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1 DE ARTIS MEDIETATE VEL Пερί του τέχνης μεταξύ Ossia il carattere intermediario della tecnica di Andrea Beghini Liceo ginnasio statale “G.Chiabrera” 2008

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DE ARTIS MEDIETATE VEL

Пερί του τέχνης μεταξύ

Ossia il carattere intermediario della tecnica

di

Andrea Beghini

Liceo ginnasio statale “G.Chiabrera” 2008

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Indice:

1. Introduzione: un problema complesso. 2. I Greci e la τέχνη: tra mito e società. 3. La questione della tecnica: prospettive filosofiche e scorci

artistico- letterari. 4. L’età della tecnica: lo smarrimento del senso. 5. Dal formalismo al Gestell. 6. De artis medietate.

“Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica. Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo. Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditato, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo dalla nostra epoca” MARTIN HEIDEGGER, L’abbandono.

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DE ARTIS MEDIETATE

VEL Пερί του τέχνης μεταξύ

Ossia il carattere intermediario della tecnica

Introduzione: un problema complesso. Già Sofocle nel primo stasimo dell’Antigone scrisse: “πολλά τά δεινά κουδέν ανθρώπου

δεινότερον πέλει”1 dando così voce ad un’inquietudine di fondo, un brivido sottile di

serpeggiante irrazionalità rispetto alla figura di un’umanità ambigua, dai moti spesso

incontrollabili che oscillano da una polarità all’altra, dal vertice di positività all’estremo di

negatività. Proprio questo carattere ambiguo si amplifica nelle attività tramite cui l’uomo si

rapporta con il mondo, attività che trovano a loro volta espressione massima nella tecnica

intesa sia come progresso tecnologico, sia più sottilmente come quel pensiero tecnico che

presiede allo svolgimento delle attività umane (a tale proposito il Dizionario di filosofia di

Nicola Abbagnano la definisce come “insieme di regole adatte a dirigere efficacemente

un’attività qualsiasi”2). Dunque, così come l’agire dell’uomo richiede una riflessione etica

sull’agire, la tecnica, che si presenta come un’aggrovigliata matassa di problematiche che

riguardano l’agire e l’essere stesso dell’uomo, non richiede a sua volta una riflessione

sulla tecnica?

La tecnica, intesa nei due sensi prima enunciati, offre all’uomo, cioè al soggetto, la facoltà

di intervenire e, in un certo senso, di realizzarsi costruttivamente producendo, regolando e

modificando tanto il pensiero- se è tecnica di pensiero- quanto la realtà - se è tecnologia-.

Parimenti l’effetto prodotto, regolato, modificato interviene e muta il modo proprio di essere

dell’uomo. Pertanto, con questa trattazione, si intende esaminare le problematiche che la

tecnica ha sollevato nel tempo e solleva tuttora, analizzando alcuni scorci del pensiero

occidentale. Partendo così dalle sue radici, l’alveo della cultura greca, si arriverà ad

esaminare, in tempi più recenti nell’ambito della cosiddetta “questione della tecnica”, le

inquietudini che percorsero gli animi a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo.

Ricorrendo poi a interpretazioni più recenti, si cercherà di definire le implicazioni che l’età

della tecnica riporta sul modo stesso che l’uomo ha di comprendere il mondo e la propria

umanità. Per esemplificare queste problematiche a livello di tecnica di pensiero, si

1“Molte sono le cose mirabili, ma nessuna è più mirabile dell’uomo” in SOFOCLE, Antigone, trad. di Raffaele Cantarella, Mondadori, 1991, Milano. 2 NICOLA ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, p. 1070, terza edizione aggiornata e a ampliata da Giovanni Fornero, UTET, 1998, Torino.

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proporrà una breve analisi del formalismo hilbertiano, mentre, per dimostrare come la

portata della questione della tecnica abbia raggiunto una dimensione epocale, si

approderà alla teoria heideggeriana del Gestell. In conclusione, anche per dare chiarezza

di un titolo forse enigmatico, proporrò, attraverso un’operazione di estensione teoretica del

problema, la mia interpretazione del senso della tecnica.

I Greci e la τέχνη: tra mito e società. Lapidaria è l’affermazione del Prometeo di Eschilo: ”I mortali possiedono tutte le arti grazie

a Prometeo”3. Il grande tragediografo ateniese, nel riprendere il mito del Titano in quella

che doveva essere una trilogia legata comprendente, oltre al pervenuto Пρομηθεύς

δησμώτης, anche un Пρομηθεύς πυρφόρος e un Пρομηθεύς λυόμενος, accetta la

tradizione già esiodea che fa di Prometeo l’autore del furto del fuoco agli dei. In verità le

versioni del mito sono anche in questo caso molteplici e di ardua interpretazione. Esiste,

infatti, anche una tradizione mitologenica che individua l’inventore dell’arte di conservare e

riprodurre il fuoco in Hermes. È il caso dell’Inno omerico ad Hermes:

…Là, dopo aver ben pasciuto d’erba le vacche dal profondo muggito, e averle spinte tutte insieme nella stalla mentre ruminavano il trifoglio e il cipero rugiadoso, raccolse molta legna, e sperimentò l’arte del fuoco. Prese uno splendido ramo d’alloro, e lo fece girare in un ramo di melograno, tenendolo saldamente fra le mani: ne emanava un caldo soffio. In verità Hermes per primo rivelò il fuoco, e gli strumenti per accenderlo. Raccolse molta legna asciutta e dura, e in un fosso scavato nel terreno la accumulò in abbondanza; e lampeggiò la fiamma diffondendo per largo tratto la vampa del fuoco, che intensamente ardeva.4

Il giovane dio presenta le caratteristiche del trickster, della deità scherzosa e ambigua che

funge da intermediario tra il mondo degli dei e quello degli uomini e che ora si arma

dell’inganno e dell’astuzia ora viene incontro alle esigenze vitali dell’umanità. Il carattere

ambiguo proprio di Hermes, che è ad un tempo dio protettore dei ladri e solenne

psicopompo, è comune al personaggio mitico di Prometeo: da un lato, egli è il sovversivo,

il non consenziente per eccellenza rispetto a un ordine universale che è volontà di Zeus e

che si esprime nell’implacabile Necessità; dall’altro, egli è lo spirito creatore mosso da un

incontenibile amore per l’umanità sofferente. L’ambigua figura del Titano ha portato nello

sviluppo della letteratura occidentale a due filoni interpretativi del suo significato, uno

positivo e uno negativo. Quello positivo vede in Prometeo l’entusiastica vitalità di una

fantasia libera e creatrice, quasi artistica, e il simbolo stesso dell’universale condizione

3 ESCHILO, Prometeo incatenato, v. 507, trad. di Monica Centanni, Mondadori, 2007, Milano. 4 Inno a Hermes IV, vv. 105- 114, trad. di F. Cassola.

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umana. Tutto il genere umano, come afferma Werner Jaeger in Paideia, si sente

rappresentato in quel possente Titano legato eternamente alla parete del monte Caucaso,

ed ogni stirpe della terra, ogni popolo e nazione, ogni singolo uomo può sentire su di sé le

catene della sofferenza di Prometeo, perché in Prometeo il dolore umano “si immilla”. Da

qui l’intuizione che doveva essere profetica rispetto al messaggio cristiano: solo l’Ecce

Homo, ossia la divinizzazione del dolore, avrebbe acquisito altrettanta e superiore forza

simbolica.

Il filone negativo vede in Prometeo l’eterna sconfitta dell’uomo: il Titano, violando l’ordine

cosmico, libera un flusso di forze arcane e primordiali che non è in grado di controllare

rimanendo così travolto dal turbine dirompente della sua stessa hybris che lo ha indotto ad

elevarsi oltre la sua propria misura. Se la lettura positiva celebrava il Titano nella sua

sconfitta, la lettura negativa vede solo l’annichilimento che deriva dalla sconfitta:

Prometeo, ribelle, ha voluto infrangere l’autorità assoluta del padre degli dei, ha voluto

mettere alla prova l’Olimpio in una gara d’astuzia, ma è risultato sconfitto. Se, infatti,

Prometeo può contare su un’intelligenza fatta di calcolo e di ingegno, Zeus ha dalla sua

parte la forza della necessità; così anche Prometeo, come Agamennone, dovrà piegare il

capo sotto il giogo della Necessità tanto da arrivare a riconoscere che: “La mia arte è di

gran lunga meno potente della necessità”5. Goethe ha espresso con una mirabile

allegoria una condizione analoga a quella del Titano nella ballata dell’Apprendista

stregone: il giovane negromante, in assenza del maestro, cerca di evocare le forze

magiche come più volte ha visto fare dal suo mentore. L’esito sarà catastrofico: la magia

scatenata dal giovane apprendista presto sfuggirà al suo controllo e si ritorcerà contro di

lui, solo l’intervento del maestro potrà placare il risultato della spregiudicatezza dell’allievo.

Il vecchio maestro stregone S’è finalmente allontanato! Ed ora vorrei che i suoi spiritelli Facessero un pochino a modo mio. Mi ricordo delle parole e dei gesti, e come li usava, e con la forza dello spirito so fare miracoli anch’io. … che cascata spaventosa! Signore e maestro, ascolta il mio grido!- Ecco viene il maestro! Padrone il momento è grave. Gli spiriti che ho chiamato,

5 ESCHILO, Prometeo incatenato, v. 514, trad. di Monica Centanni, Mondadori, 2007, Milano. Dove “arte” è appunto traduzione del termine τέχνη.

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non me ne posso liberare.6

L’ambivalenza di Prometeo, che è ambiguità, come si è visto, per lo più morale, si

rintraccia anche nella possibile origine del mito. Sèchan concorda con Wilamowitz nel

distinguere due tradizioni cultuali: quella di Pròmethos, divinità ionico- attica delle industrie

del fuoco, vasaio e metallurgo venerato nei Prometheia; e quella del Prometheus beotico-

locrese che è propriamente il Titano ribelle. Anche per quel che riguarda l’origine del nome

gli studiosi non concordano all’unanimità; tuttavia, in questo caso, nonostante tesi come

quelle di Curtius e Kuhn che farebbero derivare “Prometeo” dal sanscrito vedico

pramantha, termine designante il bastone con cui ci si procurava il fuoco per frizione, i più

propendono per ricollegare il nome proprio alla radice metis con il significato ben noto di

“colui che arriva prima col pensiero”, rispetto a “colui che pensa dopo”, il fratello Epimeteo.

