Alberto Pincherle - La Formazione Teologica Di Sant'Agostino

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ALBERTO PINCHERLE LA FORMAZIONE TEOLOGICA DI 5 A N T ’A G O S T I N O EDIZIONI ITALIANE ROMA

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ALBERTO PINCHERLE

LA FORMAZIONE TEOLOGICADI

5 A N T ’A G O S T I N O

EDIZIONI ITALIANE ROMA

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o p r ι e t à L e t t e r a r i a r i s e r v a t a

« L ' A I R O N E » per farle tipografica - R O M A

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A V V E R T E N Z A

Il presente lavoro non è se non il rifacimento — che, per quanto mi riguarda, verrei sperare definitivo — di una disorganica serie di articoli pubblicati tra il 1930 e il 1934 nella rivista Ricerche Religiose (dal 1934 Rcligio) diretta da Ernesto Buonaiuti. Quegli articoli erano a loro volta il risultato dello smembramento di un lavoro più vasto, concepito in origine come complemento e chiari­mento di un volume di sintesi ; ma i più di essi vennero riscritti via via, perchè, come suole accadere, nel proseguire lo studio mi venne fatto di approfondire meglio alcuni punti, tener conto di pareri altrui e, insomma, ripensarci su. Perciò non mancano m essi le ripetizioni e, se non vere e proprie contraddizioni, differenze di vedute. Siccome poi sullo stesso problema continuai a riflettere anche dopo il 1934, mi ero dato, nell’estate del 1938, a preparare una stesura finale di questo saggio, in vista di una sua pubblica­zione integrale negli Annali della Facoltà d i Lettere e d i Filosofia della R. Università d i Cagliari. Riuscii però a preparare e conse­gnare soltanto la prima parte, che infatti è apparsa sul volume IX (1939), grazie alle cure che vi dedicò l’amico e collega carissimo pro­fessor V. Pisani. Questa pubblicazione, !’ho potuta vedere soltanto al mio ritorno in Italia.

Continuai però ad attendere a questo stesso lavoro, non appena potei avere i numerosi appunti presi e l’altro « materiale » prepa­rato, durante l’autunno e l’inverno 1938 - 39. Ebbi allora l’occa­sione di discutere vari punti con l’illustre abate del Mont-César, dom B. Capelle, che quelli articoli aveva recensito in modo assai lusin­ghiero mentre contemplavamo quella Lovanio che, inconscia del futuro, mostrava ancora le tracce del passato martirio. Poi, stabilitomi non molto lungi da Losanna, grazie alla cortesia e allo

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squisito senso di ospitalità e solidarietà tra studiosi dei colleghi di quella Università, e in particolare del prof. Meylan, ebbi la fortuna di poter usufruire della Biblioteca della Facoltà Teologica, oltre che della Cantonale e Universitaria. Così condussi a termine il mio lavoro.

Il manoscritto, con gli altri scartafacci e i pochissimi libri che potei racimolare, mi seguì nel Perù. Ricordo ancora l’espressione di meraviglia con cui un amico, a Londra, poco prima della mia par­tenza, commentò la speranza, che gli avevo manifestata, di poter pubblicare colà un lavoro siffatto. In realtà, non fu possibile trovare un editore che se ne incaricasse per suo conto ; ed anche più impos­sibile, se si può dire, il farlo stampare a mie spese. Accolsi pertanto con piacere l’offerta di pubblicarlo nuovamente, capitolo per capitolo, nella rivista « Sphinx », organo dell’« Instituto Superior de Lingui­stica y Filologia » dell’Universidad Mayor de San Marcos, nel quale insegnavo ; con l’intesa che di ogni capitolo si sarebbe fatta una tira­tura a parte così che, alla fine, ne sarebbe risultato un volumetto. Per la sbadataggine di un’impiegata, ciò non fu fatto. D’altronde, apparsi i primi tre capitoli (tradotti in spagnolo e alquanto rimaneg­giati) in tre fascicoli di quella rivista (numeri 8, 9 e 10-11-12), tra il dicembre 1939 e il novembre 1940, e quando avevo quasi ultimato la traduzione del resto, l’istituto perdette l’autonomia di cui godeva e Sphinx dovette cessare le pubblicazioni.

