelle tecniche di

spettroscopia molecolare; permette di ottenere informazioni sui gruppi funzionali

che costituiscono il campione e sfrutta tecniche sia portatili che non, in particolare

le prime consentono di lavorare con campioni ingombranti.

Gli strumenti portatili, però, possono inficiare la misura in modo significativo a

causa delle oscillazioni dello strumento stesso, infatti nello spettro Raman i picchi

delle molecole sono molto vicini, quindi è necessario effettuare misure molto

accurate.

Questa tecnica è prevalentemente utilizzata per condurre analisi di tipo

superficiale e per caratterizzare composti organici ed inorganici in materiali di

origine animale e vegetale. In Figura 1.2 sono riportati esempi di Raman, di

quattro differenti pigmenti.

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Figura 1.2: Esempi di spettri Raman di quattro diversi pigmenti

1.2 Spettroscopia X

La spettroscopia X è una tecnica d’indagine che sfrutta la produzione di raggi X a

seguito dell’interazione della radiazione con il campione; permette di ottenere

informazioni relative agli strati più superficiali oppure può estendersi fino a

diverse centinaia di nel “corpo” del campione.

Tra le tecniche di spettroscopia X vi è la XRF (X-Ray Fluorescence) la quale è

una delle tecniche non distruttive più diffuse per la determinazione degli elementi

presenti in un campione e per la loro quantificazione.

In tale tecnica si sfrutta l’effetto fotoelettrico: raggi X incidono sul campione e, se

possiedono un’energia sufficiente, causano l’emissione di uno degli elettroni delle

shells più interne; la lacuna formatasi è riempita da un elettrone che si trova nella

shell successiva. L’atomo, diseccitandosi, emette un fotone con energia

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caratteristica del salto quantico effettuato dall’elettrone; poiché le energie di

legame degli elettroni nell’atomo sono dell’ordine del KeV, la radiazione emessa

sarà un raggio X.

L’energia delle radiazioni emesse permette di riconoscere gli elementi presenti nel

campione, la loro l’intensità permette di determinarne la concentrazione.

La tecnica XRF comprende due ulteriori metodi di analisi:

Tecnica Wave Dispersive-XRF, in cui la radiazione emessa è rivelata in

funzione della sua lunghezza d’onda. E’ una tecnica molto accurata ma

non permette di effettuare delle analisi in situ, infatti, per separare e

studiare le varie lunghezze d’onda è necessario un prisma accoppiato ad un

rivelatore che si deve posizionare ad angoli ben precisi, inoltre per avere

una buona risoluzione la distanza tra il rivelatore e il prisma deve essere

abbastanza grande.

Tecnica Energy Dispersive-XRF è una tecnica meno accurata ma che

permette, attraverso un rivelatore a stato solido, di identificare tutti gli

elementi presenti nel campione. Inoltre i tempi di misura si riducono molto

rispetto alla WDXRF.

Gli strumenti che permettono di eseguire le analisi XRF possono essere da banco,

in cui si riesce ad analizzare un campione di quantità minore di un grammo. Gli

strumenti da banco con microscopio permettono, invece, di analizzare aree molto

piccole fino a poche decine di μm. Infine si possono utilizzare strumenti portatili

che analizzano la superficie del campione, fino ad una profondità variabile.

In Figura 1.3 è presentato uno schema di analisi XRF.

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Figura 1.3: schema di analisi XRF

La tecnica XRF non permette di svelare elementi con basso numero atomico, a

partire dal magnesio fino all’idrogeno, quindi non è adatta per l’identificazione di

materiali organici; è più idonea per l’analisi di materiali inorganici, come

ceramica, vetro, metalli e materiali lapidei.

In Figura 1.4 è riportato un esempio di analisi condotta con il metodo XRF.

Figura 1.4: Esempio di spettro XRF, realizzato su un campione di cinabro.

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1.3 Tecniche IBA (Ion Beam Analysis)

Le tecniche IBA sfruttano l’interazione, atomica e nucleare, tra un fascio di

particelle cariche e il campione da investigare.

E’ noto che quando una particella carica interagisce con un materiale perde

energia, la perdita di energia avviene per collisioni con gli elettroni atomici

oppure per collisioni di tipo elastico o anelastico con i nuclei degli elementi del

campione e dipende sia dal tipo di particella incidente che dal tipo di materiale.

A seguito di questa interazione si ha l’emissione di raggi X, o di particelle

leggere; dallo studio della radiazione emessa si può risalire alla composizione

elementale del campione ma non ai legami chimici presenti.

Figura 1.5: Reazione IBA

Tra le tecniche IBA si distinguono:

PIXE (Particle-Induced X-Ray Emission), che sfrutta l’emissione

caratteristica di raggi X da un campione irradiato con fasci di particelle

cariche. In particolare se le particelle incidenti sono α, la tecnica è detta

PIXE-α, di cui si discuterà nel prossimo capitolo.

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PIGE ( Particle-Induced -ray Emission) che si basa su reazioni nucleari,

infatti rivela raggi gamma emessi dal nucleo degli atomi irradiati.

RBS ( Rutherford Backscattering Spectrometry), che sfrutta la diffusione

all’indietro di protoni o particelle α incidenti su un bersaglio.

Queste tecniche rappresentano un mezzo d’indagine consolidato, sia perché

sono molto versatili e non distruttive ma anche per la semplicità dei processi

fisici coinvolti.

A vantaggio delle tecniche IBA vi sono sezioni d’urto elevate e questo

garantisce che anche flussi di particelle limitati possono produrre segnali

intensi.

1.3.1 La tecnica RBS

La tecnica RBS sfrutta la diffusione all’indietro delle particelle incidenti su un

bersaglio. L’energia delle particelle diffuse dipende sia dalla massa del nucleo

bersaglio sia dalla profondità a cui avviene l’interazione, dall’analisi dello spettro

di energia degli ioni backscatterati si possono ottenere informazioni qualitative e

quantitative sulla composizione del campione .

Le collisioni d’interesse sono di tipo elastico coulombiano, dovute alla forte

repulsione coulombiana di cui risentono i due nuclei quando sono vicini tra loro;

si utilizzano energie di pochi MeV in modo da essere al di sotto della barriera

coulombiana e non dar luogo a fenomeni nucleari.

L’interazione coulombiana può essere descritta come un urto elastico, facendo uso

della fisica classica; in queste condizioni sono valide e leggi di conservazione di

energia e impulso, dalle quali si può ricavare una proporzionalità tra energia

cinetica della particella incidente, To , e quella della particella diffusa, T1 [3] .

*(

)( √

)+

(1.1)

Il termine di proporzionalità è detto fattore cinematico e dipende solo dalle masse

m1 e m2, della particella incidente e diffusa, rispettivamente, e dall’angolo di

diffusione .

Nel caso della tecnica RBS ≈ 180°, quindi il fattore cinematico non dipende da

ma solo dalle masse m1 e m2 .

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( ) *

+

(1.2)

La tecnica RBS è utile per distinguere due elementi leggeri presenti nel campione

ma la capacità di distinguere due elementi pesanti è scarsa. Inoltre utilizzando

campioni composti da particelle più leggere dei proiettili si avrà una diffusione in

avanti; ad esempio se He incide su H non subirà backscattering, quindi per

rivelare ioni più leggeri del proiettile è necessario utilizzare tecniche alternative.

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Capitolo 2

Metodi PIXE-α e XRD

I raggi X furono scoperti nel 1895 dal fisico tedesco W.C. Roentgen; tra il 1913 e

il 1914 Moseley comprese che l'emissione dei raggi X era caratteristica

dell’elemento emittente, infatti questa variava con regolarità in funzione del

numero atomico . Proprio per questo, nel corso degli anni, si è avuto lo sviluppo

di tecniche che permettono di identificare gli elementi presenti in un campione

dallo studio dei raggi X emessi.

