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Pellegrinaggio in Terrasanta 2013 MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA? (Lc 9,20) RIFLESSIONE SULLA SANTA SINDONE

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Pellegrinaggio in Terrasanta 2013

MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA?

(Lc 9,20)

RIFLESSIONE SULLA SANTA SINDONE

Introduzione

Letteralmente il termine “sindone” (dal greco Συνδόν) significa “lenzuolo”. Si tratta di un telo di lino lungo circa 440 cm e largo 113 cm. Lo spessore è di circa 0.34 mm., il peso di 2.45 Kg. Il lenzuolo è tessuto a spina di pesce, senza cuciture. Sul tessuto è impressa un’immagine, accostata per il capo, del cadavere di un uomo morto in seguito ad una serie di torture culminate con la crocifissione. L’immagine è contornata da due linee nere strinate e da una serie di lacune: sono i danni dovuti all’incendio avvenuto a Chambéry nel 1532. Secondo la tradizione si tratta del lenzuolo citato nei Vangeli che servì per avvolgere il corpo di Gesù nel sepolcro. La Sindone, per le caratteristiche della sua impronta, rappresenta un rimando diretto e immediato che aiuta a comprendere e meditare la drammatica realtà della Passione di Gesù. Per queste ragioni il Beato Giovanni Paolo II la definì «Specchio del Vangelo». (vd. Appendice)

La Sindone è il miglior testimone

della Passione, Morte e Resurrezione di Gesù Cristo Si può infatti sottoporre l’immagine sindonica ad un esame anatomopatologico, trovando precisi riscontri con quanto riportato nei quattro Vangeli: una vera e propria “scena del delitto”, quindi.

L’arresto di Gesù e il processo

E subito, mentre ancora egli parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani. (Mc, 14, 43) Alcuni si misero a sputargli addosso, a bendargli il volto, a percuoterlo e a dirgli: «Fa’ il profeta!». E i servi lo schiaffeggiavano. (Mc, 14, 65) E intanto gli uomini che avevano in custodia Gesù lo deridevano e lo picchiavano, gli bendavano gli occhi e gli dicevano: «Fa’ il profeta! Chi è che ti ha colpito?» (Lc 22, 63-64) Appena detto questo, una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: «Così rispondi al sommo sacerdote?» (Gv 18, 22)

Il volto presenta notevoli segni di percosse; il setto nasale appare fratturato, leggermente deviato, le sopracciglia ed il labbro superiore appaiono tumefatti, del tutto in accordo con la narrazione evangelica, in particolare dello schiaffo. Un gruppo di anatomopatologi, guidati dal professor Juan Manuel Miñarro dell’Università di Cordoba, nel 2010 ha tentato di ricostruire il volto dell’Uomo della Sindone, scoprendo che si tratta di un’immagine olografica.

La flagellazione

[Pilato disse alla folla] Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. Perciò, dopo averlo punito, lo rimetterò in libertà. (Lc 23,15-16) Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. (Gv 19,1)

L’ horribile flagrum romano, un corto bastone cui erano assicurati due o tre lacci che terminavano con artigli metallici, piombi e schegge d’ossa che provocavano tremende lacerazioni e fratture al torturato, era uno strumento di tortura e punizione severissima. La flagellazione in epoca romana veniva praticata molto spesso sia nell’esercito che presso i patrizi:

gli schiavi la potevano subire per qualsiasi ragione, mentre per i cittadini romani (secondo quanto indicava la Lex Porcia) era da comminare solo in casi estremi. La pena veniva inflitta al condannato totalmente nudo, chinato, con i polsi legati ad un

palo. Pena inflitta fino a pochi decenni fa in molti ambienti, specialmente militari (sono famose le scene di flagellazione descritte ne Gli ammutinati del Bounty), poteva essere inflitta anche come preludio alla crocifissione, per umiliare e sfinire il condannato. In tal caso gli venivano inflitti pochissimi colpi. Al condannato venivano inflitti un massimo di quaranta colpi (normalmente 39), sotto la supervisione di un medico, per essere sicuri di non ucciderlo. E’ ragionevole ritenere che, data la soggezione mostrata dagli ebrei verso la nudità, Gesù subisse la tortura con un perizoma attorno ai fianchi. Sulla

schiena, sul torace e sulle gambe sono presenti coppie di segni facilmente riconducibili al flagrum romano, per un totale di circa 120 colpi. Ciò fa pensare, anche sostenuti dalla narrazione evangelica di Luca, più ad una severissima punizione – comminata per contentare i notabili ebrei – che ad un preludio alla crocifissione. Nell’Orto degli Ulivi Gesù, a causa del fortissimo stress emotivo, aveva subito il raro fenomeno dell’ematoidrosi, la rottura delle finissime vene capillari presenti sotto le ghiandole sudoripare. In queste condizioni la pelle è già stressata e quindi la flagellazione deve essere stata ancor più spaventosa.

