brano n.3 Sarah Ferrati con Annibale Ninchi 1958 - incontro con Egeo (2.29’-7.20’)

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V endetta e giustizia nella tragedia e nella com m edia greca IIIlezione: M edea (431 aC)diEuripide --> vendetta Sergio Zangirolam i e voce recitante U niversità della Terza Età M ontebellunaaprile-m aggio 2012

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brano n.3 Sarah Ferrati con Annibale Ninchi 1958 - incontro con Egeo (2.29’-7.20’). brano n.1 con la Callas, film di Pasolini 1969 - piani di vendetta (- 1.35’). bran. brano n.2 con M.Angela Melato 1989 - incontro con Giasone (5.25’- 6.20’). traduzione di Ettore Romagnoli. - PowerPoint PPT Presentation

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Vendetta e giustizia nella tragedia e nella commedia greca III lezione:

Medea (431 aC) di Euripide --> vendetta

Sergio Zangirolami

e voce recitante

Università della Terza Età Montebelluna aprile-maggio 2012

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Euripide (in greco, Ευριπίδης; in latino, Euripides) (Salamina, 23 settembre 480 a.C. – Pella, 406 a.C.) fu un drammaturgo greco antico.

È considerato, insieme ad Eschilo e Sofocle, uno dei maggiori poeti tragici greci.

Di Euripide si conoscono novantadue drammi; sopravvivono diciotto tragedie di cui una, il Reso, è generalmente considerata spuria, e un dramma satiresco, il Ciclope.

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I drammi superstiti sono 29:

Alcesti (Ἄλκηστις / Alkestis) del 438 a.C.;

Medea (Μήδεια / Mèdeia) del 431 a.C.;

Ippolito (Ἱππόλυτος στεφανοφόρος / Ippòlytos stephanophòros) del 428 a.C.;

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Gli Eraclidi (Ἡρακλεῖδα / Herakleìdai);

Troiane (Τρώαδες / Troàdes) del 415 a.C.;

Andromaca (Ἀνδρομάχη / Andromàche);

Ecuba (Ἑκάϐη / Hekàbe) del 423 a.C.;

Supplici (Ἱκέτιδες / Hikétides), del 414 a.C.;

Ione (Ἴων / Ion);

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Ifigenia in Tauride (Ἰφιγένεια ἡ ἐν Ταύροις / Iphighèneia he en Taùrois);

Elettra (Ἠλέκτρα / Helèktra);

Elena (Ἑλένη / Helène) del 412 a.C.;

Eracle (Ἡρακλῆς μαινόμενος / Heraklès mainòmenos);

Fenicie ( Φοινίσσαι / Phoinìssai) del 410 a.C. circa;

Oreste (Ὀρέστης / Orèstes) del 408 a.C.;

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Ifigenia in Aulide (Ἰφιγένεια ἡ ἐν Αὐλίδι / Iphighèneia he en Aulìdi) del 410 a.C.;

Le Baccanti (Βάκχαι / Bàkchai) del 406 a.C.;

Ciclope (Κύκλωψ / Kùklops) (dramma satiresco);

Reso (Ῥῆσος / Rèsos) (probabilmente spuria).

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Da un Saggio di Gennaro Tedeschi dell’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE 2010, ricaviamo una lunga citazione:

Euripide appare distaccato dalla polis non perché fu un cittadino

meno impegnato di Eschilo, ma perché il suo impegno fu

qualitativamente diverso: egli operò in un periodo di straordinari

mutamenti economici, sociali, politici, etici e culturali, nei

confronti dei quali si mostrò piú sensibile di Sofocle.

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La grandezza di Atene dal tempo delle guerre persiane si era

accresciuta sia con il rafforzamento della democrazia, di cui Pericle

dal 461 a.C. divenne il piú autorevole esponente, sia con il

progressivo espansionismo della sua politica imperialista.

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Gli Ateniesi si preoccuparono di giustificare la loro egemonia

elaborando una storia partigiana della loro polis, secondo la quale la

superiorità della politeia democratica appariva tra l'altro fondata su

principî etici innati: il rispetto della giustizia, la temperanza, la

modestia, il disprezzo delle mollezze e degli agi, la deferenza per i

padri, la venerazione delle divinità.

Il sapiente in quel contesto doveva considerarsi innanzi tutto un

cittadino al servizio della comunità e mediatore di quelle virtú su cui

poggiavano le istituzioni patrie.