Nei prossimi paragrafi si studiano i metodi di produzione dei raggi X e la loro

interazione con la materia, per poter poi analizzare le problematiche legate ai

metodi che li utilizzano.

2.1 Produzione dei Raggi X

I raggi X sono radiazioni elettromagnetiche con lunghezza d’onda compresa tra

10-8

e 10-11

m circa [4,5,6] e possono essere adoperati per eccitare e ionizzare un

atomo. La produzione dei raggi X può avvenire attraverso due meccanismi

distinti.

Il primo meccanismo è il cosiddetto processo di Bremsstrahlung (Figura 2.1 (a)):

un elettrone, incidendo su un materiale, subisce una decelerazione a causa della

repulsione degli elettroni atomici del bersaglio e perde energia, che viene emessa

sotto forma di fotoni; tale processo è responsabile dello spettro continuo dei raggi

X. Il secondo meccanismo di produzione (Figura 2.1(b)) si ha nel caso in cui

l’energia delle particelle cariche incidenti è sufficiente ad ionizzare l’atomo,

rimuovendo un elettrone delle shells più interne e formando, quindi, una lacuna.

L’elettrone di un’orbita con numero quantico maggiore occupa il posto

dell’elettrone rimosso emettendo radiazione caratterista, con energia pari alla

spaziatura tra i livelli energetici. Dato che le energie di legame degli elettroni

negli atomi sono dell’ordine del KeV, la lunghezza d’onda della radiazione

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elettromagnetica emessa, calcolabile dalla legge di Planck si trova

proprio nella regione dei raggi X.

Lo studio della radiazione caratteristica è importante perché permette di

identificare il materiale di cui è costituito il campione in esame.

In Figura 2.2 è mostrato lo spettro di raggi X emessi da un tubo di Tungsteno ( o

Wolframio ) che opera a 100 kV. La parte continua dello spettro rappresenta

i raggi X prodotti dal fenomeno di Bremsstrahlung; invece i picchi sono relativi

all’emissione di radiazione caratteristica.

Figura 2.1: Produzione di raggi X a) Bremsstrahlung b) emissione caratteristica.

Figura 2.2: Spettro di raggi X.

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2.1.1 Tubo a raggi X

Il dispositivo utilizzato per la produzione di raggi X è, sostanzialmente, un tubo:

al suo interno è realizzato il vuoto e sono, inoltre, presenti un catodo e un anodo.

Il catodo è costituito da un filamento di metallo nel quale viene fatta passare

corrente elettrica, fornita da un generatore di bassa tensione ed alta corrente. Se la

corrente è elevata, il filamento diventa incandescente e si ha emissione di elettroni

per effetto termoionico. L’anodo è costituito da una piastra di un metallo, tipicamente Tungsteno o

Wolframio, che deve avere i seguenti requisiti: numero atomico elevato, alta

temperatura di fusione e buona conducibilità termica. Tra anodo e catodo si

stabilisce una differenza di potenziale elettrostatica abbastanza elevata, che

accelera gli elettroni verso l’anodo. Gli elettroni, urtando contro l’anodo,

producono raggi X, secondo i due meccanismi descritti nel paragrafo 2.1.

Per variare la lunghezza d’onda dei fotoni X emessi dal tubo, si può agire sul

potenziale, invece, per variare l’intensità del fascio di raggi X si può variare la

corrente che attraversa il tubo oppure aumentare la differenza di potenziale tra

anodo e catodo, in questo modo, infatti, un numero sempre maggiore di elettroni

sarà accelerato nella giusta direzione.

Per l’utilizzazione dei raggi X si richiede un fascio collimato, che si ottiene

schermando il tubo, salvo una piccola zona, chiamata finestra attiva, con un

contenitore di Piombo. Spesso per ridurre al minimo l’attenuazione attraverso la

finestra, questa viene realizzata con un sottile strato di Berillio.

In Figura 2.3 è riportato lo schema complessivo di un tubo a raggi X.

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Figura 2.3: Schema complessivo di un tubo a raggi X. Gli elettroni, ottenuti per effetto

termoionico dal filamento F, attraversato da una corrente elettrica prodotta dal generatore di corrente

GI, sono accelerati, dal catodo C verso l’anodo A, dall’intenso campo elettrico fornito dal generatore di

tensione G [7].

2.2 Interazione Raggi X e materia

I raggi X interagendo con un atomo possono produrre effetto fotoelettrico, effetto

Compton o scattering alla Rayleigh. Per energie del fotone incidente almeno pari

a 1.02 MeV si può avere il fenomeno di produzione di coppia; il processo di

produzione di coppia che avviene, quindi, nel caso di raggi verrà comunque

descritto per completezza.

Questi processi, che rimuovono raggi X dal fascio incidente, sono caratterizzati da

sezioni d’urto differenti, come descritto successivamente in Figura 2.6 e

avvengono con maggiore probabilità ad energie diverse.

Un fascio di raggi X con intensità iniziale , dopo aver attraversato uno spessore

, subisce un’attenuazione dovuta all’interazione con gli atomi del materiale

attraversato, possedendo, quindi, un’intensità emergente inferiore rispetto a

quella iniziale.

L’assorbimento dei raggi X è descritto dalla relazione di Lambert-Beer [8] :

(2.1)

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In cui è lo spessore attraversato e il coefficiente di assorbimento lineare [cm-1

]

che dipende dal numero atomico del materiale, dalla sua densità e dall’energia del

fascio incidente. Il coefficiente lineare μ è descritto dalla seguente relazione:

(

) (2.2)

è la sezione d’urto totale relativa ai differenti processi fisici che possono

avvenire nel materiale:

(2.3)

è la densità del materiale,

il numero di Avogadro,

il peso atomico,

In Figura 2.4 è riportato l’andamento del coefficiente lineare per diverse

energie, nel caso di acqua.

Figura 2.4: Variazione del coefficiente lineare a diverse energie nel caso di acqua [9].

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Spesso si utilizza il coefficiente lineare massivo μm = μ/ρ, che ha il vantaggio di

non dipendere dal particolare stato fisico-chimico del materiale. Come già affermato in precedenza, l’attenuazione del fascio, avviene secondo

quattro processi:

Effetto fotoelettrico

Nell’effetto fotoelettrico il fotone, appartenente al fascio incidente con frequenza

, è assorbito dall’atomo e istantaneamente si ha l’espulsione di un elettrone

atomico con energia cinetica data dalla relazione:

(2.4)

L’effetto fotoelettrico è un effetto a soglia, infatti avviene solo se il fotone ha

energia almeno pari al potenziale di estrazione dell’atomo.

Effetto Compton

L’effetto Compton si manifesta quando l’energia del fotone incidente è maggiore

rispetto alle energie di legame degli elettroni atomici, infatti, in questo caso,

l’elettrone può essere considerato libero e a riposo. Quando la radiazione

incidente interagisce con l’elettrone, questo viene diffuso ad un angolo e la

radiazione, diffusa ad un angolo (Figura 2.5), ha energia data da:

(2.5)

Figura 2.5: Diagramma schematico di diffusione Compton. L’energia e l’impulso si conservano, come

risultato la radiazione diffusa ha una minore energia della radiazione incidente.

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Produzione di coppie

Un fotone con energia superiore a 1.02 MeV, interagendo con il nucleo

dell’atomo del mezzo assorbitore, può convertirsi in una coppia elettrone-

positrone di energia cinetica pari alla differenza dell’energia cinetica del

fotone iniziale e 1.02 MeV che corrisponde all’equivalente energetico

della massa delle due particelle. La probabilità che questo processo

avvenga dipende fondamentalmente dall’energia della radiazione e dal

numero atomico del mezzo assorbitore.

Per quanto concerne la diffusione, i fotoni vengono deviati dagli atomi del

materiale in tutte le direzioni senza alcuna variazione della lunghezza d’onda.