L’incoronazione di spine

Lo spogliarono, gli fecero indossare un mantello scarlatto, intrecciarono una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero una canna nella mano destra. Poi, inginocchiandosi davanti a lui, lo deridevano: «Salve, re dei Giudei!». Sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo. (Mt 27,28-30) [I soldati] Lo vestirono di porpora, intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo. Poi presero a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!». E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano davanti a lui. (Mc 15,17-19)

Era in uso, presso i soldati romani, una volta all’anno, irretire un poveraccio, vestirlo con un mantello di porpora e “incoronarlo” re per un giorno, prostrandoglisi davanti come ad un autentico re: questa può essere l’origine del supplizio dell’incoronazione di spine, pratica totalmente avulsa dalla crocifissione e scarsamente documentata nei testi latini. Leggiamo cosa narra lo storico Emanuele Merra nel 1906 sulla Sacra Spina di Andria: …è della lunghezza di circa quattro dita, e della grossezza di

un grosso filo di spago nel suo basso finimento. Il suo colorito è cenerognolo, ad eccezione della punta semifranta, che va a finire ad ago, ed è di colore sub oscuro. In essa si veggono quattro macchie di color violaceo nella parte di dietro alla curvatura, ed un’ altra parte davanti, oltre a

molti punti a stento visibili… Nella testa dell’Uomo della Sindone sono presenti numerose tracce di ferite da punta su tutto il capo, ed un evidente accumulo di sangue sulla nuca. Dalla forma delle tracce ematiche si possono evidenziare sia colature di sangue venoso che arterioso. L’esame del negativo fotografico evidenzia come le colature di sangue siano presenti su tutta la testa, e quindi si può ritenere che si tratti di un casco di spine piuttosto che di una corona vera e propria.

La salita al Calvario

Essi presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù in mezzo. (Gv 19,16b-18)

La croce, così come viene rappresentata nell’iconografia classica, non era portata dal condannato a morte. Egli veniva caricato solo del palo orizzontale, il patibulum, del peso di circa 30 kg, mentre il palo verticale, lo stipes, era già conficcato in terra sul luogo del supplizio. Contrariamente a quanto vediamo nella maggior parte delle pitture, lo stipes non era particolarmente alto, al massimo due metri e mezzo, quanto bastava a due uomini robusti per sollevare il condannato – inchiodato o legato al patibulum – e posizionarlo in un’opportuna scanalatura dello stipes. All’altezza della zona scapolare sinistra e sovrascapolare destra dell’Uomo della Sindone si osservano delle ecchimosi a forma quadrangolare, imputabili alle ferite causate dal trasporto del patibulum. Nessuno, ovviamente, tolse la corona di spine dal capo di Gesù durante la salita al calvario: questo lo costrinse a salire con il

capo chino, per evitare che si conficcassero ulteriormente nel capo, cosa che genera ulteriori sofferenze a causa della postura innaturale.

Quando i condannati erano più di uno, venivano legati fra di loro. Anzitutto venivano legate fra di loro le estremità destre di tutti i patiboli. Ogni condannato poi oltre ad avere l’estremità sinistra del suo patibolo legata al proprio piede sinistro, l’aveva anche legata al piede destro del condannato che precedeva. Quando uno cadeva, automaticamente cadevano tutti gli altri del triste corteo. E’ ragionevole ritenere che venissero rialzati a frustate…

Le cadute

Il ginocchio sinistro dell’Uomo della Sindone è particolarmente contuso, con numerose escoriazioni di forma e grandezza diverse, a bordi frastagliati, nella regione rotulea. Un po’ al di sopra e in fuori, ci sono due piaghe rotonde di due centimetri di diametro. Il ginocchio destro mostra diverse piaghe contuse, ma meno evidenti e meno numerose.

Dalle fotografie rafforzate si sono evidenziate tre lividure a cerchio intorno al terzo inferiore della gamba sinistra, lividure dovute a tre giri della corda che univa il piede sinistro di Gesù al suo patibolo e alla gamba destra o al patibolo del condannato che seguiva.

Il cireneo Mentre uscivano, incontrarono un uomo di Cirene, chiamato Simone, e lo costrinsero a portare la sua croce. (Mt 27,32) Le condizioni di Gesù erano così precarie da convincere il medico che accompagnava il corteo a liberarlo dal peso del patibulum, per evitare che morisse durante la salita, evitando così lo “spettacolo” della crocifissione. Non si tratta, quindi, come si può pensare, di un gesto di pietà, ma bensì di un atto profondamente ipocrita. Ciononostante Gesù continua a cadere sfinito.

La spoliazione delle vesti Oltre alla sofferenza, l’umiliazione della nudità. A Roma gli schiavi venivano crocifissi completamente nudi, ma gli ebrei non lo permettevano, lasciando un perizoma annodato attorno ai fianchi del condannato. Anche se i Vangeli non lo riportano, al momento della spoliazione delle vesti Gesù deve aver sofferto molto in quanto la tunica era praticamente incollata alla pelle escoriata.

La crocifissione

Insieme con lui venivano condotti a morte anche altri due, che erano malfattori. Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, vi crocifissero lui e i malfattori, uno a destra e l’altro a sinistra. Gesù diceva: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». Poi dividendo le sue vesti, le tirarono a sorte. Il popolo stava a vedere; i

capi invece lo deridevano dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l'eletto». (Lc 23,32-35) I romani avevano orrore della crocifissione, definita da Cicerone “crudelissimum teterrimumque”, per cui per tutto il tempo che è stata praticata non sono state realizzate immagini realistiche. Probabilmente il condannato veniva o legato o inchiodato al patibulum a terra e poi sollevato sopra lo stipes, che presentava una scanalatura tale da far assumere all’insieme una forma a T, ma vi sono indizi per i quali il condannato venisse inchiodato soltanto allo stipes, con le mani in alto.

Sopra di esso o al collo del condannato era posto il titulus crucis, la motivazione della condanna. Il tempo di agonia era lunghissimo, (normalmente da 24 a 48 ore) e il condannato, in preda a

dolori atroci, spesso sporco di sangue e delle sue deiezioni, era oggetto di scherno.

