La costruzione del vocabolario filosofico Attraverso i ...
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Riccardo Saccenti Università degli Studi di Bergamo
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Università degli studi di Bergamo
Corso di storia della filosofia medievale
a.a. 2020/2021
La costruzione del vocabolario filosofico
Attraverso i commenti medievali a Metafisica Δ
Dispense
Prof. Riccardo Saccenti
Riccardo Saccenti Università degli Studi di Bergamo
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Riccardo Saccenti Università degli Studi di Bergamo
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Sommario Nota introduttiva .................................................................................................................................................................... 4
Metafisica: un libro e una disciplina ....................................................................................................................................... 5
Arnolfo di Provenza, La divisione delle scienze (c. 1250) ...................................................................................... 6
Tommaso d’Aquino, Commento alla Metafisica, Prologo ............................................................................... 8
Principio ................................................................................................................................................................................... 10
Averroè, Commento grande alla Metafisica, lib. V, tr. 1 ..................................................................................... 11
Tommaso d’Aquino, Commento alla Metafisica, lib. V, lect. 1. ....................................................................... 13
Giovanni Duns Scoto, Questioni sulla Metafisica, q. 1: Se il fine sia principio e causa. .......................... 16
Giovanni di Jandun, Questioni sulla Metafisica, q. 2: Sul primo significato di principio ........................ 18
Causa ........................................................................................................................................................................................ 20
Averroè, Commento alla Metafisica, lib. V, tr. II .................................................................................................. 21
Tommaso d’Aquino, Commento alla Metafisica, lib. V, lect. 3 ........................................................................ 22
Natura....................................................................................................................................................................................... 26
Tommaso d’Aquino, Commento alla Metafisica, lib. V, lect. 5. ...................................................................... 27
Uno ........................................................................................................................................................................................... 31
Tommaso d’Aquino, Commento alla Metafisica, lib. V, lect. 7 ........................................................................ 32
Essere ....................................................................................................................................................................................... 37
Tommaso d’Aquino, Commento alla Metafisica, lib. V, lect. 9 ........................................................................ 38
Giovanni Duns Scoto, Questioni sulla Metafisica, lib. V, qq. 5-6 .................................................................... 42
Relazione .................................................................................................................................................................................. 47
Tommaso d’Aquino, Commento alla Metafisica, lib. V, lect. 17 ...................................................................... 48
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Nota introduttiva
La presente dispensa intende offrire una raccolta di testi tratti da alcuni commenti alla Metafisica
aristotelica del XIII e primo XIV secolo. Il testo di riferimento, che fa da ossatura alla dispensa, è
rappresentato dal Commento alla Metafisica di Tommaso d’Aquino, a cui sono accostati, di volta in volta,
passi del Commento grande di Averroè, di quello per questione di Giovanni Duns Scoto o di Giovanni di
Jandun.
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Metafisica: un libro e una disciplina
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Arnolfo di Provenza, La divisione delle scienze (c. 1250)
È da sapere che fra le definizioni di filosofia alcune la considerano dal punto di vista del nome, altre dal
punto di vista dell’oggetto e dell’essenza.
Dal punto di vista del nome si pongono quattro definizioni, come è scritto nel libro Delle seconde lettere di
Seneca, la prima delle quali è questa: «La filosofia è l’amore della sapienza», composta da philos, cioè
‘amore’, e sophia, <cioè> ‘sapienza’. La seconda è: «La filosofia è amore della retta ragione». La terza è:
«La filosofia è lo studio della virtù». La quarta è: «La filosofia è lo studio della mente da correggere».
Anche dal punto di vista dell’oggetto la filosofia è definita in molti modi. Una sua definizione sembra
esser data da Calcidio, cioè questa: «La filosofia è la conoscenza certa delle cose che esistono e appaiono
e delle cose che esistono e non appaiono», cioè delle realtà visibili e invisibili. La seconda si trova nel libro
Sulla divisione della filosofia, ed è tale che: «La filosofia è conoscenza certa delle realtà divine e umane». E
questa viene stabilita nel modo più pieno e compiuto da Isidoro nel terzo libro delle Etimologie, dove
aggiunge: «La filosofia è conoscenza certa delle cose divine e umane, etc., legata allo studio del ben vivere».
Isidoro pone una terza definizione nel terzo libro delle Etimologie: «La filosofia è la scienza delle scienze,
l’arte delle arti»; e questa definizione sembra esser data a causa dell’eccellenza nel paragone con la
metafisica e altre discipline di questo genere. La quarta definizione di filosofia è quella data da Isaac: «La
filosofia è assimilazione dell’uomo alle opere del Creatore secondo la capacità dell’umanità»; attraverso la
filosofia, infatti, sono acquisite le scienze e le capacità con cui, per quanto possibile, l’uomo è assimilato
al Creatore. Una quinta definizione si trova nel libro Delle cinque essenze, ed è: «La filosofia è l’ordine
adeguato all’anima». La sesta si trova nel libro Delle definizioni di Isaac: «La filosofia è la conoscenza di sé
stesso che ha l’uomo»; perché, se l’uomo conoscesse perfettamente sé stesso, nella misura in cui è
composto dalla sostanza spirituale e corporea sotto le quali sono contenute tutte le cose, in un certo senso
conoscerebbe in sé stesso tutte le cose. La settima definizione è data da Platone e riportata da Isidoro,
cioè questa: «La filosofia è cura, studio e preparazione della morte», cioè mortificazione dei desideri
carnali. L’ottava è detta da Albino, che dice: «La filosofia è ricerca delle nature, conoscenza delle cose
umane e divine, per quanto all’uomo è possibile giudicare».
In realtà, poiché la filosofia talvolta è considerata come sapienza o come scienza o viceversa, come se i
due termini fossero sinonimi, occorre valutare la loro differenza. La quale Seneca pone nel libro Delle
seconde lettere. Dice infatti che la filosofia e la sapienza differiscono come l’avarizia e il denaro: la filosofia
brama e desidera, la sapienza è bramata e desiderata. Scienza, invece, è una disposizione dell’intelletto
speculativo in senso assoluto; dunque quelle due si aggiungono rispetto al desiderio e alla brama. Tuttavia,
poiché non può darsi sapienza senza le altre cose, allora il termine filosofia si estende alla sapienza e anche
alla capacità, e il termine scienza ugualmente si estende alle altre cose. Invece le predette definizioni reali
di filosofia si assegnano sotto il nome della stessa.
<Divisione della filosofia>
Visto che modo si intende la filosofia sul piano della definizione, è da prendere in esame in che modo la
si comprende quanto alla sua divisione interna. Vi è una modalità molteplice di dividerla: una comune e
un’altra propria secondo quel Aristotele dice nel sesto libro della Metafisica.
Da un punto di vista comune la filosofia si divide in speculativa e pratica. Avicenna però dice, all’inizio
del proprio libro, che ogni scienza può esser divisa in questo modo e l’intelletto può esser detto pratico
e speculativo e viceversa, perché l’intelletto speculativo indaga le cause del vero e opera talvolta
sillogizzando; ugualmente l’intelletto pratico, sebbene sia chiamato ‘operativo’, nondimeno indaga le
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cause del bene. Da ciò segue che in un qualche modo ogni scienza può esser chiamata speculativa e
pratica, ma una è chiamata speculative per antonomasia e un’altra pratica per antonomasia: ‘pratica’, quella
che insegna a agire secondo virtù e a fuggire i vizi; ‘speculativa’, quella che consiste nell’indagare le cause
del vero.
Il modo proprio di dividere la filosofia secondo Aristotele, nel sesto della Metafisica, è questo: fra i tipi di
filosofia, uno è essenziale e un altro accidentale. I tipi essenziali di filosofia sono tre: naturale, matematico
e divino; mentre il tipo accidentale di filosofia è ognuno che si occupi delle questioni umane, ad esempio
i discorsi, le virtù e i vizi. Di queste cose, infatti, vi sono tipi di filosofia accidentali.
In un altro modo, però, dal punto di vista delle cose di cui si occupa, si è soliti dividere la filosofia
considerata in senso assai ampio rispetto ad ogni scienza mediante la quale si rimuove il bisogno o il
difetto della creatura umana, e in questo modo la scienza si divide in meccanica e liberale. E le parti di
questa divisione sono considerate secondo i principi dell’uomo che sono l’anima e il corpo, dal punto di
vista dei quali la creatura umana è soggetta a molti difetti e bisogni, come un poco si è accennato nelle
questioni antecedenti. Tuttavia, mediante l’arte meccanica si offre aiuto alla creatura umana rispetto ai
difetti e ai bisogni che vengono dal lato del corpo; invece, mediante la parte liberale della filosofia, si offre
aiuto ad essa dal punto di vista dei difetti che vengono dal lato dell’anima, cioè quanto alle scienze e alle
virtù.
<La filosofia prima o metafisica>
La filosofia prima o metafisica è quella che è tramandata da Aristotele nel libro della Metafisica, come si è
detto, e si divide secondo i 11 libri in essa contenuti o in ragione della valutazione delle cause e dei principi
primi dell’ente e delle sostanze corporee e incorporee di cui si tratta in quest’opera; la specificazione delle
quali tematiche viene qui omessa per la lunghezza.
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Tommaso d’Aquino, Commento alla Metafisica, Prologo
Così come insegna il Filosofo nella Politica, quando alcune cose molteplici sono ordinate in direzione della
loro unità, è necessario che una di esse dia le regole e guidi tanto le altre cose di per sé ordinate, quanto
le cose guidate. Ciò si manifesta nell’unione dell’anima e del corpo; infatti l’anima naturalmente comanda
e il corpo obbedisce. Analogamente, anche tra le forze dell’anima le cose irascibili e concupiscibili sono
rette per mezzo della ragione, secondo l’ordine naturale.
Invece tutte le scienze e le arti sono ordinate in direzione della totalità, appunto alla perfezione dell’uomo,
cioè la beatitudine. Da ciò è necessario che una cosa tra queste sia guida rispetto a tutte le altre, quella
che rivendica giustamente il nome di sapienza. Infatti è proprio dei sapienti ordinare gli altri uomini.
Quale sia questa scienza, e di che cosa si occupi, può essere diligentemente osservato, se si presta
attenzione al modo in cui qualcuno è idoneo a reggere lo stato. Infatti, il Filosofo afferma, nel libro
sopraccitato, che gli uomini con l’ausilio dell’intelletto sono naturalmente padroni e signori sugli altri;
come, ad esempio, quegli uomini che sono robusti di corpo, ma difettano di intelletto sono naturalmente
servi; così la scienza che deve essere naturalmente regolatrice di tutte le altre, è quella che è massimamente
razionale, ossia quella che è massimamente indirizzata alle cose conoscibili in modo assoluto.
Possiamo considerare le cose massimamente intelligibili in tre modi. In primo luogo, a partire dall’ordine
del conoscere; infatti dalle cose di cui l’intelletto esige la certezza, sembrano derivare le cose
massimamente intelligibili. Dal momento poi che la certezza della scienza viene acquisita dalle cause,
attraverso le cause la conoscenza di queste sembra essere massimamente razionale. Perciò quella scienza,
che considera le cause prime, sembra essere massimamente regolatrice rispetto alle altre.
In secondo luogo, possiamo considerare le cose massimamente intelligibili comparando l’intelletto con il
senso. Infatti, poiché il senso conosce le cose particolari, l’intelletto sembra differire da questo, in quanto
comprende gli universali. Perciò è massimamente razionale quella scienza che si occupa dei principi
massimamente universali. Questi, a loro volta, sono l’ente e le cose che ne conseguono, come l’uno e i
molti, la potenza e l’atto. Poi non debbono esserci cose indeterminate nel dominio degli universali, poiché
non potrebbe aversi una conoscenza di quelle cose, che sono proprie di altro genere o specie. Né devono
essere trattate in una qualche scienza particolare, giacché ogni genere dell’ente richiede una conoscenza
specifica, cosicché in ogni scienza particolare la conoscenza viene cercata con egual ragione. È chiaro
perciò, che si tratta di una scienza universale, che, in quanto è massimamente razionale, è regina e
regolatrice di tutte le altre.
In terzo luogo, si procede dalla stessa conoscenza dell’intelletto. Infatti, poiché ogni cosa riceve la forza
intellettiva da questo stesso, che è immune dalla materia, è necessario che siano massimamente intelligibili
quelle cose che sono massimamente separate dalla materia. Infatti l’intelligibile e l’intelletto devono essere
proporzionati e di un genere unico, in quanto l’intelletto e l’intelligibile in atto sono una sola cosa. E, in
verità, sono massimamente separate dalla materia quelle cose che, non solo astraggono dalla materia
significata, come per esempio le forme naturali, comprese in modo universale, di cui tratta la scienza
naturale, ma anche quelle cose separate dalla materia sensibile. E non solo secondo la ragione, come gli
enti matematici, ma anche secondo l’essere, come Dio e le intelligenze. Perciò la scienza che tratta di
queste cose, sembra essere massimamente razionale e dominante rispetto alle altre.
Questa triplice considerazione non deve essere attribuita alle diverse scienze ma ad una sola. Infatti le
suddette sostanze separate sono universali e sono le cause prime dell’essere. Proprio di questa scienza è
considerare le cause proprie di qualunque genere e il genere stesso, così come la scienza naturale considera
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i principi del corpo naturale. È necessario perciò che questa scienza consideri le sostanze separate e l’ente
comune, che è un genere del quale sono predicate le sostanze universali e le cause universali.
Da ciò si deduce che questa scienza, anche se considerata nei tre modi esposti, non tuttavia considera
qualcuno di essi come un soggetto a parte, ma solo lo stesso essere comune che è il soggetto della scienza
di cui cerchiamo le cause e le proprietà, non però le cause medesime di un qualche genere. Infatti la
conoscenza delle cause di un qualche genere è un fine al quale l’osservare della scienza aspira, ma, benché
il soggetto di questa scienza sia l’ente comune, si dice tuttavia per intero di quelle cose che sono separate
dalla materia secondo l’essere e la ragione, poiché, secondo l’essere e la materia si dicono separabili, non
solo quelle cose che in nessun modo possono essere nella materia, come Dio e le sostanze intelligibili,
ma anche quelle cose che possono essere senza materia come l’ente universale. Questo sarebbe
impossibile se dipendessero dalla materia secondo l’ente.
Secondo le tre modalità indicate più sopra da cui ci si attende la perfezione di questa scienza, sono sorti
tre nomi. Infatti viene detta scienza divina o teologia, in quanto considera le sostanze soprannominate,
metafisica, in quanto considera l’ente e quelle cose che ne conseguono. Queste cose che trascendono il
mondo fisico, sono sulla via della loro risoluzione, così come ciò che è più universale viene dopo ciò che
è meno universale. Viene infatti nominata filosofia prima, in quanto considera le cause prime delle cose.
È così chiaro quale sia l’oggetto di questa scienza, quale sia la relazione con le altre scienze, e quale nome
le si debba assegnare.
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Principio
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Averroè, Commento grande alla Metafisica, lib. V, tr. 1
<Inizio>
In questo trattato Aristotele intende distinguere i significati dei nomi secondo le intenzioni che devono
essere prese in considerazione in questa scienza. E tutti questi nomi si predicano in relazione a un qualche
uno, ma in modi diversi. Perciò l’esame di questi nomi è parte integrante di questa scienza; non al modo
in cui la consuetudine si trova nella scienza naturale, cioè nei termini di un esaminare i nomi nella
questione a cui queste cose pertengono, dal momento che la distinzione dei nomi lì venne articolata solo
per distinguere l’intenzione investigata a partire da un’altra intenzione; in questo caso invece viene
sviluppato per enumerare quelle cose delle quali questa scienza si occupa. Dunque, in questo caso la
valutazione dei nomi riguarda il genere di valutazione nei sensi del soggetto che questa scienza prende in
esame. Per questo è allora necessario che la valutazione sia posta di per sé. E dal momento che questo
era sfuggito a Nicola <di Damasco>, egli sosteneva che l’ordine migliore in questa scienza è esporre il
nome rispetto alla valutazione dell’intenzione di quel nome, non in modo che si stabilisca la parte di
questa scienza in sé. Come la disposizione e l’ordine dei discorsi logici in questa scienza gli era sfuggito,
come abbiamo detto nel trattato B. E poiché questa scienza in senso primo e precipuo prende in esame
i principi dell’ente in quanto ente, Aristotele inizia a distinguere in quanti modi si predica ‘principio’, così
che rende chiaro per primo quello in ragione del quale questo nome si rivolge ad altre cose. E poiché
l’inizio è a partire dal principio, Aristotele separò l’inizio in luogo del principio e affermò: Si chiama inizio
etc., cioè: e quello da cui ebbe inizio il mutamento, che si chiama principio, si predica in molti modi.
Infatti, si chiama così quello da cui prese inizio il moto locale in senso longitudinale, e allo stesso modo
si dice che l’inizio del moto di accrescimento per prima cosa passa dalla grandezza alla lunghezza, poi
all’altezza, poi alla profondità. Dice poi Aristotele: E si dice anche etc., cioè: e l’inizio del mutamento da cui
origina non sarà da ciò che è principio di quella cosa ma da ciò da cui più facilmente trae origine, come
ad esempio il principio della dottrina. Nelle scienze infatti l’inizio è altro rispetto a ciò che è il principio
nella verità della cosa, come Aristotele ha mostrato in molti libri. Afferma poi: E si dice anche, etc., cioè: si
chiama inizio anche la parte in un soggetto generata per prima fra quelle che sono generate in parti diverse,
dal momento che, ad esempio, l’inizio di una parete sono le sue fondamenta e l’inizio di una nave è il
legno incurvato, e il principio dell’animale è il primo organo che viene generata, ad esempio il cuore o il
cervello o altro. Ed è comune a questo senso del termine ‘principio’ il fatto che ci si riferisce al principio
rispetto ad un elemento, cioè a quella da cui consegue il principio di una cosa et è il primo da cui origina
il principio del mutamento, cioè il moto locale e di accrescimento e di alterazione. E quando indicò i sensi
dei principi in ragione dei quali una cosa ricade nella categoria di sostanza e di accidente, Aristotele iniziò
a spiegare i sensi dei principi agenti, e affermò: E si dice anche etc., cioè: si chiama anche principio generante
e agente, ed è quello da cui origina l’inizio della generazione della cosa finché la generazione sia compiuta,
ad esempio la generazione del figlio dai genitori, e l’inizio della lite a partire dalla diversità delle opinioni.