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l'elogio dell' ισότης (eguaglianza) e della μετριότης (giusta misura)

declamato dalla nutrice, l'esaltazione di Atene cantata dal Coro,

che ci testimonia la sua profonda adesione alla concezione periclea

della polis, gli interventi di Medea sulle spinose questioni relative

alla condizione della donna e dei sapienti propugnatori di nuove

dottrine.

I continui riferimenti alla società del suo tempo mettono in

evidenza quanto fosse immerso nella realtà politica, culturale e

sociale, e con quale sensibilità reagisse ai mutamenti che

avvenivano all'interno della polis.

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In Euripide non sono piú i valori eroici a emergere, anzi essi

vengono sviliti nella dimensione del quotidiano in cui si trovano ad

agire i personaggi.

La vicenda di Medea diventa la storia di una donna barbara,

proveniente dalla Colchide, una terra lontana e incivile: è una

persona diversa e, cosa ancor più grave, una maga che Giasone ha

preso in sposa per proprio tornaconto.

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Nella città di Corinto, Medea insieme ai suoi figli è vilmente

abbandonata quando il capo della spedizione argonautica riceve

l'offerta di contrarre matrimonio con la figlia del sovrano Creonte e,

di conseguenza, il trono.

La protagonista si trova in balìa di un avverso destino lontana dalla

terra natale, senza un parente che possa aiutarla, in terra straniera,

dove nessun amico la può consolare.

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Priva del conforto di tutti, disperatamente sola, dà sfogo alla

propria implacabile collera, infliggendo ai nemici una durissima

punizione.

Dopo avere causato la morte della nuova moglie di Giasone e del

re Creonte, pur combattuta interiormente e logorata fino all'estremo

dall'amore materno, mette in atto il disegno di uccidere i figli per

colpire il fedifrago Giasone nel modo piú crudele possibile.

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In definitiva la tragedia, nella quale il tradizionale dato cultuale

della vicenda emerge soltanto nel finale, si accentra sul motivo del

talamo abbandonato, sulla lacerazione dell'unità amorosa tra

Giasone e la protagonista.

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Medea trasforma la propria passione in un'implacabile aggressività,

che contrasta drammaticamente con l'amore materno nei confronti

dei figli.

Cosí, dopo tante prove di affettuosa devozione e di incondizionato

amore, l'odio pervicace, subentrato all'impulso erotico, la porta a

dominare gli eventi.

Alla fine con la sua forte aggressività la protagonista ha il

sopravvento su Giasone, la cui condotta durante tutto il dramma si

rivela sostanzialmente subalterna e passiva.

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Questo contrasto fa altresí emergere l'opposizione tra due antitetici

sistemi di valori, in cui la nozione di giustizia si estrinseca in

formule e interpretazioni inconciliabili:

Giasone antepone al diritto coniugale e interpersonale quello della

parentela, poiché ricerca per sé e i figli una vantaggiosa condizione

sociale attraverso il matrimonio con la figlia del re Creonte;

Medea, invece, agisce appellandosi al codice della giustizia

reciprocitaria secondo cui il consorte deve pagare la pena per non

avere tenuto fede all'impegno coniugale.

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Forte di questa concezione, condivisa anche dal Coro, lei applica la

lex talionis, ma al tempo stesso si rende colpevole di ύβρις

(prepotenza, tracotanza) poiché, sfidando le norme sociali e la

pubblica opinione, supera la giusta misura coinvolgendo nella

vendetta anche vittime innocenti.

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Il dramma non propone un effettivo sbocco positivo, in quanto si

chiude paradigmaticamente con la messa in evidenza del senso di

una realtà in piena crisi e al tempo stesso con la manifestazione

della natura divina di Medea che, come deus ex machina, fonda il

culto dei suoi figli e stabilisce i riti in loro onore a Corinto.

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In alcune opere composte tra i secoli XII e il XIII, la donna colchide

fu evocata come emblema della spietata perversione femminile,

secondo la concezione, diffusa in quell'epoca e divulgata in molti

scritti, secondo la quale la donna era causa e origine di ogni male.