L’inchiodatura dei polsi

Steso a terra, il condannato veniva inchiodato al patibulum. Anche se il braccio fosse stato legato con corde al patibulum è impossibile collocare il chiodo nel palmo della mano, in quanto il peso del corpo avrebbe comunque strappato via il chiodo dalla mano. La crocifissione avveniva quindi nel polso e non nel palmo della mano, in uno spazio noto come spazio del Destot. I carnefici conoscevano bene questo punto, che permette la sospensione di un grosso peso senza che la mano si laceri, per la presenza anche del robusto legamento trasverso del carpo. Inoltre in quel punto non passano né arterie né vene per cui non v’è

pericolo di emorragie anche mortali, il che potrebbe accadere se si conficcasse un chiodo nel palmo della mano. Conficcando il chiodo nello spazio del Destot, però, si lede il nervo mediano, che sostiene il pollice e che pertanto cade. Sulle braccia sono presenti lunghe colature di sangue, che partono dall’altezza dei polsi. Il sangue fuoriesce da una ferita di forma ovale, riconducibile alla lesione da uno strumento da punta, quale un chiodo, sul quale sia stata esercitata una trazione. La ferita non si

presenta nel palmo della mano, secondo l’iconografica tradizionale della crocifissione, ma nel polso, in corrispondenza dello spazio del Destot. Ad ulteriore riprova si nota come le mani mostrano quattro dita e non cinque, in quanto il pollice appare nascosto sotto il carpo. La Sindone mostra sul polso sinistro una ferita indotta da un oggetto di forma quadrata di lato 9 mm, compatibile con il chiodo conservato a S. Croce in Gerusalemme. Da questa ferita partono tre colate di sangue. Due colate raggiungono subito il margine ulnare dell’avambraccio. La più grossa scende obliquamente verso il basso e indietro prima di raggiungere il margine ulnare. La terza colata, più sottile e frastagliata, sale fino al gomito; probabilmente essa ha seguito un solco tra due gruppi di muscoli estensori, ma di tratto in tratto sfugge verso il margine ulnare,

secondo la legge della gravità. La grande macchia della ferita del polso sinistro è stata fotografata anche sul retro della Sindone. In mezzo a tale grande macchia, la fotografia ha rivelato una forma più scura dai margini ben delineati, un quadrato di circa un centimetro di lato. É questa la forma della ferita prodotta dal chiodo, impressa così nettamente perché, dopo l’estrazione del chiodo, i lembi della ferita erano rimasti aperti e il coagulo che vi si era formato dentro è stato abbondantemente assorbito dal lino.

L’inchiodatura dei piedi

Sollevando il condannato senza un sostegno per i piedi – come sperimentarono i nazisti – la morte avveniva per asfissia in pochi minuti. Per questo nei crocifissi i piedi venivano inchiodati molto rapidamente al legno; talvolta veniva posto nel mezzo un sostegno, detto ironicamente sedecula (letteralmente “sedile”), sul quale il condannato poteva “riposarsi”... Come si evince dalla Sindone, i piedi vennero inchiodati uno sull’altro, con il sinistro sovrapposto al destro. La chiazza quadrata, che corrisponde al chiodo della crocifissione, si trova all’altezza della linea del Lisfrang, che separa il

tarso dal metatarso. Anch’essa è di mm 9 di lato. Non essendovi, in questo punto, passaggio di grandi vene o arterie non v’era il pericolo di emorragie mortali.

Una testimonianza archeologica Nel 1968 a Gerusalemme fu effettuata una scoperta senzazionale: in un ossario risalente al 1° secolo a.C. furono trovati i resti di Johanan ben Hagkol, forse uno zelota, morto crocifisso con le tibie spezzate. Nel calcagno era rimasto conficcato un chiodo della crocifissione.

L’agonia

In questa posizione la respirazione era molto compromessa: mentre l’inspirazione era possibile, per l’espirazione la vittima doveva spingere sui piedi, ossia alzarsi. Man mano che il corpo si indeboliva ed il dolore dei piedi e nelle gambe diventava insopportabile, la respirazione diventava sempre più per il troppo dolore o la troppa stanchezza. La vittima soccombeva quando, essendo talmente esaurita da svenire, non riusciva più a sollevare il corpo dallo stipes per sgonfiare i polmoni ed espirare.

Secondo alcuni studiosi la morte avveniva per un progressivo inacidimento del sangue, a causa dell’eccesso di anidride carbonica presente nei polmoni (la cosiddetta asfissia carbonica), secondo altri per estrema sfinitezza dovuta allo sforzo sovrumano di puntellarsi sui piedi per l’espirazione.

La morte Ma Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito. (Mt 27,50)

Ma Gesù, dando un forte grido, spirò. (Mc 15,37) Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre,nelle tue mani consegno il mio spirito». Detto questo, spirò. (Lc 23,46)

Quando si voleva por fine alle sofferenze del crocifisso, oppure per qualche motivo si voleva farlo morire subito, presso gli ebrei era uso spezzargli le gambe. Spezzate le gambe veniva meno il punto di appoggio dei piedi, quindi il corpo restava penzoloni, le braccia andavano verso la verticale, l’asfissia diveniva completa, il crocifisso perdeva subito conoscenza e nel giro di pochi minuti spirava. Tutti i Vangeli sinottici riportano che al

momento della morte Gesù abbia emesso un forte grido. Questo contrasta con l’ipotesi della morte per soffocamento: l’ipotesi più accreditata è che la morte sia avvenuta per emopericardio, ossia il distacco del foglietto pericardico – la membrana che riveste il cuore – con conseguente emorragia violentissima dalle coronarie e blocco immediato del battito cardiaco. Questo fenomeno – molto raro, riscontrato talvolta in alcuni infartuati – comporta una immediata rigidità del corpo (detta rigidità statuaria) molto simile al rigor mortis. A riprova della teoria della morte per emopericardio si ricorda come la postura del corpo sia del tutto innaturale: nel retro della Sindone il collo è ben visibile mentre nella parte anteriore non lo è. La distanza lineare fra la bocca e le articolazioni sterno-clavicolari è diminuita rispetto alla norma: è infatti cm. 8 invece di cm. 18 il che dimostra che ha il capo notevolmente flesso. La rigidità statuaria intervenuta

subito dopo la morte ha fissato quella posizione. Probabilmente, per rispetto, la testa non fu forzata a riassumere la sua posizione naturale quando Gesù fu posto nel sepolcro.