Sarebbe comunque dalla fusione dei due miti sopra citati che Eschilo e, prima di lui,

Esiodo avrebbero attinto il proprio materiale facendo entrare Prometeo nel novero delle

divinità legate all’arte del fuoco (Atena ed Efesto) che a sua volta contraddistingue la

categoria sociale degli artigiani e più in generale i mestieri specializzati praticati al di fuori

delle mura domestiche. Ed è Esiodo il primo a segnalare l’ambivalenza morale del “dio

intelligente”7 attribuendogli i due epiteti “valente figlio di Iapeto” e “essere dai pensieri

scaltri”, in contrapposizione a Zeus che, con i suoi matrimoni con Metis e Themis, è il

garante ufficiale dell’ordine e della giustizia. Esiodo, inoltre, distingue chiaramente le due

frodi di cui Prometeo si fa autore e i loro esiti nefasti per il destino dell’umanità: la

spartizione del cibo e il furto del fuoco. Prometeo, nel sacrificare un grande bue agli dei,

separò, all’insaputa di Zeus, le ossa, che furono immolate insieme al grasso, dalle carni,

che furono nascoste per la stirpe degli uomini. L’audace ed empia spartizione del Titano

provocò la spartizione tra la genia degli dei e quella degli uomini, tra la razza degli

immortali e quella dei mortali. La seconda frode, il ben noto furto del fuoco, determinò a

sua volta un nuovo radicale mutamento della condizione umana: il fuoco, padre di tutte le

tecniche, segnò l’indipendenza degli uomini dai ritmi naturali ma, di conseguenza, anche

la loro dipendenza dal lavoro tecnico che subentrò allo spontaneo generarsi dei frutti della

terra; segnò la fine dell’età dell’oro e l’inizio di un processo di decadenza che si sviluppa

nel corso del mito delle cinque età fino all’età del ferro, quando gli uomini sono ormai

destinati all’infelice vecchiaia, alle seduzioni del bel male, che è la donna (Pandora), e al

sudore del lavoro. Il lavoro, in particolare, è l’immediata conseguenza -positiva e negativa

perché libera l’uomo e lo condanna alla sua eterna “mortalità”- dell’ introduzione delle

tecniche che derivano dall’arte del fuoco. Il lavoro, infatti, è il termine medio che consente

6 J. W. GOETHE, L’apprendista stregone, trad. di Liliana Scalero, da Opere V, Sansoni, 1961, Firenze. 7 J. P. VERNANT, Mito e pensiero presso i Greci (Il lavoro e il pensiero tecnico), Einaudi, 1978, Torino.

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di ripristinare un equilibrio fra gli dei e gli uomini poiché “grazie al lavoro gli uomini hanno

grandi armenti e son ricchi;/ e lavorando, sarai molto più caro agli immortali”8.

Il mito di Prometeo è ripreso, in chiave filosofica, da Platone nel Protagora: il sofista, dal

cui nome deriva il titolo del dialogo, espone a Socrate la versione del mito per cui

Epimeteo, il fratello stolido del Titano, nel distribuire le qualità agli esseri viventi, si

sarebbe dimenticato degli uomini. Per riparare al danno, Prometeo avrebbe sottratto alle

officine degli immortali il fuoco, maestro di tutte le tecniche. Tuttavia, tra le arti che

derivano dal fuoco non sono comprese né l’arte politica né l’arte militare che sono

conoscenze esclusive di Zeus. Dovrà essere il padre degli dei a concedere agli uomini,

tramite Hermes, l’arte di governare la città. Già da questo aspetto si può osservare

un’evidente incompatibilità tra l’impegno attivo nella dimensione della πόλις e l’esercizio di

un mestiere, tra la funzione politica e la funzione tecnica. È ben noto, infatti, come lo

spirito aristocratico di Platone inducesse il filosofo ad un rifiuto della concezione politica di

Pericle e di Protagora, ossia di una democrazia aperta alla partecipazione alla vita politica

da parte di tutti i cittadini, artigiani compresi. Così Protagora, convinto dell’efficacia del

modello paideutico sofistico, afferma senza riserve: “Adeguatamente, Socrate, ti è stato

dimostrato, in conclusione, come almeno mi sembra, che non a torto i tuoi concittadini

permettono che un fabbro, un calzolaio, chiunque si faccia parte diligente nelle

deliberazioni politiche, e che non a torto la virtù sia insegnabile e si possa acquisire.”9

Per Platone la tecnica ha una funzione meramente sociale che non contempla la

concezione dell’uomo politico. La tecnica è, infatti, essenziale per lo sviluppo della società

umana: la stessa specializzazione tecnica ha consentito in tempi remoti l’associazione

degli individui in comunità organizzate dove ciascuno riveste una funzione specifica e ad

un tempo indispensabile per il funzionamento della dimensione collettiva. La rinuncia alle

attività tecniche riporterebbe l’uomo ad una condizione di primitiva solitudine e non

renderebbe possibile l’esercizio di quelle nobili funzioni politiche (nel senso di “legate alla

realtà della πόλις”) cui l’uomo è votato. E tuttavia, Platone, riflettendo quel predominante

interesse degli Elleni per la teoresi, non riconosce, come fece Esiodo -caso eccezionale

nella Grecità-, la tensione del lavoro come sforzo umano, né l’artificio tecnico come

invenzione intelligente, né il pensiero tecnico nel suo ruolo formatore della Ragione. Per

Platone la tecnica riveste un gradino inferiore dell’intelligenza umana, anzi “si trova in lui la

cura di separare e d’opporre l’intelligenza tecnica e l’intelligenza, l’uomo tecnico e il suo

ideale d’uomo, così come egli separa e oppone nella città la funzione tecnica e le altre

due.”10 Questo porta ad alcune brevi considerazioni, sulla scia dell’analisi proposta da

Vernant nel testo citato in nota, sulla concezione platonica della società “tripartita” esposta

8 ESIODO, Le opere e i giorni, vv. 308-9, trad. di G. Arrighetti, Monadori, 2007, Milano. 9 PLATONE, Protagora, 324 c, trad. di Francesco Adorno, Laterza, 2003, Bari. 10 J. P. VERNANT, Mito e pensiero presso i Greci (Il lavoro e il pensiero tecnico), p. 280, Einaudi, 1978, Torino.

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nel IV libro della Repubblica. Nel distinguere le tre classi11, quella dei filosofi o governanti,

quella dei guerrieri o custodi, e quella dei lavoratori e in particolar modo degli artigiani ( i

depositari della funzione tecnica), Platone attribuisce a ciascuna di esse una virtù

peculiare. Alla prima classe spetta la “saggezza” (επιστήμη o σοφία), alla seconda classe

spetta il coraggio (ανδρεια); quando viene il momento di indicare la virtù propria della terza

classe, Platone si limita a riconoscerle quell’unica qualità che è comune a tutte le classi: la

σωφροσύνη, la moderazione. Si esprime così in modo manifesto il rifiuto di accordare una

virtù positiva a coloro la cui funzione sociale è costituita dal lavoro, cioè dalla conditio sine

qua i membri delle altre due classi non potrebbero espletare le loro specifiche funzioni

politiche per ragioni di mera sopravvivenza quotidiana.

Per cercare di comprendere quale ruolo avesse il lavoro nella società della Grecia antica,

quali rapporti esistessero tra il lavoro e le altre attività umane e quali contenuti psicologici

si possono rintracciare nella concezione che gli Elleni avevano del lavoro è possibile

incominciare col prendere in esame i termini che i Greci utilizzavano. Emerge, infatti, che

la ricchezza della lingua greca non dispone di un termine unitario equivalente al nostro

“lavoro”: pònos , ad esempio, si riferisce a tutte quelle attività che implicano fatica e sforzo

(equivalente al latino labor), mentre il verbo ergàzesthai si riferisce a due ambiti

fondamentali: al lavoro dei campi, tà érga, e più in generale a tutte le attività che

consentono di produrre qualcosa, tò érgon, in funzione di una propria virtù, areté. Le

parole che invece derivano dalla radice indoeuropea tek-, come la nostra “tecnica”,

alludono piuttosto alla sfera della fabbricazione, a una proiezione invasiva dell’oggetto

artificiale nella realtà, all’attività dell’artigiano che compie un’operazione che rientra

nell’ordine del verbo poiein (il medesimo utilizzato per i poeti) e che si contrappone al

pràttein. Infatti, mentre il primo verbo esprime una tensione all’oggetto prodotto, il secondo

è tutto concentrato sull’attività fine a se stessa e non riferita a qualche cosa altro da sé. La

differenza che intercorre tra pràttein e poiein è riconducibile a quella che in italiano

sussiste tra “agire” e “fabbricare”, dove “agire” è in genere caricato da uno spessore di

positività etica. Tali sottigliezze linguistiche suggeriscono gradi di differenza tra le singole

attività lavorative ben più profondi della tripartizione platonica, anche perché legati alla

struttura reale della società.

Esiodo, negli Erga, distingue, tra le attività legate alla terra, l’arboricoltura dall’agricoltura.

Tale distinzione non avviene tanto su base economica, quanto per ragioni religioso-

cultuali. L’arboricoltura rappresenta la piena armonia dei rapporti tra uomo e natura: essa

è tipica dell’età dell’oro in quanto è la terra a offrire spontaneamente i suoi frutti e all’uomo

non resta altro da fare che attendere il ciclo delle stagioni per il raccolto. In questa ciclica

11 Tengo a precisare l’uso storicamente improprio, ma funzionale ai fini della chiarezza espositiva e avvalorato da una lunga consuetudine di traduzione, del termine “classe” appartenente piuttosto al lessico economico-sociale tardo settecentesco e poi socialista ottocentesco.