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Tuttavia, pur essendo considerata in talune opere donna innamorata

e appassionata (Herbort von Fritzlar, Liet von Troje, 1195 ca.),

ideale di eroina (Konrad von Würzburg, Der Trojanerkrieg), donna

forte e generosa, moglie leale, giovane intelligente dallo smisurato

sapere, maestra in tutte le scienze e arti liberali (Jean le Fèvre, Livre

de Loesce, 1380-1387), o allegoria della salvezza cristiana (Ovide

moralisé, 1291-1328),

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non ne tacquero lo scellerato infanticidio né Jean de Meung nella

seconda parte del Roman de la Rose (1270 ca.), né Giovanni

Boccaccio nel XVII capitolo del De mulieribus claris (De Medea

regina Colcorum, 1361), né infine la medesima de Pizan nell'Epistre

au Dieu d'Amours (1399).

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Dante Alighieri nel XVIII canto dell'Inferno mise Giasone tra i

seduttori nell'ottavo cerchio delle Malebolge per avere ingannato

Ipsipile e Medea (vv. 86-96).

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il francese Jean Anouilh (1910-1987) in Médée (1946), una pièce

noire rappresentata a Bruxelles due anni dopo, trasferí nel mito

temi e figure a lui care: a Giasone, arreso al quieto vivere dopo

peripezie di ogni sorta, che gli hanno fatto prendere coscienza dei

limiti, entro cui è costretta la propria esistenza, si oppone Medea,

che in ogni circostanza ricerca la libertà da ogni compromesso e

dagli obblighi della vita borghese.

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Quando la protagonista si avvede delle profonde differenze, che la

separano dall'uomo con cui ha trascorso gli ultimi dieci anni della

sua vita, uccide se stessa e i propri figli nel rogo del suo

carrozzone da zingara.

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Ancora in Italia nel 1949 Tatiana Pavlova portò in scena la tragedia

in due tempi La lunga notte di Medea dello scrittore calabrese

Corrado Alvaro (1891-1956), con le musiche originali di Idelbrando

Pizzetti.

Al pari del dramma di Anouilh, la Medea di Alvaro scaturiva

dall'esperienza dolorosa delle persecuzioni razziali avvenute durante

la guerra da poco conclusa.

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Nel dramma la protagonista si presenta come esule e straniera,

irriducibilmente diversa, pertanto esclusa e respinta dalla comunità

che la ospita.

Con l'intento di rimuovere la colpa da Medea, lo scrittore chiama in

causa inevitabili e determinanti ragioni esterne, quali il pregiudizio

razziale e l'intolleranza umana degli abitanti di Corinto.

L'infanticidio scaturisce da un esasperato senso di pietà materna, da

un'estrema necessità di proteggere e di amare.

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il regista poeta e scrittore Pier Paolo Pasolini creò nel 1969 una

trasposizione cinematografica della tragedia euripidea, girandola

nella laguna di Grado, nella quale l'atleta Giuseppe Gentile

impersona Giasone e la cantante soprano Maria Callas interpreta il

ruolo della protagonista.

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In conclusione si deve prendere atto della straordinaria vitalità che

una tra le protagoniste dell'immaginario letterario della cultura

occidentale ha avuto e continua tuttora ad avere in special modo

nella drammaturgia, da quella greco-romana a quella contemporanea

(si pensi agli adattamenti americani, africani, asiatici), non soltanto

grazie al capolavoro euripideo ma anche per merito di quanti, in tutti

i tempi e in tutte le culture hanno imitato, parodiato, emulato,

rielaborato l'opera del grande tragediografo greco.

http://www.sslmit.units.it/crevatin/Documenti/Medea2010.pdf

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La scena si svolge a Corinto, a sud della Grecia, dove Medea, nata

nella lontana Colchide, ai confini con la Turchia e l'Armenia, suo

marito Giasone ed i loro due figli vivono tranquillamente.

Medea ha aiutato il marito nell'impresa del vello d'oro,

abbandonando così il proprio padre, Eeta.

Il vello d'oro era, secondo la mitologia greca, il vello di ariete d'oro

capace di volare, che Ermes donò a Nefele e che fu, in seguito,

rubato da Giasone.

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Dopo dieci anni, però, Creonte, re della città, vuole dare sua figlia

Glauce in sposa a Giasone, dando così a quest'ultimo la possibilità

di successione al trono.

Giasone accetta, abbandonando così sua moglie Medea.

