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L’ORATORIA NELLA GRECIA ANTICA

© GSCATULLO

(

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Oratoria Introduzione

Oratoria e retorica

In latino coesistevano per indicare colui che padroneggiava l’arte della parola due termini, ognuno con una

differente sfumatura che è poi confluita in italiano. L’orator, colui che recitava in pubblico i discorsi, si

distingueva infatti dal retor (< ῥήτωρ), colui che conosceva le tecniche per la composizione dei testi da far

recitare al primo; e ne consegue quindi la differenza tra oratoria e retorica, intendendo con la prima la pratica

dell’arte del parlare e la seconda la “teoria”, nello studio delle figure e delle tecniche.

In greco il termine ῥήτωρ – facendo coincidere l’oratoria e la retorica - identificava invece il maestro, l’oratore

ed il politico, inteso quest’ultimo come chi parla in pubblico per poter prevalere sugli altri, e non

necessariamente era da identificare sempre con un politico “di professione”, in quanto questo poteva

affidare al ῥήτωρ un discorso su un tema in cui preferiva non esporsi pubblicamente1.

Oggi la retorica è considerata una branca della comunicazione che si occupa della persuasione.

Origini e storia

Come per la gran parte dei generi letterari, la tradizione greca individua in Omero l’inventore dell’oratoria,

essendo presenti nel corpus diverse situazioni in cui se ne fa uso (es. si pensi alle due situazioni iniziali

nell’Iliade e nell’Odissea). Nell’epoca omerica l’oralità aveva in effetti favorito una considerazione particolare,

persino con caratteristiche magiche: il λόγος è parola ma anche pensiero, e aveva due finalità: la persuasione

e la ψυγαγογέιν (lett. Trascinare l’anima, da riferirsi al coinvolgimento emozionale). Gli eroi della guerra di

Troia sanno dunque combattere ma anche parlare, è la parola che rimane a Nestore anziano e quindi privo

di grandi capacità fisiche, ed è per Odisseo un dono degli Dei, e lui stesso fa uso di quell’oratoria detta

deliberativa2. L’oratoria epidittica appare nella sua forma primordiale durante il τρένος, ed è ipotizzabile

anche che già ne esistesse una giudiziaria, essendo descritto sullo scudo d’Achille un tribunale.

Al di là delle origini mitiche, l’oratoria – giudiziaria, la prima che si abbia in forma scritta - si fa risalire ai

siciliani Tisia e Corace: con la cacciata di Trasibulo (465 a.C.) si tennero molti processi di cittadini che

rivendicavano i terreni indebitamente sottrattigli dal tiranno, essi pare ricorressero ad alcuni libri detti

τέχναι, scritti da Tisia e Corace, per difendere le proprie ragioni in tribunale.

Su cosa siano effettivamente i τέχναι si è discusso molto: alcuni studiosi sostengono che fossero dei veri e

propri manuali di retorica, che istruissero su quali tecniche usare, altri ritengono fossero invece dei modelli

di orazioni tenute dai due autori da cui trarre spunti ed ispirazione. Thomas Cole sostiene3 che la seconda

ipotesi, dei modelli di oratoria, debba essere non solo considerata per gli scritti di Tisia e Corace, ma che vada

estesa a tutti i τέχναι sull’argomento sino ad Aristotele. Tuttavia quest’ipotesi non giustificherebbe la presa

di posizione di Aristotele, autore del Περὶ ῥητορικῆς, contro i suoi predecessori che nei loro manuali

avrebbero troppo accentuato la trattazione di tecniche per suscitare emozioni negli spettatori.

In ogni caso i manuali si ispirano ad orazioni, per lo più deliberative, che li hanno preceduti. Spesso basandosi

però sulla tradizione indiretta: quanti tenevano discorsi politici non li scrivevano per non essere scambiati

per sofisti, e toccava agli storici – si pensi a Pericle in Tucidide – il compito di trascriverle o meglio ricostruirle,

con inevitabili cambi di contenuto.

1 Per approfondire si veda L’oratoria greca più avanti. 2 Per i generi dell’oratoria greca, giudiziaria, deliberativa ed epidittica vedi il paragrafo I tre generi dell’oratoria. 3 T. Cole, The origins of thetoric in ancient Greece, Baltimore, 1991.

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Si deve ad un altro siciliano, Gorgia da Leontini, il merito di aver importato ad Atene l’arte della retorica:

ambasciatore ad Atene nel 427 a.C. vi si stabilì ed iniziò a lavorare come insegnante. In Attica l’oratoria si

arricchisce della componente filosofica, diventando caratteristica peculiare dei sofisti: presupponendo

l’assenza, o quantomeno l’inconoscibilità, della Verità assoluta il compito della retorica diventa il

raggiungimento dell’εἰκός (il verosimile, il plausibile), e non è più il vero/giusto a prevalere ma il più

verbalmente forte.

La parola è una potente signora, che pur dotata di un corpo piccolissimo e invisibile

compie le opere più divine. (Gorgia, Encomio di Elena)

A Gorgia si deve anche l’invenzione degli σχήματα (figure gorgiane), che individuano tecniche per comporre

una buona orazione: l’isocolia, l’armonia tra periodi della stessa lunghezza; l’omoteleuto, la ripetizione di

finali di parola simili, l’antitesi ed i parallelismi. Sosteneva inoltre, e sarà contestato da Lisia, l’uso di una prosa

d’arte, simile cioè alla poesia.

L’oratoria greca

Perché in Grecia

Non c’è da stupirsi che l’oratoria sia un genere letterario nato in Grecia: proprio nella πόλις si ha quella

parresia e libertà di espressione che permettono all’oratore di rivolgersi non in maniera reverenziale ad un

sovrano, ma a dei suoi pari. La democrazia poneva infatti le basi dell’arte della parola, e l’intero sistema

giudiziario, che amministrava in comunità la giustizia – era assente persino la figura del Pubblico Ministero -

non poteva che prevedere interventi davanti ad un’assemblea di giudici per difendere le proprie ragioni. Ciò

sarà anche occasione di critica da parte di ambienti conservatori, come Aristofane nelle Vespe. La crisi della

democrazia e della πόλις segneranno il declino inesorabile dell’oratoria giudiziaria, recitata in tribunale, e

deliberativa, recitata in assemblea, rimanendo solo quella epidittica, che si riuscì a ritagliare una certa

indipendenza dalle altre due.

Per la diffusione di questo genere letterario bisogna menzionare l’importante contributo che ne hanno dato

i Sofisti, educatori alla parola dei rampolli aristocratici, perfezionano e codificano il genere.