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ripetitività dei ritmi naturali si possono leggere le movenze di un culto della natura

incarnata in divinità come le Horai e le Charites, completamente armonizzate con il vivere

degli uomini. Da questa condizione tipica dell’età dell’oro, l’umanità, come si è visto nel

mito di Prometeo, è destinata a precipitare nell’età del ferro, quando dovrà procurarsi di

che vivere bagnando di sudore i campi. E questa è l’attività in cui Esiodo si riconosce:

l’agricoltura. Essa, come già si è accennato, implica rapporti di nuova natura tra gli uomini

e gli dei: Demetra, dea del raccolto e delle messi, non interviene elargendo i doni della

terra agli uomini, ma assicura un ordine regolare cui gli uomini devono contribuire con la

fatica del lavoro nei campi. È significativo che tale lavoro agricolo non richieda nessuna

competenza tecnica particolare, nessuna preparazione, in quanto esso è la dimostrazione

della virtù con cui gli uomini dosano e concentrano le proprie forze, è una “forma di vita

morale”12 e pertanto rientra nella dimensione del pràttein, dell’agire fine a se stesso con lo

sguardo sempre rivolto alla comunione con la divinità. Lo stesso concetto è ripreso da

Senofonte nell’Economico dove il lavoro della terra è esplicitamente qualificato, al pari

dell’attività guerresca, come manifestazione di un certo tipo di areté, tanto che esso

contribuisce alla salute e alla vigoria del fisico oltre che della mente13. Alla guerra e

all’agricoltura, dunque, non si addice il termine téchne, che è l’indice di un sapere

specializzato dai tratti quasi esoterici, poiché nella guerra come nell’agricoltura tutti

possono dimostrare il loro intimo valore e tutti percepiscono l’universale dipendenza dalle

forze divine. In questo aspetto sta il contenuto cultuale della religiosità arcaica: un

sentimento che riconosce il legame reciproco con la divinità e che rifiuta di intervenire,

come invece fa la tecnica degli artigiani, sulla natura per modificarla o riprodurla.

L’evoluzione del pensiero tecnico procede, pertanto, parallelamente all’evoluzione del

pensiero razionale-positivo14, tanto che quest’ultimo arriva a determinare una radicale

revisione della stessa concezione del lavoro agricolo: con il passare del tempo l’attività

manuale dei campi sarà dequalificata a lavoro servile proprio perché non necessitante di

particolare predisposizione che non sia quella fisica. Ma non si tratta soltanto di

un’evoluzione del pensiero; entra in gioco, infatti, in questa mutata concezione, l’affermarsi

di nuovi assetti socio-politici: si passa gradatamente dal nucleo della famiglia o del clan a

quello della πόλις dove il lavoro della terra non può essere più considerato come l’attività

fondamentale per un mantenimento “autarchico” ma solo come il tassello di un mosaico di

più attività tecniche specializzate che dipendono e si sostengono le une con le altre. Il 12 J. P. VERNANT, Mito e pensiero presso i Greci (Il lavoro e il pensiero tecnico), p. 280, Einaudi, 1978, Torino. Tutta l’analisi sopra proposta intorno ai contenuti psicologici del lavoro presso gli antichi Greci fa riferimento allo studio di Vernant tratto dal saggio citato. 13 SENOFONTE, Economico, IV 24. 14 Credo sia opportuno precisare, sulla scia delle considerazioni di Jaeger in Paideia, che l’età arcaica non deve essere ritenuta al di fuori del pensiero razionale, poiché, se essa non fu caratterizzata da quelle forme che il pensiero acquisì nell’età classica grazie al contributo della filosofia, tuttavia contribuì alla genesi di tali forme in un processo di lineare e continua evoluzione. Non parlerei, pertanto, di pre-razionalità arcaica, quanto di proto-razionalità arcaica; tanto più che il pensiero razionale greco non poteva prescindere, ancora in età classica, da quel straordinario apporto interpretativo- conoscitivo di una religiosità immanente che è il mito.

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grande corpo della πόλις può funzionare economicamente e politicamente solo se,

attraverso tutti i suoi membri, può coprire ogni campo d’azione. In questo modello

ciascuno occupa il proprio posto senza poter essere sostituito da altri: ciò che accomuna

tutti i cittadini dovranno essere le virtù morali e politiche che sono dono di Zeus.

Non bisogna pensare, tuttavia, che presso i Greci l’attività tecnica e l’esercizio dei mestieri

siano rivolti ad una produzione finalizzata al solo incremento della ricchezza. No, essi

oscillano tra due poli: l’abilità, dynamis, dell’artigiano e il bisogno, chreia, dell’utente. Ossia

rappresentano l’esercizio e il graduale miglioramento di un’abilità per soddisfare un

particolare bisogno di un individuo altro da sé e la téchne in senso stretto è l’insieme delle

modalità con cui l’abilità dell’artigiano si può esplicare nella fabbricazione di un oggetto

non naturale. Questo significa che la téchne, come la potenza da cui ha origine, non è

aperta ad un indefinito progresso, ma si esaurisce nei limiti che la rendono possibile: limite

delle risorse e limite dei bisogni umani. L’artigiano greco, infatti, non ha alcun interesse ad

intervenire al di fuori della portata delle esigenze naturali, chreiai, degli utenti in quanto

non intende intervenire sulla natura umanizzandola, ma inserire la propria abilità

nell’ordine naturale naturalizzandola.

Tornando al mito di Prometeo, Jean Pierre Vernant osserva come l’interpretazione

eschilea abbia tenuto conto di alcune componenti assenti nel testo platonico. Se nel

Protagora alla tecnica veniva riservata una mera funzione morale, nel Prometeo

incatenato le implicazioni tra tecnica e dimensione etica si fanno più strette. “L’intelligenza

e la ragione, in quel che hanno di propriamente umano- scrive Vernant a proposito della

tragedia- appaiono come tecniche: è la scoperta successiva delle arti che segna le tappe

del loro progresso”15

Prima, avevano occhi e non vedevano, orecchie e non sentivano, ma come le immagini

nei sogni vivevano confusamente una vita lunga, inconsapevole. Non sapevano costruire

edifici, case all’aperto, non sapevano lavorare il legno: abitavano sottoterra come brulicanti

formiche, in caverne profonde senza la luce del sole.16

Appare chiaro come Eschilo metta l’accento sull’originaria infirmitas del genere umano,

così debole, immaturo, privo di autonomia spirituale e quindi tanto più necessitante di una

fulgida guida che gli illumini la via della sapienza tecnica per vivere realmente nel mondo.

Aggiunge Vernant: “In Eschilo si sente un orientamento morale e sociale differente e,

parallelamente, la possibilità di integrare meglio il lavoro all’umano: certi tratti nel quadro

dell’uomo rivelano l’importanza accordata al tecnico”17. Resta, però, rimarchevole la

difficile modalità di accesso del tecnico al valore morale. Le stesse conseguenze cui la

15 J. P. VERNANT, Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi, 1978, Torino 16 ESCHILO, Prometeo incatenato, vv. 447-453, trad. di Monica Centanni, Mondadori, 2007, Milano 17 J. P. VERNANT, Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi, 1978, Torino

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tragedia approda mostrano una condanna del padre di tutte le tecniche piuttosto che una

sua glorificazione. Sulla complessa interpretazione del mito di Prometeo già si è discusso

in apertura di capitolo: resta da discutere, però, un aspetto direttamente generato dal

contrasto tra la funzione tecnica e il valore morale. Dalla tragedia, infatti, emergono due

atteggiamenti conoscitivi del mondo: il primo si basa sulla σοφία, ossia sulla saggezza che

si fonda a sua volta sui due principi della morale delfico-solonica del nulla di troppo e del

conosci te stesso; il secondo invece è rappresentato dal σοφίσμα, che è piuttosto lo

stratagemma e che ha come suo mezzo le τέχναι. “Il termine σοφός è usato in tutta la

tragedia in relazione a colui che si rende conto della situazione e conseguentemente si

comporta con moderazione e assennatezza. Dal momento che il termine era impegnato in

questo senso, esso non poteva essere usato per Prometeo. E nemmeno il termine σοφία

viene usato in riferimento a Prometeo. Invece della coppia σοφός /σοφία per Prometeo

viene usata la coppia σοφιστής /σόφισμα (…). Nemmeno in relazione alle arti che sono

state date agli uomini Prometeo viene chiamato da Eschilo σοφός o a lui viene

riconosciuta la σοφία. Le invenzioni sono dette al v. 459 σόφισματα (…). È interessante

anche il fatto che Hermes equipari Prometeo al puledro che da poco è stato aggiogato e

che mordendo il freno cerca di far forza e combatte contro le briglie. L’immagine, è facile

rendersene conto, ha un chiaro contenuto ideologico (…). In conclusione, dunque, mentre

il Coro si pone su una linea che è quella del riconoscimento della necessità e della σοφία,

in quanto comportamento assennato, Prometeo invece si colloca su una linea che si

contrappone a questa e si caratterizza per una sapienza di tipo pratico-conoscitivo”.18

Da una parte abbiamo Prometeo e il genere umano tutto, dall’altra il principio regolatore

del cosmo; da una parte si trova il σόφισμα, un sapere tutto polarizzato sull’oggetto, sul

mezzo, un sapere pratico-conoscitivo formale, esteriore. Dall’altra c’è la σοφία che è la

saggezza della vita, o meglio l’arte di saper vivere intesa nella sua profondità etico-

spirituale. La σοφία è il riconoscimento dell’ordine universale del mondo e l’unica strada

per vivere con esso in armonia. Tale strada, a sua volta, prevede due diramazioni

complementari: una norma di esplorazione della coscienza che apra gli orizzonti

dell’interiorità (conosci te stesso) e una norma di regolazione della coscienza e della vita

che pratichi la rigorosa via di mezzo, l’unica via che, se non ripara del tutto, almeno

attutisce le sferzate della Τύχη (nulla di troppo).