E in generale questa è la causa agente e movente, e si ritrova nell’esempio, ed è nella cosa. E mi sembra
che vi sia un errore di colui che scrive e che si debba leggere: «e non è nella cosa». E se qui non vi è errore,
allora lo affermo con decisione perché si tratta della disposizione di questa causa nelle questioni naturali,
cioè il fatto che non è esterna ad esse. Ad esempio, il seme del maschio e della femmina nelle specie
soggette a generazione; mentre nelle realtà artificiali e volontarie il principio è esterno alla cosa. In senso
generale il padre e la madre sono cause esterne remote, il padre in quanto agente e la madre in quando
materia. Dice poi Aristotele: E si chiama inizio etc., cioè: si chiama principio anche la causa finale, e questa
causa è ante in natura, ed è ciò da cui consegue la generazione. E descrisse la stessa nelle cose volontarie,
perché in esse si rende manifesta più che in quelle naturali. Disse poi: E in modo simile nelle cose artificiali
etc., cioè: questo principio è anche cercato nelle questioni artificiali e soprattutto all’inizio di
un’introduzione ad un’arte, poiché quello che l’uomo trova in un’introduzione ad una cosa artificiale non
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lo trova per prima cosa se non a causa del fine. Quello poi che viene trovato in seguito, non lo si trova
se non per quel che in primo luogo fu trovato a motivo del fine. Dunque, questo principio è il principio
della scoperta e della generazione nelle realtà artificiali e naturali. Dice poi Aristotele: E si chiama inizio
etc., cioè: e questo nome inizio si predica anche del principio di una dottrina, ad esempio delle
proposizioni nella dimostrazione. E questo è altra cosa rispetto al principio che è principio della dottrina:
questo infatti è il principio delle scienze ricercate nell’atre, mentre quanto menzionato sopra è il principio
della disciplina dell’arte in relazione al fatto che lo si apprende. E in generale ogni principio o è principio
in una dottrina o è principio nell’essere. E in alcune arti accade che i principi dell’essere siano identici ai
principi della dottrina, e in altre no, come viene stabilito in altri luoghi. Aristotele dice poi: E in modo simile
si chiamano causa anche etc., cioè: e in modo simile questo nome «causa» si predica di tutte le cose di cui
abbiamo detto per il fatto che questo nome ‘principio’ è predicato di queste. Aristotele dice poi: E tutti
gli inizi etc., cioè: anche tutte le cose che si predicano del principio si predicano rispetto al paragone con
qualcosa che è primo rispetto ad esse, che è più degno di quelle di esser chiamato principio. Il paragone
a quello che è primo però è secondo sensi diversi in ragione della prossimità o della lontananza, come è
la disposizione nel nome ‘ente’. Dice poi Aristotele: Si deve anche sapere in che modo è e in che modo sarà, cioè:
anche questo senso di principio si intende in relazione al sapere in questa scienza in che modo è in sé e
in che modo è primo. E questo principio è la causa finale. Non tutte le cause, infatti, sono principi se non
a causa di questo principio. Dice poi: E alcuni inizi sono nelle cose, etc., cioè: e fra i principi alcuni sono
interni ad una cosa, ad esempio come la forma e la materia, e alcuni sono esterni ad una cosa, come
l’agente e il fine. Dice poi Aristotele: E il pensiero e la volontà etc., cioè: il fatto che tutte queste cose sono
principi di quelle che sono principi e sono esterni ad essi. E mediante la sostanza intende la forma
generativa che gli è simile nella specie, e mediante la liberalità e il bene e ciò a causa di cui intende la stessa
cosa, cioè il principio finale. Non si tratta però di termine sinonimi in senso assoluto.
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Tommaso d’Aquino, Commento alla Metafisica, lib. V, lect. 1.
Nel libro precedente, il Filosofo stabilì che cosa pertenga all’attenzione di questa scienza; qui egli inizia
«a definire le cose che questa scienza prende in considerazione».
E dato che le cose che in questa scienza sono prese in considerazione sono comuni a tutti, non sono
dette in modo univoco dei diversi oggetti, ma secondo il prima e il dopo, com’è stato detto nel quarto
libro. Perciò, prima cosa, «distingue le applicazioni dei nomi che ricadono nella considerazione di questa
scienza». In secondo luogo inizia a indagare le cose che cadono nella considerazione di questa scienza, e
lo fa nel libro sesto, che inizia là dove si legge «Principii e cause».
Di qualsiasi scienza, tuttavia, occorre prendere in considerazione l’oggetto, e le passioni e le cause, e
dunque questo quinto libro si divide in tre parti.
Per prima cosa determina «la distinzione dei nomi che significano le cause»; in secondo luogo, di quei
nomi che significano l’oggetto di questa scienza o le sue parti, lì dove si legge: «Uno è detto in un senso
secondo l’accidente». In terzo luogo stabilisce le distinzioni dei nomi che significano le passioni dell’ente
in quanto ente, lì dove si legge: «Si dice allora ‘perfetto’», etc.
La prima parte si divide in due. In primo luogo distingue «i nomi che significano le cause». In secondo
luogo un qualche nome che significa qualcosa che consegue dalla causa, ossia quel che è necessario. La
causa, infatti, è quella da cui per necessità segue un altro, lì dove si legge: «È detto necessario ciò senza
cui qualcosa non accade».
La prima trattazione consta di due punti. In primo luogo, Aristotele distingue i nomi che significano le
cause «in modo generale»; in secondo luogo distingue quel nome che significa una certa causa in senso
specifico, ossia questo nome ‘natura’, lì dove scrive: «Natura, poi, si dice» etc.
La Prima trattazione è divisa in tre. Definisce in primo luogo il termine principio; in secondo luogo il termine
causa, lì dove scrive: «Causa, poi, si dice» etc.; in terzo luogo il termine elemento, lì dove dice: «Si dice poi
elemento».
Procede allora secondo quest’ordine, perché questo termine principio è più comune del termine causa: vi è
infatti qualcosa che è principio ma non è causa, come il principio del moto è detto il termine da cui il
moto inizia. E inoltre la causa è più che un elemento e infatti la sola causa intrinseca può essere detta
elemento.
Riguardo al primo punto, Aristotele compie due operazioni: per prima cosa «fissa i significati del termine
principio»; in secondo luogo li riconduce tutti ad un significato comune, lì dove dice: «dunque, di tutti i
principi». Si deve allora sapere che principio e causa, sebbene siano identici quanto all’oggetto, tuttavia
differiscono quanto alla definizione. Il termine principio infatti implica un qualche ordine, mentre causa
implica una certa influenza rispetto all’essere di ciò che è causato. L’ordine del prima e del dopo si trova
in oggetti diversi, ma è in ragione di quel che per primo ci è noto che si trova un ordine nel movimento
locale, così che quel moto è più evidente per i sensi. Sono dunque relativi a tre cose gli ordini che
conseguono l’uno dall’altro: alla grandezza, al moto e al tempo. Infatti, quel che è secondo il primo e il
dopo nella grandezza, è prima e dopo nel moto; quel che è secondo il prima e il dopo nel moto è prima
e dopo nel tempo, come è detto nel IV libro della Fisica. Poiché dunque è chiamato principio quel che è in
un certo ordine, e l’ordine che si determina secondo il prima e il dopo nella grandezza ci è noto per primo
e le cose sono da noi denominate nella misura in cui sono a noi note, allora questo termine principio stando
alla sua stessa analisi significa ciò che è primo per grandezza sul quale passa il moto. E dice allora che è
detto principio quello «da cui qualcuno per primo muove verso un oggetto», cioè una parte della grandezza,
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da cui inizia il moto locale. Oppure, secondo un’altra versione: «ciò da cui qualcosa inizialmente sarà
mosso verso un oggetto», cioè da quella parte di oggetto da cui qualcosa per primo inizia a muoversi.
Come nella lunghezza, anche in una qualunque direzione il principio si trova in quella parte da cui inizia
il moto; mentre dalla parte opposta o contraria, vi è «il diverso o il contrario», cioè vi è il fine o il termine.
Si deve sapere che a questa modalità appartiene il principio del moto e il principio del tempo per la ragione
già detta.
Dato che poi il moto non sempre inizia dal principio della grandezza, ma da quella parte da cui è
maggiormente alla portata di ciascuna cosa che sia mossa, Aristotele pone allora un secondo senso,
dicendo che in altro modo si dice il principio del moto «da cui ogni cosa è fatta ottima in massimo grado»,
cioè ciascuno inizia ad essere mosso in modo ottimo. E manifesta questo attraverso ciò che è simile, cioè
nelle discipline in cui una persona non sempre inizia ad apprendere dal principio e secondo natura, ma
da ciò da cui più facilmente o in modo più opportuno «è in grado di apprendere» qualcosa, cioè da quelle
cose che ci sono più note rispetto al nostro punto di vista, le quali talvolta possono essere posteriori
rispetto alla natura.
Questa modalità differisce della prima. Infatti, nel primo senso, dal principio della grandezza si designa il
principio del moto, mentre in questo caso dal principio del moto si designa il principio della grandezza.
E allora, anche in questi moti che sono superiori alle grandezze circolari che non hanno principio, si
coglie un qualche principio da cui, in modo eccellente o adeguato, ciò che è mobile viene mosso secondo
natura. Come nel moto del primo mobile il principio è da oriente, anche nei nostri moti l’uomo non inizia
sempre a muoversi dal principio del percorso, ma talvolta dal punto medio o da un qualche punto da cui
per lui è opportuno iniziare a muoversi.
Dall’ordine, poi, che è preso in considerazione nel moto locale, ci viene anche reso noto l’ordine che
sussiste in altri moti; e dunque, seguono i significati di ‘principio’, che si considerano in ragione di quel
che è il principio nella generazione, nell’accedere delle cose. Il quale principio si ha in un duplice senso:
è infatti «esistente in», cioè intrinseco, o «non esistente in», cioè estrinseco.
Quindi, secondo il primo modo, si dice principio quella parte di cosa che è generata per prima e da cui
inizia la generazione della cosa, come nella nave per prima cosa si realizza il banco dei rematori o la
carena, che è – per così dire – il fondamento della nave su cui tutti i legni della nave sono rimessi assieme
in modo simile a quel che per prima cosa si realizza nella casa, che sono le fondamenta. Nell’animale poi
per prima cosa secondo alcuni si realizza il cuore, e secondo altri il cervello a un altro membro del corpo
di tal fatta. L’animale, infatti, si distingue dal non animale per il senso e il moto: il principio del moto si
mostra essere nel cuore mentre le azioni del senso si manifestano in massimo grado nel cervello. E allora,
quelli che considerarono l’animale quanto al moto sostennero che il cuore è il principio nella generazione
dell’animale, quelli che invece considerarono l’animale quanto al senso sostennero che il cervello è il
principio, questo sebbene il primo principio dello stesso senso sia nel cuore e anche se le azioni del senso
si perfezionano nel cervello. Quelli che invece presero in considerazione l’animale in quanto agisce o
secondo alcune delle sue azioni, ritennero che il membro atto a quell’azione, come il fegato o un latro
organo di tal genere, sia la prima parte che viene generata nell’animale. Stando poi all’affermazione del
Filosofo la prima parte ad essere realizzata è il cuore, perché tutte le capacità dell’anima sono diffuse nel
corpo dal cuore.
Nell’altro modo, invece, si dice principio quello da cui prende avvio la generazione di una cosa e che
tuttavia è esterno alla cosa stessa; e questo è reso manifesto in tre modi. In primo luogo nelle cose naturali,
nelle quali viene detto principio della generazione quello da cui per primo ha origine il moto in queste
cose che accadono grazie al moto, come in quelle cose che sono acquisite mediante l’alterazione o
mediante un qualche altro modo di tal genere, come quando si dice che un uomo si è fatto grande e
bianco. Oppure, ciò da cui inizia il mutamento, come in quelle cose che accadono non a causa del moto
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ma del solo mutamento, come accade nella realizzazione delle sostanze, come il bambino viene dal padre
e dalla madre che sono il suo principio, e la guerra viene dalla convinzione che incita gli animi degli uomini
alla guerra. In secondo luogo, tale nozione di principio è chiara in quelle cose fattibili o morali o politiche
nelle quali è detto principio ciò dalla volontà o dal proposito del quale altre cose sono mosse o mutate.
E in tal senso sono chiamati principati nelle città quelli che ottengono la potestà e il comando, o anche
le tirannidi in quelle stesse. Infatti, dal loro volere sono determinate e mosse tutte le cose nelle città. Si
dice allora che hanno potestà quegli uomini che nelle città sono preposti a specifici uffici come i giudici
e figure di tal genere, o che hanno il comando quelli che in senso universale comandano a chiunque,
come i re. Ottengono invece la tirannide coloro che detengono il controllo di città e di un regno grazie
alla violenza e al di fuori dell’ordine legale per la loro personale utilità.
In terzo luogo, fissa un esempio nelle cose artificiali perché anche le arti in modo simile sono dette essere
principi dei prodotti artificiali, perché dall’arte prende il via il moto verso la costruzione del prodotto
artificiale. E fra queste arti sono chiamate in primo luogo principi le arti architettoniche che «hanno il
nome» dal principio, cioè sono chiamate arti principali. Sono, infatti, chiamate arti architettoniche quelle
che comandano le altre arti subordinate come il pilota della nave comanda alla costruzione della nave e il
comandante dell’esercito all’equitazione.
Tuttavia, a somiglianza dell’ordine che viene preso in considerazione nei moti esteriori, si osserva anche
un certo ordine nella conoscenza delle cose e nello specifico per il fatto che il nostro intelletto ha una
certa somiglianza col moto, poiché tratta dei principi arrivando alle conclusioni. E perciò, secondo un
altro senso, si chiama principio quello da cui una cosa per prima diviene nota, come diciamo che i principi
delle dimostrazioni «sono le supposizioni», cioè le dignità e le richieste.
Anche in queste modalità alcune cause sono chiamate principi. «Tutte le cause, infatti, sono in un certo
senso principi». Da una causa, infatti, prende il via il moto verso l’essere di una cosa, sebbene non per la
stessa ragione la causa è detta anche principio, come si è detto.
Quando poi il testo dice «dunque di ogni cosa», Aristotele riconduce tutti i modi predetti a qualcosa di
comune; e dice che quel che è comune in tutti i sensi predetti è che è chiamato principio quello che è
primo o nell’essere della cosa, come la prima parte di una cosa è chiamata principio, o nell’accadere di
una cosa, come il primo motore è chiamato principio, o nella conoscenza di una cosa.
Sebbene, come si è detto, tutti i principi concordino in questo, differiscono però perché alcuni sono
intrinsechi, altri estrinseci, come è chiaro da quanto detto sopra. E allora la natura può essere principio
ed elemento, che sono cosa intrinseche: la natura lo è certamente in quanto è ciò da cui prende il via il
moto, mentre è elemento in quanto è la parte che è prima nella generazione di una cosa. «E la mente»,
cioè l’intelletto, «e la pre-volontà», cioè il proposito, sono detti principi – per così dire – estrinseci. E
ancora, è chiamato principio quasi intrinseco «la sostanza di una cosa», cioè la forma che è principio
nell’atto di essere dal momento che in ragione di essa una cosa è nell’essere. E anche stando alle cose
predette, il fine a causa del quale si verifica qualcosa è chiamato anche principio. Infatti, il bene che
risponde alla definizione di fine in ciò che occorre perseguire, e il male, che è il fine in quel che è da
rigettare, in molte circostanze sono i principi della conoscenza e del moto, come in tutte quelle azioni che
si compiono in vista di un fine. Nelle cose naturali, infatti, e in quelle morali e in quelle artificiali le
dimostrazioni sono precipuamente desunte dal fine.
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Giovanni Duns Scoto, Questioni sulla Metafisica, q. 1: Se il fine sia principio e causa.
Se il fine sia principio e causa, e se sia causa dello stesso agente, e se sia causa in massimo grado.
Che non sia il principio:
Perché è proprio della nozione di principio “l’essere primo”, come dice nel primo capitolo di questo
quinto libro. Della nozione di fine è proprio “l’ultimo”, secondo quel che il Filosofo sostiene nel quinto
libro di quest’opera, nel capitolo “Sul perfetto”. L’ultimo e il primo si oppongono.
Che non sia causa:
Perché o è secondo l’ente o è secondo il non ente. Non nel secondo senso, perché il non ente è causa del
nulla; il fine è causa dell’ente; dunque, etc. Neppure nel primo senso, perché il fine non è causa se non
per il fatto che muove la causa efficiente ad agire. Quando però è il fine, non si muoverebbe la causa
efficiente; anzi, desiste dall’azione, perché «di fronte alle presenti disposizioni il moto cessa», come si dice
nel libo I del De generatione.
Che non sia causa efficiente:
Perché se così fosse, anche la causa efficiente sarebbe causa del fine, e allora la stessa cosa sarebbe ad un
tempo causa e causato e di conseguenza sarebbe per natura prima e dopo.
Ne consegue anche che la medesima cosa sarebbe causa di sé stessa, perché «qualunque cosa è causa di
una causa, lo è anche del causato»; e «qualsiasi cosa sia prima di quel che è primo è anche prima di quel
che è successivo», per cui se il fine è la causa efficiente e la causa efficiente è causa del fine, il fine è causa
del fine. E allo stesso modo si ragiona sull’argomento precedente.
Inoltre, ne consegue allora che la dimostrazione ‘secondo la causa’ è circolare o può esserlo. Secondo
quel che Aristotele sostiene nel terzo capitolo del primo libro degli Analitici Secondi, la conseguenza di ciò
è falsa, perché sarebbero identici il prima e il dopo rispetto alla medesima cosa. Dimostrazione della
conseguenza: perché la dimostrazione in ragione di qualcosa dipende dalla causa e viceversa; perciò, se si
può dare dimostrazione della causa efficiente mediante il fine, vale anche l’inverso, e allora si argomenta
in modo circolare.
Che non sia causa in massimo grado:
Perché è una causa estrinseca, la materia e la forma sono intrinseche, e quel che è intrinseco sembra essere
utile all’essere più che le cause estrinseche.