I tre generi dell’oratoria

Gli antichi distinguevano fondamentalmente tre forme di oratoria, sulla base della sua destinazione:

l’oratoria giudiziaria, per sostenere le cause in tribunale, il cui modello4 era Lisia; quella deliberativa, per gli

argomenti da dibattere in pubblico e la politica, di Demostene; e quella epidittica (< ἐπίδειξις, esibizione),

utilizzati per temi generali, o per commemorazioni, con modello Isocrate.

L’oratoria giudiziaria, veniva utilizzata durante i processi: la giuria era popolare, e spesso chi la costituiva non

aveva una conoscenza approfondita del diritto, risultando facilmente influenzabile.

L’oratoria deliberativa, si teneva di fronte all’assemblea dei cittadini, con lo scopo di orientarla verso una

determinata azione politica. Durante il V e il VI secolo a.C., anni della fioritura democratica, il ῥήτορ era

l’uomo politico, colui che per antonomasia parla in assemblea davanti al popolo. Alle volte, per evitare accuse

di γραφὴ παρανόμων, ovvero di proporre qualcosa di illegale, i politici affidavano a dei retori appositamente

pagati il compito di portare in assemblea determinate proposte.

L’oratoria epidittica, dovette la sua fortuna ai sofisti che la utilizzarono per agoni retorici, in cui si discutesse

di un tema per mostrare quale fosse la bravura degli oratori. Nonostante il declino della democrazia conservò

la sua fortuna nell’antichità, e non era raro assistere a gare pubbliche di oratoria. È anche il genere

dell’epitaffio e della commemorazione.

4 Individuato come riferimento sin dall’antichità.

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Sviluppi successivi

Alla fine del V secolo a.C. le orazioni iniziarono ad essere messe per iscritto, complice la diffusione del genere

e potendo contare su un pubblico di lettori interessati. L’importanza dell’oratoria in Attica fu tale che

possediamo un canone dei dieci oratori attici: Andocide, Lisia, Isocrate, Iseo, Eschine, Licurgo, Demostene,

Iperide e Dinarco; che Cecilio di Calatte, retore dell’età augustea, attribuisce allo Pseudo-Plutarco, le Vite dei

dieci oratori.

Un grande contributo lo apportò anche la letteratura latina, i cui stili di oratoria furono classificati in elevato,

con molte figure retoriche (come in Gorgia), medio, psicagogico ed emozionale, e tenue, sobrio ed elegante

(Lisia).

L’oratoria e la retorica influenzarono altri generi letterari: più importante di tutti la tragedia, che porta più di

un esempio di contrasto e confronto, anche retorico, tra i suoi personaggi, portato in scena usando la

στικομιτία e i δίστοι λόγοι, ovvero la contrapposizione tra due tesi entrambe valide, che dividono il lettore.

L’Oratoria Giudiziaria

L’Eliea

In epoca pre-cittadina il potere giudiziario era proprio degli arconti, che avevano competenze sia ordinative,

di indire i processi, che direttive, di presiederli e giudicare. Con le riforme di Solone prima, di Clistene e di

Pericle poi, viene istituito un tribunale popolare detto ἠλιαία (< ἤλιος, sole. Per la loro usanza di riunirsi a

cielo aperto) composta da 6000 cittadini – 600 per tribù – eletti annualmente per sorteggio fra tutti i cittadini

che avessero compiuto i trent’anni. Dopo aver prestato giuramento gli eliasti venivano divisi nei vari tribunali

civili. Lavoravano sotto compenso di due oboli al giorno, che divennero tre dopo il 425 a.C. È importante

sottolineare che i membri dell’Eliea non avevano una preparazione giuridica, e che dunque il giudizio non

avveniva su basi tecniche ma principalmente emotive, ed è questa una delle ragioni che ha permesso lo

sviluppo dell’orazione. La preparazione degli estratti a sorte, per questa ed ogni altra magistratura, era

verificata dalla βυλή co delle prove chiamate docimasie.

I tribunali e le loro competenze

Esistevano ad Atene diversi tribunali: l’ἐκκλησία aveva il compito di giudicare i crimini commessi contro lo

stato, all’ἠλιαία erano lasciati i crimini “minori”, mentre i delitti di sangue erano giudicati in cinque differenti

sedi:

L’Areopago (per il luogo dove si riuniva, la collina di Ares) giudicava i delitti più gravi (es. omicidio

doloso, incendio doloso, ferita con intenzione di uccidere ecc.) ed era l’unico tribunale a poter

comminare la pena capitale.

Il Delfinio con il compito di giudicare gli omicidi legittimi o giustificabili secondo il diritto attico, caso

esemplare il delitto compiuto ai danni del μοικός (colui che vìola la moglie, la figlia, la madre, la

concubina o la sorella; considerate come “proprietà privata”) colto in flagrante ed autoaccusatosi.

Ha anche competenza di attribuire una pena allo stesso, qualora non fosse ucciso dal marito stesso,

che poteva andare da un risarcimento alla crocifissione, pena comminata ai ladri.

Il Palladio per l’omicidio involontario o colposo.

Il Pritaneo, con funzione principalmente apotropaica e di liberazione dal μιάσμα, per l’omicidio

commesso da ignoti, animali o da oggetti.

Il Freatto (dal nome di un demo costiero), con il compito di giudicare gli omicidi commessi da recidivi,

e già esiliati per il precedente reato. I giudici seduti lungo la costa giudicavano l’imputato che si

trovava su una barca ancorata alla riva, perché non toccasse terra e perciò la contaminasse.

Spettava all’arconte βασιλεύς di indirizzare le cause ai vari tribunali.

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Il processo

Esistevano ad Atene due tipi di processi: i δίκαι e i γραφαί, i primi erano cause private e riguardanti il diritto

familiare, i secondi a tutela della cosa pubblica e della πόλις. Non esisteva il concetto di procedura d’ufficio

e ad iniziare il processo era sempre un actor accusante. Il convenuto doveva presentarsi in tribunale al

momento del processo, se ciò non fosse avvenuto erano previste procedure straordinarie: la ἀπαγωγή, che

vedeva il reo, colto in flagrante, condotto davanti al magistrato; la ἐφήγησις, che prevedeva che fosse il

magistrato a raggiungere il luogo del reato per procedere all’arresto; e la ἔνδειξις, ovvero la denuncia al

magistrato perché arrestasse il reo.

Dopo la denuncia dell’actor, la causa veniva dapprima esaminata dai dieteti, arbitri con funzioni di paciere,

che avevano almeno sessant’anni e cui i demi assegnavano le cause. Qualora non si raggiungesse un accordo

la causa veniva rimessa all’Eliea e i tesmoteti fissavano la data del processo. Ovviamente l’arconte basileus,

come già detto, vagliava al tribunale appropriato la causa.