Così, anche, Prometeo dovrà piegarsi al “giogo di necessità”19 e “convertirsi” all’esercizio

della σοφία, riconoscendo al v. 514, come si è accennato in precedenza, l‘inferiorità della

18 V. DI BENEDETTO, Ideologia del potere e tragedia greca, Einaudi, 1978, Torino. 19 ESCHILO, Agamennone, v. 218, trad. di M. Centenni, , Mondadori, 2007, Milano.

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“sua” tecnica rispetto alla forza coercitiva della necessità e il Coro puntualizzerà:”Saggio è

chi si inchina di fronte all’Inevitabile”20.

Con ciò si è voluto evidenziare che l’introduzione della tecnica nella vita dell’individuo ha

aperto una nuova dimensione al pensiero occidentale: essa pone nuove problematiche

che confluiscono in complesse implicazioni sociali, psicologiche e che coinvolgono l’uomo

fin nella sua più intima essenza, lo coinvolgono ontologicamente poiché intervenire,

tramite la tecnica, sulla realtà significa trasferire qualcosa di sé in ciò che è altro da sé,

stabilire un nesso profondo verso la dimensione dell’oggetto. Si è voluto evidenziare come

la rosa di nuove problematiche fosse stata colta già dalla sensibilità intellettuale del popolo

ellenico per quanto essa non avesse ancora avuto modo di manifestarsi come questione

dell’essere quanto, piuttosto, come questione morale.

La questione della tecnica: prospettive filosofiche e scorci artistico- letterari. In senso stretto la “questione della tecnica” si affaccia alla soglia del pensiero occidentale

soltanto in quella congiuntura sociale politica e culturale, a cavallo tra la fine del

diciannovesimo secolo e gli inizi del ventesimo, che, per le inquietudini che la

percorrevano e che in qualche modo anticipavano il drammatico quanto inarrestabile

volgere degli eventi, fu definita da Auden age of anxiety. Nella società di produzione di

massa che portava con sé il lascito del pensiero positivistico e che si apriva alle nuove

prospettive del capitalismo organizzato, l’individuo che smarrisce se stesso e il senso della

sua esistenza nella potenza livellatrice e omologante della massa, l’individuo che perde la

propria identità ripiegandosi sulla tecnica, indispensabile strumento del modello

economico, quasi confondendo il proprio corpo con le braccia delle macchine, e infine

l’individuo che perde la propria umana dignità riducendosi a puro mezzo in un razionale

sistema di produzione furono solo alcune delle problematiche sollevate da una vera e

propria reazione all’ottimismo tecnico scientifico del Positivismo.

Se da una parte si trovavano i profeti della decadenza dell’Occidente che, come Spengler,

annunciavano l’imminente morte della cultura occidentale ormai “civilizzata”, dall’altra si

trovava chi come Husserl imputava il trionfo della dimensione tecnica a un tradimento

delle funzioni della Ragione, ossia alla rinuncia alla dimensione puramente speculativa. Il

mondo dominato dalla macchina è, secondo questa interpretazione, un mondo

senz’anima, livellatore, mortificante: un mondo nel quale la quantità ha preso il posto della

qualità e in cui il culto dei valori dello spirito è stato sostituito dal culto di valori strumentali

e utilitari. Le principali conseguenze della “questione della tecnica” sono:

l’assoggettamento del lavoro umano alle esigenze dell’automazione, che tende a fare

20 ESCHILO, Prometeo incatenato, v. 936, trad. di Monica Centanni, Mondadori, 2007, Milano.

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dell’uomo un accessorio della macchina; e l’incapacità della tecnica di venire incontro ai

bisogni estetici, affettivi e morali dell’uomo; quindi la sua tendenza a favorire o a

determinare l’isolamento dei singoli individui e la loro reciproca incomunicabilità21.

Il Positivismo, si è detto, aveva fatto della scienza la guida assoluta della condotta

intellettuale umana in ogni aspetto e dimensione della conoscenza, della morale,

dell’estetica e della religione. Il metodo sperimentale scientifico risultava applicabile tanto

alle scienze cosiddette naturali, quanto alle nuove discipline scientifiche che si

proponevano lo studio e l’esplorazione della condotta e della psiche degli individui

(psicologia), o del loro comportamento nelle comunità organizzate (sociologia). Il mondo

della cultura e dell’arte, almeno nella seconda metà dell’Ottocento, non stentò a

manifestare il suo vivo interesse, se non un certo entusiasmo, per la nuova temperie

culturale. Il desiderio di sondare scientificamente le possibilità minime, quasi particellari,

dei mezzi e delle tecniche artistiche o letterarie e la volontà, erede della poetica della

realtà del Romanticismo, di rappresentare il reale così come esso appare, senza alcuna

finalità accessoria o interpretazione di fondo, sia essa morale, politica o sociale, portò ad

esperienze quali quella del Realismo, soprattutto nell’ambito delle arti figurative, del

Naturalismo francese in campo letterario e del Verismo in Italia (per quanto non si possa

stabilire una netta scansione cronologica tra una corrente e l’altra). L’interesse per il vero

secondo parametri di oggettività, impersonalità e scientificità procedeva parallelamente ai

nuovi e sempre più precisi strumenti del progresso tecnologico. La fotografia, in

particolare, segnò una vera e propria cesura nel destino delle arti: da una parte esautorò

la pittura del compito di riprodurre mimeticamente il reale, aprendole la via alla volta di

nuove sperimentazioni, dall’altra stimolò ulteriormente artisti e letterati a concentrarsi i

primi sullo studio delle forme, delle luci e della materia (penso in modo particolare al

pointillisme di Seurat), i secondi a tratteggiare sulla pagina del romanzo una realtà nitida e

asettica quale quella della fotografia.

Significativo è il giudizio programmatico di una nuova letteratura, quella naturalista, che

Émile Zola espresse ne Il romanzo sperimentale:

Quando avremo provato che il corpo dell’uomo è una macchina di cui un giorno si

potranno smontare e rimontare gli ingranaggi a piacimento dello sperimentatore, si dovrà

ben passare alle manifestazioni passionali ed intellettuali dell’uomo. Da quel momento

entreremo in quel dominio che, apparteneva alla filosofia e alla letteratura; sarà la

conquista decisiva da parte della scienza, delle ipotesi dei filosofi e degli scrittori. Vi sono

21 N. ABBAGNANO, Dizionario di filosofia, p. 1070, terza edizione aggiornata e a ampliata da Giovanni Fornero, UTET, 1998, Torino.

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la fisica e la chimica sperimentali; vi sarà la fisiologia sperimentale e, più tardi ancora, si

avrà il romanzo sperimentale.22

Quale è il compito dello scienziato, tale è il compito dello scrittore che, con lo stesso

metodo scientifico adottato dal chimico o dal biologo, procede all’indagine dei moti dello

spirito, all’analisi anatomica del sentimento e della passione nelle forme del romanzo

sperimentale. Ma la considerazione di Zola sottende la ricerca di un meccanismo di

conquista delle manifestazioni intellettuali e dei fenomeni umani che va ben al di là della

semplice sfera letteraria. Essa implica che l’uomo e la mente umana possano essere fatti

oggetto di studio in modo non dissimile dalle macchine con i loro ingranaggi. Ma, a sua

volta, la posta equazione uomo = macchina giustifica l’intercambiabilità dei due termini e

ne consente l’identificazione. Ora, identificare l’uomo con la macchina significa portare il

fine a coincidere con il mezzo, cioè significa rovesciare la seconda formulazione

dell’imperativo categorico kantiano.

Una risposta contraria al Positivismo si può leggere nella cultura del Decadentismo che,

con la sua attenzione per una realtà in disfacimento e per le civiltà in declino, vede nella

rincorsa al progresso scientifico- tecnologico soltanto gli ultimi spasimi di un corpo in

agonia. Al di là delle manifestazioni più à rebour della cultura decadente, quali il

simbolismo di Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Mallarmè o l’estetismo di Wilde e di

D’Annunzio, il Decadentismo è caratterizzato da una più generica cultura della crisi che

include, in ambito filosofico, il risveglio di prospettive irrazionalistiche e spiritualistiche.

Così, da una parte si avrà la riscoperta degli impulsi assoluti che guidano le azioni degli

uomini (dalla Wille zur Macht di Nietzsche, all’esplorazione dell’inconscio da parte di

Freud), dall’altra la rivalutazione della dimensione interiore-spirituale e quindi delle

proprietà non misurabili o quantificabili dell’animo umano. Particolarmente significativo

risulta in tal senso il contributo della filosofia di Henri Bergson. Egli, nell’Introduzione alla

metafisica, distingue due tipologie essenziali di conoscenza, quella relativa e quella

assoluta. Se la prima procede scomponendo l’oggetto in parti analitiche prescindendo

dall’unità dell’intuizione e spiega le singole parti mediante le singole immagini, la seconda

avviene mediante uno sforzo d’intuizione grazie al quale la realtà propria e interna di un

oggetto è subito presente alla coscienza. La prima è propria dell’analisi scientifica che

considera le espressioni parziali e non le parti componenti dell’io, operando sull’immobilità,

ossia astraendo punti del movimento, che in realtà non esistono se non come oggetti dei

nostri concetti poiché sono parti di durata svincolati da essa per fini pratici, cioè per

l’azione. Se, infatti, ci si ripropone di ricostruire l’unità partendo dai singoli punti non si

riesce a risalire al movimento: analizzare secondo questi parametri la realtà significa

leggere praticamente la qualità sulla base della categoria dell’immobilità ed è come se la

22 ÈMILE ZOLA, Il romanzo sperimentale, trad. dal francese di I. Zaffagnini, Pratiche Editrice, Parma, 1992.

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nostra intelligenza prendesse “da lontano delle vedute quasi istantanee sulla mobilità

indivisa del reale”23. La seconda, invece, è propria della metafisica, la quale procede

tramite l’intuizione che, a sua volta, permette di cogliere la durata, ossia la nostra persona,

il nostro io, che dura e che è sintesi di molteplicità e unità. L’intuizione, pertanto, ci

inserisce nella mobilità della durata e la metafisica diventa “una matematica delle qualità”

in quanto trascende i simboli facendosi esperienza integrale.