Inoltre, se così fosse, allora la più nobile fra le realtà causate avrebbero questa causa, cosa che è falsa,
perché le più nobili realtà causate sono immobili, le quali non hanno causa finale. – Per questo, nel terzo
libro di quest’opera, Aristotele dice che «nelle realtà immobili non vi è fine».
Si dimostra la stessa cosa: perché ogni fine è proprio di una qualche azione; l’azione consiste nel
movimento; le realtà immobili non hanno movimento. Questa è l’argomentazione del Filosofo secondo
il testo.
Inoltre, se fosse causa in sommo grado, allora si guadagnerebbe per il tramite di essa la conoscenza al
massimo grado. Ciò è falso, perché conosciamo al massimo grado quando conosciamo ‘che cosa sia
questo’, cosa che avviene mediante la forma. Perciò, il Filosofo utilizza sempre ‘che cosa’ come perifrasi
di forma.
In opposizione al primo argomento:
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il Filosofo nel primo capitolo del quinto libro.
In opposizione al secondo argomento:
quel che dice nello stesso capitolo.
In opposizione al terzo argomento:
quel che dice più sotto nello stesso capitolo.
In opposizione al quarto argomento:
il Commentatore, nel capitolo ‘Sul principio’, nella parte finale.
[III. – Sulla priorità della causa finale]
Rispetto alla questione in discussione, occorre distinguere come distingue Avicenna, nel libro Vi della
Metafisica, 5d: “Una cosa talvolta è causata nella propria causalità, talvolta nel proprio essere”. Nel primo
senso “la causa finale precede nella causalità le cause agenti che la ricevono”; e questo in ragione del
proprio essere nell’anima, “perché l’anima seleziona prima quella e poi si figura presso sé stessa l’azione
e la ricerca di ciò che riceve e la qualità della forma. Rispetto dunque alla causalità e rispetto all’essere,
nell’anima non vi è altra causa che preceda la causa finale. Anzi, la stessa è la causa dell’esistenza delle
altre cause, mentre l’esistenza delle altre cause nell’effetto è la causa dell’esistenza di quella nell’effetto”.
E in questo punto egli dice molte cose su questo tema. E alla fine del capitolo: “Se di ciascuna di queste
cose vi fosse scienza, fra di esse sarebbe più nobile la scienza della causa finale e la stessa sarebbe sapienza;
e questa è anche la più nobile fra le parti di questa scienza, perché è la scienza che si rivolge alle cause
finali delle cose”.
E il Commentatore, alla fine del capitolo ‘Sul principio’, dice: “Questo principio è inteso riguardo al
conoscere in questa scienza, e quel principio è la causa finale. Tutte le cause infatti non sono principi se
non a causa di quel principio”.
E nel II libro della Fisica, al capitolo 8, dice: “Come nelle cose speculabili vi è un principio, così in quelle
oggetto di azione vi è un fine”.
Se allora parliamo della priorità nel causare, dico che per prime le cose esterno causano, perché infatti
quelle causano anche le realtà intrinseche e non viceversa. Fra le cose estrinseche poi, per primo causa il
fine. Poiché infatti quello muove l’efficiente in ragione dell’amato, perciò l’agente agisce, non il contrario.
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Giovanni di Jandun, Questioni sulla Metafisica, q. 2: Sul primo significato di principio
Ci si interroga poi riguardo al primo significato di principio, perché si dice che è quello a partire da cui
qualcuno per primo muove una cosa: come quella parte di grandezza da cui prende avvio il moto locale,
ad esempio: nel cammino il principio è quello da cui prende il via il moto, se nella cosa sia primo nella
grandezza.
Si desume di no, perché in quel che è divisibile all’infinito non si determina un primo, perché non è
proprio dell’infinito determinare un primo né un ultimo, ma la grandezza è divisibile all’infinito, 3° della
Fisica e I Sul celo, perché è divisibile nelle cose sempre divisibili.
Inoltre, in quelle cose non si determina l’ultimo né il primo, perché il primo e l’ultimo si corrispondono,
2° libro di quest’opera; ma nella grandezza non vi è l’ultimo, perché è infinita e l’infinità ripugna a quel
che è ultimo, 3° della Fisica.
Inoltre, là dove non si determina il minimo nemmeno si determina il primo, perché vi è un minimo in
qualsiasi genere, 10 libro di quest’opera; ma nella grandezza non si determina il minimo, perché nella
stessa non si determina il minimo in senso assoluto se non secondo la nostra accezione che è unica, come
si dice nello stesso passo.
Aristotele argomenta in senso opposto nel passo sopra citato: si chiama principio qualcosa da cui per
primo certamente prenderà a muoversi, come il principio della lunghezza e della via. E così afferma
Aristotele, che la nozione di principio si dice per prima del principio della grandezza e così indica che
nella grandezza vi è un primo.
Occorre dire riguardo alla questione che in una determinata grandezza è bene stabilire un primo
indivisibile. E la ragione è che quel che ha termine in un punto ha questo principio, perché il punto è
indivisibile, e lì dove c’è il termine c’è il principio, perché termine si predica del primo e dell’ultimo, dal 5
libro di quest’opera; ma la grandezza è una cosa di questo genere, perché ogni grandezza ha termine in
un punto e questo o si determina senza mediazione, come nel caso della linea, o con la mediazione come
nel caso di una superficie e di un corpo. Perciò Aristotele dice anche, nel I Del cielo, che il termine ultimo
del corpo e delle altre quantità è il punto.
In secondo luogo si deve dire che nel caso della grandezza non si stabilisce un primo divisibile in senso
assoluto. E la ragione è che quel che è divisibile all’infinito non ha primo né ultimo; ma la grandezza
considerata in senso assoluto è una cosa di tal genere, come lo è la grandezza matematica, come si è detto
sopra.
In terzo luogo si deve dire che è bene stabilire un primo divisibile nella grandezza in rapporto al moto e
alle forme naturali, e la ragione è che quel che si unisce alle norme naturali e al moto ha il primo e l’ultimo,
perché gli enti naturali sono determinati rispetto a un minimo e un massimo, e si determina la parte prima
e quella minima dell’acqua, I della Fisica. Ugualmente quel che si muove ha una prima parte da cui prende
il via il movimento e questo è vero in una grandezza dritta. Se tuttavia si considera lo stabilire quel che è
primo nella grandezza del cerchio si deve considerare il II Del cielo, perché Aristotele spiega che la prima
parte del cielo si trova a oriente, ma la grandezza in rapporto al moto e alle forme naturali si unisce ad
essi secondo l’essere, perché non si separa da essi; dunque, etc.
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Risposte agli argomenti. Al primo e al secondo la risposta è chiara dalle cose che si son dette, perché
provano che non si tratta di stabilire il primo indivisibile nella grandezza considerata in senso assoluto, e
questo è concesso, ma non provano perché in rapporto alle forme naturali non si stabilisca un primo
divisibile. Al terzo argomento, ugualmente, la replica è chiara: perché non si stabilisce il minimo in una
grandezza assoluta per il fatto che è una grandezza, ma si stabilisce correttamente quel che è indivisibile,
come il punto; nella grandezza che sta sotto le forme naturali è però corretto stabilire il minimo, come
Aristotele vuole nel I della Fisica, perché si stabilisce che l’acqua minima e il fuoco è minimo.
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Causa
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Averroè, Commento alla Metafisica, lib. V, tr. II
<Causa>
Aristotele afferma che causa si predica della materia, come ad esempio si dice che il rame è la causa dell’idolo; e
<questo termine> lo si predica della forma e del modello. Dice poi Aristotele: E questo significa l’essere di qualcosa e i
generi di quella cosa, cioè: e questa causa è quella che significa la forma propria di una cosa e la forma dei suoi generi.
Introduce poi l’esempio della forma che è il genere, e afferma: Ad esempio la proporzione, etc., cioè: e la forma che è
forma del genere è come una proporzione di due enti rispetto ad uno; è infatti una sorta di genere rispetto all’ottava,
come è detto nella «Musica». Dice poi Aristotele: E ugualmente tutti i numeri, etc., cioè: e ugualmente un numero è
una forma universale delle parti dei numeri. E allo stesso modo il genere delle specie delle definizioni è un genere.
Dice poi il Filosofo: E si predica anche in altro modo, etc., e intende la causa agente, cioè quella da qui in primo luogo
dipende la generazione di una cosa. Spiega poi: Come si dice che il camminare è causa, cioè: causa agente della salute. E
quando introduce le cause secondo la materia e la forma e la causa agente, afferma: E causa si predica anche in altro
modo come complemento, etc., cioè: causa si predica anche in un quarto modo, cioè come complemento che intende
l’agente, cioè, ad esempio, la salute a causa della quale si verifica il camminare e il fare esercizio. E il segno di questo
è che se qualcuno chiedesse perché ci teniamo in esercizio, diremmo che lo facciamo per la salute. Aristotele dice
poi: E ugualmente le altre cose, etc., cioè: e fra le cose l’azione delle quali è in vista di un fine, alcune in primo luogo e
di per sé determinano il fine e il complemento, alcune mediante altre cose. Ad esempio, che la salute dipende dalla
dieta e dalla leggerezza di peso: la leggerezza di peso, infatti, fa defluire l’umore corrotto, mentre la dieta e
l’astinenza lo purificano, circostanza da cui consegue la salute. E ugualmente avviene per le medicine e gli strumenti,
cioè che non determinano la salute se non mediante altre cose. E allo stesso modo accade per il fare esercizio. Dice
poi Aristotele: E differiscono, poiché alcune cose sono una sorta di strumenti, etc., cioè: e tutte queste cose si accordano nel
raggiungere un fine, cioè la salute, ma differiscono perché alcune sono azioni, come il camminare, e altre sono
strumenti, come i farmaci e le ventose. Afferma poi Aristotele: E causa si predica rispetto alla parte maggiore, etc., cioè:
e questo nome causa si predica rispetto alla parte maggiore e della più evidente di queste quattro cause. E <il
Filosofo> sostiene questo perché si dicono cause anche le conseguenze di queste cose e i loro accidenti.
Sostiene poi: Poiché dunque le cause, etc., cioè: e poiché le cause sono secondo sensi diversi, accade che una stessa
cosa abbia molteplici cause. E dice «accade», perché alcune cose sono quelle che non hanno se non alcune cause,
cioè alcuni generi di cause. Offre poi un esempio famoso nel suo tempo e afferma: ad esempio la statua etc., cioè: il
fatto che l’arte di costruire statue è causa della statua e allo stesso modo il rame è causa della statua, ma in due
sensi: il rame infatti è causa materiale, invece l’arte di costruire idoli è causa che muove e genera. Aristotele dice
poi: E il fare esercizio e la salute, etc., cioè: e le cause che si trovano nella medesima cosa sono reciprocamente cause
di loro stesse: il camminare, infatti, è causa della salute, in quanto principio agente, mentre la salute è causa del
camminare in quanto fine. E quando enumera le cause nel secondo senso, inizia a illustrare le loro disposizioni.
Ad esempio, poiché accade loro di essere cause di una stessa cosa. E poiché accade che alcune cose sono cause di
altre, comincia anche a illustrare un’altra disposizione e afferma: E sarà anche la stessa causa, etc., cioè: le cose contrarie
hanno cause contrarie, ma talvolta accade che vi sia una stessa causa di cuore cose contrarie, non nello stesso senso,
ma secondo sensi diversi. Ad esempio, il fatto che il timoniere, quando è assente, è causa della distruzione di una
nave e quando è presente è causa della sua salvezza. Afferma poi Aristotele: E entrambe queste, etc., cioè: e queste
due disposizioni sono causa della salvezza o della distruzione della nave del genere di cause moventi e agenti.
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Tommaso d’Aquino, Commento alla Metafisica, lib. V, lect. 3
Il Filosofo riconduce tutte le cause ai quattro predetti tipi di cause, dicendo che tutte quelle che sono
dette cause ricadono nei predetti quattro tipi. Sono, infatti, chiamati ‘elementi’, cioè lettere, le cause delle
sillabe e la materia delle realtà artificiali è detta essere la causa dei corpi misti. E le parti sono dette essere
causa del tutto. «E le supposizioni», cioè le proposizioni premesse, dalle cui premesse si sillogizza, si dice
siano causa della conclusione. E in tutte queste vi è un principio della causa, per cui si dice causa ciò da
cui qualcosa accade, che è il principio della causa materiale.
È però da sapere che le proposizioni sono dette essere la materia della conclusione, certo non perché
esistono sotto una tale forma o per le loro capacità – così, infatti, si verifica per lo più nella definizione
di causa efficiente –; ma rispetto ai termini da cui sono composte. Infatti, a partire dai termini delle
premesse è composta la conclusione cioè dall’estremità maggiore e da quella minore. Fra quelle cose dalle
quali una cosa è reintegrata, qualcosa si da in relazione al soggetto, come le parti e le altre cose menzionate
sopra; altre cose, invece, si determinano come «la quiddità», cioè il tutto, e come la composizione e la
specie, che riguardano il principio della forma secondo cui la quiddità della cosa è portata a compimento.
Si sa, infatti, che “talvolta” una cosa è la materia di qualcos’altro in senso assoluto, come l’argento del
turibolo, e allora la forma corrispondente a tale materia può essere detta specie. Talvolta, invece,
molteplici cose sono riunite in reciproca relazione, come materia di una qualche cosa, cosa che certo si
verifica in tre sensi diversi. Talvolta, infatti, sono raccolte solo rispetto all’ordine, come gli uomini
nell’esercito, o le cose nella città; e così corrisponde alla forma tutto quello che è designato col nome di
esercito o di città. Talvolta, invece, non sono raccolte solo con un ordine, ma con il contatto e il legame,
come accade nel caso delle parti di una casa; e allora la composizione corrisponde alla forma. Altre volte,
poi, si aggiunge a questo l’alterazione dei componenti che si verifica nella mescolanza; e allora la forma è
la stessa mescolanza che è però una specie di composizione. Da uno qualsiasi di questi tre sensi si desume
la quiddità, ossia dalla composizione e dalla specie e dal tutto, come emerge se si definisce l’esercito, la
casa e il turibolo. Così, dunque, abbiamo due tipi di causa.
Stando poi ad un’altra definizione, sono definiti causa suprema sia il medico sia il consigliere sia colui che
in senso generale fa ogni cosa, cioè quello da cui dipendono i principi del moto e della quiete. Per cui,
appunto, questo è un altro genere di causa a causa di un’altra definizione del causare. Pone allora quella
suprema in questo genere di causa, perché secondo la sua affermazione la causa suprema ha una forza
attiva, mentre il mestruo della donna si converte nella materia del concepito.
La quarta definizione del causare è quella secondo cui alcune cose sono dette cause a titolo di fine e di
bene rispetto ad altre. Infatti, ciò la cui causa determina è l’ottimo fra le altre cose e «vuole essere», cioè
ha l’attitudine ad essere il fine degli altri. Poiché però qualcuno potrebbe obiettare che non sempre il bene
è il fine, poiché talvolta alcuni agiscono in modo disordinato fanno del male il proprio fine, Aristotele
risponde allora che rispetto all’argomento non vi è alcuna differenza nel dire che qualcosa è buono in
senso assoluto o è buono in apparenza. Infatti, colui che agisce, lo fa di per sé guardando ad un bene:
infatti, desidera questo; agisce invece per accidente a causa del male, in quanto gli accade di giudicarlo
essere un bene. Nessuno, infatti, agisce a causa di qualcosa che intende come male.
È da sapere che, sebbene il fine sia in certi casi l’ultimo aspetto nell’essere, tuttavia nella causalità è sempre
primo. Perciò, è detto causa delle cause, perché è la causa della causalità in tutte le cause. È infatti la causa
della causalità efficiente, come si è già detto. Tuttavia, la causa efficiente è la causa della causalità e della
materia e della forma. Attraverso il proprio moto, infatti, fa sì che la materia sia capace di sostenere la
forma, e che la forma esista nella materia. E di conseguenza anche il fine è causa della causalità sia della
materia che della forma, e perciò le dimostrazioni migliori si desumono dal fine in quelle circostanze nelle
quali qualcosa è compiuto a causa del fine, come nelle realtà naturali, in quelle morali e in quelle artificiali.
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Conclude allora che le cose predette sono cause e che le cause sono distinte secondo un certo numero di
specie.
Quando poi dice «però i modi», Aristotele distingue i tipi di cause. Vi è poi una distinzione di causa
secondo le specie e i sensi. La distinzione secondo le specie è fatta secondo le diverse accezioni del causare
e quindi è una sorta di divisione secondo le differenze essenziali che costituiscono le specie. La divisione
secondo i sensi è invece fatta in ragione delle diverse disposizioni della causa rispetto al causato, e perciò
essa si dà in quelle realtà che hanno una stessa definizione dell’atto del causare, come il per sé e il secondo
l’accidente, il remoto e il vicino. Per cui è come fosse basata sulle differenze accidentali che non
diversificano la specie.
Dice dunque che sono molti i tipi di cause, ma si trova che questi siano troppo pochi quando sono
esaminati «sinteticamente», cioè quando sono ricompresi in un qualche compendio. Per sé, infatti, e per
accidente vi sono due tipi di causa, ma sono ricondotti ad un unico tipo poiché vi è la stessa
considerazione di entrambi. Ugualmente accade con gli altri tipi opposti. Infatti, le cause sono dette in
molti modi, non solo rispetto alle diverse specie di causa, ma anche rispetto alle cause che allo stesso
modo determinano la specie, quelle cioè che sono ricondotte ad una sola specie di causa. «Infatti», una «è
detta» precedente e l’altra successiva. Il precedente e il successivo però, nel caso delle cause, sono attestati
con un duplice significato. In un senso nelle cause molteplici per numero accade che siano fra loro
ordinate, così che una di esse è prima e remota e un’altra seconda e vicina, come nelle cause efficienti
l’uomo genera l’uomo quale causa vicina e successiva, mentre il sole quale causa prima e remota; e
ugualmente si può valutare nelle altre specie di cause. L’altro senso riguarda la causa che per numero è
unica ed è la stessa secondo l’ordine di ragione che vi è fra l’universale e il particolare: l’universale, infatti,
è primo per natura, il particolare è successivo.