Solo qualche anno più tardi mi si presentò l’occasione di ripren­dere il lavoro tante volte interrotto, quando cioè, in seguito allo amichevole intervento del prof. Rodolfo Mondolfo, il manoscritto mi fu richiesto, per prenderne visione, da un’importante casa edi­trice di Buenos Aires. Ma oramai, dopo tanti anni di lontananza e di angosce per le sorti della Patria sempre amata e desiderata, oltre che di familiari ed amici, tornava ad arridermi la speranza, già quasi certezza, di un prossimo ritorno.

Era naturale, per contro, il timore che queste pagine, nel frattempo, fossero invecchiate e, con il progresso degli studi, dive­nute superflue. Ho quindi cercato di conoscere, per quanto pos­sibile, le pubblicazioni apparse in questi anni di guerra, e delle quali nel Perù non si aveva notizia neppure indiretta. In parte, e specialmente per ciò che si è venuto facendo negli Stati Uniti, potei compiere questo lavoro di aggiornamento durante un breve,

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ma fruttuoso, soggiorno presso la Harvard University, di cui ero stato alunno venticinque anni prima e dove mi vennero concesse, grazie anche alla cordialità di G. La Piana e di G. Salvemini, le maggiori facilitazioni per l’uso della magnifica biblioteca ; in parte, e tra difficoltà ben note agli studiosi italiani, nelle varie biblioteche di Roma. E mi sembra di poter dire, ora, che questa indagine — limitata all’idea che Agostino s’è fatta del cristiane­simo come religione di salvezza e per conseguenza alla sua conce­zione del peccato, della redenzione, del libero arbitrio, ecc. e che perciò non pretende di rendere superflui tutti gli altri scritti rela­tivi alla formazione ed all’evoluzione spirituale di Sant’Agostino — nonostante qualche probabile lacuna nell’informazione bibliografica, può ancora essere pubblicata.

Le conclusioni cui essa giunge potranno sembrare non nuove, ed alcuni le troveranno probabilmente molto, troppo, « conserva­trici ». Esse divergono alquanto da quelle che ho esposto nel volume su ricordato. Sono dunque, in tutti i sensi del termine, una retractatio. Ma su quello che è l’oggetto del presente studio si è svolta, soprattutto in Italia, una vivace, e talvolta aspra, pole­mica, provocata da uno scritto di Ernesto Buonaiuti, che, tradotto in inglese, ha avuto anche all’estero una notevole risonanza. Allo inizio delle mie ricerche, io avevo creduto di poter concordare completamente con lui e recare anzi qualche nuovo argomento ? sostegno della sua tesi.

Ora, questa coincidenza di vedute rimane circa !a conclusione generalissima, cioè che, tra gli anni 396 e 397, si produsse nelia mente di Sant’Ag ;snno ;.n <„amb;amento importante a proposito di certi essenzialissimi punti di teologia. Ma, su ciò, vi è accordo tra molti studiosi, compresi vari che sono prettamente cattolici. Circa il modo, invece, in cui tale mutamento \a configuralo e sulla difficile questione degli influssi che Agostino risentì in quegli anni rlecisivi, ic mi vidi oi-Wigatc a divergere sempre più .letta­mente da colui che mi fu maestro di · Storia del Cristianesimo nella Università di Roma; e nel quale, per grandi e gravi che possano essere la diversità di atteggiamenti spirituali e le riserve o le critiche relative a certe posizioni da lui assunte, tutti siamo d’ac­cordo nel ravvisare lo storico di più vasta erudizione e di più profonda genialità, che l’Italia moderna abbia avuto in questo campo.

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Egli amava atteggiarsi a maestro — come, nell’ambito degli studi •storico - religiosi, ne aveva pienamente il diritto ; ma con genero­sità e larghezza d ’idee, non comuni, rispettava, anzi apprezzava, le personalità d e i , discepoli che, maturando, acquistavano una loro indipendenza di giudizio e di atteggiamenti.

Ma bisognava andare oltre quelle polemiche. A tal fine, mi era apparso da tempo che si rendesse necessaria una ricerca condotta con la più assoluta obbiettività, cioè con severo rigore di metodo, seguendo il criterio cronologico : leggere e rileggere attentamente, cercando di spremerne fuori, per così dire, tutto ciò che potevano darci di utile, le opere di Sant’Agostino neH’ordine stesso in cui con maggiore probabilità possiamo ritenere che furono pensate e scritte, e tenendo conto delle connessioni che esistono tra esse. Il che significa, poi, seguire in genere l’ordine stesso delle Retracta­tiones, quando si abbiano presenti tutte le indicazioni che esse ci forniscono.