I tratti della filosofia di Bergson qui brevemente sintetizzati consentono almeno in parte di

mettere in luce la nota distinzione tra tempo esteriore, astratto e cronologico, e tempo

interiore, concreto, indiviso ed eterno. Essa sta alla base di una più radicale distinzione tra

la dimensione interiore del soggetto e quella esteriore del mondo oggettivo e soprattutto di

una distinzione tra quelle che Dilthey chiamerà scienze dello spirito e scienze naturali,

dimostrando come non sia pensabile applicare uno stesso metodo di studio analitico-

sperimentale tanto alle scienze esatte quanto alle scienze umane. Tra i due saperi, infatti,

intercorre una distinzione sostanziale tra studio, per così dire, della struttura e studio del

senso interno; e, di conseguenza, anche una distinzione delle strategie conoscitive. Se le

scienze tradizionali ricorrono, secondo Bergson, allo strumento dell’analisi, le “scienze

dello spirito” e la filosofia nello specifico fanno ricorso all’intuizione immediata dell’essenza

di una cosa.

Chiamiamo qui intuizione quella simpatia mediante la quale ci si inserisce nell’interiorità di

un oggetto per coincidere con ciò che c’è in esso di unico e quindi di inesprimibile24

Questo è il contesto filosofico in cui matura la stessa evoluzione degli studi scientifici e in

particolar modo fisici se si pensa alla elaborazione della teoria della relatività da parte di

Albert Einstein destinata a rivoluzionare epistemologicamente la fisica classica. E il

relativismo accanto all’irrazionalismo e allo spiritualismo si colloca come nuova prospettiva

di riflessione. Luigi Pirandello, che particolarmente sensibile era stato nei confronti della

multistratificazione dei punti di vista nella definizione della personalità in Uno, nessuno,

centomila e che già ne L’esclusa accenna alla teorizzazione di una possibile “etica

relativa”, non mancò di notare il dramma dell’individuo alienato, o meglio, identificato con

la dimensione tecnica. L’universo dei piani intrecciati, dei paradossi e dei rovesciamenti

situazionali di Pirandello partorisce un personaggio di sconcertante potenza tragica.

Serafino Gubbio, operatore, è una di quelle figure minime che, come Zeno o Emilio

Brentani di Svevo, incarnano, in una dimensione parcellizzata, l’uomo di inizio ventesimo

secolo. Il suo humus sociale è quella compagine grigia e uniforme che quasi ha perso

memoria della sua origine ottocentesca, quando ancora aveva un senso chiamarla ceto

medio. Con l’arrivo prorompente del proletariato, infatti, il mondo della borghesia

23 HENRI BERGSON, Introduzione alla metafisica, trad. di Armando Veraldi, Sansoni, Firenze 1949. 24 Ibi.

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benpensante si è come ritratto inorridito nel suo guscio d’alte sfere lasciando dietro di sé

una scia di scorie, di piccoli reietti anonimi e spaesati, un mondo di impiegati e di piccoli

funzionari di provincia. Serafino Gubbio è uno di costoro, vanta un’ istruzione classica alle

spalle ed è operatore per una casa cinematografica e, poi, la cosa più importante, è una

mano che gira una manovella.

Un signore, venuto a curiosare, una volta mi domandò: - Scusi non si è trovato ancor

modo di far girare la macchinetta da sé?- Vedo ancora la faccia di questo signore: gracile,

pallida, con radi capelli biondi; occhi cilestri, arguti; barbetta a punta, gialliccia, sotto la

quale si nascondeva un sorrisetto, che voleva parer timido e cortese ma era malizioso.

Perché con quella domanda voleva dirmi: “Siete proprio necessario voi? Che cosa siete

voi? Una mano che gira la manovella. Non si potrebbe fare a meno di questa mano? Non

potreste essere soppresso, sostituito da un qualche meccanismo?”. Sorrisi e risposi: -

Forse col tempo, signore. A dir vero, la qualità precipua che si richiede in uno che faccia la

mia professione è l’impassibilità di fronte all’azione che si svolge davanti alla macchina.

Un meccanismo, per questo riguardo, sarebbe senza dubbio più adatto e da preferire a un

uomo. Ma la difficoltà più grave, per ora, è questa: trovare un meccanismo, che possa

regolare il movimento secondo l’azione che si svolge davanti alla macchina. Giacchè io,

caro signore, non giro sempre allo stesso modo la manovella, ma ora più presto ora più

piano, secondo il bisogno. Non dubito però, che col tempo – sissignore – si arriverà a

sopprimermi. La macchinetta- anche questa macchinetta, come tante altre macchinette-

girerà da sé. Ma che cosa poi farà l’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé,

questo, caro signore, resta ancora da vedere.

Attraverso le annotazioni e le riflessioni del protagonista si assiste ad un tempo alla sua

metamorfosi e alla dolorosa presa di coscienza di tale trasformazione.la metamorfosi è il

perfetto adeguamento alla parte che gli è stata assegnata: egli è sì Serafino Gubbio, ma è

Serafino Gubbio operatore. La maschera sociale assume sostanzialità complementare

rispetto all’individualità del protagonista. Ancora un volta, in Pirandello, si consuma il

“gioco delle parti”, ma questa volta si aggiunge una nota di ulteriore e più profonda

tragicità: la meccanizzazione del protagonista. L’attività di Serafino Gubbio consiste nel

riprendere le scene del cinematografo girando la manovella della macchina da presa. Egli

è dunque un operatore che gira la manovella; ma questo girare, questa azione reiterata un

numero incalcolabile di volte non è forse il solo vero nesso che collega Serafino Gubbio

alla società in cui vive? Egli è necessario, certo, ma solo per quel piccolo dettaglio. Mi

spiego meglio: se non fosse per la sua mano che gira meccanicamente, Serafino Gubbio

sarebbe socialmente improduttivo e cioè inutile, sarebbe solo un’ombra; a nessuno

importerebbe di Serafino Gubbio perché per la società della tecnica tutto assume un para-

senso solo in vista della funzionalità e dell’effetto. Il destino del povero operatore è

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dunque o quello di non esistere o quello di svolgere mitemente la propria mansione

secondo il parametro che meglio si addice a una mano che gira una manovella: l’assoluta

impassibilità. Infelice destino quello di Serafino Gubbio: morire per vivere da uomo o

vivere per morire da macchina! Ciò che il mondo chiede all’operatore è di svuotarsi

completamente di ogni umanità: non importa riflettere, non conta pensare, né ricordare, né

amare, né commuoversi e in generale sentire qualcosa dentro di sé. L’anima, quel quid

inafferrabile, che è come una presenza dell’uomo a se stesso, può spegnersi, la poesia

può tacere e la musica del mondo con lei. Il senso di tutto è girare una manovella. Quanto

più è simile a una macchina, tanto meglio Serafino Gubbio compie il suo lavoro, tanto più

sarà apprezzato e lodato, o forse neppure questo perché ciò che fanno le macchine lo si

dà per scontato, passa sotto silenzio:

Cominciava ad avvertire che la mia persona non era necessaria; ma che la mia presenza

lì aveva la necessità d’una cosa, ch’ella ancora non comprendeva; e che stavo così muto

per questo.

E quando il sentimento si risveglia, perché sollecitato da un ricordo lontano sfumato nel

tempo come la casa di nonna Rosa, o una riflessione con un amico come Simone Pau, o il

sentimento indefinito e non ricambiato della signorina Luisetta, ecco che l’anima si

risveglia e trovandosi ingabbiata nella scorza d’una cosa, si irrigidisce nella percezione del

silenzio e del nulla. Ma verrà il giorno in cui anche l’impassibile efficienza di Serafino

Gubbio risulterà superflua perché la sua mano potrà essere sostituita dall’opera

infaticabile di un’autentica macchina.

Il turbine travolgente della tecnica non imbriglia Gubbio solo, ma anche tutti gli altri

personaggi che, secondo la tradizione pirandelliana, si alienano in un’ossessione, una

parvenza di realtà qualsiasi: il signor Cavalena, marito succube della pazzia della moglie,

che si appiglia al suo status di medico per giustificarsi della perduta dignità, la signorina

Luisetta che si identifica in un amore non suo per un uomo che non la considera, Carlo

Ferro e Aldo Nuti, uomini dalla differente personalità, che esauriscono le proprie energie in

una passione cieca per una donna dalla bellezza medusea, l’attrice Nestoroff. Ma tutti non

sono altro che comparse su una pellicola, artifici di una macchina, di quella stessa

macchina che Gubbio aziona e che riprende il mondo divorandolo come le fauci di

un’orrenda Cariddi. La macchina da presa è tutto, è il prima e il dopo, è l’essere e il non

essre, perché sulla pellicola la vita si imprime indelebile e sempre uguale a se stessa,

senza scampo. Resta ancora la tigre, simbolo di una natura inquieta e selvaggia, sfregiata

e oltraggiata dalla tracotanza dell’uomo, la tigre che appena viene immessa sulla scena

divora l’attore Aldo Nuti –uno per tutta l’umanità- così come la Natura con il suo vecchio

leone sbrana l’Islandese nella ben nota operetta morale di Leopardi. Eppure questa volta

non è la Natura a imporre il suo silenzio, ma la Macchina che tutto riprende con il suo

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ronzio, anche la scena di morte, perché la mano continua impassibile a girare. La

Macchina, creatura mostruosa spesso paragonata a un grosso ragno nero, ha in sé la vita

e la morte, mentre la metamorfosi del povero operatore si completa: egli non trova la forza

di intervenire di fronte alla scena cruenta, in parte perché paralizzato dal terrore, in parte

perché la manovella deve comunque sempre girare. Ma Serafino Gubbio operatore,

traumatizzato dal fatto, perderà la voce:

Girare ho girato. Ho mantenuto la parola: fino all’ultimo. Ma la vendetta che ho voluto

compiere dell’obbligo che m’è fatto, come servitore d’una macchina, di dare in pasto a

questa macchina la vita, sul più bello la vita ha voluto ritorcerla contro di me. Sta bene.