Aristotele tralascia il primo senso e si attiene al secondo. Nel secondo senso, infatti, l’effetto consegue
immediatamente da entrambe le cause, cioè dalla precedente e dalla successiva, cosa che non accade nel
primo senso. Dice allora che causa della salute è il medico e l’artefice del genere della causa efficiente:
certamente l’artefice lo è in quanto causa universale e precedente, mentre il medico lo è come causa
particolare o speciale e successiva. Ugualmente, anche nelle cause formali è duplice la causa: come l’ottava
è duplice o la proporzione è duplice o la dualità è causa formale, in quanto causa speciale e successiva;
oppure, il numero, o la proporzione del numero rispetto al numero o all’uno, come causa universale e
successiva. E così «sempre le realtà che contengono le cose singolari», cioè gli universali, sono dette cause
precedenti.
«L’altra» è la divisione delle cause che dipende dal fatto che qualcosa è detto essere causa di per sé e per
accidente. Come, infatti, quel che è causa di per sé si divide in universale e particolare, o nel precedente
e nel successivo così è anche la causa per accidente. Da cui consegue che, non solo le stesse cause
accidentali sono dette cause per accidente, ma anche i generi delle stesse; come l’autore di una statua è di
per sé causa della statua; Policleto però è causa per accidente, così tutti gli universali «che contengono
l’accidente», cioè la causa per accidente, sono chiamati cause per accidente: come uomo e animale, che
sotto di sé contengono Policleto, il quale è uomo e animale.
E come si è detto, come fra le cause che sono per sé, alcune sono prossime, altre sono remote, così è
anche fra le cause per accidente. Policleto è, infatti, la causa della statua che è più prossima del bianco e
del musico. Il tipo di predicazione per accidente è, infatti, più remoto quando l’accidente viene predicato
dall’accidente che quando l’accidente è predicato del soggetto. L’accidente, infatti, non si predica
dell’accidente, se non perché entrambi sono predicati del soggetto. Ne consegue che è maggiormente
remoto che sia attribuito a un accidente quel che è di altro, come al musico quel che è proprio del
costruttore, piuttosto che il fatto che venga attribuito al soggetto quel che è proprio dell’accidente, come
a Policleto quel che è proprio del costruttore.
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È però da sapere che una cosa può essere detta causa per accidente di un’altra in «due sensi». «In un
senso», dal lato della causa, cioè perché quel che accade alla causa è detto causa per accidente, come se il
bianco fosse detto causa della casa. «In un altro senso», dal lato dell’effetto, per cui, cioè, qualcosa è detto
causa per accidente qualcos’altro che accade a ciò che è effetto di per sé. Cosa che, certo, può darsi in tre
sensi. «In un senso», perché ha un ordine necessario all’effetto, come la rimozione di un impedimento ha
un ordine necessario all’effetto, da cui segue che ciò che rimuove attraverso la proibizione è detto
movente per accidente; sia nel caso in cui quell’accidente sia contrario, come la bile impedisce il freddo,
da cui segue che la scamonea è detta raffreddore per accidente, non perché causi il freddo ma perché
rimuove l’impedimento del freddo che è contrario a quella, cioè alla bile; sia, anche se non è contrario,
come la colonna impedisce il moto della pietra, da cui segue che ciò che rimuove la colonna si dice che
muove per accidente la pietra supposta. «In un altro senso» si dà quando l’accidente è ordinato all’effetto,
ma non come necessario nella maggior parte dei casi ma in pochi, come la scoperta di un tesoro è ordinata
allo scavare in terra. E in questo modo la fortuna e il caso sono detti cause per accidente. «In un terzo
senso» si dà quando non ha nessun ordine, se non forse rispetto alla valutazione, come se qualcuno
dicesse di essere causa di un terremoto, perché allorché entra in casa sopraggiunge il terremoto.
«La terza» distinzione è quella per cui, prima di tutte queste cose o oltre tutte queste cose che si dice
esistono in sé o di per sé e secondo l’accidente, alcune cose sono in potenza, alcune lo sono come agenti,
cioè in atto. Come la causa della costruzione è il costruttore in potenza, questo infatti richiama la
disposizione o la funzione, oppure colui che costruisce in atto.
E negli stessi modi in cui sono divise le cause, possono esser divise anche le realtà causate nei quali o dei
quali le cause sono cause. Il causato può, infatti, essere diviso in antecedente e conseguente, o in
particolare e universale; come, se diciamo che lo scultore è la causa di questa statua, che è conseguente,
oppure della statua che è più generale e antecedente, o dell’immagine, che è ancora più generale. E
ugualmente, qualcosa è causa formale di questo bronzo, o del bronzo, cosa che è più generale, o della
materia, cosa che è ancor più universale. E ugualmente può dirsi delle realtà accidentali, cioè negli effetti
per accidente. Infatti, lo scultore che è causa della stessa, è anche causa del peso o del bianco o del rosso
che dipendono dalla materia e non sono causati da questo agente.
Fissa successivamente una «quarta» distinzione della causa, che si trova nel semplice e nel composto: così
che la causa semplice è detta tale per il fatto che si considera la causa della statua soltanto di per sé come
lo scultore, oppure soltanto per accidente, come Policleto. Mentre è detta causa composita, per il fatto
che si considerano entrambi gli elementi assieme, così che si dice che la causa della statua è Policleto lo
scultore.
C’è poi un altro modo in cui le cause possono essere composte, per il fatto che molteplici cause
concorrono alla costruzione di un’unica cosa, come molti uomini concorrono al trascinare la nave o molte
pietre, affinché siano la materia della casa. Ma Aristotele trascura questo, perché nessuno di questi
elementi è causa, ma è parte della causa.
Stabilite queste tipologie, raccoglie il numero di questi tipi, dicendo che questi tipi di cause sono sei e
mutano in modo duplice e così diventano «dodici». Infatti, questi «sei» modi sono o il singolare o il genere,
che più sopra ha chiamato precedente e successivo; e «in sé» e «per accidente», a cui si riconduce anche il
genere dell’accidente, infatti il genere dell’accidente è causa per accidente; e ancora «per il complesso» e
«per il semplice». Ma questi «sei» tipi sono divisi ulteriormente secondo la potenza e secondo l’atto, e
sono «dodici». Perciò è necessario che tutti questi modi siano divisi secondo la potenza e l’atto, perché la
potenza e l’atto diversificano la disposizione della causa rispetto all’effetto. Infatti, le cause particolari in
atto sono contemporanee e vengono meno coi loro effetti, come questo medico con questo
convalescente e questo costruttore con questo costruito: una cosa, infatti, non può essere edificata in atto
se colui che edifica non è in atto. Le cause secondo la potenza, invece, sono sempre rimosse con gli
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effetti, come avviene che la casa e il costruttore non si corrompono simultaneamente. In alcuni casi però
accade che, una volta tolta l’azione della causa efficiente viene tolta la sostanza dell’effetto, come in queste
realtà, l’essere delle quali è nel divenire, o la causa delle quali è rispetto all’effetto, causa del divenire ma
dell’essere. Ne consegue che, rimossa l’illuminazione de sole dall’aria, si toglie la luce. Aristotele chiama
poi le cause singolari, perché gli atti sono propri delle realtà singole, come si è detto nel primo libro di
quest’opera.
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Natura
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Tommaso d’Aquino, Commento alla Metafisica, lib. V, lect. 5.
Qui Aristotele «distingue questo nome ‘natura’», la valutazione del quale, sebbene non sia ritenuta spettare
a chi si occupa di filosofia prima ma piuttosto al filosofo naturale, perciò qui questo nome ‘natura’ viene
distinto, perché la natura secondo una sua certa accezione è detta di ogni sostanza, come sarà evidente.
E di conseguenza ricade nella considerazione di colui che si occupa di filosofia prima, come anche la
sostanza universale.
Riguardo a questo Aristotele avanza due argomentazioni: in primo luogo «distingue i diversi sensi» in cui
si dice ‘natura’; in secondo luogo riconduce tutti i significati ad uno solo e primo; lì dove dice «Dunque,
delle cose dette».
Con riferimento al primo argomento, elabora due ragionamenti: in primo luogo «pone cinque sensi»
principali e in secondo luogo ne pone altri due aggiunti agli ultimi due, lì dove osserva: «natura poi è la
materia prima».
Per prima cosa, dunque, Aristotele dice che la natura è detta «in un senso» generazione delle cose generate
o, come riporta meglio un’altra versione, «delle cose nascenti». Infatti, non tutte le cose generate possono
esser dette nascenti, ma questo termine lo si può usare solo negli esseri viventi, come nelle piante, o negli
animali, e nelle loro parti. Diversamente, la generazione delle cose che non vivono non può esser detta
natura parlando in senso proprio secondo l’uso comune del termine, ma solo la generazione degli esseri
viventi, per cui si chiama natura la stessa nascita o gli stessi nascenti, per il fatto che lo stesso nome
sembra significare. «Come se qualcuno che si allunga dicesse natura». Questa versione è corrotta, cosa
che emerge da un’altra traduzione, che così riporta: «come se qualcuno che parla dicesse la ipsilon».
‘Physis’, infatti, che presso i greci significa natura, se si assume la posto di generazione di esseri viventi
ha la prima ipsilon allungata; se invece si assume al posto di principio, come si usa comunemente, ha la
prima ipsilon breve. Tuttavia, grazie a questa versione, si potrebbe pensare che questo nome ‘natura’ si
dica della generazione degli esseri viventi in ragione di un qualche allungamento, cioè estensione.
Da questo fatto, però, che la stessa nascita è detta natura in primo luogo, consegue «un secondo modo»,
che cioè il principio della generazione, da cui qualcosa è generato da cui quello che nasce è generato per
primo, come da un principio intrinseco, sia detto natura.
E a motivo della somiglianza con altri moti, il significato di questo nome si è esteso ulteriormente, così
che natura in un terzo senso è detta ciò da cui deriva il principio del moto in ciascuno degli enti secondo
natura, purché sia in esso in quanto tale e non per accidente. Come, ad esempio, nel medico che è malato
sussiste il principio della salute, ossia l’arte della medicina, ma non in quanto è malato bensì in quanto è
medico. E tuttavia, è sanato non in quanto è medico ma in quanto è malato: e così il principio del moto
non si trova in lui in quanto è mosso. E questa definizione di natura si trova nel secondo libro della Fisica.
E allorché fece menzione delle realtà nascenti, mostra che cosa significhi in senso proprio nascere, come
mostra l’altra versione, al posto del quale verbo questa versione riporta impropriamente essere generato.
Infatti, la generazione negli esseri viventi differisce dalla generazione delle realtà inanimate, perché ciò
che è inanimato è generato non come congiunto o unito a ciò che genera, come il fuoco dal fuoco e
l’acqua dall’acqua. Nei viventi però la generazione si determina per una qualche unione al principio della
generazione. E poiché l’aggiunta di una quantità ad una quantità determina un aumento, allora nella
generazione degli esseri viventi sembra determinarsi un certo aumento, come si verifica quando
dall’albero nasce un frutto o una foglia. E perciò, Aristotele dice che si dicono nascere tutte quelle cose
che «hanno un aumento», cioè un certo aumento con il principio di generazione.
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Questo aumento, però, è diverso dalla specie del moto, che è detta aumento e con la quale sono mosse
le cose già nate. Infatti, nell’aumento qualcosa viene aggiunto in sé stesso attraverso questo, che ciò che
viene aggiunto passa nella sostanza di ciò a cui viene aggiunto, come il nutrimento passa nella sostanza
di quel che è nutrito; quel che nasce, invece, si affianca a ciò da cui nasce come qualcosa di altro e di
diverso, non come ciò che passa alla sua sostanza. E perciò, dice che ha un aumento «per ciò che è
diverso» o per ciò che è altro: quasi dicesse che questo aumento accade per l’affiancarsi di qualcosa d’altro
o di diverso.
L’affiancarsi che produce un aumento può essere inteso in un doppio senso. In un senso «toccando»,
cioè attraverso temporaneamente come unite l’una all’altra, come il braccio e il nervo e «qualcosa che
esiste in modo adeguato», cioè che qualcosa è adattato a qualcos’altro che già preesiste, come i capelli del
corpo e i denti delle gengive. Al posto di questo termine un’altra versione riporta più opportunamente
nascere assieme e nascere accanto. Tuttavia, in questo processo generativo dei viventi non si verifica solo
l’accostamento mediante il tatto, ma anche mediante una certa simmetria o nascita comune, come si
verifica negli embrioni, che non solo sono toccati nell’utero, ma sono anche legati nel principio della
propria generazione.
Mostra poi che cosa ci sia di diverso fra i due sensi predetti, dicendo che «accordo», cioè legame o nascita
comune, come riporta l’altra versione, differisce dal tatto, perché nel tatto non è necessario che qualcosa
esista senza contatto per il fatto che il contatto determina una cosa. Nelle realtà legate o in quelle cooptate
in quelle nate assieme o nate accanto è necessario che vi sia qualcosa che è unico in entrambe «quanto al
tatto», cioè che al posto del tatto faccia sì che quelle cose siano «associate» contemporaneamente, cioè
siano unite assieme o legate o siano nate assieme. Occorre però capire che ciò che fa essere quelle cose
un’unità, le fa essere un’unità in ragione della quantità e della continuità e non secondo la qualità, perché
il legame non allontana le realtà legate dalle loro disposizioni.
Ed è reso evidente da questo, perché quel che nasce è sempre congiunto a quello da cui è nato. Perciò
‘natura’ non significa mai un principio estrinseco, ma secondo tutte le sue accezioni indica un principio
intrinseco.
Da questa terza definizione di natura, poi, segue la ‘quarta’. Se infatti il principio del moto delle realtà
naturali è detto natura, allora il principio del moto delle realtà naturali a qualcuno sembrerà essere la
materia, ne conseguì che la materia sarebbe stata detta natura, la quale è certo il principio della cosa sia
quanto all’essere sia quanto all’accadere. E la stessa è presa in considerazione priva di ogni forma, così
che non è mossa da sé stessa ma da altro. E dice allora che è chiamata natura a seguito di quello da cui
un certo ente in senso primo esiste o accade.
Cosa che quindi sostiene, perché la materia è il principio dell’essere e dell’accadere. Intendo dal passo in
cui dice «con l’esistente privo di ordine», cioè privo di forma. Da cui l’altra versione riporta: «dal momento
che è informe». In certe cose, infatti, lo stesso ordine tiene il posto della forma, come nell’esercito e nella
città. Intendo da quel passo che dice: «a ciò che è immutabile dal proprio potere», cioè per il fatto che
non può muoversi in ragione del proprio potere ma del potere dell’agente che gli è superiore. La materia,
infatti, non muove sé stessa verso la forma, ma viene mossa da un agente esterno che le è superiore.
Come se dicessimo che il bronzo è materia della statua e dei vasi di bronzo e il legno lo è dei vasi di legno,
se vasi di tal genere fossero corpi naturali. Accade ugualmente in tutte le altre cose che esistono o
accadono per la materia. Ciascuna di esse, infatti, accade per la propria materia, fatta salva questa. Le
disposizioni della forma però non vengono salvate nella generazione; una forma, infatti, ne introduce
un’altra di grado inferiore. E per questo motivo le forme sembravano essere gli accidenti di alcune cose
e soltanto la materia sembrava essere sostanza e natura, come è detto nel secondo dei libri della Fisica.
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E dunque, questo accade perché giudicavano forma e materia nelle realtà naturali in modo simile alle
realtà artificiali, nelle quali le forme sono accidenti e solo la materia è sostanza. Perciò, in questo modo i
filosofi ‘naturali’ affermarono che gli elementi sono la materia delle cose che esistono secondo natura, o
l’acqua, o l’aria, o il fuoco o la terra, la quale nessuno degli elementi naturali pose da sola, ma ‘altri’ furono
non naturali, come è detto nel primo libro. Alcuni come Parmenide, ritennero che gli elementi e la natura
della cosa fossero altri da quelli. Altri, invece, come Empedocle, credettero che fossero tutti e quattro gli
elementi. Altri ancora giudicarono che fossero qualcos’altro, come Eraclito, che ritenne fosse il vapore.
Poiché tuttavia, il moto delle realtà naturali è causato più dalla forma che dalla materia, si aggiunse allora
un «quinto senso» con cui la stessa forma è detta natura. E così, in un altro senso, natura è detta «la stessa
sostanza», cioè la forma delle cose che esistono secondo natura, come sostennero che la natura delle cose
fosse la stessa composizione delle realtà miste, come Empedocle affermò che non c’è un qualche ente
privo di vincoli, ma che soltanto il mutamento o il rilassamento o la commistione di cose miste, secondo
un’altra traduzione, dagli uomini è chiamato natura. Si dice, infatti, che quelle cose che sono di diversa
composizione sono diverse per natura.
Per sostenere che la forma è natura adducevano questo argomento: perché qualsiasi cosa esista e accade
in modo naturale non si dice che ha una natura, dal momento che esiste la materia dalla quale le realtà
nate accadono o esistono, a meno che non abbiano una specie propria e una forma, grazie alla quale
ottengono la specie. Sembra allora che il nome di “specie” sia messo al posto di forma e forma al posto
di figura che subentra nella specie, ed è il segno della specie. Se dunque la forma è natura, niente può
essere detto avere una natura se non quando abbia una forma, dunque quel che è composto da materia e
forma «si dice essere natura», cioè secondo natura, come gli animali e le loro parti, come la carne e l’osso
e cose di tal genere.
Quando poi Aristotele dice «la natura però», pone due sensi aggiunti agli ultimi due precedenti: il primo
dei quali si aggiunge al quarto modo con il quale la materia è chiamata natura. E afferma che la materia è
detta natura non in un senso qualunque ma come materia prima; cosa che può essere intesa in un duplice
senso o quanto a ciò che è genere rispetto al tutto o in quanto è prima in senso assoluto, come ad esempio
fra le opere artificiali che di determinano dal bronzo, la materia prima secondo quel genere è il bronzo.
La materia prima in senso assoluto però è l’acqua. Infatti, tutte quelle cose che col caldo si liquefanno e
si induriscono col freddo sono per lo più composte d’acqua, come si dice nel quarto libro dei Meteorologica.