Il colpo di lancia

Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua. (Gv 19,33-34)

La legislazione ebraica vietava ai familiari di ricevere il corpo del giustiziato (imponeva che fosse gettato in una fossa comune) ma i romani imposero la loro legge per cui il corpo poteva essere

riconsegnato ai familiari solo dopo che il boia si fosse assicurato dell’avvenuta morte del giustiziato, inferendogli un colpo che gli aprisse il cuore. Gli ebrei accettarono questa legge, purché il corpo del condannato stesse almeno un anno a “purificarsi” in un sepolcro comune. Passato questo tempo, le ossa del giustiziato potevano essere riposte in un ossario. I carnefici, pratici del mestiere, dovevano sapere molto bene che il punto migliore per raggiungere il cuore era lo spazio

fra la quinta e la sesta costa o fra la sesta e la settima costa. Nella Sindone, all’altezza del quinto o del sesto spazio intercostale, a dodici centimetri dallo sterno si vede una ferita di arma da taglio, ovale, lunga centimetri 4,4 e larga cm. 1,5. In recenti scavi sono state rinvenute a Gerusalemme molte lance romane di cm. 4 di larghezza. Questa lesione è

importante perché permette di affermare in modo scientificamente categorico che Gesù era realmente morto.

La deposizione Egli [Giuseppe] allora, comprato un lenzuolo, lo depose dalla croce, lo avvolse con il lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare una pietra all'entrata del sepolcro. (Mc 15,46) Giuseppe prese il corpo, lo avvolse in un lenzuolo pulito e lo depose nel suo sepolcro nuovo, che si era fatto scavare nella roccia; rotolata poi una grande pietra all'entrata del sepolcro, se ne andò. (Mt 27,59-60) [Giuseppe] Lo depose dalla croce, lo avvolse con un lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia, nel quale nessuno era stato ancora sepolto. (Lc 23,53) Pittori e scultori hanno rappresentato la deposizione di Gesù dalla croce come una tristissima cerimonia, però compiuta nella pace. La realtà deve essere stata ben più triste. E’ ragionevole ritenere che Gesù sia stato deposto tra le 16,15 e le 16,45: alle 18 iniziava il sabato, e la legge ebraica imponeva che non i cadaveri dei condannati a morte fossero stati deposti. I minuti contati e la fretta per non trasgredire la legge, che imponeva non si toccassero cadaveri al sopraggiungere del

sabato, dominarono la mestissima cerimonia. Se accettiamo la tradizione che S. Elena trovò la croce con i chiodi ancora attaccati, possiamo inferirne che Gesù fu strappato a forza dalla croce per essere portato con la massima fretta al sepolcro. La lavatura della salma, la rasatura del capo e della barba e le unzioni con aromi in uso presso gli Ebrei, furono rimandate al giorno dopo il sabato.

Tentiamo in questa sede una cronologia: • Ore 15: Gesù muore sulla Croce. • Ore 15,05-15,10: il centurione si accorge della morte e al corpo di Gesù viene inflitto il colpo

di lancia. • Ore 15,15-16,15: Giuseppe d’Arimatea, in segreto, chiede a Pilato il corpo di Gesù. Ottenuto

il permesso corre a comperare la Sindone, mentre Nicodemo procura gli aromi. • Ore 16,15-16,45: Gesù viene deposto dalla Croce, distaccando i piedi dal chiodo,

disinnestando il patibolo, deponendo il corpo di Gesù per terra, togliendo – o forse sfilando - i due chiodi dai polsi.

• Ore 16,45-17,15: il corpo di Gesù viene trasportato al sepolcro posto nelle vicinanze; la salma viene ricomporla forzando le braccia ad incrociarsi sul corpo, disposta sulla pietra ove era già stata preparata la sindone; sulla salma vengono disperse polveri di aloe e mirra e il natron. Nel frattempo un necroforo romano scrive su alcuni cartigli il nome del giustiziato e li incolla al lenzuolo.

• Ore 17,15-17,30: il corpo di Gesù viene avvolto nel lenzuolo, sul volto vengono posti dei fazzoletti; viene fatta rotolare la grande pietra sull'entrata del sepolcro.

• Ore 17,30-17,50: tornano in fretta a casa per le celebrazioni dello shabbat.

Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono il sepolcro e come era stato posto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. (Lc 23,55) Il corpo del Signore non fu cosparso di aromi in polvere, la quale avrebbe coperto e fatto sparire le tracce di sangue e neppure fu unto con balsami che avrebbero prodotto una sola macchia uniforme. Invece gli aromi e specialmente il natron, un carbonato di sodio che veniva importato dall’Egitto, furono sparsi sotto la Sindone e sopra di essa, dopo che era stata rivoltata sul corpo di Gesù. Abbondanti tracce ne sono state ritrovate nel retro della Sindone. Le “cento libbre” di mirra e di aloe – circa 35 chili – portate da Nicodemo, secondo il costume ebraico, furono abbondantemente cosparse ovunque, perfino sulle pareti del sepolcro, omaggio profumato al defunto per favorirne la conservazione; minutissima polvere di aloe e di mirra si trova fra le fibre della Sindone.