I due contendenti parlavano direttamente senza l’intermediazione di un avvocato, al più facendosi scrivere

discorsi “professionali” dai logografi. Alle donne, ai meteci e ai minori era affiancato loro un tutore, ed era

prevista anche per i cittadini che, per anzianità o inesperienza, non potessero rappresentarsi da soli

l’affiancamento di un συνήγορος, dotto in materia di diritto, che interveniva a titolo personale e

gratuitamente. Gli interventi previsti erano due, il primo di cinquanta minuti, il secondo di dodici, misurati

da una clessidra ad acqua. La stessa veniva fermata durante l’esibizione di prove, i discorsi dei testimoni o la

lettura delle leggi.

Il processo durava un giorno al termine dei quali la giuria era chiamata a votare. La votazione avveniva tramite

due dischetti - uno pieno, per l’assoluzione, ed uno vuoto per la condanna – consegnati ai giudici, che

venivano inseriti in un contenitore di bronzo ed uno di legno. Il primo serviva come conteggio ufficiale, lì

veniva inserito il verdetto che ogni giurato emetteva, il secondo contenitore invece era di riscontro, per

evitare brogli: conteneva i dischetti “scartati” dai giurati, che a fine votazione dovevano essere in egual

numero a quelli validi. I giurati attribuivano poi la pena fissata per quel reato (il processo è allora ἀγών

ἀτίμητος), se presente, o la valutavano essi stessi in base alla situazione (ἀγών τίμητος).

Il logografo

Con il termine logografo si indicava alla fine del VI secolo a.C. colui che scriveva in prosa per distinguerlo dal

poeta. Con la nascita della storiografia si identificò questa figura con quella di una sorta di storico

inattendibile. Alla fine del V secolo a.C. il logografo è considerato un tecnico della parola, che scriveva orazioni

dietro compenso, un vero e proprio mestiere.

Il logografo non recitava le orazioni che scriveva, affidandole al cliente. Su come ciò avvenisse, vi sono diverse

ipotesi: alcuni studiosi credono che il logografo scrivesse solo la traccia e il cliente improvvisasse il resto in

tribunale, altri che collaborasse con lui nella stesura, ed altri ancora che scrivesse l’intera orazione.

L’orazione veniva composta basandosi sulla realtà dei fatti, ma ricercando il successo della causa e l’ἐικός.

Un altro criterio fondamentale era poi l’ἠθοποίια (rappresentazione del carattere): il logografo adattava le

argomentazioni allo stile che avrebbe potuto avere il cliente, e ne sfruttava alcune caratteristiche, studiando

e creando un vero e proprio “personaggio”.

Il logografo strutturava l’orazione in cinque momenti: l’esordio, con l’inizio e la presentazione al tribunale; la

narratio, in cui spiegava i fatti accaduti; l’argomentatio, dove si esponeva la tesi; la refutatio, in cui veniva

confutata l’antitesi; e la perorazione, che costituiva l’arringa finale.

Non di rado accadeva che le orazioni veniva modificate dai clienti e immesse su una sorta di “mercato nero”:

i logografi non ne avrebbero rivendicato la paternità, da un lato perché considerato un lavoro infamante, ed

inoltre perché molti di loro, essendo meteci, non possedevano la facoltà di accusare cittadini in tribunale.

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Bisogna anche considerare che ciò rende difficile la reale attribuzione delle orazioni, si pensi che a Lisia furono

attribuite ben 425 orazioni. Tanto che Aristotele, pur citandone alcune certamente sue, non gliele attribuisce.

Lisia

Vita

Lisia nasce nel 445 a.C. ad Atene. È figlio di Cefalo, un ricco meteco siracusano fabbricante di armi, trasferitosi

ad Atene su invito di Pericle. Dopo la morte del padre (430 a.C.) si trasferisce a Turi, dove si può ipotizzare un

incontro con Erodoto e Protagora, e lì frequenta la scuola di retorica, forse allievo di Tisia. Nel 412 a.C., dopo

la disastrosa seconda spedizione ateniese in Sicilia (415-413 a.C.), torna ad Atene.

Dopo la caduta della città e l’instaurazione del regime dei Trenta Tiranni (404 a.C.) la sua famiglia – legata ai

circoli democratici - rimane vittima delle epurazioni operate dagli oligarchi, e suo fratello Polemarco viene

giustiziato. Lisia riesce a fuggire a Megara, da dove sostiene l’opposizione democratica, e nel 403 a.C. rientra

ad Atene al seguito di Trasibulo. Si ipotizza che a questo punto gli venne concessa, come riconoscimento per

l’appoggio ai democratici, che erano riusciti a far crollare il governo dei Trenta, la cittadinanza ateniese,

revocatagli per l’intervento da Archino che aveva individuato un vizio di forma. Gli venne comunque concessa

l’isotelia, ovvero la parità di diritti civili con l’assenza di quelli politici.

Dovendo fronteggiare la rovina del patrimonio familiare iniziò la carriera di logografo con grande profitto. La

data di morte non è conosciuta, ma si pensa posteriore al 380 a.C., data delle ultime notizie su di lui.

Orazioni

Nell’antichità gli furono attribuite più di quattrocento orazioni, delle quali solo 230 avevano riconosciuta dagli

Alessandrini la paternità, numero che scende a 34 con la critica moderna. Di queste, certamente autentiche,

due sono epidittiche: un epitafio, in commemorazione degli ateniesi morti nella battaglia di Corinto (395

a.C.); e l’Olimpico, un panegirico in occasione dei Giochi del 388 a.C. in cui accusa Dioniso di Siracusa e la

tirannia in generale, e si dice abbia fomentato la folla a tal punto che la sera tentò il linciaggio contro il

siracusano. Le altre 32 orazioni sono invece di genere giudiziario, che sicuramente preferiva su tutti gli altri.

La Contro Eratostene è l’orazione composta da Lisia e, caso unico nella storia dell’autore, pronunciata da lui

stesso, per accusare il tiranno Eratostene che aveva requisito tutti i beni della sua famiglia e condannato a

morte il fratello. Sul come sia stato possibile che l’orazione sia stata pronunciata di persona, cosa

normalmente impossibile per un meteco, vi sono diverse ipotesi: alcuni studiosi ipotizzano sia stata

pronunciata durante il breve periodo da cittadino, altri che gli sia stato concesso perché fratello della vittima,

altri ancora che Lisia l’abbia tenuta davanti ai tiranni, avendo Trasibulo istituito una sorta di tribunale per

pacificare la città dopo la caduta degli oligarchi.