Il secondo senso si affianca al quinto senso predetto, con cui la forma è detta natura. E secondo questo
senso, non solo la forma della parte è chiamata natura, ma la stessa specie è la forma del tutto. Come se
si dicesse che la natura dell’uomo non solo è l’anima, ma l’umanità e la sostanza che la definisce significa.
Secondo questo, infatti, Boezio afferma che la natura è la differenza specifica che informa ciascuna cosa.
La differenza specifica, infatti, è quella che completa la sostanza della cosa e gli attribuisce la specie. Come
però la forma o la materia erano dette natura, perché sono il principio della generazione, la quale è
chiamata natura in ragione della prima imposizione del nome; così specie e sostanza sono detti natura,
perché è il fine della generazione. La generazione, infatti, è determinata rispetto alla specie del generato,
la quale risulta dall’unione di forma e materia.
E per questo, secondo una certa metafora e l’estensione del nome, ogni sostanza è chiamata natura;
perché la natura che abbiamo detto è il termine della generazione, è una certa sostanza. E così ogni
sostanza ha una somiglianza con quello che è chiamato natura. E questo senso lo sostiene anche Boezio.
In ragione di questo senso però, questo nome è distinto fra i nomi comuni. Così, infatti, è comune come
anche le sostanze.
Poi, quando Aristotele dice «dalle cose dette», riconduce ad uno tutti i sensi predetti. Si deve però sapere
che la riduzione degli altri sensi ad uno solo che è primo, può accadere in due modi. In un modo, secondo
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l’ordine delle cose; in un altro modo secondo l’ordine che attiene all’imposizione del nome. I nomi, infatti,
sono da noi imposti in ragione di quel che noi comprendiamo, perché i nomi sono segni delle realtà che
sono intese. Talvolta, però, comprendiamo le realtà prime a partire da quelle successive. Da cui segue che
qualcosa che per noi è precedente attiene il nome al quale la cosa denominata si accorda successivamente:
e così accade nel proposito. Poiché, infatti, le forme e le virtù delle cose sono conosciute a partire dagli
atti, per prima la stessa generazione o nascita riceve il nome di natura, e da ultimo la forma.
Invece, secondo l’ordine delle cose, la definizione di natura riguarda per prima la forma, perché, come si
è detto, niente è detto avere natura se non per il fatto che ha forma.
Perciò, da quanto detto è evidente che «per prima cosa e in senso proprio si chiama natura la sostanza»,
cioè la forma delle cose che hanno in sé stesse il principio del moto in quanto tale. La materia, infatti, è
chiamata natura perché è in grado di ricevere la forma. E le generazioni hanno il nome di natura perché
sono moti che procedono dalla forma e nuovamente tornano alla forma. E la stessa cosa, cioè la forma,
è il principio del moto delle cose che esistono secondo natura, o in atto o in potenza. La forma, infatti,
non produce sempre il moto in atto, ma talvolta soltanto in potenza: come quando il modo naturale è
impedito da un qualche elemento esterno che lo respinge o anche quando l’azione naturale è impedita
dal difetto della materia.
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Uno
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Tommaso d’Aquino, Commento alla Metafisica, lib. V, lect. 7
Dopo che il Filosofo ha distinto i nomi che significano le cause, qui distingue i nomi che significano ciò
che è soggetto in altro modo a questa scienza. Ed è divisa in due parti. In primo luogo pone o distingue
«i nomi che significano il soggetto», di questa scienza. In secondo luogo quelle cose che significano le
parti del soggetto, lì dove scrive: «le stesse cose si dicono». Il soggetto di questa scienza può essere colto
co come in tutta la scienza comunemente si fa considerando di che tipo siano l’ente e l’uno, o come ciò
di cui c’è l’intenzione principale, come la sostanza. E allora, in primo luogo, distingue questo nome “uno”.
In secondo luogo, questo nome “ente”, lì dove si dice: «si dice ente», etc. In terzo luogo, questo nome
“sostanza”, lì dove dice: «si dice sostanza» etc. Riguardo al primo punto articola due argomenti. In primo
luogo Aristotele distingue l’uno fra quello che è per sé e per accidente, e mostra in quanti sensi si dice
uno per accidente. In secondo luogo, Aristotele mostra in quanti sensi si dice uno per sé, lì dove osserva:
«in sé dunque uno», etc.
Afferma allora Aristotele che uno è detto per sé o per accidente. “Per accidente” uno insegna a
considerare in primo luogo in termini singoli, e questo avviene in due modi. In un senso nella misura in
cui l’accidente è messo in rapporto col soggetto. In un altro senso, allorché un accidente è messo in
rapporto ad un altro. In entrambi questi casi vi sono tre cose da considerare: cioè l’uno che è composto
e due cose semplici. Se, infatti, l’uno per accidente si considera rispetto al rapporto dell’accidente col
soggetto, vi sono allora tre elementi: il primo è Corisco, il secondo è il musico, il terzo è Corisco il musico.
E queste tre realtà sono uno per accidente: infatti, Corisco e il musico sono la medesima cosa quanto al
soggetto. E analogamente, quando si paragona l’accidente all’accidente, si considerano tre cose: la prima
delle quali è il musico, la seconda è il giusto e la terza è il giusto musico Corisco. E tutte le cose predette
sono dette esser uno secondo l’accidente ma per ragioni diverse l’una dall’altra.
Giusto e musico, infatti, che sono due termini semplici nella seconda accezione, sono detti uno per
accidente, perché inseriscono in modo accidentale al soggetto. Musio e Corisco, invece, che sono due
termini semplici nella prima accezione, sono detti uno per accidente, perché «uno di essi», cioè musico,
«inerisce in modo accidentale all’altro», cioè a Corisco. E analogamente si verifica riguardo alla cosa, “il
musico Corisco”, e a Corisco, che è composto con uno dei termini semplici: sono detti uno per accidente
nella prima accezione, perché fra queste parti che vi sono in questo lemma, cioè in questo temine
complesso, ossia “musico Corisco”, una parte del termine complesso, cioè “musico”, inerisce in via
accidentale all’altra parte, che è di per sé manifesta, cioè Corisco. E per la stessa ragione si può dire che
il musico Corisco è uno con il giusto Corisco, che sono due elementi composti nella seconda accezione,
perché entrambe le parti di entrambi i composti ineriscono in via accidentale ad un soggetto solo, cioè a
Corisco. Se infatti sono la medesima cosa il musico e il musico Corisco, il giusto e il giusto Corisco, a
qualsiasi cosa inserisce in via accidentale di essere un musico inerisca in via accidentale di essere il musico
Corisco, e a qualsiasi cosa inerisce in via accidentale a Corisco inerisce al giusto Corisco. Da cui segue
che, se ‘musico’ inerisce in via accidentale a Corisco, “musico Corisco” inerisce in via accidentale al giusto
Corisco. E in tal modo dire che musico Corisco inerisce in via accidentale al giusto Corisco non
differirebbe in nulla dal dire che “musico” inerisce in via accidentale a Corisco.
Poiché però predicati di tal genere sono predicati per accidente in primo luogo delle realtà singole e
successivamente di quelle universali, sebbene tuttavia dei predicati per sé avvena l’opposto, Aristotele
chiarisce di conseguenza in termini universali quel che aveva mostrato in termini singoli, dicendo che
analogamente si prende in considerazione l’uno per accidente se un qualche accidente è chiamato con un
qualche nome di un qualche accidente o di un qualsiasi universale, come si assume l’uno per accidente
nelle realtà predette, quando accidente si aggiunge al nome singolo, come quando si dice che “l’uomo” e
“l’uomo che è musico” sono uno per accidente, sebbene differiscano per qualcosa.
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Le sostanze singole, infatti, non sono nel soggetto, né si predicano del soggetto, così che esse sono
soltanto sostrato e nulla è sostrato di esse. Certo, le sostanze universali sono dette del soggetto ma non
sono nel soggetto, per cui non sono soggette ad accidenti e qualcosa è soggetto ad esse. Quando allora
l’accidente si aggiunge alla sostanza particolare, non può esserci altra ragione di quel che è detto, se non
perché l’accidente inerisce alla sostanza particolare, come ad esempio perché “musico” inerisce a Corisco
quando si dice “il musico Corisco”.
Quando tuttavia si dice “l’uomo è musico”, può esserci una duplice ragione per questa espressione: o,
infatti, si dice questo perché “musico” inerisce in via accidentale all’uomo, per il fatto che è significata la
sostanza e da questo consegue per lui di poter essere il soggetto dell’accidente; oppure, si dice questo
perché entrambi, cioè uomo e musico, ineriscono ad un qualche soggetto singolo, ad esempio Corisco:
così il musico è detto giusto perché i due termini ineriscono allo stesso soggetto singolo e lo fanno nello
stesso modo, cioè per accidente. Forse però questo non si verifica in via accidentale nello stesso modo,
ma la sostanza universale inserisce al singolo come il genere, ad esempio come questo uomo è un animale;
oppure, se non fosse nel genere, sarebbe almeno nella sostanza del soggetto, cioè come predicato
sostanziale, come nel caso di questo nome “uomo”. Tuttavia, l’altro termine, cioè “musico”, non si
comporta come un genere o un predicato essenziale, ma come disposizione e passione del soggetto o
qualsiasi accidente. Aristotele pone però questi due termini, “disposizione” e “passione”, perché alcuni
accidenti permangono nel soggetto, ad esempio le disposizioni acquisite che difficilmente possono essere
rimosse; alcuni accidenti, invece, sono passeggeri e sono ciò per cui alcune cose sono dette uno per
accidente.
Quando poi Aristotele dice «per sé», pone i sensi di uno per sé e riguardo a questo sviluppa due argomenti.
In primo luogo mostra in quanti sensi si dice “uno”, in secondo luogo in quanti sensi si dice “molti”, là
dove dice: «è poi evidente che molti esseri». Riguardo al primo punto pone due questioni: in primo luogo
distingue i sensi di uno sul piano naturale, cioè secondo le considerazioni che si trovano nelle cose; in
secondo luogo invece opera una distinzione in senso logico, ossia in rapporto alle intenzioni logiche, là
dove afferma: «inoltre alcuni sono» etc. Riguardo al primo punto osserva due cose: per prima cosa
distingue i sensi di uno, poi pone una certa proprietà che consegue dall’uno, là dove scrive: «l’essere
dell’uno è essere principio». Sul primo tema Aristotele sviluppa due considerazioni: per prima cosa pone
i sensi di uno, in secondo luogo riconduce tutti questi ad uno solo, lì dove osserva: «in generale, infatti,
ogni cosa». Nella prima parte allora stabilisce i cinque significati di uno.
Il primo dei quali è che delle cose che di per sé sono dette uno, alcune sono dette uno «per la natura della
continuità», cioè essendo continue, o «per il fatto che sono continue», come dice l’altra traduzione.
Tuttavia, sono chiamate continue in un duplice senso: alcune cose, infatti, sono continue per altro, come
dice l’altra versione, altre cose lo sono di per sé.
Prosegue allora in primo luogo a trattare le realtà “continue per altro”, dicendo che le cose continue per
altro sono come il peso continuo dei legni che esiste in ragione del legame o del vincolo: e in tal modo i
legni uniti fra loro mediante la pece sono detti uno a motivo della pece. Cosa che si verifica in due sensi,
talvolta perché la continuità delle realtà collegate si determina secondo una linea retta, talvolta invece
secondo una linea indiretta, come ad esempio nel caso della linea ricurva che contiene l’angolo, la quale
è determinata dal contatto di due linee in una sola superficie, l’applicazione delle quali non è diretta. In
questo modo, infatti, le parti dell’animale sono chiamate uno e continuo: come la tibia, che è ricurva e
unisce la caviglia al ginocchio, è chiamata una e continua, e in analogamente accade al braccio.
Tuttavia, sebbene una tale continuità, che è a causa d’altro, possa essere o accadere in modo naturale o
per l’intervento di un’arte, sono maggiormente uno quelle cose che sono continue per natura rispetto a
quelle che sono continue per l’arte, perché in queste cose che sono continue per natura, quell’uno per il
quale si determina la continuità non è estraneo alla natura della cosa, che è continuata grazie ad esso,
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come accade in queste cose che sono uno per artificio, nelle quali il vincolo, o la pece, o qualcosa del
genere, è del tutto estraneo alla natura delle realtà legate. E così quelle cose che in modo naturale sono
legate per prima cosa accadono a quelle cose che sono continue di per sé, le quali soprattutto sono uno.
E per rendere questo evidente, Aristotele definisce il contenuto dicendo che si chiama continuo ciò di
cui, di per sé, vi è un moto soltanto e non è possibile diversamente. Non è infatti possibile che nel
continuo le diverse parti si muovano con moti diversi, ma l’intero continuo si muove con un solo moto.
Dice però «per sé», perché è possibile che il continuo si muova in un modo che è di per sé e in un altro
o in più modi per accidente, come ad esempio accade se un uomo su una nave si muove di per sé in senso
contrario al moto della nave e nondimeno si muove per accidente col moto della nave.
Perché poi vi sia un unico moto, occorre che questo sia indivisibile; e dico questo rispetto al tempo, così
che, quando si muove una parte del continuo contemporaneamente si muove anche l’altra. Nel continuo
infatti non accade che una parte si muova e l’altra rimanga in quiete, o che l’una rimanga in quiete e l’altra
si muova, così che il moto delle diverse parti del continuo si verifichi in istanti diversi di tempo.
Perciò qui il Filosofo definisce il continuo in rapporto al moto e non all’unità del termine, al quale sono
unite le parti del continuo, come accade nelle Categorie e nel libro della Fisica, perché da questa definizione
è possibile desumere un grado diverso di unità nei diversi continui, come emergerà più avanti, ma non
dalla definizione che lì è data.
Si deve però sapere che quel che qui si dice, che il moto di quel che è continuo è indivisibile quanto al
tempo, non è contrario a quel che è provato nel sesto libro della Fisica, cioè che il tempo del movimento
si divide secondo le parti di quel che è mobile. Qui, infatti, il Filosofo parla del moto in senso assoluto,
perché cioè una parte del continuo non inizia a muoversi prima di un’altra; lì invece, con riferimento a
qualche segno, si dice che è indicata nella grandezza da cui deriva il moto. Quel segno, infatti, che è la
parte prima della grandezza, passa nel primo tempo, anche se in quella prima parte di tempo si muovono
altre parti del continuo mobile.
In seguito, quando si dice: «di per sé», si procede a trattare di quelle cose che sono continue di per sé,
dicendo che quelle cose che sono continue di per sé sono quelle che sono chiamate uno per contatto.
Aristotele lo dimostra: quelle cose, infatti, che si toccano, come due legni, non sono chiamate un solo
legno, né un solo corpo, né qualcos’altro che pertenga al genere del continuo. Ed è così chiaro che una è
l’unità delle realtà continue e una l’unità delle realtà che si tocca. Quelle cose, infatti, che sono fra loro
tangenti non hanno unità di continuità di per sé ma per un qualche vincolo che le congiunge. Tuttavia, le
cose che sono continue sono dette uno di per sé, sebbene abbiano delle curvature: due linee piegate,
infatti, si congiungono in un termine comune che è il punto posto là dove si forma l’angolo.
Sono però maggiormente uno quelle cose che di per sé sono continue senza pieghe. La ragione di questo
è che la linea retta non può avere se non un unico moto in tutte le proprie parti, mentre la linea piegata
può avere un solo moto e due moti. È infatti, possibile pensare una linea piegata come tutta in movimento
in una parte e per contro si può pensare che mentre una parte è in quiete, l’altra parte che è legata alla
parte in quiete dall’angolo, si avvicini col proprio moto alla parte che è in quiete, come quando la tibia o
la gamba si avvicinano alla coscia che qui è chiamata femore. Perciò, ciascuna di queste, ossia tibia e
coscia, sono maggiormente uno «che lo schelos», come si dice in greco, ossia che quel che è composto
dalla tibia e dalla coscia.
Si deve però sapere che la versione che riporta «curvatura» al posto di «piega» è falsa. È infatti chiaro che
le parti di una linea curva che non contengono un angolo è necessario che si muovano simultaneamente
e che simultaneamente siano in quiete, come le parti della linea retta, cosa che non accade nella linea che
ha una piega, come si è detto.
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Il secondo senso Aristotele lo pone là dove dice: «in un’altra occasione». Dice che in un secondo senso
si dice uno, non soltanto in ragione della continuità della quantità, ma per il fatto che l’intero soggetto è
una forma indifferente secondo la specie. Ci possono, infatti, essere cose continue che però nel soggetto
sono diverse secondo la specie, ad esempio se si rende l’oro continuo all’argento o altre cose di questo
genere. E così, due cose di tal genere sarebbero uno se si considerasse la sola quantità, ma non se si
considerasse la natura del soggetto. Se infatti tutto il soggetto continuo fosse di un’unica forma secondo
la specie, sarebbe uno anche secondo la nozione di quantità e secondo quella di natura.
Il soggetto però si dice essere indifferente quanto alla specie, allorché la stessa specie sensibile non viene
divisa, così che le diverse forme sensibili si troverebbero nelle diverse parti del soggetto, come talvolta
accade che una parte di un corpo sensibile sia bianca, e un’altra nera. Questo soggetto indifferente, però,
può esser detto in due sensi: in un senso come soggetto primo, in un altro senso come soggetto finale o
ultimo, al quale si giunge alla fine della divisione. Come è chiaro per il fatto che tutto il vino è detto essere
uno, perché le parti di questo si mettono in comune in un soggetto primo che è indifferente secondo la
specie. E in modo simile si verifica riguardo all’acqua: tutti i liquidi, infatti, o gli umori sono chiamati uno
in un soggetto che è ultimo. E in modo simile si verifica riguardo all’acqua: tutti i liquidi infatti o gli umori
sono chiamati uno in un soggetto che è ultimo. L’olio e il vino infatti e tutte le sostanze di tal genere si
risolvono in ultimo nell’acqua o nell’aria, che in tutte le cose è la radice dell’umidità.
Aristotele pone il terzo senso là dove afferma: «si dicono poi». Aristotele sostiene che alcune cose sono
chiamate uno, il genere delle quali è uno, diviso da opposte differenze. E quel modo ha una qualche
somiglianza col precedente. Lì infatti alcune cose si dicono essere uno, perché il genere soggetto è uno:
anche qui alcune cose sono dette essere uno, perché il loro genere, che è soggetto alle differenze, è uno,
come uomo e cavallo e cane sono chiamati uno, perché comunicano col concetto di animale, come in un
solo genere, soggetto a differenze. Questo senso però differisce da quanto predetto, perché in quel modo
il soggetto era uno non distinto secondo le forme, qui invece il genere soggetto è uno distinto secondo
le diverse differenze come forme diverse.