Tale effetto è piuttosto ridotto e contribuisce a creare una radiazione distribuita

nell’ambiente.

Alla luce di quanto affermato il coefficiente di attenuazione , complessivamente,

è dato dalla somma dei coefficienti relativi ai differenti contributi:

. (2.6)

Nella Figura 2.6 È riportato l’andamento delle sezioni d’urto dei differenti

processi.

Figura 2.6: Andamento delle sezioni d’urto relative ai vari effetti in funzione dell’energia del fascio

incidente per il Piombo.

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2.3 Metodo XRD ( X-Ray Diffraction)

La tecnica XRD è una delle tecniche analitiche maggiormente adoperate per lo

studio della struttura cristallina delle sostanze, infatti, sfruttando la diffrazione dei

raggi X prodotta dal reticolo del materiale oggetto di studio, si ottengono

informazioni sugli atomi che lo costituiscono, sulla loro distribuzione e sulle

distanze tra i piani reticolari degli stessi.

Queste proprietà sono peculiari di ogni sostanza e ne permettono l’identificazione.

L’analisi si basa sullo studio dello spettro dei raggi X diffratti dal campione, è

opportuno precisare che questo non è monocromatico e all’intensità massima dei

raggi X emessi contribuiscono differenti fattori, alcuni tra questi verranno descritti

nei prossimi paragrafi.

La XRD è, tra l’altro, una tecnica molto versatile perché permette di condurre

analisi su molti solidi, dato che circa il 95% di essi può essere descritto come un

cristallino. Un cristallo è un oggetto in cui gli atomi si dispongono, nelle tre

dimensioni, secondo una struttura ordinata con distanze reciproche molto piccole,

conferendogli una geometria poliedrica. E’ possibile utilizzare un cristallo come

reticolo di diffrazione di raggi X, perché questi hanno lunghezza d’onda dello

stesso ordine di grandezza del passo del reticolo.

2.3.1 Principi di diffrazione

Quando un fascio di raggi X di lunghezza d’onda incide sulla struttura

cristallina, gli elettroni che circondano ogni singolo nucleo si comportano come

dipoli oscillanti ed emettono onde elettromagnetiche con la stessa lunghezza

d’onda di quella incidente ma in tutte le direzioni. Le onde generate da due atomi

contigui possono interferire costruttivamente o distruttivamente, questo dipende

dal valore della differenza di cammino: se essa è un multiplo della lunghezza

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d’onda ( ) si ha interferenza costruttiva, se è un multiplo di mezza lunghezza

d’onda (

)l’interferenza è distruttiva.

Considerando una serie di piani paralleli passanti per gli atomi, detta la distanza

tra i due piani reticolari (Figura 2.7) e l’angolo formato tra il fascio di incidenza

e il piano del reticolo, si ha interferenza costruttiva quando [10]:

(2.7)

La relazione (2.7) è detta legge di Bragg e mostra, appunto, che i vari ordini di

diffrazione si ottengono per valori di che soddisfano la (2.7), mentre nelle

altre direzioni si ha interferenza distruttiva.

Figura 2.7: Derivazione geometrica della legge di Bragg: l’interfenza costruttiva avviene quando la

differenza di cammino XY+ YZ è un multiplo intero di una lunghezza d’onda.

L’intensità dei picchi di diffrazione dipende da diversi fattori legati sia alla

geometria della diffrazione che ai centri elementari di diffusione, ovvero gli

elettroni.

Tra i fattori geometrici vi sono:

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Fattore di Lorentz

Questo termine tiene in considerazione della non perfetta monocromaticità della

radiazione incidente, della divergenza del fascio incidente e diffratto o della

diversa orientazione dei microcristalli nelle polveri e nei policristallini.

Nel caso di polveri la correzione introdotta è

Fattore di molteplicità

Diversi piani reticolari diffondono un ordine di diffrazione allo stesso valore di ,

quindi l’intensità diffusa ad un dato angolo risulta aumentata di una quantità che

può essere calcolata a partire dalla particolare struttura cristallina.

I fattori di forma, invece, permettono di introdurre delle correzioni legate ai centri

di diffusione poiché questi non sono puntiformi. Le varie parti, quindi, generano

effetti di interferenza che modulano l’intensità diffusa in funzione del vettore

d’onda scambiato conducendo ad una diminuzione monotona dell’intensità

stessa.

Di seguito vengono descritti questi effetti per il singolo elettrone, per l’atomo e

per l’insieme di atomi nella molecola.

Il fattore di Debye-Waller

Questo termine tiene conto del moto di agitazione termica degli atomi; gli

elettroni hanno, quindi, una distribuzione spaziale proporzionale allo spostamento

degli atomi. In generale l’intensità diminuisce di un fattore

dove

è lo scarto quadratico medio rispetto alla posizione di equilibrio.

Il fattore di forma atomico

Dato che i raggi X hanno lunghezze d’onda dello stesso ordine di grandezza delle

dimensioni atomiche, gli atomi non possono essere considerati puntiformi, di

conseguenza ci sarà una diminuzione dell’intensità diffusa derivante dalla

distribuzione degli elettroni attorno al nucleo dell’atomo. La diminuzione dipende

da sen ma la formulazione esatta può essere calcolata utilizzando i metodi che

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descrivono la densità elettronica, come il metodo di Thomas-Fermi e quello di

Hartree-Fock [11][12].

Fattore di struttura intramolecolare

Nel caso di molecole si deve considerare la distanza tra gli atomi che le

compongono, dato che questa è dello stesso ordine di grandezza del passo del

reticolo gli effetti di interferenza, dovuti alla distribuzione spaziale degli atomi,

sono decisamente rilevanti. Spesso è interessante indagare sulla distribuzione

degli atomi poiché si possono ottenere informazioni sulla struttura della molecola

non ottenibili con altre tecniche. Gli effetti dovuti alla struttura molecolare si

manifestano tramite il quadrato del fattore di struttura. Questo termine è la

trasformata di Fourier della densità elettronica nella cella elementare. Il

fattore di struttura è descritto dalla relazione:

∑ (2.8)

In cui fi rappresenta il fattore di forma dell’ i-esimo di N atomi, , , sono gli

indici di riflessione e , , , sono le coordinate dell’atomo nella cella

elementare.

In alcuni casi i fenomeni di interferenza possono cancellare alcune riflessioni del

reticolo diretto, questo è molto utile perché permette di determinare la struttura

reticolare in base a sistematiche assenze di alcune riflessioni.

La densità elettronica , si può riscrivere nella forma:

∑ | | - ( - ) (2.9)

Il quadrato del fattore di struttura si misura sperimentalmente perdendo, quindi,

l’informazione sulla fase espressa dalla parte complessa; dalla relazione (2.9) si

può osservare che, conoscendo anche il parametro , è possibile determinare la

densità elettronica della cella elementare.

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27

Uno dei metodi di diffrazione più utilizzati è il metodo delle polveri, in questo

caso il materiale diffondente è costituito da una polvere contenente un elevato

numero di microcristalli, orientati in modo casuale.

I raggi diffratti, a causa della distribuzione delle orientazioni dei microcristalli,

diventano dei coni con centro l’origine ed asse nella direzione del fascio incidente,

detti coni di Debye-Scherrer.

Figura 2.8: Coni di Debye-Scherrer: in un campione di polveri il fascio diffratto giace su superfici

coniche che possono emergere in tutte le direzioni, in avanti e indietro.

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2.3.2 Apparato sperimentale

Nei laboratori LANDIS vengono condotte diverse analisi adoperando la tecnica

XRD, lo strumento utilizzato è un diffrattometro portatile di raggi X per analisi

non distruttive di materiali policristallini e polveri [13] : ASX-DUST (Figura 2.9).

La testata analitica del sistema portatile XRD utilizzato è costituita da:

un tubo a raggi X, prodotto dalla German IFG Co. e le cui caratteristiche sono

riassunte in Tabella 2.1, schermato con Pb, collimatori del fascio incidente dalla

larghezza di 1mm, rivelatore Si-PIN raffreddato con un sistema Peltier.