Il filologo britannico Kenneth J. Dover riteneva che questa sia l’unica orazione autenticamente scritta da Lisia,

indicando le altre come troppo diverse per lo stile, il tedesco U. von Wilamowitz a proposito delle sue orazioni

accusava nei suoi scritti Lisia di aver lavorato persino per i Trenta Tiranni, evidenziando una certa assenza di

etica del lavoro. S. Usher ridimensionò le affermazioni di Dover, identificando le 34 orazioni che la critica

moderna attribuisce a Lisia, sostenendo che seppur diverse per lo stile era contro l’interesse dei logografi che

si diffondessero sotto falso nome orazioni non proprie, e che dunque Lisia non lo avrebbe permesso in una

maniera così vasta.

Stile

Lisia non segue schemi precisi nella composizione delle sue orazioni, costanti sono però la semplicità – che

non è mai spontaneità, essendo ogni espressione sempre studiata ad hoc -, che esprime nella chiarezza e

nella fluidità, e la vicinanza alla lingua parlata, per favorire la verosimiglianza, che ottiene usando l’anacoluto

e la metafora. La parte in cui eccelle è la narratio, per cui si pensa al contatto con Erodoto, e la cura della

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profondità psicologica, che ha in comune con Euripide. È presente una forte concezione relativista, che gli

hanno procurato l’accusa di essere un sofista.

Fortuna

Lisia ebbe grande fortuna per il suo stile semplice e fluido, e si rifanno a lui gli atticisti. Cicerone invece gli

preferiva Demostene per la maggior forza d’animo, ma va evidenziata la differenza di genere oratorio

(giudiziario/deliberativo). Quintilliano ne apprezza l’eleganza e la semplicità, lodandone il modo di esporre.

Isocrate

Contesto storico

Dopo il 404 a.C. l’istituzione della πόλις entrò in crisi e con essa l’economia. Il tentativo di restaurazione

democratica (con Efialte) in Attica riuscì ma si rivelò ben presto molto debole: nel 399 a.C. la democratica

Atene condannò a morte Socrate. L’egemonia di Sparta non riesce intanto a sostituire Atene come guida per

la Grecia e nel 386 a.C. con la pace di Antiochia la città dorica venne imposta dalla Persia come capo delle

altre πόλεις, risultando a queste come una pedina nelle mani del nemico.

Nel 381 a.C. con la battaglia di Leuttra Tebe acquisì il ruolo d’egemone, ma non riuscendo a sostenerlo per

l’inadeguatezza culturale, rispetto ad Atene, e militare, rispetto a Sparta, non risolse la mancanza d’unità tra

le πόλεις. Nel 362 a.C. con la morte di Epaminonda nella battaglia di Mantinea termina anche l’egemonia

tebana. Intanto nel 359 a.C. sale al trono macedone Filippo II, che muove guerra alla Grecia vincendola nel

338 a.C. con la battaglia di Cheronea: le πόλεις perdono l’indipendenza. Due anni dopo, nel 336 a.C.

Alessandro Magno realizza il suo progetto di una monarchia universale ed i cittadini greci divengono sudditi.

Vita

Isocrate nacque ad Atene nel 436 a.C. da una famiglia benestante. Figlio di un fabbricante di flauti, Teodoro,

ricevette un’educazione molto accurata. Essendosi la famiglia impoverita per sostenere una liturgia, fu

costretto per un periodo a fare il logografo, professione che abiurerà, Aristotele riporta che le sue orazioni

giudiziarie erano presenti in gran numero sui tavoli dei librai. Alcuni studiosi ipotizzano che le abbia scritte

come modello per i suoi studenti.

Nel 390 a.C. apre una scuola di retorica che ebbe un grande successo, ne furono allievi, tra gli altri, i filosofi

Licurgo ed Iperide e gli storici Eforo e Teopompo. La sua scuola era in polemica con quella di Platone, che

accusava di fare un uso troppo astratto della parola, sostenendo invece che l’eloquenza sia la vera filosofia

che consente di raggiungere l’utile. Platone la considera invece uno strumento che conduce all’inganno.

Anche da un punto di vista politico i due non erano concordi: il filosofo discepolo di Socrate era disilluso da

tutte le forme politiche, l’oligarchia per i trenta tiranni e la democrazia perché gli aveva ucciso il maestro, e

proponeva un utopistico governo dei filosofi; al contrario Isocrate formava i discepoli per una partecipazione

attiva nella vita politica ed appoggiò Filippo II come unificatore della Grecia. Assieme condannavano però

l’oratoria fine a sé stessa, l’eristica, e l’oratoria per fare spettacolo, rifiutavano inoltre l’oratoria giudiziaria,

considerata un’applicazione pratica ma troppo bassa, e i filosofi che indagavano sulla natura.

Nell’ultima parte del Fedro di Platone è presente un elogio ad Isocrate, che ha suscitato tra gli studiosi un

problema se considerarlo effettivamente un plauso del filosofo al grande oratore o piuttosto, in linea con la

filosofica socratica, un’apostrofe ironica. Nel contrasto tra le due scuole prevale quella di Isocrate: i suoi

allievi infatti si inserirono nella politica a differenza di quelli di Platone.

Isocrate era molto ricco, lo sappiamo per un caso di ἀντίδοσις che lo coinvolse nel 356 a.C. e su cui scrisse

un’orazione. Impegnandosi nell’ultima parte della vita in favore della concordia tra i greci, morì nel 338 a.C.

Sulla sua morte sorse una leggenda che lo vuole morto per inedia, pur di non considerarsi suddito di Filippo

II e perdere la propria libertà.

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Opere

Si contano nel corpus isocratico 21 orazioni, 6 giudiziarie, che si pensa potrebbero essere state modelli

scolastici, e 15 epidittiche mai pronunciate ma scritte molto tempo dopo i fatti, e 9 epistole.

Contro i Sofisti (390 a.C.) Contiene le sue idee pedagogiche, ed è il manifesto della scuola isocratea. È

una condanna di quanti insegnano dietro pagamento ad aver successo con la parola, non quindi avendo

come fine l’utile per il governo e della società. Condanna poi gli eristici, che sostengono di poter

raggiungere fama e ricchezza con la parola ma, controbatte Isocrate, non le hanno. Sostiene poi che

l’eloquenza è una qualità naturale che non può essere insegnata ma soltanto affinata. Si batte contro

quanti impongono ai propri alunni di imparare a memoria lunghi schemi già fissi, poiché sostiene che non

è una capacità meccanica, e che l’allievo deve limitarsi a prendere ispirazione dal maestro.