E così è chiaro che nel significato più prossimo si dice che alcune cose sono per il genere e analogamente
a come altre sono dette uno per la materia. Infatti, anche quelle cose che sono dette essere uno per
materia, sono distinte in ragione delle forme. Il genere, infatti, sebbene non sia materia, perché non è
predicato della specie, sebbene la materia sia una parte, tuttavia, la nozione di genere si trae da quel che
vi è di materiale nella cosa, come la nozione di differenza si trae da quel che vi è di formale. L’anima
razionale, infatti, non è la differenza dell’uomo perché non è predicata dell’uomo, ma perché questi ha
un’anima razionale, cosa che questo termine “razionale” significa. E analogamente, la natura sensibile
non è il genere di uomo, ma una parte, dal momento che questi che ha una natura sensibile, che è
significata dal nome di animale, è del genere uomo. Analogamente allora, anche il significato più prossimo
è quello in ragione del quale alcune cose sono uno per la materia e uno per il genere.
È però da sapere che uno a motivo del genere si dice in due sensi. Talvolta, infatti, alcune cose sono dette
uno nel genere così come si è detto, cioè perché in ogni modo è uno il loro genere. Talvolta, invece,
alcune cose non sono dette essere uno nel genere, se non nel genere superiore, che con l’aggiunta
dell’unità o dell’identità è predicato delle specie ultime del genere inferiore, quando esistono certe altre
specie superiori di genere supremo, in una delle quali convengono le specie infinite. Come la figura
geometrica, che è un genere supremo che contiene sotto di sé molte specie, cioè il cerchio, il triangolo, il
quadrato e cose del genere. E anche il triangolo contiene specie diverse, cioè quello equilatero, che si dice
dai lati uguali, e il triangolo con due lati uguali, che è chiamato di lati pari o isoscele. Questi due triangoli
allora, sono detti una figura, che è un genere remoto, ma non un triangolo, che è il genere prossimo. La
ragione di ciò è che questi due triangoli non differiscono per le differenze in ragione delle quali la figura
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è divisa, ma differiscono per le differenze in ragione delle quali il triangolo viene diviso. Del resto, è
chiamato identico ciò da cui qualcosa non differisce secondo la differenza.
Aristotele pone il quarto senso là dove scrive: «più ampiamente poi». Il Filosofo afferma che non sono
chiamate anche tutte quelle cose che sono disposte in modo tale che la definizione dell’una, che è la
nozione che significa l’essenza, non è distinta dalla definizione dell’altra che significa anche l’essenza di
essa. La stessa definizione, infatti, cioè in sé stesse, è necessario che sia divisibile, dal momento che consta
di genere e differenza. Tuttavia, può darsi il caso che la definizione di una cosa sia indivisibile dalla
definizione di un’altra cosa, quando due cose hanno una sola definizione, o quelle definizioni significano
tutto quel che vi è in ciò che è definito, come la tunica e l’indumento: e che sono uno in senso assoluto,
la definizione di quelle è una; oppure quella definizione comune non comprende del tutto le nozioni delle
due cose che si ritrovano in essa, come bue e cavallo si ritrovano in una definizione di animali. Perciò,
non sono mai uno in senso assoluto, ma in rapporto a qualcosa, cioè in quanto ciascuno di essi è animale.
E analogamente, l’aumento e la diminuzione si ritrovano in una definizione di genere, perché ciascuna è
moto rispetto alla quantità. Analogamente in tutte le superfici vi è una definizione di questa specie che è
la superficie.
Aristotele pone poi il quinto senso lì dove dice: «interamente». Afferma che «interamente», cioè
perfettamente e soprattutto, sono uno gli enti la cui comprensione, che comprende la loro essenza, è
interamente invisibile, come ad esempio le realtà semplici che non si compongono di principi materiali e
formali. Perciò, l’intelletto che coglie la loro essenza non le comprende nel senso di un comporre la loro
definizione da principi diversi, ma piuttosto al modo della negazione, come il punto, del quale non esiste
parte; o anche al modo della disposizione rispetto alle realtà composte, come ad esempio se si dicesse che
l’unità è il principio del numero. E poiché tali cose hanno una comprensione indivisibile in sé stesse,
quelle cose che in un certo modo sono divise possono essere intese in modo separato; ne consegue perciò
che le realtà inseparabili sono di tal genere sia rispetto al tempo, sia rispetto al luogo, sia rispetto alla
nozione. Ed è per questo che sono uno in massimo grado, soprattutto quel che è indivisibile nel genere
della sostanza. Infatti, quel che è indivisibile nel genere dell’accidente, anche se esso non è composto in
sé, è tuttavia composto con altro, cioè col soggetto in cui si trova. La sostanza indivisibile, però, non è in
sé composta, né si compone con altro. Oppure, il termine sostanza può essere al caso ablativo e allora il
senso è che, sebbene alcune cose siano chiamate uno perché sono indivisibili quanto al luogo o al tempo
o alla nozione, allora fra queste sono chiamate principalmente uno quelle cose che non si dividono
secondo la sostanza. E ritorna allo stesso significato del precedente.
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37
Essere
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Tommaso d’Aquino, Commento alla Metafisica, lib. V, lect. 9
Il Filosofo distingue qui in quanti modi è detto ente, e riguardo a questo tema sviluppa tre argomenti. In
primo luogo, distingue ente in ente per sé e per accidente. In secondo luogo, distingue i sensi di ente
rispetto all’accidente, lì dove dice: «certo, secondo l’accidente» etc. In terzo luogo, distingue i sensi di ente
per sé, lì dove scrive: «in sé poi». Dice allora Aristotele che ente è detto talvolta di per sé e talvolta per
accidente, ma è da sapere che quella divisione dell’ente non è identica con quella divisione con cui l’ente
si divide in sostanza e accidente. Cosa che è chiara da questo, perché lo stesso ente successivamente si
divide di per sé nelle dieci categorie, nove delle quali sono del genere dell’accidente. L’ente si divide allora
in sostanza e accidente rispetto all’accezione assoluta di ente, come la bianchezza stessa considerata in sé
stessa è chiamata accidente e l’uomo è chiamato sostanza. Tuttavia, l’ente per accidente che qui si prende
in esame è necessario considerarlo rispetto al rapporto dell’accidente con la sostanza. Quel rapporto è
significato da questo verbo, “è”, quando si dice: l’uomo è bianco. Perciò, tutta questa espressione –
l’uomo è bianco – è ente per accidente; da cui segue che è chiaro che la divisione dell’ente per sé e per
accidente si basa sul fatto che qualcosa è predicato di altro per sé o per accidente. La divisione dell’ente
in sostanza e accidente si basa invece sul fatto che qualcosa nella propria natura è o sostanza o accidente.
Quando poi si dice: «per accidente», Aristotele spiega in quanti sensi si dice ente per accidente, e afferma
che si dice in tre sensi, uno dei quali è quando l’accidente viene predicato dell’accidente, come quando si
dice: il giusto è un musico. Il secondo senso, quando l’accidente viene predicato del soggetto, come
quando si dice: l’uomo è musico. Il terzo senso, quando il soggetto è predicato dell’accidente, come
quando si dice: il musico è uomo. E dal momento che più su Aristotele aveva già mostrato in che modo
la causa per accidente differisca dalla causa per sé, allora adesso mostra l’ente per accidente attraverso la
causa per accidente.
E Aristotele dice che, come allorché assegniamo una causa per accidente diciamo che il musico costruisce,
per il fatto che avviene accidentalmente che un musico sia un costruttore, o viceversa, è infatti chiaro che:
«il fatto che questa sia questo», cioè che il musico costruisca, non significa altro che: «questo accade a
questo», così è anche nei sensi predetti di ente per accidente, quando diciamo che l’uomo è musico,
predicando l’accidente del soggetto, oppure che il musico è uomo, predicando il soggetto dell’accidente,
oppure che il bianco è il musico o viceversa, cioè che il musico è bianco, predicando l’accidente
dell’accidente. In tutti questi casi, infatti, essere non significa nient’altro che accadere. «Questo certo»,
cioè quando l’accidente viene predicato dell’accidente, significa che entrambi gli accidenti accadono allo
stesso soggetto; «quello poi», cioè quando l’accidente è predicato del soggetto, si dice essere «perché
all’ente», cioè al soggetto, accade l’accidente. Ma diciamo che il musico è uomo «perché a questo», cioè al
predicato, inerisce accidentalmente il musico che viene posto nel soggetto. Ed è quasi analoga la ragione
del predicare, poiché il soggetto è predicato dell’accidente e l’accidente dell’accidente. Come, infatti, il
soggetto è predicato dell’accidente per la ragione che il soggetto si predica di quello a cui inerisce
l’accidente posto nel soggetto, così l’accidente si predica dell’accidente perché è predicato del soggetto
dell’accidente. E per questo, come si dice che il musico è uomo, in modo simile si dice che il musico è
bianco, cioè perché quello a cui inerisce in via accidentale di essere musico, cioè il soggetto, è bianco.
È dunque chiaro che quelle cose che chiamate essere per accidente, sono così chiamate per una triplice
ragione: o per «il fatto che entrambi», cioè soggetto e predicato, si trovano nella stessa cosa, come quando
l’accidente si predica dell’accidente; o «perché quello», cioè il predicato, ad esempio “musico”, «si trova
nell’ente», cioè nel soggetto che si dice essere musico, e questo si ha quando l’accidente si predica del
soggetto; oppure, «perché quello», cioè il soggetto posto nel predicato, è quello nel quale si trova
l’accidente, del quale accidente quello, cioè il soggetto, è predicato. E questo si ha quando il soggetto si
predica dell’accidente, come quando diciamo: il musico è uomo.
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Di seguito, quando dice «per sé», Aristotele distingue il senso dell’ente per sé, e su questo sviluppa tre
punti. Per prima cosa distingue l’ente che si trova la di fuori dell’anima mediante le dieci categorie, che è
l’ente perfetto. In secondo luogo, pone un altro senso di ente, secondo il quale è soltanto nella mente, lì
dove dice: «tuttavia anche essere significa, in modo più ampio». In terzo luogo, divide l’ente secondo
potenza e atto: e l’ente così diviso è più comune dell’ente perfetto. L’ente in potenza, infatti, è ente
soltanto rispetto a qualcosa ed è imperfetto, lì dove dice: «Più ampiamente essere significa anche ente».
Dice allora Aristotele in primo luogo, che si chiamano essere per sé tutte quelle cose che significano le
figure della predicazione. È infatti da sapere che in questo senso ente non può essere ridotto a qualcosa
di determinato, come ad esempio il genere si riduce alle specie attraverso le differenze. La differenza,
infatti, poiché non partecipa del genere, è al di fuori dell’essenza del genere. Ma al di fuori dell’essenza di
ente non può esserci nulla che, attraverso l’aggiunta all’ente, costituisce una qualche specie di ente: quel
che infatti è al di fuori dell’ente è nulla e non può essere una differenza. Perciò, nel terzo libro di
quest’opera il Filosofo provò che ente non può essere un genere.
Da ciò segue che è necessario che ente sia ricondotto a generi diversi, secondo il diverso senso di
predicare, che consegue dal diverso senso di essere, perché: «in quanti sensi si dice ente», cioè in quanti
sensi qualcosa viene predicato, «in tanti sensi significa essere», cioè in tanti sensi significa che qualcosa
esiste. E per questo motivo, quelle cose in cui in primo luogo si divide l’ente, si dicono essere le categorie,
perché si distinguono in ragione del senso diverso del predicare. Poiché allora quelle cose che si predicano
di questi, alcune significano il che cosa, cioè la sostanza, altre la qualità, altre la quantità, e così via, è
necessario che in qualsiasi senso di predicare, essere significa la stessa cosa, come quando si dice: l’uomo
è animale, essere significa la sostanza, mentre quando si dice: l’uomo è bianco, significa la qualità, e così
via per le altre categorie.
È infatti da sapere che il predicato si può rapportare al soggetto in tre sensi: in un senso quando è ciò che
è il soggetto, come quando dico: Socrate è un animale. Socrate, infatti, è ciò che è animale. E questo
predicato si dice significare la sostanza prima, che è sostanza particolare di cui si predica ogni cosa.
Nel secondo senso è quando il predicato si assume in quanto inerisce al soggetto; il quale predicato, o gli
inerisce per sé e in senso assoluto, come quel che consegue alla materia, ed è questo il caso della quantità;
o come quel che consegue alla forma, ed è questo il caso della qualità; oppure gli inerisce non in senso
assoluto, ma rispetto ad altro, ed è questo o altro. Nel terzo senso è quando il predicato si assume da quel
che è esterno al soggetto: e questo accade in un duplice senso. In un senso è che è del tutto esterno al
soggetto: cosa che, se non è misura del soggetto, si predica nel senso della disposizione, come quando si
dice: Socrate è calzato o vestito. Tuttavia, se è la misura del soggetto, dal momento che la misura estrinseca
è o il tempo o il luogo, si assume il predicamento o in ragione del tempo, e così sarà il quando, o in
ragione del luogo, e così sarà il dove, senza tener conto dell’ordine delle parti nel luogo, considerato il
quale sarà il sito. Nell’altro senso, quando ciò da cui si desume il predicamento secondo qualcosa, è nel
soggetto di cui è predicato. E se è secondo il principio, allora si predica secondo l’agire; il principio
dell’azione, infatti, è nel soggetto. Se invece è secondo il termine, allora verrà predicato come nel patire.
La passione, infatti, termina nel soggetto che patisce.
Perché alcune cose sono predicate, nelle quali questo verbo “è” non si appone in modo chiaro, affinché
non si creda che quelle predicazioni non pertengono alla predicazione dell’ente, come quando si dice:
l’uomo cammina, perciò di conseguenza, rimuove questo dubbio dicendo che in tutte le predicazioni di
questo genere è significato che qualcosa esiste. Qualsiasi verbo, infatti, si risolve in questo verbo “è” e
nel participio. In nulla, infatti, differisce il dire: l’uomo è convalescente, e: l’uomo recupera le forze, e così
si può dire degli altri casi. Da qui è chiaro che in quanti sensi si da la predicazione, in tanti sensi si dice
ente.
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E non è vero quel che Avicenna dice, che i predicati che sono nel genere dell’accidente, principalmente
significano la sostanza e successivamente l’accidente, come ad esempio quel che dico bianco e musico.
Bianco, infatti, quando si dice nelle categorie, significa la sola qualità; tuttavia, questo nome bianco
significa il soggetto per conseguenza, in quanto significa la bianchezza al modo dell’accidente. Da cui è
chiaro che per conseguenza include il soggetto nella sua nozione. Infatti, l’essere dell’accidente è inerire.
La bianchezza, infatti, anche se significa l’accidente, non lo significa tuttavia nel senso dell’accidente me
nel senso della sostanza. Perciò, in nessun modo cosignifica il soggetto. Se infatti significasse
principalmente il soggetto, allora i predicati accidentali il Filosofo non li avrebbe posti sotto l’ente in sé,
ma sotto l’ente secondo l’accidente. Infatti, tutto quel che è l’uomo bianco è l’ente secondo l’accidente,
come si è detto.
Quando poi Aristotele dice: «più ampiamente poi», egli pone un altro senso di ente, secondo il quale
“essere” ed “è” significano la composizione della proposizione, che l’intelletto opera componendo e
dividendo; da cui segue che l’essere significa la verità della cosa, oppure, come un’altra traduzione riporta
con maggiore correttezza: «quel che essere significa», perché qualcosa che è detto è vero. Perciò, la verità
della proposizione può essere detta verità della cosa secondo la causa. Infatti, dal fatto che la cosa è o
non è, il discorso è vero o falso. Quando, infatti, diciamo che qualcosa è, significhiamo che la
proposizione è vera; e quando diciamo che non è, significhiamo che non è vera, e questo sia nell’affermare
sia nel negare. Nell’affermare, ad esempio, quando diciamo che Socrate è bianco, perché questo è vero;
nel negare invece, come quando diciamo: Socrate non è bianco, perché questo è vero, cioè che egli stesso
è non bianco. E in modo simile diciamo che la diagonale non è incommensurabile ai lati del quadrato,
perché questo è falso, cioè che la stessa diagonale non sia non commensurabile.
È però da sapere che questo secondo senso si paragona al primo come l’effetto alla causa. Da questo,
infatti, che vi è qualcosa nella natura delle cose, consegue la verità e la falsità nella proposizione, che
l’intelletto significa con questo verbo “è”, come copula verbale. Ma, dal momento che vi è qualcosa che
è in sé stesso non ente e che l’intelletto considera come un certo ente, come la negazione e cose di tal
genere, allora talvolta si dice l’essere di qualcosa in questo secondo senso, e non nel primo. Si dice, infatti,
che la cecità esiste nel secondo senso, per il fatto che è vera la proposizione con la quale si dice che
qualcuno è cieco; ma non si dice però che sia vera nel primo senso. La cecità, infatti, non ha una qualche
esistenza nelle cose, ma è piuttosto privazione di un qualche essere. Accade però a ogni cosa che qualcosa
sia affermato di essa con verità con il pensiero o con la voce. La cosa, infatti, non si riferisce alla
conoscenza che si ha di essa, ma accade il contrario. L’essere che ciascuna cosa ha nella propria natura è
sostanziale e allora, quando si dice: Socrate è, se quell’è si prende nel primo senso, riguardo il predicato
sostanziale. L’ente, infatti, è superiore a qualsiasi ente come animale è superiore a uomo. Se invece si
prende nel secondo senso, riguarda il predicato accidentale.