Tabella 2.1: Dati tecnici del diffrattometro ASX DUST.

Il tubo a raggi X e il rivelatore ruotano dello stesso angolo rispetto al centro di

focalizzazione (geometria Ө-Ө), costituito dal campione. Il campione rimane fisso

ed esterno alla macchina e può, in questo modo, essere analizzato in situ.

Il goniometro è dotato di un cerchio di focalizzazione di raggio pari a 210 mm.

Tensione

max 50 KV

Corrente

max 800 µA

Finestra X-

Ray 0.1 mm Be

Anodo Fe

Spot

dell’anodo 50 µm

Dimensioni 44 x 12 x

35 cm

Peso 8 Kg

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Figura 2.9: Diffrattometro portatile ASX-DUST.

Il rivelatore e il tubo a raggi X si bloccano ad un angolo minimo di 12° e ad un

angolo massimo di 67°, al di sotto e al di sopra dell’ angolo minimo e massimo si

avrebbe un allargamento del fascio che influirebbe in modo significativo sulla

misura. Questo rappresenta un limite per le analisi di sostanze con riflessioni a

basso angolo che può essere risolto utilizzando lunghezze d’onda del fascio

incidente maggiori, infatti per la legge di Bragg all’aumentare di aumenta

l’angolo di diffusione . La struttura complessiva, che consta anche di un

cavalletto necessario per supportare lo strumento e adatto a permetterne la

rotazione secondo i tre assi, è mostrata nella Figura 2.10.

Il rivelatore, XR-100CR (Figura 2.11), prodotto dalla compagnia AMPTEK, è un

rivelatore Si-PIN a rendimento elevato, è dotato di una finestra di berillio, che

mantiene il vuoto in modo da permettere ai raggi X di bassa energia di essere

rivelati. Nella tabella 2.2 sono riportate le caratteristiche tecniche del rivelatore Si-

PIN.

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Tipo di

rivelatore

Si-PIN

Dimensioni

rivelatore

25 mm

2

Finestra

rivelatore

Be (25 μm)

Spessore

Si 500μm

Risoluzione

in energia

189 eV

FWHM

Dimensioni

9.5 x 4.4 x

2.9 cm

Peso 125 g

Tabella 2.2: Caratteristiche tecniche del rivelatore Si-PIN.

Figura 2.10: Diffrattometro portatile ASX-DUST.

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Figura 2.11: Schema del rivelatore XR-100 CR.

L’intensità di emissione dei raggi X può essere variata modificando i valori della

tensione operativa V (kV) e della corrente catodica (mA).

Esiste una relazione di proporzionalità che lega i due parametri all’intensità totale

emessa dal tubo.

(2.10)

in cui è l’intensità catodica, il numero atomico dell’anodo e la differenza di

potenziale tra anodo e catodo.

Grazie all’intensità della sorgente i tempi di misura si riducono, ad esempio per

una sorgente radioattiva sono necessari circa 1800 secondi, invece con tubi a raggi

X la misura dura 300-600 s. Se da un lato la brevità della misura è un vantaggio

dall’altro si ha una maggiore fluttuazione della produzioni di raggi X, dato che

questo è un fenomeno statistico.

La comunicazione tra il computer e l’ASX-DUST avviene tramite un software,

che permette la gestione dello strumento, sia per quanto riguarda la funzionalità

della diffrazione sia per l’analisi degli spettri XRD.

Una particolarità di questo sistema è il processo che permette di selezionare una

sola lunghezza d’onda per ottenere diffrazione, generalmente la radiazione

monocromatica usata per la diffrazione si ottiene con un monocromatore a

cristallo di grafite oppure con filtri, posti all’uscita del tubo a raggi X. Il

diffrattometro ASX-DUST, invece, sfrutta un sistema di controllo della lunghezza

d’onda gestito via software e digitale. Il sistema denominato DXM (Digital X-ray

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Monochromatization), permette di selezionare la riga di emissione X di interesse,

nel caso del ASX-DUST, poiché l’anodo è di Ferro, la riga d’interesse è la

=6.39 KeV. In questo modo si ha la possibilità selezionare la riga di emissione

utile e di monocromatizzare la riga stessa.

Recentemente sono stati apportati dei miglioramenti al sistema portatile XRD

[14], utilizzando un tubo a raggi X microfocus di bassa energia accoppiato ad

un’ottica policapillare, in modo da perfezionare la risoluzione angolare (0.18°) e

la statistica di acquisizione.

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33

2.3.3 Analisi dello spettro

I raggi X, prodotti dal tubo, incidono sul campione e vengono diffratti.

Successivamente vengono raccolti dal rivelatore, il quale trasforma il segnale in

un impulso elettrico che viene inviato ad un computer e permette l’elaborazione

dei dati.

L’analisi si basa sullo studio dello spettro, che riporta i conteggi di raggi X in

funzione della posizione angolare ed è costituito da una serie di picchi di

intensità e posizione angolare differente, caratteristici delle varie fasi

mineralogiche presenti nel campione indagato.

Figura 2.12: Spettro di diffrazione di un campione standard di Calcite con il sistema ASX-DUST.

La procedura tipica dell’analisi consiste nel calcolare le intensità relative

e la

distanza reticolare d dalla legge di Bragg; infatti è sufficiente conoscere la

lunghezza d’onda λ della radiazione incidente e il valore angolare o 2 .

I picchi di diffrazione sono individuati sia manualmente che con sistemi

automatizzati, nel primo caso i picchi ottenuti si confrontano con i dati contenuti

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nei database che contengono informazioni secondo diversi criteri di

organizzazione, ad esempio in base ai d del picco più intenso.

Tipicamente, si fa riferimento ai tre picchi più intensi, però questo metodo può

condurre ad errori, in quanto i tre picchi possono coincidere con quelli di un’altra

fase mineralogica e quindi i due minerali possono essere scambiati.

Invece nella ricerca automatizzata esistono diversi algoritmi per l’individuazione

dei picchi. Ad esempio l’algoritmo JADE si basa sull’annullamento delle derivate

prime e seconde combinato con il conteggio statistico delle intensità.

I database più utilizzati per l’identificazione dei picchi sono:

PDF: archivio elettronico che supporta l’analisi di dati da diffrazione da polveri e

consente l’analisi quantitativa delle fasi [15];

ICSD: archivio elettronico delle strutture inorganiche; contiene informazioni

raccolte in esperimenti a polveri o cristallo singolo di materiali inorganici [16];

CSD : archivio elettronico strutturale dei composti molecolari, prevalentemente i

dati provengono da esperimenti su cristallo singolo [17];

PDB: archivio elettronico delle strutture di proteine [18];

Mineralogy database: descrizione delle specie minerali, struttura e proprietà

[19];

Per condurre l’analisi quantitativa, che permette di determinare le abbondanze

delle singole fasi in un campione multifase, è necessario svolgere un’accurata

determinazione della posizione dell’intensità dei picchi di diffrazione.

Ovviamente si può incorrere in errori sperimentali dovuti ad errori sistematici

nelle posizioni dei picchi o nella variazione delle intensità.

Il limite della tecnica XRD consiste nell’impossibilità di identificare sostanze

organiche, come lacche o pigmenti neri a base di carbonio amorfo, una tecnica più

adatta per queste indagini è la tecnica Raman.

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2.4 Tecnica PIXE ( Particle Induced X-Ray Emission)

La tecnica PIXE, come accennato nel par. 1.3, si basa sulla rivelazione di raggi X

emessi da un campione, a seguito dell’interazione di questo con un fascio di

particelle cariche (α o protoni) di energia di qualche MeV.

La rivelazione dei raggi X avviene con rivelatori al silicio ad elevata risoluzione.