Nessuno intanto potrà negare ch’io non abbia ora raggiunto la mia perfezione. Come

operatore io sono ora veramente perfetto.

Ho avuto modo di citare in questa breve analisi del romanzo pirandelliano il poeta di

Recanati. Credo sia curioso e quanto mai significativo che già nel suo tempo Giacomo

Leopardi presentisse l’enorme carica problematica dello sviluppo tecnico e meccanico in

relazione ai condizionamenti e ai mutamenti della forma mentis individuale e collettiva. In

un’operetta morale, forse meno nota rispetto agli illustri titoli riportati nelle antologie

scolastiche, Leopardi dimostra quella eccezionale sensibilità, propria degli spiriti eletti, di

cogliere i dati presenti allorché accadono e di antivederne, non per profetica dote, ma per

altezza d’ingegno, gli effetti futuri. Così nella Proposta di premi fatta dall’Accademia dei

Sillografi25, con quella nota ironico- sardonica che percorre tutte le Operette e che già si

può evincere dal titolo26, l’autore riconosce che il tempo in cui vive potrebbe anche essere

chiamato “l’età delle macchine…non solo perché gli uomini di oggidì procedono e vivono

forse più meccanicamente di tutti i passati, ma eziandio per rispetto al grandissimo

numero delle macchine inventate di fresco ed accomodate o che si vanno tutto giorno

trovando ed accomodando a tanti e così vari esercizi, che oramai non gli uomini ma le

macchine, si può dire, trattano le cose umane e fanno le opere della vita.” Dopo aver

affermato la sostituibilità dell’uomo con la macchina, egli passa a enumerare i principali

vantaggi, o presunti tali, che dovrebbero derivare da tale sostituzione; in primis la

possibilità di intervenire non solo sulla vita materiale dell’uomo ma anche su quella

spirituale onde portare l’umanità intera al compimento tanto agognato della sua

perfezione, curando i pregi e sopprimendo i difetti del genere umano.

L’una si è che ella confida dovere in successo di tempo gli uffici e gli usi delle macchine

venire a comprendere oltre le cose materiali, anche le spirituali; onde nella guisa che per

virtù di esse macchine siamo già liberi e sicuri dalle offese dei fulmini e delle grandini, e da

25 L’operetta fu composta a Recanati tra il 22 e il 25 febbraio 1824 e fu pubblicata per la prima volta nell’edizione Stella, Milano, 1827. 26 I Sillografi sono propriamente gli scrittori di Silloi, componimenti che nell’antica Grecia avevano carattere burlesco e satirico.

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molti simili mali e spaventi si abbiano a ritrovare per modo di esempio…qualche

parainvidia, qualche paracalunnie o paraperfidia o parafrodi, qualche filo di salute o altro

ingegno che ci scampi dall’egoismo, dal predominio della mediocrità, dalla prospera

fortuna degli insensati, de’ ribaldi e de’ vili,…L’altra cagione e la principale si è che

disperando la miglior parte dei filosofi di potersi mai curare i difetti del genere umano, i

quali, come si crede, sono assai maggiori e in più numero delle virtù; e tenendosi per certo

che sia piuttosto possibile di rifarlo del tutto in una nuova stampa, o di sostituire in suo

luogo un altro che di emendarlo;”

L’età della Tecnica: lo smarrimento del senso. L’uomo pre- tecnologico agiva in vista di scopi iscritti in un orizzonte di senso, ossia le sue

azioni non si esaurivano in sé ma tendevano ad un oltre, ad un fine, sia esso trascendente

o immanente, che in ogni caso trascendeva l’azione per proiettarla in una sfera ordinata di

significati che contribuivano a costruire e ad arricchire nella totalità l’individuo e la sua

concezione del mondo. Faro di questo atteggiamento culturale pre- tecnologico è la

cultura umanistica che dai suoi albori rinascimentali ha effuso sulla storia del mondo la

luce del libero e autonomo esercizio del pensiero nel rispetto e nel compimento della

dignità della persona umana. Centro di tale concezione è l’uomo nella sua vita esteriore e

soprattutto nella sua vita interiore: è il percorso dell’uomo alla conoscenza di sé, non in

senso esistenzialistico, ma metastorico, in qualità di idea assoluta di Uomo, dove cioè ogni

mezzo resta uno strumento esteriore per approfondire la portata spirituale dei fini,

incondizionati ed altri rispetto ai mezzi, e per attribuire all’azione un senso che accresca

ulteriormente la comprensione che l’uomo ha del mondo. Se il fine è il senso delle cose e

del mondo, e se il senso è la loro comprensione da parte dell’uomo, allora il fine dei fini è

la comprensione che l’uomo ha di sé. Di conseguenza emerge chiaramente che l’uomo, in

funzione della portata profondamente spirituale della sua esistenza, non può esaurirsi,

nell’ottica umanistica, all’area esteriore dei mezzi: cioè il senso che l’uomo ha della vita è

in quello che l’uomo fa ma non è quello che l’uomo fa.

Ora, la tecnica, intesa come universo dei mezzi cioè tecnologie, ma anche come

razionalità che presiede al loro impiego in termini di funzionalità ed efficienza, almeno per

lo sviluppo che essa ha attraversato in età post-positivistica, è arrivata a oscurare questo

scenario umanistico. La tecnica, infatti, di per sé, non promuove un senso in quanto

appartiene allo scenario dei mezzi, cioè degli strumenti funzionali all’approfondimento

della comprensione del senso. Tuttavia, oggi, il mezzo tecnico si è così ingigantito in

termini di potenza ed estensione da determinare un sostanziale capovolgimento della

quantità in qualità, da diventare indispensabile al punto che l’uomo non può farne a meno

per esprimersi. In verità la dipendenza problematica dell’uomo da ogni sorta di tecnica da

lui partorita nel corso della storia è già stata analizzata sotto il profilo antropologico nel

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primo capitolo di questa trattazione; un conto però è riconoscere la dipendenza positiva

dalla tecnica, cioè il carattere necessario del mezzo per il benessere dell’uomo stesso, e

un altro conto è portare questa dipendenza alle forme dell’identificazione, cioè tradurre il

mezzo in fine e la tecnica in essenza dell’uomo. Se la tecnica, ovvero il mezzo, diventa il

fine, esso si connota di quei tratti che sono propri del mezzo, cioè la sostanziale

assolutezza da ogni produzione di senso che non ricada in sé. Perciò, “chi aziona

l’apparato tecnico o vi è semplicemente inserito, senza poter più distinguere se è attivo o

se è a sua volta azionato, non si domanda se lo scopo, per cui l’apparato tecnico è messo

in azione sia giustificabile o abbia semplicemente un senso, perché questo significherebbe

dubitare della tecnica senza di cui nessun senso e nessuno scopo sarebbero

raggiungibili, e allora la responsabilità viene affidata al responso tecnico, dove è sotteso

l’imperativo che si deve fare tutto ciò che si può fare”27.

Là dove la vita è per intero generata e resa possibile dall’apparato tecnico, l’uomo diventa

un funzionario di detto apparato e la sua identità viene per intero risolta nella sua

funzionalità, per cui è possibile dire che nell’età della tecnica l’uomo è presso di sé solo in

quanto è funzionale a quell’altro da sé che è la tecnica. Pertanto, non si parla più in

termini di alienazione dell’individuo, come ebbero a fare Feuerbach e Marx mutuando

l’espressione da Hegel, ma di identificazione tra individuo e apparato tecnico: non si tratta

soltanto di un’inversione dei rapporti di predicazione per cui l’uomo, da soggetto, diviene

predicato dell’apparato tecnico, e la tecnica, da predicato, diventa soggetto, ma l’uomo

stesso diventa strumento tecnico, cioè è valutato secondo il para-senso della funzionalità.

Se la concezione umanistica aveva visto nell’uomo il soggetto della storia, stante

l’identificazione tra essenza dell’uomo e tecnica, la tecnica stessa diventa soggetto della

storia che si avvia alla volta di una nuova età. Questo implica una ridefinizione di tutti i

modi tradizionali di intendere la ragione, la natura, la verità, l’etica, la politica, la religione e

l’antropologia. Sotto quest’ultimo aspetto appare con chiarezza come i concetti di uomo,

persona e individuo soprattutto, perdano il significato che la tradizione filosofica

occidentale ha da sempre loro attribuito. Essi infatti sono intrinsecamente legati alla

dimensione spirituale dell’uomo: egli arriva a comprendere la propria umana dignità in

quanto si percepisce intimamente come unico e insostituibile. Se questa posizione è stata

approfondita, soprattutto nel suo carattere angoscioso e disperante, dalla filosofia

esistenzialistica in risposta a quei modelli razionalistici che, eredi diretti delle pretese

assolutistiche del Romanticismo ottocentesco, avevano imbrigliato il pensiero e così

l’esistenza individuale in una tecnica del λόγος (è il caso del sistema hegeliano o dello

scientismo positivistico), la nascita della categoria di individuo è da rintracciare nel

pensiero religioso. Per il Cristianesimo in particolare l’individuo è tale in quanto detentore

27 U. GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Introduzione, pp. 40-41, Feltrinelli, Milano, 2000.

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di anima, cioè la sua essenza non è mai pienamente legata al mondo che lo circonda in

relazioni intramondane, ma tende infinitamente ad una realizzazione ultramondana.

La società individualistica di matrice cristiana, dopo essere passata attraverso quella che

Galimberti chiama epoca critica, cioè attraverso la rivendicazione della libertà,

dell’uguaglianza degli individui e dell’autonomia della loro ragione, sarebbe approdata ad

un’epoca organica in cui le leggi, che regolano i rapporti interpersonali, sono legate

all’ordine economico e quindi sempre più alla subordinazione dell’uomo alla sua funzione.