Uno o più sudari (o grandi fazzoletti) furono posti intorno al volto al di sopra della Sindone, per evitare che la bocca s’aprisse; poi furono fatte due o tre fasciature tutt’intorno al corpo. Probabilmente diversi fazzoletti furono messi intorno al volto, e due sono giunti fino a noi, il Sudario di Manoppello e il Sudario di Oviedo (la posizione delle macchie di sangue è compatibile con quella del volto sindonico). Una volta chiusi gli occhi dei loro defunti gli Ebrei usavano mettere

sulle palpebre abbassate due monete. Anche sugli occhi di Gesù furono poste e la Sindone ce lo ha rivelato. Si tratta di impronte di monete coniate fra il 29 e il 32 dell’era di Cristo da Pilato e conosciute dai numismatici per due errori nel nome in greco dell’imperatore Tiberio.

L’atto di morte Gli studiosi francesi Marion e Courage prima, la paleografa vaticana Barbara Frale poi, sulla base di fotografie in luce radente effettuate nel 1931, hanno evidenziato attorno al volto dell’Uomo della Sindone una serie di scritte in latino, greco ed aramaico, che sono state dalla Frale interpretate come l’atto di morte, redatto da un necroforo romano (probabilmente piceno o sabino, aiutante di Ponzio Pilato) ed appiccicato sopra il lenzuolo funebre. Secondo la studiosa romana la scritta completa sarebbe GESU’ NAZARENO DEPOSTO SUL FAR DELLA SERA, A MORTE, PERCHE’ TROVATO [colpevole]. Al momento l’ipotesi, seppure suggestiva, è ancora al vaglio della comunità dei sindonologi. Va ricordato comunque che sul più antico riferimento al lenzuolo funebre di Cristo, il leggendario Mandylion di Edessa, pare vi fossero presenti

delle scritte...

La permanenza nel sepolcro

Il corpo di Gesù non rimase avvolto nel lenzuolo per più di 30-40 ore; ciò è comprovato dalla totale mancanza di tracce di processi putrefattivi. Questa mancanza assoluta di ogni segno di decomposizione cadaverica è una constatazione comprovata da tutti i più recenti studi. La Sindone è quindi una prova indiretta dell’avvenuta resurrezione di Cristo: se Cristo non fosse

risorto, la Sindone si sarebbe alterata, come sempre avviene nelle tele che avvolgono salme inumate.

La formazione dell’immagine Ma la Sindone non reca neppure tracce di striature, che si sarebbero verificate se essa fosse stata distaccata dal corpo di Cristo nel modo consueto, naturale. Il corpo dovette sparire dalla Sindone, lasciandola immutata nella sua posizione, perché le impronte delle ferite e dei coaguli sono rimaste intatte e non sono strusciate come sarebbe avvenuto se la salma fosse stata mossa. Il decalco perfetto comprova pure che il lenzuolo non fu tolto dal corpo con l’aiuto di liquidi emollienti. Sembrerebbe che il corpo sia come sparito dall’interno della Sindone, in un istante, al momento della Resurrezione.

Le indagini scientifiche

Da più di cento anni gli scienziati si stanno domandando come si possa essere formata l’immagine, sia per discreditarla che per confermarne l’autenticità. L’impronta è quella di una sottilissima bruciatura che riguarda solo le parti esterne del lino, con nette caratteristiche di tridimensionalità. L’unico metodo sperimentale che è riuscito a ottenere qualcosa di simile alla Sindone è stato un irraggiamento per brevissimo tempo con un laser nel lontano ultravioletto. Il tessuto sembra quindi stato attraversato per un

attimo da un fortissimo lampo di energia, che alcuni hanno voluto interpretare come un fulmine globulare. L’analisi delle macchie ematiche ha evidenziato che si tratta di sangue umano – presumibilmente maschile – di gruppo AB, molto comune in Palestina. L’analisi del tessuto ha evidenziato tracce di minerali molto comuni in Palestina. L’analisi dei pollini ha evidenziato presenza di piante reperibili solo in Palestina. Anche se le prime indagini al radiocarbonio datavano il Sacro Lino tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, nuove indagini sulle misure con il 14C la datano al 300 d.C. +/- 800 anni, evidenziando come la tecnica di misura sia totalmente inadatta. La rispondenza con i Vangeli è totale. Diversi falsari hanno tentato di riprodurre l’immagine sindonica, convinti di dimostrare che si trattava dell’opera di un abilissimo falsario: hanno tentato con impressione di colore, con bruciatura sopra un bassorilievo caldo, addirittura con una proiezione ottica su un lino impresso di aloe e mirra, ma mai nulla è stato ottenuto di simile alla Sindone! Molto inchiostro è stato sparso per dimostrare che la Sindone è un falso medievale, ma le “prove” presentate dal C.I.C.A.P. sono quanto mai risibili. Nessun falsario è mai riuscito ad ottenere qualcosa di simile all’Immagine Sindonica.