I segnali, in uscita dal rivelatore, sono analizzati da una catena elettronica, per poi

essere inviati ad un computer, sul quale si ottiene uno spettro che riporta il

numero di conteggi di raggi X in funzione della loro energia.

Figura 2.13: Spettro di uno standard geologico internazionale, di SCO-1.

Dall’analisi delle righe spettrali è possibile risalire alla composizione elementale

del campione, invece dal numero di raggi X emessi si può quantificarne, con

l’aiuto di opportuni software, la concentrazione.

A causa del range finito delle particelle impiegate, la tecnica PIXE è adatta allo

studio di campioni sottili, in genere lo spessore investigato non supera i 10 µm.

Nel caso in cui è possibile utilizzare correnti di fascio di qualche nA, senza

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danneggiare il campione, la tecnica permette di identificare anche elementi in

traccia (fino a qualche parte per milione).

L’impego di questa tecnica è di fondamentale importanza nel campo dei beni

culturali, sia perché permette di condurre analisi quantitative e qualitative non

distruttive, sia perché consente di effettuare misure molto rapide con un’elevata

sensibilità.

2.4.1 Principio fisico

Il fascio di particelle cariche, nell’attraversare la materia, perde energia

percorrendo un range finito. La perdita di energia è concentrata alla fine del

percorso, come mostrato dalla curva di Bragg (Figura 2.14). Durante questo

processo, il fascio di particelle interagisce con gli elettroni atomici del materiale

attraversato, provocando l’espulsione di un elettrone delle shells più interne.

A seguito della ionizzazione, l’atomo, eccitato ed instabile, torna allo stato

fondamentale compiendo una serie di transizioni elettromagnetiche, in tempi

dell’ordine di 10-15

s. La radiazione emessa durante le transizioni dipende dalle

energie di legame degli elettroni negli atomi, essendo queste proprie di ogni

specie atomica lo spettro dei raggi X emessi è caratteristico del campione.

Figura 2.14: Curva di Bragg.

Gli spettri X presentano un numero limitato di righe, raggruppate in differenti

serie indicate con le lettere , , , . Ogni serie corrisponde al riempimento di

una lacuna, ad esempio nella serie è riempita la lacuna , in quella

e così via. Ogni serie è costituita, a sua volta, da differenti righe in modo da

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distinguere l’intensità della transizione; ad esempio la riga corrisponde ad

un’emissione di raggi X a seguito della transizione dalla shell alla shell ed è

più intensa rispetto alle riga , che corrisponde ad una transizione dalla shell

alla shell (Figura 2.15). Infine, si devono considerare le transizioni delle

sottoshells, ad esempio le transizioni da o alla shell corrispondono alle

due righe e

. Alcune transizioni elettriche sono proibite in quanto esse

obbediscono alle ben note regole di selezione: = ±1, =0,±1.

Figura 2.15: Diagramma schematico delle transizioni delle shells più interne.

Tuttavia, la probabilità che si abbia emissione di un raggio X dipende sia dalla

sezione d’urto di ionizzazione , che si riferisce alla probabilità che venga

creata una lacuna, sia dalla resa di fluorescenza , la quale indica la probabilità

che, dopo la creazione della lacuna, sia emesso un raggio X piuttosto che un

elettrone Auger.

La sezione d’urto di produzione di raggi X è definita tramite la seguente relazione:

(2.11)

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In cui è il numero di raggi X emessi, è il numero di particelle incidenti e

è il numero di particelle bersaglio per cm2 .

La sezione d’urto di ionizzazione dipende, a sua volta, sia dall’energia della

particella incidente sia dal numero atomico dell’atomo bersaglio; in particolare,

essa diminuisce all’aumentare di , poiché aumenta l’energia di legame degli

elettroni atomici [20].

In Figura 2.16 è riportato l’andamento della sezione d’urto al variare del numero

atomico , per particelle α, protoni o radiazione .

Tale andamento permette di capire che, utilizzando particelle α o protoni con

energia di qualche MeV, si può indagare su elementi con basso numero atomico,

infatti, fissando l’energia del fascio incidente, la sezione d’urto decresce

all’aumentare del numero atomico . Se si vogliono ottenere informazioni su

materiali più pesanti, è più indicato utilizzare radiazione elettromagnetica, ad

esempio radiazione gamma; in questo caso la sezione d’urto cresce all’aumentare

del numero atomico .

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Figura 2.16: Sezione d’urto di ionizzazione in funzione del numero atomico Z per particelle α,protoni

e radiazione γ a differente energia[21].

2.4.2 Analisi dello spettro

Lo studio dello spettro dei raggi X prodotti dal campione rende possibile l’esatta

identificazione elementale. Le righe dello spettro si sovrappongono raramente,

quindi è abbastanza semplice effettuare l’analisi qualitativa.

In genere gli elementi leggeri, come idrogeno o elio, non possono essere

identificati con tale tecnica, invece elementi con Z intermedio, sono individuati

tramite le righe della serie ; per elementi più pesanti, si ricorre anche alle righe

di emissione e . Grazie all’utilizzo di rivelatori a stato solido è possibile

analizzare le righe e degli elementi con vicini, rendendone possibile la

simultanea rivelazione.

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Per eseguire l’analisi quantitativa si deve stimare il numero di raggi X prodotti dal

campione. Tale stima si ottiene calcolando l’area sottesa dal picco in esame e

sottraendo il segnale di fondo.

La difficoltà di quest’analisi risiede dalla sua dipendenza dallo spessore del

campione. Uno spessore si definisce sottile se si possono trascurare gli effetti di

matrice, cioè la diminuzione di energia subita dalle particelle che penetrano nel

bersaglio e l’autoassorbimento dei raggi X emessi dal campione, descritto dalla

legge di Lambert-Beer.

Nelle condizioni di bersaglio sottile la produzione di raggi X per l’elemento con

numero atomico è definita [22,23,24]:

( 2.12)

In cui:

è la sezione d’urto di produzione dei raggi X per la serie ,

dell’elemento con energia della particella incidente ,

è il numero di atomi della specie per unità di volume,

è lo spessore del campione,

è il numero di particelle del fascio che attraversano il campione,

è il numero di Avogadro,

è la densità di massa nel campione dell’elemento di numero atomico e

massa atomica .

è la carica del fascio integrata nel corso della misura, è la carica

elementare.

Tenendo conto dell’angolo solido sotteso dal rivelatore e della sua efficienza

intrinseca , il rate di raggi X rivelati, detto X-ray yeld, è dato da:

(2.13)

dove è il fattore di efficienza che dipende dall’energia del raggio X, da quella

delle particelle incidenti, dall’efficienza intrinseca del rivelatore e dalla geometria

dell’apparato sperimentale:

(2.14)

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La quantificazione di uno spessore sottile non è semplice, poiché la perdita di

energia della particella incidente nel percorso dipende sia dall’energia della

particella incidente ma anche dal materiale attraversato. Quest’ultimo determina il

coefficiente di attenuazione che descrive l’autoassorbimento dei

raggi X all’interno del materiale. Gli effetti di matrice dipendono, quindi, anche

da : ne segue che un determinato spessore si può considerare sottile rispetto a

raggi X di alta energia ma non rispetto a quelli di più bassa energia, che sono più

influenzati dagli effetti di autoassorbimento.

In Figura 2.17 è mostrata una tipica geometria di rivelazione per l’analisi PIXE.

Figura 2.17: Rappresentazione schematica dell’analisi di un bersaglio spesso.

Il rivelatore è posto all’indietro rispetto al campione, i raggi X possono essere

assorbiti lungo il percorso verso la superficie del campione, nella direzione di

rivelazione.