Elogio di Elena (390-380 a.C.) Esercitazione da sottoporre ai suoi studenti, che considera un πάγμιον (in

lat. nuga, un “gioco”) ma che contiene comunque un fine politico e si richiama ai conflitti tra Grecia e

Persia. Prende un precedente elogio di Elena, alcuni pensano quello di Gorgia, e lo analizza come modello

negativo, sostenendo che più che un elogio sia un’apologia, e mostrando come sarebbe dovuto essere

scritto. È contenuta nel testo l’idea isocratica che la δόξα, l’opinione, sia più importante dell’ἐπιστήμη,

la conoscenza assoluta, poiché quest’ultima non è raggiungibile ed è sufficiente la prima per agire nel

χαιρός e raggiungere risultati.

Elogio di Busiride (390-380 a.C.) Citando come modello negativo l’elogio di Busiride di Policrate, traccia

una descrizione positiva del leggendario re egiziano Busiride che sacrificava gli stranieri, sino a che non

fu ucciso da Eracle.

Panegirico (380 a.C.) Si pensa sia stato scritto in dieci-quindici anni e terminato nel 380 a.C. Ovviamente

non destinato alla recitazione immediata, per la distanza dagli eventi, ma alla lettura, imita i discorsi

d’apparato che si tenevano in occasione delle feste Panelleniche, appunto i panegirici, dove si coglieva

l’occasione per presentare messaggi ad una platea “ellenica”. È il discorso più famoso ed amato di

Isocrate, in cui invita a ristabilire la concordia tra le πόλεις sotto l’egemonia ateniese, per il suo passato

glorioso, contro i Persiani, e per il suo indiscusso primato culturale. Viene espressa anche una teoria

letteraria: non è importante il contenuto ma la forma dell’esposizione dei concetti (la retorica); in questo

modo giustifica la ripresa di temi già trattati con nuove forme espositive, per esempio l’elogio di Atene.

Inoltre affermando il concetto di elleno come culturale e non etnico, prepara la strada all’Impero

Alessandrino e all’ellenismo.

Areopagitico (357 a.C.) È un discorso sull’Areopago, che nel 461 a.C. era stato depauperato delle sue

funzioni politiche da Pericle (ma già nel 507 a.C. da Clistene) e ridotto ad un tribunale di sangue. In esso

Isocrate propone di riportare in vigore la πάτριον πολιτείαν di Solone, sostenendo che quello fu un

periodo di grande pace e benessere sociale garantite proprio dall’Areopago a cui, dice, vanno restituiti i

poteri. È un pensiero molto ingenuo quello di poter risanare la società con un ritorno al passato, l’anno

in cui viene scritto è quello della guerra sociale tra Atene e le sue alleate che la accusano di avere

ambizioni imperialistiche. Tornare a Solone significa in effetti impostare la propria economia sulla terra

e non sul commercio, ed è un idea molto conservatrice. Risulta vero il messaggio di fondo che Isocrate

vuole trasmettere: è necessaria una riforma morale che impedisca ad Atene di prevalere sulle altre

πόλεις.

Sulla Pace (355 a.C.) L’orazione tratta del bisogno della pace dopo la guerra tra Atene e le alleate: questo

conflitto ha fatto crollare il sogno di Isocrate di una concordia delle πόλεις sotto la guida attica. Viene

elogiata la Pace e se ne elencano i benefici, primo tra tutti la possibilità di un’azione anti-persiana.

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Ἀντίδοσις (354 a.C.) Nel 356 a.C. Megaclide aveva intentato un processo di ἀντίδοσις ad Isocrate sulla

triarchia (liturgia della trireme). Molti studiosi la considerano un’apologia dell’accusa di essersi arricchito.

Isocrate descrive un processo fittizio, per la lunghezza dell’orazione è improbabile sia stata pronunciata

realmente in tribunale, dove viene accusato da un tale Lisimaco di essere più ricco di lui. Nel testo Isocrate

non approfondisce la questione della ricchezza ma si sofferma sul difendersi dalle accuse di essere un

logografo e soprattutto di corrompere i giovani. Quest’ultima accusa, comune con Socrate, fa trasparire

l’intento da parte del retore attico di identificarsi con il filosofo: è in retorica, sembra sostenere, ciò che

lui è stato in filosofia. Presenta poi un modello di studio, riprendendo i temi pedagogici delle prime

orazioni, per cui la retorica è frutto di disposizione naturale ed esercizio, sui modelli. Ribadisce

l’irraggiungibilità dell’ἐπιστήμη, ma l’allievo saggio, dice, sa agire nel modo migliore in base all’ἐικός.

Infine considera sé stesso come vero filosofo poiché istruisce i governi sul modo di fare politica.

Filippo (340 a.C.) Orazione dal contenuto politico scritta dopo aver abbandonato il progetto di Atene

come egemone, ed individuato in Filippo II l’unico in grado di unificare la Grecia in funzione anti-persiana.

È presente una novità da un punto di vista retorico: il testo non viene infatti presentato come modello

per gli allievi ma si propone di essere un’esortazione in forma di epistola ad un personaggio politico. Il

discorso passa dunque dall’appartenere al genere epidittico (d’apparato) al protrettico (esortativo).

Panatenaico (339 a.C.) Discorso che Isocrate immagina di pronunciare durante le Panatenee. È una sorta

di testamento spirituale, propone un’idealizzazione di Atene, esaltandola proprio poco prima che essa

stia per perdere la libertà. Riprende i temi classici nel suo elogio alla città attica: faro di democrazia,

vittoriosa contro i persiani, ecc. Alcuni ritengono sia una difesa di Isocrate contro l’accusa di essersi

schierato – sostenendo Filippo – contro l’indipendenza delle πόλεις. Risponde poi all’accusa di non aver

preso mai parte attiva alla vita politica, che evitava per le sue difficoltà a parlare in pubblico, sostenendo

di aver in cambio scritto per il bene della collettività. L’orazione si presenta infine originale nella forma:

l’autore racconta di averla sottoposta in fase di correzione ad un suo ex-allievo filo-spartano,

quest’aneddoto, fittizio, vuole simboleggiare un’apertura di Isocrate al dialogo.

Epistolario Composto di nove lettere non ne conosciamo la natura: se fossero reali, fittizie o modelli

scolastici.

Uno dei problemi più frequenti per gli studiosi nell’approcciarsi alle orazioni di Isocrate è quello della

datazione, non essendo state scritte per una particolare occasione ma essendo frutto di riprese e

rielaborazioni successive. Ciò è anche frutto di una sua precisa scelta letteraria: la riflessione, sostiene, è

possibile solo a posteriori e non nell’immediato, per questo non partecipa agli eventi pubblici e politici. Ma

nonostante questo non si pensi che le sue orazioni non abbiano avuto rilevanza sulla cosa pubblica: Isocrate

ha in mente una politica di ampio respiro, non legata al particolare, e de facto la sua opera ha poi un seguito

storico (quasi fosse un’analista ante litteram); il panegirico preannuncerà in qualche modo la costituzione

della seconda lega marittima guidata da Atene, e la guerra contro i Persiani sarà ripresa da Filippo e

Alessandro.