Il passo per giungere al materialismo storico e al concetto marxiano di alienazione è

breve: al di là della quadruplice alienazione del lavoratore rispetto alla macchina, rispetto

al proprio lavoro, rispetto al prodotto e rispetto al capitalista, l’individuo è ridotto a

personificazione dei suoi interessi economici. Scrive Galimberti: “Quando la razionalità,

prima economica e poi tecnica, abolisce quella distanza sempre intercorsa tra cultura e

produzione che consentiva all’individuo spazi espressivi socialmente significanti proprio

perché non immediatamente produttivi, all’individuo non resta che l’omologazione alla

razionalità che fa dell’apparato una semplice risposta funzionale alle sue esigenze. Con

ciò non si vuol dire che l’apparato sopprima la libertà degli individui, ma solo che

appiattisce il concetto di libertà su quello di competenza, il quale garantisce agli individui

unicamente la capacità di muoversi nei circuiti funzionali dell’apparato, più interessato ai

meccanismi di pianificazione, organizzazione e centralizzazione che alle sorti

dell’individuo”.28 Il passaggio dalla società dominata dalle leggi economiche a quella

regolata dal primato della tecnica è rappresentato dall’assunzione di un carattere

universale dell’alienazione: essa non riguarda più solo alcuni gruppo sociali quali forze di

produzione, dal momento che, nella società della tecnica, nessuno può darsi se non come

forza di produzione, ossia è valutato ed esiste solo in nome della propria funzionalità e

competenza tecnica. La categoria di individuo viene sostituita da quella di funzionario

nello stesso modo in cui la categoria di fine viene sostituita da quella di mezzo: l’azione

non tende più a un orizzonte di senso perché diviene automatica operazione volta a

potenziare ulteriormente le possibilità del mezzo. Il risultato è l’appiattimento, è

l’identificazione dell’uomo, del soggetto nell’oggetto: questa operazione non è una

semplice oggettivazione. Essa infatti implicherebbe la permanenza del soggetto in qualche

forma in relazione alla quale sarebbe sensato parlare di oggetto: non c’è oggetto senza un

soggetto che lo pensi come tale e non c’è soggetto senza un oggetto che lo faccia sentire

tale. L’identificazione dei due porta allo smarrimento del senso di entrambi: il risultato è

una nuova realtà, fine a se stessa, dove regna la funzionalità del mezzo e dove non si può

più parlare di unicità o di insostituibilità poichè ogni parte dell’apparato tecnico può essere

indiscriminatamente sostituita e moltiplicata. L’uomo non resta altro che un organo 28 U. GALIMBERTI, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica. Antropologia della tecnica. P. 543, Feltrinelli, Milano, 2000

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dell’apparato, a sua volta composto da altri organi dell’apparato tecnico. È l’età della

tecnica.

La funzionalità diventa categoria dell’essere, dell’etica, ma anche del pensiero. È con

questa declinazione di significato che Galimberti parla di pensiero funzionale, ossia di un

ordine logico di strutture di pensiero che prescindono dal significato dell’apparato tecnico

per dare giustificazione alla realtà tecnica.

Dal formalismo al Gestell. Il formalismo hilbertiano si presenta come una risposta interessante non solo nell’ambito

della crisi dei fondamenti della matematica, inaugurato all’alba del ventesimo secolo da

Russell, ma per la stessa temperie culturale in cui è maturata. Sono, infatti, gli anni del

Circolo di Vienna che per eccellenza rappresentò le nuove tendenze neopositiviste, le

quali, con le dovute distinzioni rispetto al Positivismo ottocentesco, mostravano crescente

interesse per la fondazione delle scienze e per i controversi rapporti tra logica ed

esperienza. Ma soprattutto sono anni in cui la corsa al progresso e, quindi, al

potenziamento dell’apparato tecnico–industriale, di cui si è detto ampiamente in

precedenza, andava assumendo proporzioni sempre crescenti. Almeno apparentemente

lontana da “questioni della tecnica”, la risposta di Hilbert alla crisi dei fondamenti della

matematica non può non richiamare, seppur indirettamente, quell’insidiosa operazione di

affermazione di una logica utilitaristica della funzionalità e il conseguente tramonto dei

significati che, come si è detto, caratterizza l’età della tecnica.

La preoccupazione di Hilbert è, in prima istanza, quella di assicurare, tramite

l’elaborazione di teorie formali, la fondatezza della matematica risolvendo i problemi

causati dall’introduzione del concetto di infinito nell’ambito della teoria degli insiemi. Ossia

si propone di giustificare l’applicazione della matematica infinitaria, fondata su concetti

ideali e perciò astratti e indefiniti, tramite la matematica finitaria, i cui soli contenuti hanno

un significato in quanto derivanti, per mutuare l’espressione kantiana, da un’intuizione

sensibile pura (essa tratta e manipola oggetti finiti e simboli). Più precisamente Hilbert si

propone di elaborare una teoria che consenta di formalizzare la matematica infinitaria

senza dover ricorrere all’intuizione e allo sforzo di comprensione dei suoi enunciati astratti.

Sostanzialmente è come se si riducesse la matematica ad un gioco formale che non

indaga sul significato dei suoi oggetti, anzi, il formalismo “nega che la matematica sia

conoscenza di qualche realtà, e la considera più vicina ad un’attività puramente deduttiva

e ludica”29 al pari del gioco degli scacchi dove la regola e le combinazioni delle regole, nel

quadro complessivo della partita, non solo definiscono il singolo pezzo, ma lo definiscono

in funzione esclusiva della regola, per cui esso di per sé non ha alcun significato. Ne

consegue che due sono i momenti fondamentali del sistema formale, quello della 29 GABRIELE LOLLI, Filosofia della matematica. Formalismo. Il Mulino. Bologna. 2002.

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deduzione meccanica che consiste nella pura applicazione delle regole e quello della

costruzione del sistema stesso, ossia la scelta del linguaggio, delle regole e degli assiomi

che consentono il funzionamento del gioco. Gli unici principi che aprioristicamente devono

essere comunque rispettati sono quelli che Hilbert aveva già individuato per la costruzione

dei modelli, ovvero l’indipendenza, la completezza e la coerenza o non contraddittorietà30.

A loro volta queste caratteristiche non potranno essere dimostrate se non all’interno del

sistema formale e tramite le regole che sono state assunte internamente al sistema

(siccome non si può evidenziare uno scarto cronologico tra assunzione delle regole, loro

applicazione e loro fondazione sulla base di principi assiomatici, tali regole avrebbero

dunque la pretesa di auto-dimostrare la loro fondazione nella loro stessa operatività).

Tuttavia - e proprio per questo - il sistema formale resta conchiuso in se stesso, cioè non

dà di per sé ragione dell’applicabilità della matematica. ”I sistemi formali sono il modo di

presentare le teorie matematiche assiomatizzate quando si precisi il linguaggio e si

convenga di usare una logica ricorsivamente enumerabile, una logica cioè in cui le

conseguenze si ottengono iterando l’applicazione di alcune regole sintattiche”31. Attraverso

queste costruzioni formali, l’intento di Hilbert sarebbe appunto quello di dimostrare che

elementi ideali come il concetto di infinito possono essere liberamente applicati senza

necessitare di un’autonoma interpretazione, dal momento che non aggiungono nulla alle

verità dei domini finiti ed anzi sono giustificabili sulla base della logica classica già

applicata negli insiemi finiti. Nonostante il fallimento del progetto hilbertiano (cfr.30), il

formalismo ha continuato e continua ad essere una strada percorsa nell’ambito della

filosofia della matematica. Sua preoccupazione precipua resta tuttavia quella di liberare la

matematica da ogni assunzione metafisica, vale a dire da ogni forma di contenutismo. In

tal senso un formalista moderno come Haskell Curry “chiama formalismo ogni filosofia in

cui gli oggetti della matematica non sono specificati, o, se lo sono, la loro natura non è

rilevante per la validità dei teoremi, sicchè questi siano invarianti rispetto alla loro

eventuale sostituzione.”32 Al centro di tutto il formalismo ortodosso si colloca dunque la

dimostrazione, mentre, venendo meno ogni interesse per il contenuto, decade anche ogni

interesse per il significato che si situa nella comprensione dell’oggetto nella totalità delle

strutture intrinseche alla sua natura, e che si manifesta nello studio della rete di relazioni

che il significato produce con altri significati.

Da quanto detto finora e soprattutto dall’impiego di espressioni e termini come “soggetto”,

“oggetto”, “essenza”, “totalità”, parrebbe scorgere in un pensare di tipo metafisico la

soluzione o almeno un contro- altare ad ogni pensiero di tipo tecnico o formalistico; non

può dunque mancare un riferimento a Heidegger che, paradossalmente rispetto a quanto 30 Gödel, con il secondo teorema di incompletezza, dimostrò che la non contraddittorietà di un sistema non può essere dimostrata all’interno del sistema stesso. 31 GABRIELE LOLLI, Filosofia della matematica. Formalismo. Il Mulino. Bologna. 2002 32 GABRIELE LOLLI, Filosofia della matematica. Formalismo. Il Mulino. Bologna. 2002

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detto, proprio nella metafisica tradizionale non solo ha scorto la prefigurazione della

tecnica, ma ha identificato la tecnica come la suprema realizzazione della metafisica. La

tecnica infatti è il grado più rilevante cui l’oblio dell’essere sia giunto, ossia è il trionfo più

eclatante del processo di “entizzazione” dell’essere. È opportuno precisare che Heidegger,

dopo la tanto discussa Kehre, orienta la sua riflessione, sempre polarizzata intorno alla

cruciale domanda dell’essere, nei confronti di una strutturale polemica con il modo

tradizionale di pensare metafisicamente. La metafisica nella storia del pensiero

occidentale, almeno dopo Platone, non si è più preoccupata di interrogarsi intorno

all’essere e quindi di chiarirne l’essenza, ma ha concentrato la sua attenzione sull’essenza

degli enti che dell’essere sono mero momento o manifestazione. Dunque per Heidegger,

la riproposizione della domanda dell’essere dal punto di vista non più dell’ente ma

dell’essere stesso richiede l’abbandono dell’ottica della metafisica tradizionale, il cui

stesso linguaggio si rivela insufficiente e inadeguato, per abbracciare un nuovo modo di

pensare l’essere post-metafisico. La tecnica, pertanto, in quanto realizzazione di quello

che per Heidegger è un nichilismo metafisico, rappresenta la completa riduzione

dell’essere a ente, il dominio dell’ente. Tuttavia, il suo modo di concepire la tecnica è più

problematico: essa per il suo carattere globale e per il coinvolgimento della totalità della

natura stessa nei suoi processi risulta, nella sua essenza, qualcosa di non tecnico, e

quindi non ontico, ma ontologico; essa, cioè, è nella sua essenza una forma di

disvelamento dell’essere, heideggerianamente inteso come Ereignis. La tecnica, infatti, se

all’epoca dei Greci riguardava la sfera del poiein, cioè del produrre, nell’età moderna si

configura come una pro-vocazione (Herausforden) che è in grado di trarre fuori dalla

natura energia che può essere accumulata e successivamente impiegata. L’elemento

naturale è visto come una fonte da sfruttare, anzi non è più visto in sé, ma è guardato alla

luce di un elemento di fondo, che è la riserva di energia. Così Heidegger fa l’esempio del