Approssimativamente, un campione con medio si definisce sottile se il suo

spessore è di 50 μg/cm2[25]. Altrimenti il campione è spesso, e si deve tener conto

che la sezione d’urto dipende anche dalla distanza percorsa dai raggi X, dopo

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essere stati prodotti. A partire dalla superficie su cui le particelle incidono con

energia , si deve considerare il contributo dei singoli spessori infinitesimi e

poi integrare sullo spessore . Quando lo spessore è minore del range percorso

dalle particelle nel campione si parla di bersaglio infinito.

Nel caso di target spesso lo x-ray yeld è definito:

( )

(2.15)

Dove

è lo stopping- power,

è la densità media della matrice,

è l’energia della particella dopo aver percorso il tratto ,

è la perdita di energia complessiva del fascio nello spessore ,

è l’angolo compreso tra la direzione dell’asse del rivelatore e quella di incidenza

del fascio, la quale è normale alla superficie del campione, come schematizzato in

Figura 2.17.

Il termine esponenziale, invece, tiene conto dell’autoassorbimento dei raggi X.

Come si evince dalla relazione (2.15) la resa X, per un elemento con un numero

atomico , è proporzionale al rapporto

che rappresenta la concentrazione .

Dalla misura del rate dei raggi X emessi dall’elemento , del numero di

particelle che incidono sul bersaglio e dell’angolo sotteso dal rivelatore,

conoscendo, inoltre, l’efficienza intrinseca, la sezione d’urto l’energia del

fascio all’uscita del bersaglio e la composizione della matrice, si può risalire

(tramite la (2.15)) alla concentrazione dei differenti elementi chimici presenti

nel campione. Se la matrice del campione non è nota, come del resto accade nelle

misure PIXE, in cui lo scopo è determinare la composizione elementale, si può

procedere con metodi iterativi.

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In ogni caso è opportuno precisare che l’analisi è possibile in maniera univoca,

solo con campioni omogenei.

Per analizzare lo spettro PIXE esistono diversi software di analisi: uno dei più

utilizzati è il GUPIX.

Il GUPIX [26] sfrutta i database di sezioni d’urto, di poteri di frenamento

e dei coefficienti di attenuazione, è caratterizzato dalla possibilità di:

1. analizzare campioni di qualunque spessore,

2. eseguire procedure iterative per il calcolo della composizione di

un campione incognito,

3. determinare gli elementi presenti in traccia in una matrice nota,

4. tenere conto degli effetti dovuti ad elementi invisibili, cioè i cui

raggi X emessi hanno un’energia troppo bassa per essere rivelati.

Come descritto precedentemente, il numero di raggi X emessi dal campione

dipende, oltre che dall’energia delle particelle incidenti, dalla concentrazione

dell’elemento in questione, dall’angolo solido sotteso dal rivelatore e dalla sua

efficienza e, nel caso di bersaglio spesso, anche dalla perdita di energia delle

particelle incidenti con la profondità e dall’autoassorbimento dei raggi X lungo il

loro tragitto. L’identificazione della concentrazione, quindi, non si limita

unicamente allo studio dei picchi e al calcolo della loro area, ma necessita

l’utilizzo di procedure di standardizzazione, disponibili all’interno del pacchetto

GUPIX.

Il primo passo dell’analisi risiede, comunque, nell’identificare le intensità dei

picchi relativi ai differenti elementi chimici presenti nel campione; GUPIX,

fornendo una particolare procedura di fit, che sfrutta il metodo dei minimi

quadrati non lineari, permette di determinare la concentrazione.

Dato lo spettro costituito dalle coppie di punti , in cui è il numero di canali

e il numero di conteggi per canale, il programma ricerca il miglior modello che

renda minimo il valore del chi quadro ridotto, definito dalla seguente relazione

[25,26]:

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(2.16)

Dove è la varianza del numero di conteggi relativi all’i-esimo canale,

è il numero di gradi di libertà con numero di parametri

( da determinare. I parametri sono costituiti dalle aree, espresse in

conteggi, dei picchi di ogni elemento e da ulteriori parametri, che governano le

relazioni tra l’energia dei raggi X, il centroide e la larghezza del picco.

Il programma utilizza un database che contiene le energie delle serie , , e le

intensità delle varie righe del singolo elemento , relative alla riga

principale che solitamente è la o la .

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2.5 PIXE-α

Per condurre analisi PIXE in situ è stato realizzato, presso il laboratorio LANDIS

dei LNS/INFN e IBAM/CNR di Catania, uno spettrometro portatile[27]; i

processi fisici coinvolti sono identici a quelli trattati nei paragrafi precedenti, in

questo caso il fascio utilizzato è costituito da particelle α, infatti la tecnica è

denominata: PIXE-α.

Lo strumento PIXE-α si basa sull’uso di particelle α prodotte a seguito del

decadimento di 210

Po, che, decadendo in Pb, emette radiazione α da circa 5 MeV

con un branching ratio del 100%. Le particelle α prodotte nel decadimento

riescono a penetrare uno spessore di 3-10 μm, il che rende la tecnica PIXE-α

particolarmente indicata alla caratterizzazione di dipinti, pigmenti e degli

affreschi. Questo strumento è di notevole importanza poiché consente l’analisi del

campione senza disturbi arrecati dagli strati sottostanti allo strato d’interesse,

come avviene, invece, nel caso della tecnica XRF. Infatti, data la scarsa

penetrazione delle particelle α prodotte nel decadimento, queste interagiscono solo

con gli atomi che si trovano negli strati superficiali del campione; i quali

rispondono (secondo il meccanismo descritto nel paragrafo 2.4) emettendo raggi

X. Nella tecnica XRF, invece, i raggi X incidenti, il cui assorbimento è descritto

dalla legge di Lambert-Beer, possono giungere fino a diverse centinai di in

profondità; i fotoni emessi dal campione, possono, quindi, provenire anche da

substrati, disturbando la misura e rendendo meno semplice l’interpretazione degli

spettri di energia.

L’elemento significativamente innovativo [28] del sistema PIXE-α è la modalità

di preparazione della sorgente eccitatrice: si tratta di una elettrodeposizione di uno

strato sottile di 210

Po, che emette radiazione α senza contemporanea emissione di

raggi X o .

La modalità di preparazione della sorgente eccitatrice sfrutta un anello Mylar, cioè

sottili strati di polimeri [C10H8O4] costituiti da elementi al di sotto del limite di

rivelabilità della tecnica PIXE; questa scelta è dovuta al fatto che i costituenti del

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supporto devono avere un basso numero atomico per non disturbare, con i propri

raggi X caratteristici, lo spettro osservato.

Sull’anello Mylar è evaporato uno strato, dallo spessore di 1 μm, di Ag sul quale

viene elettrodepositato lo strato di 210

Po con attività di 1mCi, il quale è,

successivamente, ricoperto da uno strato sottile (0.2 μm) di una resina epossidica.

Il tutto è ulteriormente protetto da una finestra di kapton, per assicurarne il

confinamento.

Figura 2.18: Schema della testina della sorgente PIXE-α e, in basso, la visione completa dello

spettrometro portatile, composto dal rivelatore e della testina di misura.

Il rivelatore adoperato è un Silicon Drift Detector (SDD) raffreddato ad effetto

Peltier, avente uno spessore di 300 μm, un’area attiva di 10 mm2

e un’ottima

risoluzione energetica, da 140 eV a 5.9 KeV. Il diametro dello spot sul bersaglio è

di circa 7 mm; inoltre un flusso di elio immesso nel volume tra sorgente, bersaglio

e rivelatore consente di eliminare dallo spettro X il disturbo arrecato dall’argon

presente nell’aria che, emettendo raggi X caratteristici, potrebbe disturbare la

misura. Infatti, senza questo accorgimento si avrebbe sempre un picco a 2.96 KeV

( dell’argon), il che renderebbe difficile l’individuazione di elementi come il Cl

( o il K ( , nonché l’individuazione dell’argento (

in materiali metallici.

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47

I dati vengono acquisiti mediante un modulo commerciale che contiene

alimentatore, amplificatore e un MCA.