Pensiero Politico

Isocrate era molto attento alla sua immagine pubblica ed i cenni autobiografici presenti nelle sue opere

tendono ad esaltarne i lati positivi. Su alcuni eventi (trenta tiranni, egemonia di Sparta, ecc.) non lascia

opinioni, mentre su altri si mostra di posizione conservatrice: è il caso della reintroduzione dell’areopago e

della restrizione dell’elettorato attivo. Si pensa avesse posizioni vicine a quelle di Teramene (conservatore

filo-oligarchico moderato), ma ciò non combacia con quanto sostenuto in favore del panellenismo e di

Filippo. Le differenze si potrebbero però risolvere considerando l’anacronismo ed il carattere fittizio delle sue

orazioni: Isocrate non voleva incidere nel presente ma – come già detto – pensava ad una politica di ampio

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respiro, ed i suoi discorsi servivano non tanto ad incidere sulla realtà a lui contemporanea ma a costruire

un’immagine ricercata di sé e della sua scuola. La realizzazione di parte delle sue idee (cfr. Panegirico) non

era stata probabilmente calcolata.

Di fronte alla crisi della πόλις non propone una soluzione immediata, né vi è una certezza politica, ma solo

culturale: ciò che conta per sopravvivere agli eventi, sembra voler sostenere, è la cultura, la sua scuola di

retorica, la considerava un κτῆμα ἐς ἀεί5.

Pensiero pedagogico

Alla base del programma educativo di Isocrate c’è il concetto che la politica sia una τέκνη, un’arte insegnabile.

L’esercizio della virtù, che è lo scopo della pedagogia isocratica, non deve però essere fine a sé stesso ma

volto a sostenere la propria posizione o all’utile della società. Anche nella vita quotidiana – sostiene il retore

– per raggiungere il successo non conta avere la conoscenza assoluta, ma bisogna avere la giusta opinione

(δόξα) di un dato fatto al momento opportuno (χαιρός). L’obbiettivo della scuola non era quello di formare

semplicemente politici, ma uomini d’affari, ed in generale che sapessero usare l’oratoria per raggiungere il

successo. Nel suo programma educativo viene data una particolare attenzione alla scrittura, non trascura

l’etica e la politica, giacché l’oratore doveva essere un vir bonus dicendi peritus, e presta particolare

attenzione alla forma alla ricerca della perfezione formale.

Stile

Isocrate scrive in dialetto attico puro e mette in atto un vero e proprio culto della forma, della ricercatezza e

dell’armonia. Non essendo un’orazione agonistica ma epidittica, destinata alla lettura, rientra nel genere

della γραφική λέξις dove particolare attenzione viene data alla cura della sintassi. Sono così assenti asintoti,

iati, ripetizioni o espedienti retorici che avrebbero colpito l’uditorio, e pur essendo stato allievo di Gorgia non

utilizza i brevi cola che caratterizzano la scrittura del sofista. L’organizzazione del suo periodo è scientifica,

austera come l’etica che propone. Il difetto dello stile isocratico è la freddezza e l’assenza di guizzo presente

invece in Demostene.

Fortuna

In età alessandrina Isocrate venne considerato alla stregua degli altri oratori, essendosi appiattite le

distinzioni tra generi dell’oratoria e si perde la caratteristica della sperimentazione che non viene carpita e fu

considerato alla stregua degli altri retori.

Demostene

Contesto

Nella seconda metà del IV secolo a.C. era prassi comune riutilizzare i discorsi, sia deliberativi che giudiziari,

con scopi politici o scolastici. Nell’oratoria del tempo coesistevano infatti l’improvvisazione con la recitazione

in assemblea previa scrittura, o talvolta, come nel caso di Isocrate, completamente scritti. La scrittura era in

effetti una pratica diffusa: l’oratore poteva servirsi dunque tanto della parola detta che di quella scritta,

quest’ultima richiede una maggior attenzione alla γραφική λέξις e alla presentazione retorica al pubblico.

Nella politica gli esponenti più importanti non diffondevano per iscritto i propri discorsi (oratoria

deliberativa): nel V secolo a.C. per non essere scambiati come sofisti (es. Temistocle, Pericle), e nel IV secolo

a.C. per non rischiare di essere accusati di illegalità6. I discorsi che abbiamo ci sono giunti o per tradizione

indiretta, riportati dagli storici (es. Tucidide), o poche demagorie (discorsi in assemblea) attribuibili più che

altro a politici minori, tra cui Demostene.

5 «Un possesso per sempre», come Tucidide definiva la sua Storia del Peloponneso. 6 Delitto contro lo stato, in realtà ogni cosa che potesse essere ritenuta pericolosa per la πόλις, punito con l’esilio o la pena capitale.

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Vita

Demostene nasce nel 384 a.C. ad Atene da una famiglia molto ricca, il padre era un fabbricante di armi e la

madre una sciita, ma quest’ultima potrebbe essere una diceria per insinuare non fosse ateniese. Alla morte

del padre il patrimonio dell’undicenne Demostene fu sperperato dai suoi tre tutori, cui il retore intenterà una

causa vincendo, come desumiamo dall’orazione Contro Alfonso, uno di loro. Lo stile di quest’orazione

sembrerebbe vicino al logografo Iseo, cui forse si era rivolto Demostene, che la tradizione riconosce come

suo allievo, o lo aveva imitato. Demostene vince la causa e si riappropria dell’ingente patrimonio e, secondo

la tradizione, il successo lo spinse ad intraprendere la carriera di logografo. Le caratteristiche del suo stile in

questo periodo sono l’efficacia espressiva (icastica), la capacità di persuasione e l’argomentazione limpida.

Demostene ricevette, per la natura del suo patrimonio, la liturgia della trireme che accettò per farsi notare e

lo rese trierarca. Nel 359 a.C. scrisse un’orazione deliberativa che pronuncia in assemblea per chiedere la

corona trierarchica, per aver costruito a suo dire la flotta migliore in occasione della battaglia dell’Ellesponto.

Si raccontano dell’oratore molti aneddoti: pare che fu grande lettore di Tucidide, da cui riprende il concetto

di τύχη, e che per allenarsi nella dizione e nell’oratoria usasse recitare discorsi correndo o tenendo in bocca

alcuni sassolini.

Nel 354 a.C. presenta in assemblea la prima demegoria7 in cui propose di allargare il numero di cittadini

costituenti le simmorie8 essendosi diffusa la voce di un imminente attacco persiano.