Reno che, interrotto dalla centrale idroelettrica, è incorporato nella costruzione stessa

della centrale. La provocazione è l’impossessamento da parte della tecnica di quelle

condizioni naturali che precedentemente consentivano la produzione. Per designare post-

metafisicamente la tecnica, Heidegger usa il termine Gestell, che significa letteralmente

impianto o im-posizione, e che tradurrebbe la totalità dell’imporre tecnico nella riduzione

della realtà a fondo. Con queste caratteristiche, il Gestell, come evento dell’essere, non è

affatto un mezzo dell’attività dell’uomo –come la tecnica è stata lungamente e

tradizionalmente intesa- ma esso stesso comprende l’uomo nella sua totalità. Donde, i

pericoli che corre l’uomo a considerare la tecnica al di fuori della sua essenza, che non è

affatto cosa tecnica, ma è evento dell’essere, sono quelli di smarrire la propria essenza di

“pastore dell’essere” e l’essenza della verità. Il punto nodale del ragionamento di

Heidegger è che la tecnica, pur essendo forma di disvelamento dell’essere, è solo una

possibile forma del disvelamento, e non la forma definitiva e immutabile, cioè non è

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l’essere. Assumere che il Gestell sia l’ente significa ricadere nella realizzazione della

metafisica di cui prima si diceva.

De artis medietate. Ben lungi dal voler, e dal poter, “dare” una soluzione all’intricatissima rete di problematiche

messe in campo dalla questione della tecnica stricto sensu e, più in generale,

dall’evoluzione del pensiero tecnico e della tecnologia nella storia dell’uomo, cercherò,

quantomeno, di avanzare timidamente un mio personale contributo, una proposta di

riflessione. A tale scopo, tuttavia, mi è utile fare un passo indietro, non cronologicamente,

ma con il pensiero, ossia cercare di guardare la questione fino ad ora trattata da un altro

punto di vista, come se mi arrampicassi su di una vetta teoretica per assicurarmi una

visione d’insieme del panorama che circonda il problema particolare. Mi sia lecito, dunque,

introdurre una delle molteplici vexatae quaestiones della storia del pensiero occidentale,

quella del dualismo, per introdurre poi la mia interpretazione della funzione della tecnica.

Il dualismo ha radici metafisiche e gnoseologiche: è stato definito da Platone, è rimasto

insoluto per Aristotele ed è stato ribadito da Cartesio nella formulazione oppositiva della

res cogitans e della res extensa, ossia del soggetto pensante rispetto all’oggetto reale e

pensato. In Kant, benché con un habitus differente, il dualismo permane nella forma del

rapporto tra fenomeno e noumeno, tra conoscibile e non conoscibile in forza delle umane

facoltà. Hegel riesce a dare una risposta risolutiva, ma essa rimane valida solo all’interno

del suo sistema panlogistico idealistico.

Una delle forme più significative di dualismo, lontana dal dualismo ontologico- idealistico in

senso platonico, è quella rappresentata dal già citato rapporto soggetto- oggetto che nella

storia del pensiero occidentale ha assunto vesti e formulazioni le più diverse ma sempre

riconducibili alla matrice comune di opposizione tra una dimensione interiore ed una

esteriore. Già per gli stoici l’ agathòn, il bonum, ossia il vero bene, aveva la propria sede

nell’anima, ossia intus, nell’interiorità, (e così anche il vero male, il kakòn o malum, era

piuttosto il male dell’anima) laddove le suggestioni fallaci e transeunte dei beni e quindi

anche dei mali esteriori ricadevano nell’ampio quanto eterogeneo contenitore degli

externa, che non escludeva neppure il corpo, mero bagaglio dell’anima.

Dal dualismo, oserei definirlo “etico”, degli stoici si passa così ad un dualismo più

antropologico: quello del rapporto anima- corpo, uno dei cardini della filosofia cristiana che

ha raggiunto le vette più alte d’espressione nella Scolastica e soprattutto nella Summa

theologiae di S. Tommaso d’Aquino. La filosofia moderna, almeno da Cartesio in poi, ha

ereditato le aporie della Scolastica medievale, sostituendo, però, al termine anima quello

meno compromesso dal punto di vista religioso di “mente”. Il rapporto mente- corpo

sottende la problematica questione che nasce dal fatto che ogni soggetto pensante ha

immediata evidenza della propria coscienza (l’autocoscienza che cartesianamente si

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riassume nel cogito, ergo sum) ma non della realtà oggettuale che lo circonda. Uno iato

incolmabile si apre tra il soggetto che vive la realtà e la realtà che è vissuta dal soggetto,

per cui la realtà del reale non può mai acquisire quel grado di evidenza che è fornito

dall’autocoscienza. La questione è stata espressa recentemente in modo sintetico ed

efficace da Thomas Nagel che concentra la riflessione su tre domande: “1. è una

possibilità insensata che l’interno della nostra mente sia la sola cosa che esiste – o che,

anche se vi è un mondo esterno alla nostra mente, esso sia totalmente dissimile da quello

che crediamo sia? 2. se questo è possibile, hai qualche modo di provare a te stesso che

effettivamente non è vero? 3. se non puoi provare che esiste qualcosa all’esterno della tua

mente, è giusto continuare a credere comunque nel mondo esterno?”33 .

Il dualismo nella storia del pensiero occidentale è risolto attraverso due vie: o ricorrendo

ad un monismo di matrice parmenidea o “scavalcando” l’alveo stesso in cui la questione è

stata originariamente concepita, la metafisica. Almeno a partire da Nietzsche e dalla sua

critica radicale ad ogni costruzione che ponga il senso dell’essere al di là dell’essere e che

stabilisca la distinzione tra mondo reale e mondo apparente, la concezione della

metafisica tradizionale, come dimostra anche Heidegger, non avrebbe più ragione di

essere. Tuttavia il “dualismo kantiano” è tale, pur non avendo matrice metafisica in senso

tradizionale, ma trascendentale. Dunque, la questione del dualismo, che, come si è visto,

si manifesta anche in sede etica e antropologica, trascende a sua volta ogni superamento

della concezione tradizionale della metafisica: è, per così dire, un problema post-

metafisico a tutti gli effetti (per non dire “meta- metafisico”!) e, dunque, per usare il lessico

di Heidegger, riguarda l’essere nella sua essenza.

Ed è a questo punto che mi permetto di introdurre un concetto che chiamerò termine

medio, medium, o μεταξύ, in cui confluiscono i termini opposti del dualismo senza che essi

perciò si confondano l’uno con l’altro. Il termine medio dà così certezza e dignità

ontologica a entrambi i termini opposti senza, tuttavia, che uno esautori l’altro o si

identifichi con l’altro: è un ago della bilancia. Ho detto dignità ontologica: effettivamente il

medium si potrebbe intendere anche in senso trascendentale, come “categoria delle

categorie” (la categoria delle lenti per mezzo delle quali vediamo il mondo); ma in tal caso

si ritornerebbe al punto di partenza. Preferisco, dunque, mutuare l’espressione da

Heidegger ed intendere il medium come la modalità di disvelamento dell’essere. Il

medium, quindi, non è da confondere con la sintesi hegeliana come conclusione di una

triade dialettica: esso consiste in un principio che si pone come terzo, sottile margine di

convergenza verso cui si riversano la dimensione del soggetto e quella dell’oggetto. Userò

una metafora matematica: il medium, intuitivamente (molto intuitivamente!), rappresenta

tra soggetto e oggetto quel “termine unificatore” che, sulla retta dei numeri reali, il numero

33 Thomas Nagel, Una brevissima introduzione alla filosofia, p. 23, Il Saggiatore Net, 2002, Milano.

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irrazionale rappresenta per la successione dei numeri razionali. In quanto principio

“ontologico”, il medium riguarda direttamente l’essenza dell’essere, ma assume nell’essere

e, quindi, per l’ente determinazioni differenti e vesti differenti, una delle quali è appunto la

tecnica. La medietà della tecnica (in latino ars) è caratteristica materialmente e

quotidianamente verificabile. Essa è la chiave con cui giornalmente ci apriamo al mondo:

ha modificato i nostri spazi (basta pensare ad Internet) e i nostri tempi (basta pensare alla

possibilità di registrare un’azione e di rivederla più e più volte), insomma il nostro modo di

concepire la realtà; eppure la realtà non è meno reale di quella in cui non esistevano

computer o televisioni, non è la realtà ad essere mutata, né il soggetto che tale realtà

conosce, ma è cambiato il medium che, come si è detto, realtà e soggetto unifica (il che

equivale a dire che entrambi sono cambiati senza che nessun dei due possa rendere

intelligibile il cambiamento). La tecnica, pertanto, non è il medium, ma è un medium

possibile, cioè l’investimento mediatico attualmente assunto dall’essere, che è solo una

delle possibili manifestazioni del termine medio. L’equivoco che contraddistingue l’età

della tecnica è pertanto quello di vedere nella tecnica il medium per eccellenza.

Nota bibliografica dei testi letti e/o consultati.

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• ZOLA ÈMILE, Il romanzo sperimentale, trad. dal francese di I. Zaffagnini, Pratiche Editrice, 1992, Parma.