L’immagine Acheropita Una leggenda, creata probabilmente a Costantinopoli nel II secolo d.C. e riportata da Eusebio di Cesarea nel 325 d.C. narra che il re Abgar di Edessa (vissuto tra il 4 a.C. e il 50 d.C.) fosse malato. Avendo saputo dei miracoli compiuti da Gesù Cristo gli chiese di venire da lui. Ma Gesù, non potendo venire, prese un asciugamano (in greco mandylion) e si asciugò il viso. Sul lenzuolo rimase

impresso il suo volto. Non appena il re Abgar vide il volto di Gesù guarì e da allora il Mandylion, divenuto Immagine Acheropita, ossia “non dipinta da mano umana”, divenne una reliquia molto venerata. Le prime notizie certe sul Mandylion di Edessa risalgono al 525 d.C., ed è stato venerato e conservato fino al 1204. Con l’assedio e il saccheggio di Costantinopoli, avvenuto durante la Quarta Crociata, la reliquia sparì e non se ne hanno più tracce, anche se molti la identificano con la Sindone.

Il Cristo Pantocratore Il Cristo Pantocratore (Colui che domina su tutto, dal greco pàs, pàsa, pàn – tutto – e kratèo – dominare con forza) è una raffigurazione di Gesù tipica dell’arte bizantina ed in genere paleocristiana e altomedievale, presente soprattutto nei mosaici ed affreschi absidali. Egli è ritratto in atteggiamento maestoso e severo, seduto su un trono, nell’atto di benedire con le tre dita della mano destra, secondo l’uso ortodosso. Nel V secolo il Cristo era considerato il principio organizzatore del cosmo,

generato e non creato da Dio Padre, la chiave di comprensione della realtà e la risposta al mistero dell’esistenza. Il desiderio umano di ordine aveva trovato il suo esaudirsi in Gesù, il Logos incarnato, la ragione e la struttura del cosmo. Guardando il volto del Cristo Pantocratore non si può non notare una grande somiglianza con il volto della Sindone: i capelli divisi in due ciocche e raccolti ai lati della testa, la barba divisa in due e soprattutto un curioso ciuffo centrale che ricorda molto da vicino il segno ε presente nella Sindone.

Le peregrinazioni della Sindone Da Gerusalemme a Torino, passando da diversi paesi tra cui, forse, anche Firenze: questo è il cammino che la Sindone ha percorso nei secoli. Sulla Sindone – o meglio sul Mandylion, il leggendario fazzoletto con su impresso il volto di Cristo – si hanno testimonianze fin dai primi secoli dell’era cristiana. Nel II secolo d.C. Eusebio di Cesarea narra la leggenda del Volto di Cristo che guarisce Abgar di Emessa; successivamente, nel 393,

Epifanio di Salamina parla di un “velo” funebre che presenta un’immagine intera di un uomo. Sicuramente, nel 525, nella Chiesa di S. Sofia di Edessa viene rinvenuto il Mandylion, il quale, esposto nel 544, libera la popolazione dall’assedio persiano. Per quattrocento anni il telo viene conservato ed esposto ogni venerdì. Nel 944 i bizantini si fanno consegnare il

Mandylion dal sultano di Edessa. Questo viene portato prima a Samosata, quindi a Cesarea di Cappadocia, a Laodicea e poi, il 15 agosto arriva a Costantinopoli. Nel 1095 l’imperatore Alessio I Comneno cita, tra le reliquie della Passione conservate a Costantinopoli, «i teli che furono trovati nel sepolcro dopo la Risurrezione»; nel 1171 Manuele I Comneno mostra la Sindone a Amalrico, re dei Latini di Gerusalemme; nel 1201 Nicola Mesarite afferma che nella Cappella di S. Maria del

Faro sono conservati i teli sepolcrali di Cristo. Con la conquista di Costantinopoli, avvenuta nel 1204, la Sindone sparisce: probabilmente Othon de la Roche, Duca Latino di Atene, la trafuga portandola in Francia e consegnandola ai Templari. Nelle sue peregrinazioni verso la Francia passa da Firenze, portando con sé il Sacro Lino. I Templari adorano un volto che potrebbe ricordare da vicino la Sindone “piegata in otto parti”, in modo che possa essere visibile solo il Volto. Nel 1314 l’ordine

dei Templari viene sciolto e i cavalieri vengono tra l’altro accusati di adorare un volto – il Baphomet, probabile corruzione del termine Machomet, Maometto – che potrebbe essere la Sindone. Nel 1356 Geoffroy de Charny, cavaliere crociato, consegna la Sindone ai canonici di Lirey, presso Troyes, in Francia. Nel 1453 Marguerite de Charny, discendente di Geoffroy, cede il Lenzuolo ad Anna di Lusignano, moglie del duca Ludovico di Savoia, che lo custodirà a Chambéry. La Sindone viene regolarmente ostesa in occasioni particolarmente importanti, quali la nascita o il matrimonio di un membro della famiglia regnante. Nel 1506 Papa Giulio II approva l’Ufficio della Sindone, fissandone la festa al 4 maggio. Nel 1532, nella notte tra il 3 e il 4 dicembre, un incendio danneggia l’urna dove la Sindone è conservata; due anni dopo le Clarisse cuciranno dei rattoppi. A seguito di un epidemia di peste scoppiata a Milano (1576-1577) San Carlo Borromeo decide di recarsi in pellegrinaggio, in silenzio e a piedi scalzi, a Chambery per venerare la Sindone ed implorare la cessazione del morbo: il duca Emanuele Filiberto di Savoia, che da anni richiedeva il trasporto del Sacro Lino a Torino, contro il volere dei francesi, ne approfitta ordinando di portare il Sacro Lino verso il corteo dei penitenti; due anni dopo, nel 1578, il duca trasferisce “temporaneamente” la Sindone a Torino. Nel 1694 la Sindone viene sistemata definitivamente nella Cappella del Guarini, e vengono realizzate pubbliche ostensioni in occasione di eventi eccezionali.