Politica e orazioni

In un primo momento Demostene era vicino alla linea moderata di Eubulo, che appoggiava il rafforzamento

della flotta ma non un’azione militare. Nel 352 a.C. recita la περἱ μέγαπολιτάνι in cui propone un intervento

contro Sparta al fianco dei Megapolitani. Nello stesso anno recita l’orazione Per la libertà dei Rodi, in cui

propone un intervento al fianco della popolazione rodia ribelle al principe persiano Mausolo, sostenendo che

là dove la democrazia viene messa in pericolo Atene deve intervenire, e avvicinandosi così a posizioni

democratiche interventiste. Fallisce in entrambe le occasioni, forse per l’influenza delle posizioni di Eubulo.

Quando nel 351 a.C. Filippo inizia ad espandersi in Tracia, dopo aver conquistato Anfipoli, dove stavano le

miniere d’oro degli ateniesi e controllando così il tesoro leontino, Demostene pronuncia la prima orazione

filippica in cui chiede ad Atene di rinforzare il proprio esercito ed allearsi con la Persia in funzione anti-

macedone. L’oratore prendendosela con i cittadini li accusa di inerzia, sostenendo che è la non reattività dei

popoli conquistati ad essere la vera forza di Filippo. L’esortazione agli ateniesi propone provvedimenti

concreti: rinforzare l’esercito cittadino, limitare i dibattiti in assemblea che rallentano l’azione e sfruttare le

ingenti risorse che la città possiede. L’orazione non sortisce gli effetti sperati essendo Atene per lo più filo-

macedone, sotto la guida del partito di Eubulo, e Filippo riesce così ad avanzare in Grecia sino alle Termopili.

Demostene nel 349 a.C. scrive tre orazioni (le Olintiache) perché Atene intervenga ad Olinto, assediata dai

Macedoni, l’assemblea boccia l’intervento e la città alleata viene rasa al suolo da Filippo nel 348 a.C. Dopo

questo evento eclatante Eubulo tenta senza successo di costituire una lega panellenica antimacedone. Nel

347 a.C. viene mandata a Filippo un’ambasceria formata da Eschine, dallo stesso Demostene e da altri, ma in

quest’occasione il retore non dice nulla.

Nel 346 a.C. la stessa ambasceria torna da Filippo per ratificare la Pace di Filocrate, dal nome del negoziatore

straniero, che cede a Filippo la supremazia sull’anfizionia delfica. Demostene scrive un’orazione esprimendo

il suo profondo disaccordo: la pace – sostiene – è una tregua per poter riorganizzarsi e reagire militarmente.

7 La prima che potrebbe essere considerata tale per l’obbiettivo politico, anche se in effetti già quella del 359 a.C. era tecnicamente una demegoria. 8 Gruppi di contribuenti che finanziavano la costruzione di parte della flotta navale, che Demostene volle fossero composte ciascuna da 60 cittadini che pagassero per 15 navi.

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La seconda filippica è datata 344 a.C. ed è costituita dall’accusa di Demostene a Filippo di aver tradito a più

riprese il trattato di pace. Non se la prende solo con il macedone ma anche con i cittadini: denuncia la

presenza ad Atene di un partito filo-spartano e filo-macedone.

Atene tenta di rivendicare Anfipoli ma Filippo temporeggia per aumentare la sua potenza militare e tentare

un attacco in Attica. Demostene scrive un’altra orazione, questa giudiziaria, Sulla corrotta ambasceria

riferendosi a quella che portò alla pace di Filocrate, in cui accusa Eschine, oratore suo avversario, vicino alle

posizioni moderate di Eubulo, di essere corrotto e di aver favorito le mire espansionistiche di Filippo.

Sostenne che la trattativa fu condotta con dolo lentamente, furono impiegati cinquanta giorni dalla partenza

da Atene. Non avendo prove Eschine fu assolto per pochi voti.

Nella terza filippica, del 341 a.C., Demostene sostiene che Atene debba armarsi contro i Macedoni e

fermarne l’espansionismo, proponendo alle altre πολέις di formare una lega panellenica. La quarta filippica,

dello stesso anno, è ritenuta dalla maggior parte dei critici un unione di più brani formata da un editore antico

ma più tardo.

Nel 388 a.C. si formò la lega panellenica e combatté contro i Macedoni a Cheronea. Demostene vi partecipa

come oplita ma scappa dalla battaglia, di ciò verrà accusato da Eschine. Atene incarica Demostene di scrivere

l’epitafio per i caduti, riconoscendogli il merito di aver difeso la patria.

Nel 337 a.C. iniziò un processo tra Eschine e Demostene: un amico di quest’ultimo, Ctesifonte, aveva

proposto di decorare l’autore delle filippiche con una corona onorifica durante le Grandi Dionisiee, ma

Eschine si oppose sostenendo – a ragione – che il diritto attico non prevedeva la decorazione per magistrati

ancora in carica9 ed accusa l’avversario riguardo l’operato politico. Il processo si tenne nel 330 a.C., prima

interrotto dalla situazione internazionale, Demostene rispose alle accuse di Eschine10 con la sua più famosa

orazione: Sulla Corona, che potrebbe essere considerato il suo testamento spirituale. In essa l’oratore

sosteneva la sua scelta politica in difesa della libertà e della democrazia e, pur sapendo che la storia non gli

avrebbe dato ragione, per coerenza avrebbe dovuto perseguire ciò in cui credeva. Demostene vinse il

processo ed Eschine, cui la storia darà pur ragione, non ricevette neanche il minimo dei voti!

Intanto nel 336 a.C. con la morte di Filippo il partito di Demostene si era ripreso, anche grazie a dei soldi

giunti dalla Persia. Ma il tentativo di riorganizzare la lega panellenica fu stroncato da Alessandro Magno, che

rase al suolo in maniera violenta Tebe, episodio che fu deterrente per tutte le città greche.

Nel 324 a.C. giunse ad Atene il tesoriere di Alessandro Magno a Babilonia, Arpalo, mentre il condottiero si

trovava in una spedizione in India. L’uomo era in fuga dal Gran Re perché, durante la sua assenza, gli aveva

sperperato tutto il patrimonio: quando giunse la notizia del suo ritorno decise di fuggire ad Atene, certo

dell’appoggio del locale partito anti-macedone, ed avendo ricevuto la cittadinanza onoraria per aver aiutato

la πόλις durante una carestia. Alessandro Magno ne pretese l’estradizione che fu negata da Atene con la

promessa che avrebbero custodito il prigioniero, che in realtà scappò a Creta dove trovò la morte. Il tesoro

però risultò dimezzato e Demostene fu accusato con gli altri anti-macedoni di averlo rubato. A condurre

l’accusa fu l’oratore Iperide che riuscì ad ottenerne una condanna ad una multa di cinquanta talenti, per

sfuggire la quale fugge per stanziarsi a Trezene (Corinto). La pena viene annullata e può tornare in patria.