Quando poi dice: «in modo più ampio l’essere», Aristotele stabilisce la distinzione dell’ente per atto e
potenza, dicendo che ente e essere significano qualcosa di dicibile o definibile in potenza o di dicibile in
atto. Infatti, in tutti i termini predetti, che significano le dieci categorie, qualcosa si dice in atto e qualcosa
in potenza. E da ciò segue che qualsiasi predicamento si divide secondo atto e potenza. E come nelle
cose che sono al di fuori dell’anima si dice che vi è qualcosa in atto e qualcosa in potenza, così è negli atti
dell’anima e nelle privazioni, che sono solo oggetti di ragione. Si dice, infatti, che una persona conosce
perché può usare la scienza e perché la usa; analogamente, si diche che uno è quieto perché l’essere quieto
già gli inerisce o perché può essere quieto. E questo non si verifica solo negli accidenti, ma anche nelle
sostanze. «E infatti Mercurio», cioè l’immagine di Mercurio, diciamo che è in potenza nell’immagine e il
punto medio della linea si dice essere nella linea in potenza. Ciascuna parte del continuo, infatti, è in
potenza nel tutto. Certamente, la linea viene annoverata fra le sostanze secondo il punto di vista di coloro
che ritengono che gli enti matematici siano sostanze, punto di vista che Aristotele non aveva ancora
rigettato. Anche il frumento, quando ancora non è perfetto, ad esempio quando è allo stato di erba, si
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dice che è in potenza. Quando allora qualcosa sia in potenza e quando non è ancora in potenza, lo si deve
determinare in altri passi, cioè nel nono libro di quest’opera.
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Giovanni Duns Scoto, Questioni sulla Metafisica, lib. V, qq. 5-6
[Questione 5
Se l’ente in quanto tale si divida comunemente nei dieci generi generalissimi]
Ci si chiede se l’ente in quanto tale sia comunemente diviso nei dieci generi generalissimi
Che non lo sia:
Dalla parte di quel che è diviso: l’ente in quanto tale, nella misura in cui esiste, non necessita di altro;
stando al I degli Analitici Secondi, è nel terzo senso in quanto tale, ma l’accidente non necessita di altro;
dunque non vi è un ente in quanto tale.
Si dice che l’ente qui [nella Metafisica] non è diviso nel modo in cui è inteso lì [negli Analitici Secondi],
dove cioè si riferisce ad un ente solitario, ossia alla prima sostanza, ma viene qui inteso come qualcosa
che non aggrega in sé nature diverse.
Di contro, nel libro VII di quest’opera: la qualità del bianco non è identica al bianco, né la qualità del
musico è identica al musico, “a causa del doppio significare”; perciò qualsiasi accidente significa un
aggregato.
[…]
[Questione 6
Se le categorie si distinguano sul piano dell’essenza]
Riguardo a questo tema relativo alla distinzione delle categorie che dividono ci si chiede se si distinguano
quanto all’essenza.
Che non:
La quantità “quanto all’essenza è divisibile in quelle cose nelle quali è, delle quali” etc. Tale è la sostanza
corporea senza l’aggiunta dell’essenza. Prova: il soggetto, in quanto soggetto, precede naturalmente
l’accidente; dunque la sostanza corporea precede naturalmente la quantità, dal momento che è il soggetto
di questa. Tale sostanza però non può ricevere la quantità se non nelle sue parti, perché è proprio della
definizione di quantità avere una parte fuori dalla parte, e ciò che è indivisibile non può ricevere ciò che
è divisibile. Dunque, la definizione di ricevente, in quanto tale, è avere parti dello stesso genere.
…
[I. – Alla quinta questione
A. – L’opinione di Avicenna]
Si può dire che non è necessario porre dieci categorie, come dice Avicenna nel III libro della Fisica, capitoli
2 e 3: “Non siamo costretti a seguire quella famosa divisione che ritiene che vi siano dieci generi, ciascuno
dei quali è una generalità certissima, e che non ci sia altro oltre questi”. Perché, si trova qualcosa che non
può essere collocato sotto alcun genere, come il moto. Perché, se la comparazione del movimento al
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soggetto è una categoria, cioè “essere il moto nel soggetto”, è nel genere dell’essere affetto, ancor più il
moto sarà una categoria. O se no, assumiamo la comparazione della qualità al soggetto come categoria e
non come qualità. O se vuoi assumere come categoria la qualità, devi porre il moto come categoria. E se
inoltre assumi la comparazione del moto al soggetto, allora assumi come categoria la comparazione della
qualità al soggetto e ugualmente fai per gli altri accidenti. E in tal modo “il numero delle categorie si
accrescerà di molto”. Queste sono le parole di Avicenna, nel III libro della Metafisica, capitolo 3. Ed egli
le pronuncia contro coloro che assumono che il moto sia una categoria a motivo della comparazione con
il paziente.
…
[B. – L’opinione che sostiene l’adeguatezza
della divisione in quanto include le proprietà]
Diversamente si sostiene che la divisione è adeguata, non perché la divisione si determina soltanto in
queste categorie e in quelle cose che sono classificate nella categoria, ma per il fatto che queste si
accordano con altre cose che sono classificate indirettamente nella categoria, come alcuni assumono le
proprietà sostanziali come riducibili alla stessa categoria e non solo i principi in sé della sostanza.
…
[II. – Alla sesta questione
A.- L’opinione di Tomaso]
Alla seconda questione si risponde che le categorie non si distinguono quanto all’essenza, ma in ragione
dei diversi modi di predicare.
Che non si distinguono quanto all’essenza, la prova è la seguente:
Riguardo alla quantità: la continuità della sostanza è l’unità della sostanza. Se allora questa unità si
distingue dalla sostanza, allora la sostanza è uno in ragione di qualcosa che è altro da sé, cosa che è
contraria a quel che il Filosofo dice nel IV libro di quest’opera e a quel che sostiene il Commentatore.
Riguardo alla relazione: se fosse distinto dal fondamento, allora nessuna forma assoluta potrebbe essere
principio immediato di una qualche azione, perché ogni forma di tal genere, se è principio dell’agire, ha
una relazione che è aggiunta.
La seconda tesi [che cioè le categorie si distinguono in ragione dei diversi modi di predicare] è sostenuta
nel V libro di quest’opera: “In quanti modi si dice ente, in tanti significa essere”. Per quanto dunque una
categoria significa altre cose, analogamente essa significa anche sensi diversi di essere.
[B. – Contro l’opinione di Tommaso]
Contro questa seconda tesi: i sensi primi di predicare non sono se non semplicemente due: ‘in che cosa’
e ‘in quale cosa’.
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Inoltre, non vi sono se non quattro categorie [cioè genere, specie, proprietà e accidente], e non vi sono
se non cinque elementi universali; perciò riguardo al senso di predicare non si può distinguere se vi siano
dieci categorie.
Inoltre, se ‘essere’, che significa la predicazione di qualcosa riguardo ad altro, significasse tante cose
quante sono le categorie, allora in ogni proposizione vi sarebbe una vana ripetizione, perché la
composizione si colloca dal lato del predicato e così la stessa cosa sarebbe predicata due volte.
Inoltre, ‘essere’ “significa una certa composizione che” etc. Questa composizione è causata dall’intelletto;
dunque ‘essere’ significa qualcosa della intenzione seconda; ma in tal modo non si diversifica a causa della
distinzione delle core della prima intenzione, né vice versa [le cose della intenzione prima si diversificano
in ragione dell’intenzione seconda]. – Prova dell’assunto: perché ‘genere’ secondo la stessa nozione si
dice della sostanza e qualità etc. Analogamente, ‘animale’ in sé non varia a causa dell’intenzione del genere
o della specie, che viene attribuita a questa nozione dall’intelletto.
Inoltre, se le cose stanno così, allora questa proposizione ‘l’uomo è un animale’, di per sé significherebbe
che l’uomo è un animale nel primo senso, e allora vi sarebbe una vana ripetizione in questa frase: ‘l’uomo
di per sé è un animale’, perché quel che esprime l’espressione ‘di per sé’, secondo la tua posizione lo
esprime la composizione.
Ammetto questi argomenti, che ‘essere’, che indica una composizione, non si diversifica come le cose.
Ne segue allora che ‘essere’ non si può predicare come contiguo dicendo ‘l’uomo è’. Occorre dire che
‘essere’ è termine equivoco rispetto alla cosa della prima e della seconda intenzione. Perché, quanto
‘essere’ significa una cosa della prima intenzione, allora si può predicare dicendo ‘l’uomo è’, cioè l’uomo
è esistente; ma essere come copula non si predica.
Rispetto al testo del Filosofo occorre dire che quell’‘essere’ non è l’‘essere’ che è la composizione, ma
l’‘essere’ detto in senso denominativo a partire dall’ente, e quell’‘essere’ significa la stessa cosa in ciascuna
categoria di enti, come un ente che è diviso in quelle categorie, ad esempio come la parola è divisa nei
suoi significati.
Quando si argomenta contro questi riguardo all’intenzione dell’universalità, essi dicono che non qualsiasi
senso intenzionale di predicare distingue le categorie, ma quei sensi di predicare che sono i sensi delle
stesse cose predicate; perché quantità e qualità hanno un altro modo di predicare.
Al contrario: stando al tuo punto di vista, rispetto a questo senso di predicare, vi è un altro modo di
predicare che è proprio di ciò che è astratto e di ciò che è concreto. La prova è la seguente: quei primi
sensi esclusi da Tommaso, cioè i sensi intenzionali di predicare, non causano la falsità nella proposizione;
invece questi sensi astratti e concreti determinano la falsità nella proposizione, cioè ‘il bianco è la
bianchezza’; dunque, in ogni genere vi sarebbero due categorie generalissime.
Inoltre, questo diverso senso di predicare in categorie diverse è in esse a causa della comparazione con la
sostanza, perché comparando queste alle proprie specie vi è una predicazione ‘in che cosa’. Perciò, quelle
cose che sono predicate della pria sostanza sarebbero le categorie, e sono tali gli accidenti, presi in
concreto, e così il ‘quale’ sarebbe una categoria e non la ‘qualità’.
Di contro, Avicenna, nel III libro della Fisica, capitolo 2: dove egli sostiene che sia incongruo che ‘il moto
in un soggetto’ sia una categoria e non il ‘moto’. La prova di questo è la seguente: che in questo modo si
ha una prima nozione di genere in quanto è predicata ‘in che cosa’; quindi, quel che è predicato con
maggior verità ‘in che cosa’, è più veramente un genere; tali sono le cose astratte.
Inoltre, se i diversi sensi di genere distinguessero i generi, o questo sarebbe adeguato o con questo sarebbe
richiesta una diversità di quelle cose che sono predicate. Se si da il secondo caso, il primo non sarà
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naturalmente primo nel distinguere, perché la stessa cosa che è predicata è prima del modo di essere
predicata; perciò, qualcosa distingue prima di quel che fa il modo di predicare. Se non fosse, allora le
categorie non sarebbero enti diversi in sé stesse.
Analogamente, segue che non sarebbe prima quella frase negativa nella quale una categoria è negata da
un’altra, cosa che è contraria a quanto sostiene il Filosofo, nel I libro degli Analitici Secondi, cap. 1:
“Tuttavia, fra tutte le figure sillogistiche, [la prima è la più scientifica]”. La prova è la seguente: la verità
di una [proposizione] negativa dipende dalla diversità dei termini estremi, come la verità di una
[proposizione] affermativa dipende dall’identità, come ‘uomo è uomo’. Dove allora maggiore è la
diversità, più vera è la negazione; ma sarà più vera quella proposizione in cui si distingue in ragione della
cosa piuttosto che soltanto nel modo di predicare. La seguente proposizione: ‘l’uomo non è un asino’, è
di tal genere; dunque è più immediata della seguente: ‘la sostanza non è una quantità’.
…
[IV.- Risposta propria a entrambe le questioni]
Concedo dunque che la divisione sia adeguata e che [le dieci categorie] siano realmente distinte.
[Riguardo alla quantità] – Lo si può provare in senso speciale riguardo alla quantità. In primo luogo che
la quantità si distingua dalla sostanza corporea: “Un accidente è quel che può essere presente e essere
assente”, secondo quanto dice Porfirio. La quantità però si dilegua e sopraggiunge rispetto alla sostanza,
e la sostanza corporea non è mutata; dunque, etc. La prova è la seguente: mentre la sostanza resta la
stessa, la sua quantità può rarefarsi o condensarsi.
Si deve dire che come la quantità muta, così la sostanza, perché come la quantità sopraggiunge rispetto
alla quantità, così la sostanza alla sostanza, e un tale mutamento è allora tanto nella sostanza quanto nella
quantità.
Inoltre, in un altro modo si dice che la rarefazione e la condensazione non sono moto nella quantità, ma
nella quantità.
Inoltre, solo la quantità è divisibile in parti della stessa sorta, come è chiaro nel V libro di quest’opera. E
nel I libro della Fisica, contro Melisso, il Filosofo dice che la finitezza e l’infinità ineriscono in via
accidentale alla sostanza e per sé si accordano con la quantità; perciò la quantità non è identica con la
sostanza quanto all’essenza.
E questo trova conferma: nel III libro della Fisica, il Filosofo – contro coloro che assunsero che l’infinito
è sostanza, e tuttavia che è divisibile – dice che ‘se è divisibile, allora vi è una grandezza o una moltitudine’
nelle parti dello stesso tipo, quindi etc.
Inoltre, se la sostanza avesse una propria estensione a causa dell’essenza, allora l’estensione del calore
non differirebbe dal calore; ma la parte del fuoco e del calore sono simultanee; dunque vi sono due
estensioni simultanee, cosa che è contraria a quel che sostiene il Filosofo.
Forse si potrebbe dire che l’estensione del calore non è identica col calore, come l’estensione del fuoco
col fuoco, perché il calore nel fuoco non ha un’estensione quanto alla forma, ma si estende per accidente
rispetto all’estensione della sostanza.
Inoltre, nel V libro della Fisica: il moto di per sé è rispetto alla quantità; il termine ‘di per sé’ del moto è
una natura vera e assoluta, e non una sostanza corporea, perché “rispetto alla sostanza non vi è moto”,
secondo quanto si legge nello stesso V libro; dunque etc.
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[Riguardo alle altre categorie] – Riguardo alla qualità è chiaro che è altro rispetto alla sostanza, perché
implica il più e il meno, e ha un contrario, e rispetto vi è un moto rispetto ad essa – tutte le realtà della
quale categoria ripugnano alla sostanza.
Riguardo alla relazione: [è chiaro] che sia altro dal fondamento, perché sullo stesso fondamento quanto
al numero si fondano diverse relazioni opposte; dunque, nessuna di esse è identica in senso essenziale
alla terza cosa [su cui sono fondate]. – L’assunto è chiaro nel caso della bianchezza, che è simile al bianco
e dissimile dal nero.
…
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Relazione
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Tommaso d’Aquino, Commento alla Metafisica, lib. V, lect. 17
Il Filosofo definisce qui la relazione e su questo tema sviluppa due argomenti. In primo luogo fissa i
significati di quelle cose che di per sé sono in relazione. In secondo luogo di quelle cose che sono in
relazione a causa di altro, là dove dice: «tuttavia, poiché quelli sono i suoi generi». Riguardo alla prima
questione presenta due argomenti: in primo luogo enumera i significati di quelle cose che di per sé sono
dette in relazione; in secondo luogo prosegue a occuparsi di essi lì dove osserva: «si chiamano poi del
primo tipo». Fissa dunque tre significati di queste cose che si dicono in relazione ad altro: il primo dei
quali è secondo numero e quantità, come il doppio alle metà e il triplo alla terza parte, e «il moltiplicato»,
cioè il molteplice, alla parte «del moltiplicato», ossia al submolteplice, «e il contenitore rispetto al
contenuto». Con contenitore però si intende quel che eccede secondo la quantità: infatti, ogni cosa che
eccede secondo la quantità contiene in sé quello che è ecceduto. E infatti, questo è vero in senso ancor
più ampio, come il cinque contiene in sé il quattro e la misura di tre cubiti contiene in sé quella di due
cubiti.
Il secondo significato è quello per cui alcune cose sono dette in relazione secondo azione e passione o
secondo la capacità attiva e passiva, come ciò che riscalda a ciò che può essere scaldato, cosa che riguarda
le azioni naturali, e quel che può essere diviso a ciò che è divisibile, cosa che riguarda le azioni artificiali,
e in generale ogni cosa attiva a ciò che è passivo.
Il terzo senso è quello per cui il misurabile è così chiamato in relazione alla misura. Tuttavia, qui si intende
misura e misurabile non secondo la quantità (questo infatti riguarda il primo significato: infatti, il doppio
si dice rispetto alla metà e la metà rispetto al doppio), ma rispetto alla misura dell’essere e della verità. La
verità di una scienza, infatti, si misura dallo scibile: infatti, per il fatto che una cosa è o non è,
l’affermazione è conosciuta come vera o falsa e non viceversa. E in modo simile si verifica col sensibile
e ciò che è sentito. E per questo motivo la misura rispetto al misurabile non si dice scambievolmente e
viceversa, come in altri sensi, ma solo il misurabile in relazione alla misura. E analogamente anche
l’immagine si dice in relazione a ciò di cui è immaginazione, come il misurabile in relazione alla misura.
La verità di un’immagine, infatti, si misura a partire dalla cosa di cui è immagine.
Tuttavia, la ragione di questi sensi è questa: dal momento che la relazione, che sussiste nelle cose, consiste
in un certo ordine di una cosa in relazione ad un’altra, è necessario che vi siano relazioni di questo genere
in tanti sensi quanti accade che una cosa sia ordinata ad un’altra. Una cosa però è ordinata ad un’altra o
secondo l’essere, nel senso che l’essere di una cosa dipende da un’altra cosa, ed è questo un terzo senso;
oppure secondo la virtù attiva e passiva, rispetto a quello che una cosa riceve dall’altra o trasmette
qualcosa ad un’altra cosa, ed è questo il secondo senso; oppure, per il fatto che la quantità di una cosa
può essere misurata rispetto ad un’altra e si ha così il primo senso.
Tuttavia, la qualità di una cosa in quanto tale non riguarda se non il soggetto in cui si trova. Perciò, in
base ad essa, una cosa non è ordinata ad un’altra se non per il fatto che la qualità assume la nozione di
potenza passiva o attiva, in quanto è il principio di azione o passione. Oppure, in ragione della quantità
o di qualcosa che pertiene alla quantità, ad esempio quando qualcosa è detta più bianca di un’altra o si
chiama simile quel che ha una qualche altra qualità. Gli altri generi, invece, conseguono dalla relazione
più di quanto possono causare la relazione. Infatti, il “quando” consiste in una qualche relazione al tempo,
mentre il “dove” è una qualche relazione al luogo; la posizione invece implica l’ordine delle parti, mentre
“disposizione” è la relazione di colui che possiede o ciò che è posseduto.