In Figura 2.19 è riportato l’intero sistema PIXE-α.

Figura 2.19: Schema dell’intero sistema PIXE-α.

La caratteristica fondamentale del sistema PIXE-α è la capacità di effettuare

l’analisi in situ, il sistema è maneggevole e in 30 minuti di acquisizione è

possibile ottenere una caratterizzazione semi-quantitativa della composizione del

campione. Ulteriore vantaggio della tecnica PIXE-α è la presenza di un fondo

inferiore rispetto a quello associato ai protoni, infatti il contributo di

Bremsstrahlung secondario è inferiore a 3 KeV, quindi le righe caratteristiche

sono ben distinguibili.

L’utilizzo di una sorgente radioattiva comporta, però, una dipendenza della misura

dall’attività della sorgente, che decresce nel tempo; questo implica una perdita

dell’efficienza della misura nel tempo e la conseguente necessità di cambiare la

sorgente.

In definitiva, si può affermare, che la tecnica PIXE-α permette di determinare,

con elevata accuratezza, gli elementi con basso e medio numero atomico grazie

allo studio delle righe , e dallo studio delle righe e per elementi con numero

atomico più elevato come Pb, Hg, Ba e Au.

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48

Capitolo 3

Complementarità delle tecniche PIXE-α e XRD

Nei capitoli precedenti sono state descritte le tecniche XRD e PIXE-α, le loro

caratteristiche, differenze e potenzialità.

Il PIXE-α permette di individuare, nella superficie del campione, la presenza di

elementi chimici leggeri (Na, Mg, Al, Si, S, Cl, K, Ca, Ti, Fe, Zn) e medio-pesanti

(Ag, Pb, Hg, Sn, Au,Ba), mentre il metodo XRD permette di identificare presenza

di fasi cristalline.

E’ di notevole interesse, nonché, di estrema utilità associare le due tecniche in

modo da ottenere informazioni complete sul campione investigato.

Ad esempio, si può condurre un’analisi elementale con il metodo PIXE-α, al fine

di conoscere gli elementi presenti nel campione e mediante l’analisi XRD

adoperare le informazioni ottenute tramite il PIXE per identificare le fasi

mineralogiche presenti. Unendo i dati mineralogici ottenuti mediante l’XRD con i

dati elementali forniti dal PIXE, è possibile, in certi casi, risalire alle miscele di

pigmenti e determinare la composizione percentuale delle varie fasi adoperate.

In questo capitolo si riporta il risultato di una misura effettuata con il PIXE-α su

un campione a composizione nota presso il laboratorio LANDIS di Catania,

inoltre si presentano alcuni esempi di spettri ottenuti con tali metodi di indagine

[29].

La misura è stata effettuata su uno standard geologico internazionale SCo-1 [30]

acquisendo per un tempo di 1800 s.

Misure su campioni di composizione nota vengono effettuate prima di iniziare una

campagna di misura sui reperti archeologici; si confrontano i risultati sperimentali

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con i valori tabulati, in modo da calibrare lo strumento e assicurarsi che l’apparato

strumentale permetta di effettuare misure abbastanza accurate.

In Figura 3.1 è riportato lo spettro ottenuto con il PIXE-α. Si possono vedere i

picchi del Si (1.74 KeV- ), del Ca (3. 68 KeV- ), del K(3.31 KeV- .

Nella Tabella 3.1 vengono riportati i valori delle concentrazioni (in percentuale),

calcolati con il programma GUPIX che è stato descritto nel paragrafo 2.4. Il

programma offre l’opzione di calcolare le concentrazioni degli elementi sotto

forma di ossidi.

Figura 3.1: Spettro PIXE-α ottenuto su un campione di ScO-1 .

Valori PIXE-α(%) Valori certificati (%)

MgO 2.98± 0.08 2.94

Al2O3 16.76± 0.11 14.8

SiO2 65.97± 0.20 67.8

SO3 0.34± 0.02 *

Cl 0.18± 0.01 *

K2O 2.89± 0.04 2.99

CaO 2.89± 0.01 2.83

TiO2 0.63± 0.03 0.68

Fe2O3 5.13± 0.24 5.54

*I valori certificati < di 0.34 non vengono riportati.

Tabella 3.1: Concentrazioni ottenute con il programma GUPIX e relativi valori certificati.

1

4

16

64

256

1024

4096

16384

0 2 4 6 8 10

Co

un

ts

Energy (KeV )

Si

Al

K

S Cl

Ca

Fe ( )

Fe( )

Ni

Na Ti ( ) Sc

Ti ( 𝛽)

Cr Mn

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3.1 I minerali

Il primo esempio di spettro riguarda lo studio di un campione di azzurrite per il

quale si è effettuata un’analisi XRD.

L’azzurrite è un pigmento di origine minerale conosciuto sin dai tempi degli

Egizi. Si ottiene dalla macinazione e purificazione del minerale carbonato basico

di rame (2CuCo3∙Cu(OH)2), ha una tonalità variabile da blu oltremare a blu

verdastro a causa della progressiva alterazione in malachite.

In Figura 3.2 si riporta la foto di un campione di azzurrite e calcite (50 %-50%) e

la relativa analisi effettuata, unicamente, con il metodo XRD.

(a)

(b)

Figura 3.2: Foto di un cristallo di azzurrite (a), Spettro di diffrazione di un campione standard di

azzurrite e calcite (b)

In questo caso non è necessario procedere con un’ulteriore analisi, in quanto i

picchi dei due minerali sono ben distinguibili.

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3.2 Le ocre

Le ocre sono terre naturali e si presentano in diverse gradazioni di colore: gialle,

rosse, rosso-aranciate o brune. Il colore dipende dalla presenza di idrossidi o

ossidi anidridi di ferro e dalle loro concentrazioni. Questi composti si trovano

mescolati con materiali argillosi (caolinite e illite).

3.2.1 Terra di Siena

Il secondo esempio è relativo ad una misura realizzata su un campione di terra di

Siena, la terra di Siena [31] è un’ocra naturale e la sua colorazione dipende dalla

presenza di idrossido di ferro, FeO(OH), e di ossidi di manganese MnO2.

In Figura 3.3 sono mostrati gli spettri XRD (a) e PIXE-α (b) di un campione di

terra di Siena 100%.

Nello spettro XRD si possono distinguere i picchi del quarzo e della goethite;

dovrebbero essere evidenti anche i picchi delle caoliniti ma si perdono nel fondo,

invece nello spettro PIXE-α sono visibili i picchi delle caoliniti: si vedono i picchi

del Fe ( , ) delle goethite e i picchi di Si e Al. Una tale quantità di Si rispetto

all’Al suggerisce la presenza di argille, inoltre c’è una piccola quantità di Mn e in

effetti nello spettro XRD si intravedono picchi della pyrolusite.

(a)

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52

(b)

Figura 3.3: Spettro XRD di un campione standard di terra di Siena, in cui si possono vedere i picchi del

quarzo, della goethite e della phyrolusite e delle argille (a) e rispettivo spettro PIXE (b).

3.2.2 Ocra rossa

La terra rossa è il più antico pigmento della storia [31]; era già conosciuto

all’epoca dell’uomo di Neanderthal (ca. 200.000 anni fa).

E’ un pigmento di origine inorganica e minerale; è costituito da ossidi di ferro

Fe2O3 ∙nH2O mescolati con materiali argillosi e impurità che variano a seconda

della provenienza, per questa ragione ne esistono varie denominazioni.

In Figura 3.4 sono mostrati gli spettri XRD e PIXE-α ottenuti su un campione di

ocra rossa e calcite ( 50 %-50%).

Nello spettro XRD sono chiari i picchi della calcite, del quarzo e della hematite ,

inoltre vi sono dei picchi minori di caoliniti. Nello spettro PIXE-α si ha la

conferma della presenza delle argille: si vedono i picchi del Fe ( ) tipico

della hematite e i picchi del Si e Al delle argille. Inoltre si vedono i picchi e

del Ca.