Nel 323 a.C., alla morte di Alessandro Magno, Demostene sobilla la popolazione alla ribellione anti-

macedone, ma il diadoco Antipatro sconfigge la città in Tessaglia nel 322 a.C. e chiede l’esecuzione dei capi

della fazione che ha proposto la rivoluzione. Demostene si rifugia nel santuario di Poseidone in Calauria dove

si dà la morte con un potente veleno ai piedi dell’altare. La sua memoria fu onorata ad Atene, ed i suoi

familiari furono accolti nel Pritaneo.

9 Demostene ricopriva una magistratura legata alle mura della πόλις. 10 Che erano state formulate nell’orazione Contro Ctesifonte

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Opere

Nel corpus demostenico figurano 61 discorsi, di cui 42 giudiziari (alcuni apocrifi e attribuiti ad Apollodoro,

altri sospetti spurie, sono sicuri solo quelli che lo riguardano in prima persona), 17 demegorie e 2 orazioni

epidittiche (elogio per i morti di Cheronea e l’Erotico, spurio). Inoltre vi sono 56 brani che parte della critica

chiama proemi (ovvero esordi): alcuni ritengono fossero prime parti di discorsi incompleti, altri che fossero

stati scritti per adattarsi all’occorrenza ad ogni situazione ne richiedesse uno. Il proemio, si consideri in ogni

caso, era la parte cui Demostene teneva di più, perché doveva catturare l’attenzione. Infine vi sono 2 epistole,

di stile apologetico, forse scritte durante il periodo dell’esilio nel tentativo di rientrare, ma comunque molto

incerte.

Nell’approcciarsi al corpus di Demostene si pone il problema della corrispondenza tra ciò che possediamo

scritto e ciò che effettivamente l’oratore abbia detto, era infatti solito rimaneggiare i discorsi in base

all’efficacia che essi avevano sulla folla. Per esempio siamo certi di una doppia redazione della terza filippica,

a tratti troppo violenta, e si dubita che l’orazione Sulla Corona sia stata effettivamente pronunciata, per la

lunghezza. Sorte che condividerebbe con diverse orazioni: la Midiana, contro il facoltoso Midia che aveva

preso a schiaffi Demostene quand’era corego, ed i proemi. Notiamo infine che le orazioni delle origini erano

generalmente più curate, forse proprio perché destinate all’esordio.

Pensiero

È assente in Demostene – così come anche in Isocrate – il concetto di nazione greca: le πολέις erano unite

da una stessa identità culturale. Per quanto riguarda la politica interna Demostene sostiene l’autorità

dell’areopago e ricerca l’equilibrio sociale, è un aristocratico che opera con i mezzi della democrazia per poter

esercitare il proprio potere sulle masse. È anche filantropo e vicino ai poveri – in maniera simile a quanto farà

a Roma Seneca – ma non intende stravolgere gli equilibri sociali, né tanto meno abolire, come teorizza invece

Platone, il concetto di proprietà privata.

In politica estera sostiene la grandezza d’Atene, perseguendo in qualche modo un’ideale nostalgico. Per

questo motivo lo storico ottocentesco Johann Gustave Droysen accusò Demostene di una certa miopia per

non aver compreso che il futuro della Grecia era Filippo, anche se in realtà nell’orazione Sulla corona l’oratore

chiarisce di essere consapevole di quale destino attende l’Ellade, ma di dover perseguire la sua linea politica

per una questione di coerenza. In effetti Filippo non perseguiva, probabilmente, una politica espansionistica

già all’epoca della prima filippica, ma tentava piuttosto di rafforzare i propri confini nel Cheroneso e in Tracia.

Non ci è dato però sapere se Demostene avesse frainteso quest’intento e temeva un attacco macedone o se

piuttosto enfatizzò gli avvenimenti per sollecitare una reazione ateniese. Similmente non ci è dato di sapere

se la denigrazione contro Filippo fosse volontaria o “strategica”.

Mentre Isocrate proponeva origini greche mitiche per Filippo, discendente di Eracle, Demostene ne

sottolinea la natura di semi-barbaro rispetto al popolo greco, ed a coronare questa sua posizione di distanza

e differenza con il macedone assume un senso particolare l’estremo suicidio per non cadere in mano del

nemico, per morire cittadino.

Lingua e stile

I discorsi politici, le demegorie, non possiedono una struttura fissa come le orazioni giudiziarie, non essendo

tra l’altro necessaria una continuità logica tra le parti, il che porta anche a molte aggiunte a braccio. Le parti

più curate da Demostene sono l’esordio, per catturare l’attenzione dell’uditorio, e l’epilogo, in cui l’arringa

non assume mai toni violenti ma quasi rassicuranti.

Particolarmente apprezzabile era la δεινότες, l’incalzante tecnica retorica di Demostene, segnalata anche da

Dionigi d’Alicarnasso. Le orazioni erano studiate per ottenere un risultato, la tecnica era quasi teatrale e non

sono assenti dei veri e propri momenti di dialogo con l’uditorio.

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La lingua utilizzata era un attico-puro con doricismi e vocaboli poetici, per ottenere l’attenzione del pubblico.

Il lessico molto semplice ed immediato, fa largo uso di luoghi comuni che – riporta Aristotele – erano

particolarmente apprezzati dal pubblico perché vi si ritrovava, ed il coinvolgimento emotivo era proprio uno

degli obbiettivi dell’oratore.

Tra le altre tecniche utilizzate segnaliamo la contrapposizione di due posizioni inconciliabili tra loro e la

proposizione di una terza via; un attacco immediato nel discorso, o lo stile aporetico, consistente nel

descrivere dapprima una situazione particolarmente spinosa e proporre una soluzione al problema.

Fortuna

Dopo la sua morte ai suoi familiari furono concessi grandi onori ai suoi familiari, ammessi persino nel

Pritaneo, e fu ricordato come un eroe difensore della democrazia. Fu ammirato a Roma da Cicerone, come

riporta Plutarco, da cui prese ispirazione per le sue filippiche. Nel XV secolo d.C. il cardinal Bessarione lo

propose come modello di difesa della patria da adottare nel difendere l’Europa dai Turchi. Agli inizi del XIX

secolo fu citato dallo storico tedesco Barthold Georg Niebuhr contro Napoleone, verso il quale pure scrisse

una filippica. La sua fama ininterrotta, rende Demostene l’indiscusso campione dell’oratoria deliberativa.

Realizzato il 22/10/2015 per Sapere Aude! (gscatullo.altervista.org), da Paolo Franchi, 5BC (A.S. 2015/2016)

basandosi sulle spiegazioni della prof.ssa Angela Preziosi.

AMDG