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brano n.3 Sarah Ferrati con Annibale Ninchi 1958

- incontro con Egeo (2.29’-7.20’)

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branbrano n.1 con la Callas, film di Pasolini 1969 - piani di

vendetta (- 1.35’)

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Vista l'indifferenza di Giasone, malgrado la disperazione della

donna, Medea medita una tremenda vendetta.

Fingendosi rassegnata, manda in dono un mantello alla giovane

Glauce, la quale, non sapendo che il dono è pieno di veleno, lo

indossa per poi morirne fra dolori strazianti.

Il padre Creonte, corso in aiuto, tocca anch'egli il mantello,

morendo.

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brano n.2 con M.Angela Melato 1989

- incontro con Giasone (5.25’- 6.20’)

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Ma la vendetta di Medea non finisce qui.

Per assicurarsi che Giasone non abbia discendenza, uccide i figli

avuti con lui, condannandolo all'infelicità perpetua.

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Vediamo qualche verso con cui Medea si rivolge alle donne di Corinto, generalizzando a tutte le donne la sua esperienza :

Fra quante creature han senso e spirito,

noi donne siam di tutte le piú misere.

Ché, con profluvii di ricchezze prima

dobbiam lo sposo comperare, e accoglierlo

- male dell'altro anche peggiore - despota

del nostro corpo. E il rischio grande è questo:

traduzione di Ettore Romagnoli

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se sarà tristo o buon: ché separarsene

non reca onore alle consorti, né

repudiar si può lo sposo.

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Quando in casa si cruccia, un uomo può

uscir di casa, e presso un coetaneo,

presso un amico, cercar tregua al tedio:

noi, di necessità, sempre allo stesso

uomo dobbiamo essere intente.

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Dicono

che passa in casa, e scevra dai pericoli

la nostra vita, e invece essi combattono;

ed hanno torto: ch'io lo scudo in guerra

imbracciare vorrei prima tre volte,

che partorire anche una sola.

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con un giudizio che considera colpevole l’intera vita della donna:

E poi,

donne nascemmo, al bene oprare inette,

ma d'ogni male insuperate artefici.

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Giasone le rinfaccia il bene che ha ricevuto da lui:

Che mi salvassi, qual ne sia la causa,

male non fu; ma dalla mia salvezza

piú ricevesti che non desti; e adesso

te lo dimostrerò.

Primo, ne l'Ellade

abiti adesso, e non in terra barbara;

e sai giustizia, e l'uso delle leggi,

e non l'arbitrio della forza;

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e tutti

gli Ellèni sanno che sei dotta, e sei

venuta in fama: se abitato agli ultimi

confini avessi della terra, niuno

fatto di te parola avrebbe.

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e infine l’orribile strazio, con lo scempio dell’uccisione dei figli, verso cui Medea si intenerisce mentre si prepara ad ucciderli:

O figli miei, porgete

la vostra mano, alla madre porgetela,

in tenero commiato. O dilettissima

mano, o sembiante, o capo dilettissimo

dei figli, o nobil volto, a voi sorrida

fortuna; ma laggiú: ché tutto il padre

quassú v'ha tolto.

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ma la passione tradita deve ottenere uno sfogo nella vendetta, anche la più atroce:

Su, dunque, àrmati, o cuor. Ché indugi? è vile

non far ciò che bisogna, anche se orriblle.

Su, sciagurata mano mia, la spada,

stringi la spada, e muovi a questo truce

termin di vita, non esser codarda,

né dei fig1i pensar che d'ogni cosa

ti son piú cari, e che li desti a luce.

Questo sol giorno i figli tuoi dimentica,

e poscia piangi. Anche se tu li uccidi,

cari sono essi, e sciagurata io sono.

Page 45: brano n.3  Sarah Ferrati con Annibale Ninchi 1958  - incontro con Egeo (2.29’-7.20’)

O abbracci soavissimi,

morbida cute, ed alito soave

dei figli! Andate, andate! Io non ho forza

di piú guardarvi, e son vinta dai mali.

Intendo ben che scempio son per compiere;

ma piú che il senno può la passione,

che di gran mali pei mortali è causa.

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Biblio:

Friedrich Nietzsche “La nascita della tragedia”, Adelphi 2011

Cinzia Bearzot “La giustizia nella Grecia antica”, Carocci 2011

Euripide “Medea”, testo greco a fronte, Bur 2010