Quando poi Aristotele dice: «tuttavia si chiamano», espone i tre sensi enumerati e in primo luogo espone
il primo senso, prosegue poi con il secondo, lì dove dice: «attiva e passiva», in terzo luogo passa al terzo
dove spiega: «dunque, secondo il numero». Riguardo al primo senso, Aristotele sviluppa due argomenti:
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in primo luogo, pone le relazioni che conseguono dal numero in senso assoluto; in secondo luogo, pone
le relazioni che conseguono in senso assoluto dall’unità, lì dove dice: «e in modo più ampio è uguale».
Dice allora che il primo senso delle relazioni, che è secondo il numero, si distingue in questo modo:
perché o è secondo il confronto di un numero ad un numero o di un numero all’uno. Ed è in due sensi
secondo il confronto con entrambi: perché o è secondo il confronto di un numero ad un numero in
modo indeterminato oppure all’uno in modo determinato. E questo è quel che dice: che le prime cose,
che si chiamano relative secondo il numero, o si dicono «in senso assoluto», cioè in generale, o in modo
indeterminato o in modo determinato. E in entrambi i sensi «ad essi», cioè i numeri, «o all’uno», cioè
all’unità.
Si deve poi sapere che ogni misura, che consiste nelle quantità continue, in altro modo si deriva dal
numero. E allora le relazioni che sono secondo una quantità continua sono attribuite anche al numero.
Si deve anche sapere che la proporzione numerica si divide prima di tutto in due, cioè proporzione di
uguaglianza e diseguaglianza. Vi sono tuttavia due specie di diseguaglianza, cioè quella che eccede e quella
che è ecceduta, e il più e il meno. Il diseguale eccedente, però, si divide in cinque sensi.
Il numero maggiore, infatti, è talvolta multiplo rispetto al minore, cioè quando lo contiene alcune volte,
come il sei contiene due volte tre. E se poi lo contiene due volte si dice doppio, come il due rispetto
all’uno o il quattro rispetto al due. Se lo contiene tre volte, si dice triplo; se lo contiene quattro volte,
quadruplo. E così via.
In altri casi, invece, il numero maggiore contiene l’intero numero minore una sola volta, e in più un’altra
parte di esso, e allora si chiama numero “superparticolare”. E se poi contiene il tutto e la metà, si chiama
sequialtero, come il tre rispetto al due. Se invece contiene la terza parte, si chiama sesquiterzo, come il
quattro rispetto al tre. Se contiene la quarta parte, si chiama sesquiquadrato, come il cinque rispetto al
quattro. E così di seguito.
In altri casi il numero maggiore contiene il minore interamente una sola volta e in più non una parte
soltanto ma più parti. E in questo caso si chiama “superdiviso”. E se uno contiene due parti si chiama
superbipartito, come il cinque si pone in rapporto al tre. Se invece contiene tre parti si chiama
supertripartito, come il sette si pone in rapporto col quattro; se poi contiene quattro parti è allora
“superquadripartito”, ed è così che il nove si rapporta al cinque. E così di seguito.
In altri casi ancora il numero maggiore contiene tutto il minore più volte e in più una qualche parte di
esso, e allora si chiama molteplice superparticolare. E se lo contiene due volte e in più contiene la sua
metà, è chiamato doppio sesquialtero come nel caso del cinque rispetto al due. Se invece lo contiene tre
volte e in più la sua metà, si chiama triplo sesquialtero, come il sette si rapporta al due. Se poi lo contiene
quattro volte e in più la sua metà, si chiama quadruplo sesquialtero, come il nove rispetto al due. Si
potrebbe anche desumere le specie di una simile proporzione dalla parte del superparticolare, così da
chiamare doppio il sesquiaterzio, quando il numero maggiore ha in sé il minore due volte e in più la sua
terza parte, come il sette si rapporta al tre: o il doppio al sesquiquarto, come il nove si rapporta al quattro
e così via.
Talvolta anche il numero maggiore contiene interamente il minore più volte e in più anche molteplici
parti di esso e allora si chiama molteplice superpartiente. E analogamente la proporzione la si può dividere
secondo le specie delle molteplicità, e secondo le specie del superpartiente se si chiama doppio il
superpartito quando il numero maggiore contiene tutto il minore per due volte e due sue parti, come
l’otto rispetto al tre; o anche si chiama triplo il superbipartito, come ad esempio l’undici rispetto al tre; o
anche il doppio supertripartito, come l’undici rispetto al quattro: ha infatti due volte il tutto e tre parti di
esso.
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E altrettante sono le specie dal lato dell’ineguaglianza di quel che è ecceduto. Il numero minore, infatti,
si chiama submolteplice, subparticolare, subpartito, submolteplice del subparticolare, submolteplice del
subpartito, e così via.
È però da sapere che la prima specie di proporzione, cioè la molteplicità, consiste nel confronto di un
numero con l’unità. Qualsiasi specie di esso, infatti, si trova in primo luogo in qualche numero rispetto
all’unità. Il doppio si rinviene in primo luogo nel due rispetto all’unità, e in modo simile la proporzione
del tre nel ternario rispetto all’unità. Il doppio si rinviene in primo luogo nel due rispetto all’unità, e in
modo simile la proporzione del tre ne ternario rispetto all’unità, e così via. Ma i primi termini in cui si
trova una qualche proporzione, danno la specie alla proporzione stessa, per cui in qualsiasi altri termini
conseguentemente si trovi, si trova in essi secondo la nozione dei primi termini; come la proporzione
doppia si trova in primo luogo fra il due e l’uno. Perciò, da questo la proporzione riceve la definizione di
nome. Si chiama infatti proporzione doppia la proporzione del due rispetto all’uno. E a causa di questo,
se anche un numero è doppio rispetto ad un altro numero, questo tuttavia accade per il fatto che il numero
minore riceve la definizione di uno e il maggiore la definizione di due. Il sei, infatti, si relazione al tre in
una doppia proporzione, perché il tre si rapporta al sei come l’ino al due. E in modo simile si verifica
nella tripla proporzione e in tutte le altre specie di molteplicità. E perciò affermo che questa relazione del
doppio si verifica per il fatto che il numero determinato, cioè il due, «si riferisce all’uno», cioè all’unità.
Ma questo che chiamo molteplice, implica la relazione del numero all’unità, ma non di un qualche numero
determinato, ma del numero in generale. Se infatti si prende in esame il numero determinato, come il
doppio e il triplo, vi sarebbe una specie di molteplicità, come la doppia o la tripla. Come però il doppio
si relazione al due e il triplo al tre, che sono numeri determinati, così il molteplice si relaziona alla
molteplicità, perché significa il numero indeterminato.
Altre proporzioni, invece, non si possono assumere secondo il rapporto del numero all’unità, ossia né la
proporzione superparticolare, né quella superpartiente, né il molteplice superparticolare né il molteplice
superpartiente. Tutte queste specie di proporzione, infatti, si assumono in ragione del fatto che il numero
maggiore contiene il minore una volta o più volte, e in più una o più parti di esso. L’unità però non può
avere una parte e allora nessuna di queste proposizioni può essere assunta secondo il confronto del
numero con l’unità, ma secondo il confronto del numero col numero. Ed è duplice nel modo seguente:
o secondo il numero determinato o secondo il numero indeterminato.
Se secondo il numero determinato, allora «è una volta e mezzo», cioè sesquialtero o «diminuito di una
metà», cioè supersesquialtero. La porzione sesquialtera, infatti, consiste in primo luogo in questi termini,
cioè il triplo e il doppio; e sotto la loro nozione si trova in tutti gli altri. Perciò, quel che si chiama una
volta e mezzo o sesquialtero implica la relazione di un determinato numero con un determinato numero,
ossia di tre e due.
Quel che invece si chiama superparticolare si riferisce al subparticolare non in ragione di determinati
numeri, come anche il molteplice si riferisce all’uno, ma in ragione del numero determinato. Infatti, le
prime specie di ineguaglianza elencate sopra si considerano con riferimento a numeri indeterminati, come
molteplice, superparticolare, superpartiente, etc. Le specie di questi, invece, si considerano con
riferimento a numeri determinati, come doppio, triplo, sesquialtero, sesquiterzo, e così via.
Accade, infatti, che alcune quantità continue abbiano una proporzione reciproca, ma non secondo un
qualche numero, determinato e indeterminato. Di tutte le quantità continue, infatti, vi è una qualche
proporzione, sebbene non sia una proporzione numerica. Infatti, di due numeri qualsiasi esiste una misura
comune, cioè l’unità, la quale una volta assunta restituisce qualsiasi numero. Tuttavia, non di qualsiasi
quantità continua si trova esserci una misura comune, ma vi sono alcune quantità continue
incommensurabili: ad esempio, la diagonale del quadrato è incommensurabile al lato. E perciò, questo
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accade perché non vi è la proporzione di essa al lato, come ad esempio la proporzione del numero al
numero o del numero all’uno.
Quando, dunque, si dice nelle quantità che questa è maggiore di quello o si relaziona a quello come il
contenitore al contenuto, non solo questa nozione non si considera secondo una qualche specie
determinata di numero, ma nemmeno che sia secondo il numero, perché ogni numero è commensurabile
ad un altro. Tutti i numeri, infatti, hanno una misura comune, cioè l’unità. Tuttavia, il contenitore e il
contenuto non si predicano in virtù di una qualche commensurazione numerica: il contenitore, infatti, si
predica rispetto al contenuto per il fatto che è grande e ancor più grande. E questo è indeterminato: se
sia commensurabile o non commensurabile. Qualsiasi quantità si prenda in considerazione, infatti, o è
uguale o disuguale; perciò, se non è uguale, ne consegue che sia diseguale e che contenga anche se non è
commensurabile. È dunque chiaro che tutte le cose dette in precedenza si predicano di qualcosa secondo
il numero e secondo le relazioni e a cui i numeri sono soggetti, che sono la commensurabilità, la
proporzione e circostanze di tal genere.
Quando poi Aristotele dice: «e più ampiamente», egli pone le cose relative che si assumono in relazione
all’unità e non per il confronto del numero all’uno o al numero; e afferma che in un altro modo rispetto
a quelli predetti si chiamano il relativo, l’uguale, il simile e lo stesso. Questi, infatti, si predicano secondo
l’unità e infatti sono le stesse le cose di cui è una la sostanza; simili le cose di cui la qualità è una; uguali le
cose delle quali la quantità è una. Poiché però è uno il principio e la misura del numero, è anche chiaro
che queste cose si dicono in relazione a qualcosa: «secondo il numero», cioè secondo qualcosa che
pertiene al genere del numero; non allo stesso modo ma queste ultime con le prime. Le prime relazioni,
infatti, erano secondo il numero al numero; questo invece secondo l’uno in senso assoluto.
Successivamente, quando Aristotele dice: «le realtà in atto poi», egli prosegue a discutere del secondo
senso di relazioni che sono nelle cose attive e passive: e dice che le cose relative a questo genere sono
relative in un doppio senso. In un senso, in ragione della potenza attiva e passiva, e in un secondo senso
in rapporto agli atti di queste potenze, i quali sono l’agire e il patire, come quel che può scaldare è detto
rispetto a quel che può esser scaldato in ragione della potenza attiva e passiva.
È infatti scaldato quel che può scaldare, mentre è scaldabile quel che può essere scaldato. Ciò che scalda
si dice rispetto a quel che è scaldato e quel che taglia rispetto a quel che è tagliato in relazione agli atti
delle potenze menzionate in precedenza.
E questo senso di relazioni differisce dai precedenti. Quelle che, infatti, sono secondo il numero, non
sono altre azioni se non secondo la somiglianza, come moltiplicare, dividere e simili, come si dice anche
in altre opere, cioè nel secondo libro della Fisica, là dove Aristotele mostra che, dato che gli oggetti
matematici astraggono dal moto, perciò in essi non possono essere azioni di tal genere che sono secondo
il moto.
Si deve anche sapere che di queste cose relative che sono dette secondo la potenza attiva e passiva, si
individua la diversità in ragione dei tempi diversi. Infatti, alcune di queste sono dette relativamente al
tempo passato, come quel che fece è detto riguardo a quel che è stato fatto, come il padre rispetto al
figlio, perché quello generò e questo è stato generato. Quelle cose si differenziano in ragione dell’aver
fatto e dell’aver patito. Altre invece sono cose relative, dette rispetto al tempo futuro, come quel che sarà
fatto si riferisce a quel che deve esser fatto. E a questo genere di relazioni sono ricondotte quelle relazioni
che si predicano secondo la privazione della potenza, come impossibile e invisibile. Si dice, infatti, che
qualcosa è impossibile a questo o a quello; e analogamente si dice dell’invisibile.
Poi, quando Aristotele dice: «dunque, stando al», prosegue a trattare del terzo senso di relazioni e dice
che questo terzo senso differisce dai precedenti in questo: nel fatto che nei casi precedenti ogni cosa è
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detta in senso relativo, per il fatto che essa stessa si riferisce ad altro; non perché un altro si riferisce ad
essa. Il doppio, infatti, si riferisce alla metà e viceversa, e in modo simile il padre al figlio e viceversa. In
questo terzo senso, invece, qualcosa si predica in senso relativo soltanto per il fatto che qualcosa è riferito
ad essa, come ad esempio è chiaro che sensibile e conoscibile o intelligibile sono detti in senso relativo,
perché altre cose sono riferite ad essi. Si dice, infatti, che una cosa è conoscibile perché si ha scienza di
essa. E in modo simile si dice sensibile qualcosa che si può sentire.
Per cui non si predica in senso relativo a causa di quel che viene da parte di quelle cose, che sia qualità o
quantità, o azione, o passione, come accadeva nelle precedenti relazioni, ma solo a causa delle azioni di
altre cose che non si esauriscono in quella. Se infatti il vedere fosse l’azione di colui che vede arrivando
alla cosa vista, come lo scaldare perviene allo scaldabile, come lo scaldabile si riferisce a ciò che scalda,
così il visibile dovrebbe riferirsi al vedente. Ma il vedere e il comprendere e le azioni di questo genere,
come si dice nel nono libro di quest’opera, restano nei soggetti agenti e non passano nelle cose esterne;
perciò il visibile e lo scibile patiscono qualcosa a causa di quel che si comprende o si vede. E per questo
motivo non sono essi ad esser riferiti ad altri, ma gli altri ad esser riferiti a loro. E avviene in modo analogo
in tutti gli altri casi in cui qualcosa è predicato in senso relativo a causa della relazione di un’altra cosa con
essa, come il destro e il sinistro nella colonna. Poiché, infatti, il destro e il sinistro designano il principio
dei moti delle realtà animate, non possono essere attribuiti alla colonna e a qualcosa di inanimato, se non
per il fatto che gli enti animati si relazionano in qualche modo ad essa, ad esempio perché la colonna è
chiamata destra per il fatto che l’uomo è alla sua sinistra. Ed è simile la considerazione riguardo al rapporto
fra l’immagine e il modello, e riguardo alla moneta con cui si fissa il prezzo di vendita. In tutte queste
circostanze però l’intera nozione di porre in relazione ai due estremi dipende da altro. E perciò tutte le
cose di questo genere, in un certo senso, si presentano come il misurabile e la misura. Infatti, ogni cosa è
misurata da ciò da cui essa stessa dipende.
È però da sapere che, sebbene la scienza quanto al nome sembri riferirsi a colui che conosce e allo scibile,
si dice infatti scienza di colui che sa e scienza dello scibile e l’intelletto sembri riferirsi a colui che
comprende e all’intelligibile; tuttavia, l’intelletto, per il fatto che è detto in rapporto a qualcosa, non lo si
predica di ciò di cui è comune al soggetto: ne seguirebbe, infatti, che la stessa cosa si direbbe relativa due
volte. È infatti chiaro dal momento che l’intelletto si predica rispetto all’intelligibile come rispetto
all’oggetto. Se però si predicasse rispetto a colui che comprende, si direbbe relativo a qualcosa due volte,
e dato che l’essere del relativo è essere in rapporto con qualcos’altro in qualche modo, ne seguirebbe che
la stessa cosa avrebbe un duplice essere. E in modo analogo, è chiaro dalla vista che non la si predica
rispetto a colui che vede ma all’oggetto che è il colore: «o qualcos’altro di tal genere». Cosa che Aristotele
sostiene riguardo a quegli oggetti che di notte si vedono non per mezzo del colore loro proprio, come si
sostiene nel secondo libro del De anima.
Per quanto si possa dire correttamente anche questo, che cioè la vista è di colui che vede, tuttavia la vista
si riferisce a colui che vede non in quanto è visto ma in quanto è accidente o potenza di colui che vede.
La relazione, infatti, considera qualcosa di esterno ma non il soggetto se non in quanto è accidente. Ed è
così chiaro che questi sono i due sensi con cui alcune cose si dicono di per sé in relazione ad altro.
Successivamente, quando Aristotele dice: «quelle cose invece», pone tre sensi coni quali alcune cose si
dicono in relazione ad altro non di per sé, ma secondo l’altro. Il primo dei quali sensi è quando alcune
cose dicono in relazione ad altro per il fatto che i loro generi sono in relazione a qualcos’altro, come la
medicina è detta rispetto a qualcos’altro perché una scienza è rispetto a qualcos’altra. Si dice, infatti, che
la medicina è la scienza del sano e del malato. E in questo modo scienza di predica per il fatto di essere
un accidente.
Il secondo senso è quando enti astratti si predicano rispetto ad altro perché le realtà concrete da cui si
ricavano quelle astratte si predicano in relazione ad altro; ad esempio, l’uguaglianza e la somiglianza si
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predicano rispetto ad altro, perché il simile e l’uguale sono in relazione ad altro. Tuttavia, uguaglianza e
somiglianza, quanto al nome, non si dicono in relazione ad altro.
Il terzo senso è quando il soggetto è predicato in relazione ad altro, in ragione dell’accidente; ad esempio,
uomo o bianco si dice rispetto ad altro, perché a entrambi accade di essere doppi, e in questo modo capo
si dice in relazione ad altro, per il fatto che è una parte.