Fra il 25 ed il 28 maggio del 1898 l’avvocato Secondo Pia, incaricato di fotografare la Sindone, scopre che dal negativo fotografico emergono le fattezze di un uomo, e inizia lo studio medico-legale della Sindone. Nel 1931 il fotografo Giuseppe Enrie effettua migliori riprese fotografiche. Le riprese fotografiche vengono effettuate anche nel 1969 (prima fotografia a colori, eseguita da Giovanni Battista Judica Corvaglia) e il 23 novembre 1973 viene fatta la prima ostensione televisiva. Dall’8 al 14 ottobre 1978 un gruppo di scienziati effettua accuratissimi

studi sulla reliquia. Il 18 marzo 1983, a seguito della morte di Umberto II di Savoia, la Sindone diventa proprietà del Papa. Il 21 aprile 1988 viene prelevato un campione di tessuto per l’analisi al 14C, ma i risultati – che l’assegnano ad un periodo tra il XIII ed il XIV secolo – sono quanto mai discutibili e suscitano polemiche a non finire. Nella notte tra l’11 e il 12 aprile 1997 un incendio provoca gravissimi danni alla Cappella del Guarini, ma i pompieri riescono a salvare la reliquia. Nel 2000 la Sindone viene posta in una nuova teca di cristallo in atmosfera inerte. Nel 2002 la Sindone subisce un restauro completo e viene completamente mappata. Il 30 marzo 2013 viene effettuata una nuova ostensione televisiva.

APPENDICE

VISITA PASTORALE DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO II A VERCELLI E TORINO (23-24 MAGGIO 1998) CELEBRAZIONE DELLA PAROLA E VENERAZIONE DELLA SINDONE

DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II

Domenica, 24 maggio 1998

Carissimi Fratelli e Sorelle! 1. Con lo sguardo rivolto alla Sindone, desidero salutare cordialmente tutti voi, fedeli della Chiesa torinese. Saluto i pellegrini che durante il periodo di questa ostensione vengono da ogni parte del mondo per contemplare uno dei segni più sconvolgenti dell’amore sofferente del Redentore. Entrando nel Duomo, che mostra ancora le ferite prodotte dal terribile incendio di un anno fa, mi sono fermato in adorazione davanti all’Eucaristia, il Sacramento che sta al centro delle attenzioni della Chiesa e che, sotto apparenze umili, custodisce la presenza vera, reale e sostanziale di Cristo. Alla luce della presenza di Cristo in mezzo a noi, ho sostato poi davanti alla Sindone, il prezioso Lino che può esserci di aiuto per meglio capire il mistero dell’amore del Figlio di Dio per noi.

Davanti alla Sindone, immagine intensa e struggente di uno strazio inenarrabile, desidero rendere grazie al Signore per questo dono singolare, che domanda al credente attenzione amorosa e disponibilità piena alla sequela del Signore. 2. La Sindone è provocazione all’intelligenza. Essa richiede innanzitutto l’impegno di ogni uomo, in particolare del ricercatore, per cogliere con umiltà il messaggio profondo inviato alla sua ragione ed alla sua vita. Il fascino misterioso esercitato dalla Sindone spinge a formulare domande sul rapporto tra il sacro Lino e la vicenda storica di Gesù. Non trattandosi di una materia di fede, la Chiesa non ha competenza specifica per pronunciarsi su tali questioni. Essa affida agli scienziati il compito di continuare ad indagare per giungere a trovare risposte adeguate agli interrogativi connessi con questo Lenzuolo che, secondo la tradizione, avrebbe avvolto il corpo del nostro Redentore quando fu deposto dalla croce. La Chiesa esorta ad affrontare lo studio della Sindone senza posizioni precostituite, che diano per scontati risultati che tali non sono; li invita ad agire con libertà interiore e premuroso rispetto sia della metodologia scientifica sia della sensibilità dei credenti. 3. Ciò che soprattutto conta per il credente è che la Sindone è specchio del Vangelo. In effetti, se si riflette sul sacro Lino, non si può prescindere dalla considerazione che l’immagine in esso presente ha un rapporto così profondo con quanto i Vangeli raccontano della passione e morte di Gesù che ogni uomo sensibile si sente interiormente toccato e commosso nel contemplarla. Chi ad essa si avvicina è, altresì, consapevole che la Sindone non arresta in sé il cuore della gente, ma rimanda a Colui al cui servizio la Provvidenza amorosa del Padre l’ha posta. Pertanto, è giusto nutrire la consapevolezza della preziosità di questa immagine, che tutti vedono e nessuno per ora può spiegare. Per ogni persona pensosa essa è motivo di riflessioni profonde, che possono giungere a coinvolgere la vita. La Sindone costituisce così un segno veramente singolare che rimanda a Gesù, la Parola vera del Padre, ed invita a modellare la propria esistenza su quella di Colui che ha dato se stesso per noi. 4. Nella Sindone si riflette l’immagine della sofferenza umana. Essa ricorda all’uomo moderno, spesso distratto dal benessere e dalle conquiste tecnologiche, il dramma di tanti fratelli, e lo invita ad interrogarsi sul mistero del dolore per approfondirne le cause. L’impronta del corpo martoriato del Crocifisso, testimoniando la tremenda capacità dell’uomo di procurare dolore e morte ai suoi simili, si pone come l’icona della sofferenza dell’innocente di tutti i tempi: delle innumerevoli tragedie che hanno segnato la storia passata, e dei drammi che continuano a consumarsi nel mondo. Davanti alla Sindone, come non pensare ai milioni di uomini che muoiono di fame, agli orrori perpetrati nelle tante guerre che insanguinano le Nazioni, allo sfruttamento brutale di donne e bambini, ai milioni di esseri umani che vivono di stenti e di umiliazioni ai margini delle metropoli, specialmente nei Paesi in via di sviluppo? Come non ricordare con smarrimento e pietà quanti non possono godere degli elementari diritti civili, le vittime della tortura e del terrorismo, gli schiavi di organizzazioni criminali? Evocando tali drammatiche situazioni, la Sindone non solo ci spinge ad uscire dal nostro egoismo, ma ci porta a scoprire il mistero del dolore che, santificato dal sacrificio di Cristo, genera salvezza per l’intera umanità. 5. La Sindone è anche immagine dell’amore di Dio, oltre che del peccato dell’uomo. Essa invita a riscoprire la causa ultima della morte redentrice di Gesù. Nell’incommensurabile sofferenza da essa documentata, l’amore di Colui che “ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16) si rende quasi palpabile e manifesta le sue sorprendenti dimensioni. Dinanzi ad essa i credenti non possono non esclamare in tutta verità: “Signore, non mi potevi amare di più!”, e rendersi subito conto che responsabile di quella sofferenza è il peccato: sono i peccati di ogni essere umano.