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(a)

(b)

Figura 3.4: Spettro XRD di un campione standard di ocra rossa e calcite, si possono vedere i picchi

della calcite, delle argille, del quarzo e della hematite (a) e spettro PIXE-α (b).

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3.2.3 Terra verde

La terra Verde era conosciuta dai Greci e dai Romani e fu utilizzata durante tutto

il medioevo e il rinascimento. Il suo colore è determinato da differenti specie

mineralogiche come silicati, idrati di ferro, magnesio e alcali. Il minerale

glauconite (( K,Na)( Fe(III),Al, Mg)2 (Si, Al)4 O10 (OH)2 ), ad esempio, è il

principale colorante delle terre verdi di Nizza e Nicosia.

In Figura 3.5 sono riportati gli spettri XRD(a) e PIXE-α (b) di un campione di

terra verde 100 %.

Nello spettro XRD sono evidenti i picchi della calcite ma si riesce a identificare la

glauconite solo grazie all’analisi PIXE-α, infatti nello spettro PIXE-α si vedono i

picchi di Mg, Al, Si, K, Fe, Ca.

(a)

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55

(b)

Figura 3.5: Spettro XRD di un campione standard di terra verde (a) spettro PIXE-α (b).

3.3 Gli affreschi romani

Di seguito sono riportati degli esempi di spettri XRD e PIXE-α ottenuti su

frammenti di affreschi Romani [32], appartenenti alla Soprintendenza ai Beni

Culturali e Monumentali di Catania.

Aff2 (Figura 3.6 (a)) è un frammento trovato durante gli scavi del 1982 presso

l’ex Monastero dei Benedettini, dove fu scoperta un’importante domus Romana.

Lo spettro PIXE-α mostra la presenza di Hg, S e Ca. Nello spettro XRD si

possono vedere i picchi di cinabro e calcite.

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(a)

(b)

(c)

Figura 3.6: Foto (a) spettro XRD (b) e spettro PIXE-α (c) di un affresco Romano.

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Aff.10 (Figura 3.7) è stato rinvenuto nel 2001 negli scavi di un criptoportico

romano in via Crociferi.

Nello spettro PIXE (Figura 3.7 (b)) si osservano le righe di Al, Si, Ca, Fe e Hg.

Lo spettro XRD (Figura 3.7(c)) mostra i picchi della hematite, delle argille, del

cinabro e della calcite, per il cui il pigmento colorante è una miscela di ocra gialla

e rossa.

(a)

(b)

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58

(c)

Figura 3.7: Foto (a) Spettro XRD (b) e spettro PIXE-α (c) di un affresco Romano.

Aff15 (Figura 3.8(a)) è stato ritrovato nel criptoportico romano di via Crociferi

nel 2000. Lo spettro PIXE-α ( Figura 3.8(b)) mostra i picchi di Ca, Al, Si e Fe.

Lo spettro XRD ( Figura 3.8(c)) mostra i picchi della hematite, delle argille e della

calcite, per cui il pigmento colorante è l’ocra rossa.

(a)

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(b)

(c)

Figura 3.8: Foto (a) Spettro XRD (b) e spettro PIXE-α (c) di un affresco romano.

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CONCLUSIONI

Lo scopo del lavoro di tesi svolto era illustrare l’importanza e l’utilità delle due

tecniche d’indagine PIXE-α e XRD e, soprattutto, del loro utilizzo in

complementarità.

L’importanza dei metodi descritti risiede nella possibilità di effettuare misure non

distruttive e in situ su opere d’arte e reperti archeologici con un’elevata

accuratezza. Le tecniche descritte permettono di ottenere informazioni differenti;

la tecnica XRD ha il vantaggio di stabilire la struttura cristallina del materiale,

mentre la tecnica PIXE-α determina la composizione elementale del campione. Il

metodo PIXE-α permette di confinare l’analisi agli strati superficiali, investigando

su uno spessore di circa 10 µm, inoltre grazie al range finito delle particelle α

nella materia non si hanno disturbi arrecati dai substrati.

Per suffragare la trattazione svolta si sono riportati alcuni esempi di spettri

acquisiti con le due tecniche e il risultato ottenuto analizzando uno standard di

SCo-1, tramite il PIXE-α.

Per quanto riguarda la misura, dall’analisi dello spettro (Figura 3.1) si possono

determinare gli elementi chimici presenti nel campione, invece tramite il

programma GUPIX si risale alle concentrazioni dei differenti elementi.

La tecnica PIXE-α, come descritto nel paragrafo 2.5, è molto accurata, infatti

acquisendo per 1800 s si sono determinati anche elementi chimici presenti in

piccole percentuali.

Spesso è difficile, utilizzando unicamente un metodo d’indagine, conoscere la

composizione sia elementale che mineralogica del campione. L’utilizzo di due

tecniche è una soluzione.

Negli esempi di spettri, riportati nei paragrafi precedenti, si può osservare che

alcuni pigmenti minerali, come l’azzurrite, possono essere identificati utilizzando

unicamente la tecnica XRD, ciò è dovuto sia alla presenza di righe spettrali molto

evidenti e ben distinguibili sia alla risoluzione angolare dello strumento adoperato

che permette di distinguere i picchi più significativi per riconoscere un minerale.

Altre volte si riscontrano delle difficoltà, come nel caso del campione di terra di

Siena, infatti nello spettro di diffrazione sono evidenti i picchi della goethite e del

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quarzo, dovrebbero essere visibili anche i picchi delle argille, però è difficile

individuare tali componenti perché si perdono nel fondo.

In questa situazione l’analisi PIXE-α è di fondamentale importanza, poiché nello

spettro è possibile osservare i picchi del Fe ( , che sono tipici della goethite

e i picchi del Si e Al; ricavando le loro concentrazioni si ha la conferma della

presenza di argille. Un discorso analogo è valido per la terra verde, infatti, la

presenza della glauconite ((K,Na)(Fe(III),Al,Mg)2(Si,Al)4O10(OH)2) si determina

grazie all’analisi PIXE-α che mostra i picchi di Mg, Al, Si, K, Fe.

Il rilievo della complementarietà delle due tecniche si riscontra anche

nell’accuratezza dell’analisi quantitativa; accoppiando le due tecniche, è possibile

ricavare le concentrazioni con errori inferiori all’1%.

L’efficacia di adoperare due tecniche di analisi è valida per qualsiasi altro metodo

d’indagine nel campo dei beni culturali, ad esempio sia la tecnica XRD che la

PIXE-α non permettono di individuare sostanze organiche, come lacche o

pigmenti neri a base di carbonio amorfo, che in passato erano molto utilizzate;

queste sostanze invece possono essere identificate tramite la spettroscopia Raman,

come descritto nel Capitolo 1.

Chiariti i limiti e le caratteristiche di ogni tecnica si comprende che la loro

complementarità è utile e spesso necessaria per ottenere informazioni dettagliate e

complete.

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Ringraziamenti

Desidero innanzitutto ringraziare la Professoressa Francesca Rizzo per il tempo

dedicatomi e per avermi seguito costantemente durante tutto il lavoro di tesi

svolto; desidero, inoltre, ringraziare la Dottoressa Lighea Pappalardo per la sua

disponibilità a redimere i miei dubbi e per la gentilezza con cui mi ha aiutata

nella preparazione del lavoro.

Ringrazio con affetto la mia famiglia per il sostengo morale senza il quale non

avrei raggiunto questo traguardo, grazie per aver gioito con me dei miei piccoli

successi e per avermi consolata dopo le sconfitte.

Grazie ai miei amici per farmi tornare il buon umore anche nei momenti

peggiori!

Infine ringrazio Roberto per il suo costante incoraggiamento, per aver creduto

sempre in me e nelle mie capacità e che con estrema pazienza, più di tutti, mi è

stato accanto.