Parlandoci di amore e di peccato, la Sindone invita tutti noi ad imprimere nel nostro spirito il volto dell’amore di Dio, per escluderne la tremenda realtà del peccato. La contemplazione di quel Corpo martoriato aiuta l’uomo contemporaneo a liberarsi dalla superficialità e dall’egoismo con cui molto spesso tratta dell’amore e del peccato. Facendo eco alla parola di Dio ed a secoli di consapevolezza cristiana, la Sindone sussurra: credi nell’amore di Dio, il più grande tesoro donato all’umanità, e fuggi il peccato, la più grande disgrazia della storia. 6. La Sindone è anche immagine di impotenza: impotenza della morte, in cui si rivela la conseguenza estrema del mistero dell’Incarnazione. Il telo sindonico ci spinge a misurarci con l’aspetto più conturbante del mistero dell’Incarnazione, che è anche quello in cui si mostra con quanta verità Dio si sia fatto veramente uomo, assumendo la nostra condizione in tutto, fuorché nel peccato. Ognuno è scosso dal pensiero che nemmeno il Figlio di Dio abbia resistito alla forza della morte, ma tutti ci commuoviamo al pensiero che egli ha talmente partecipato alla nostra condizione umana da volersi sottoporre all’impotenza totale del momento in cui la vita si spegne. E’ l’esperienza del Sabato Santo, passaggio importante del cammino di Gesù verso la Gloria, da cui si sprigiona un raggio di luce che investe il dolore e la morte di ogni uomo. La fede, ricordandoci la vittoria di Cristo, ci comunica la certezza che il sepolcro non è il traguardo ultimo dell’esistenza. Dio ci chiama alla risurrezione ed alla vita immortale. 7. La Sindone è immagine del silenzio. C’è un silenzio tragico dell’incomunicabilità, che ha nella morte la sua massima espressione, e c’è il silenzio della fecondità, che è proprio di chi rinuncia a farsi sentire all’esterno per raggiungere nel profondo le radici della verità e della vita. La Sindone esprime non solo il silenzio della morte, ma anche il silenzio coraggioso e fecondo del superamento dell’effimero, grazie all’immersione totale nell’eterno presente di Dio. Essa offre così la commovente conferma del fatto che l’onnipotenza misericordiosa del nostro Dio non è arrestata da nessuna forza del male, ma sa anzi far concorrere al bene la stessa forza del male. Il nostro tempo ha bisogno di riscoprire la fecondità del silenzio, per superare la dissipazione dei suoni, delle immagini, delle chiacchiere che troppo spesso impediscono di sentire la voce di Dio. 8. Carissimi Fratelli e Sorelle! Il vostro Arcivescovo, il caro Cardinale Giovanni Saldarini, Custode Pontificio della Santa Sindone, ha proposto come motto di questa Ostensione solenne le parole: “Tutti gli uomini vedranno la tua salvezza”. Sì, il pellegrinaggio che folle numerose vanno compiendo verso questa Città è proprio un “venire a vedere” questo segno tragico ed illuminante della Passione, che annuncia l’amore del Redentore. Questa icona del Cristo abbandonato nella condizione drammatica e solenne della morte, che da secoli è oggetto di significative raffigurazioni e che da cento anni, grazie alla fotografia, è diffusa in moltissime riproduzioni, esorta ad andare al cuore del mistero della vita e della morte per scoprire il messaggio grande e consolante che ci è in essa consegnato. La Sindone ci presenta Gesù al momento della sua massima impotenza, e ci ricorda che nell’annullamento di quella morte sta la salvezza del mondo intero. La Sindone diventa così un invito a vivere ogni esperienza, compresa quella della sofferenza e della suprema impotenza, nell’atteggiamento di chi crede che l’amore misericordioso di Dio vince ogni povertà, ogni condizionamento, ogni tentazione di disperazione. Lo Spirito di Dio, che abita nei nostri cuori, susciti in ciascuno il desiderio e la generosità necessari per accogliere il messaggio della Sindone e per farne il criterio ispiratore dell’esistenza. Con questi auspici, imparto a tutti voi, ai pellegrini che visiteranno la Sindone ed a quanti sono spiritualmente ed idealmente uniti intorno a questo segno sorprendente dell’amore del Cristo, una speciale Benedizione Apostolica.

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Si ringrazia Fr. Valentino Benedetto ofm per la preziosa collaborazione