Ho visto con piacere che questo criterio è stato adottato anche da altri studiosi recenti, a proposito di problemi diversi, e con buoni frutti. Senonchè oggi, quando questo metodo si' viene applicando, già ormai da parecchi anni, anche ad un Aristotele, adottarlo per Sant’Agostino può sembrare cosa ovvia e perfino banale. Non era così quando ho incominciato. Se poi i risultati del lungo studiare e meditare nort hanno nulla di sensazionale, io per mio conto non me ne lamento, nè trovo che sia stato perduto il tempo impiegato, mentre non mi illudo che possano soddisfare tutti. Molte questioni resteranno controverse, e alcuni punti non si potranno considerare mai come chiariti del tutto : perchè la loro soluzione è questione di apprezzamento e perchè nonostante gli sforzi che si possano fare, resterà sempre un certo campo aperto alle ipotesi, come è inevitabile, quando si tratta di ficcare lo sguardo nella vita di una anima, e così grande e ricca come quella di Agostino. Ma appunto per ciò, sono tanto più affascinanti i problemi e tanto più varie le possibilità di risolverli; e anche l’errore è meno inutile che mai, se in qualche modo ci permette, esso pure, di avvicinarci a Lui.

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Poco dopo aver pubblicato il suo primo scritto, De pulchro et opto, Agostino si decise al gran passo, di trasferirsi a Roma. Sa­peva che i retori non vi mancavano, ma aveva coscienza del suo valore e dovette contare sul probabile appoggio di Ierio, cui aveva dedicato il suo libro, e su quello, immancabile, dei suoi correligionari manichei (1). Il suo stesso trattato di estetica non fu probabilmente che un tentativo di applicare, dando loro veste filo­sofica, le idee della setta cui aveva dato la sua adesione (2). Ma, dopo vicende ben note, si presentò a Simmaco : il ricchissimo e nobilissimo senatore, capo del partito pagano, ascoltò il retore pro­vinciale e diede il giudizio favorevole, che procurò a questi la no­mina alla cattedra di Milano. Gli amici manichei che presentarono Agostino a Simmaco, difficilmente si saranno proclamati aperta­mente seguaci di una setta proscritta ; è più probabile che si pre­sentassero piuttosto come « filosofi », aderenti in qualche modo al partito della reazione anticristiana (3). Ma non dobbiamo neppu­re esagerare il contrasto tra l’esaminatore e l’esaminato, vedendo in quest’ultimo già l’autore della « città di Dio » (4). E possiamo forse anche supporre che Simmaco non vedesse, malvolentieri l’occa­sione di collocare sulla cattedra imperiale qualcuno che dovesse a lui questo posto e potesse in qualche modo aiutarlo a controbilan­ciare la crescente influenza di S. Ambrogio.

Quanto ad Agostino, forse già si affacciavano alla sua men­te i primi dubbi e le prime difficoltà contro il manicheismo, sia sotto l’aspetto scientifico sia sotto quello etico; e forse a lui pure, anche per questo riuscì gradito l’allontanarsi da Roma. Tuttavia, se allora si inclinò verso lo scetticismo accademico, questo dovet-

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te sembrargli non incompatibile con ciò che vi era di essenziale nel­la dottrina di Mani, cioè il dualismo. Perchè, dall’osservare nel­l’uomo l’anelito costante verso il Vero e il Bene, insieme con l’im­possibilità di raggiungerli, si poteva dedurre che nella natura uma­na bene e male sono commisti insieme ; e che un solo Dio non po­teva aver creato un essere dotato di tendenze contraddittorie. Quin­di, la fiducia di Agostino nel manicheismo, scossa per ciò che ri­guarda quella che è la parte esteriore, e come il rivestimento, del­la dottrina, dovette invece mantenersi, se pure non rafforzarsi, in un primo momento, quando egli si mise a studiare le dottrine de­gli Accademici. Non è illogico anzi il supporre che Agostino cer­casse d ’interpretare lo scetticismo accademico da un punto di vi­sta manicheo, o di spiegare filosoficamente il manicheismo appog­giandosi su teorie che avevano illustri precedenti classici.

Sarebbe fuori di luogo rifare qui la biografia di Agostino ed esporre ancora una volta il processo graduale della sua conversio­ne, analizzandone i motivi e cercando di disfare e sbrogliare tutti i fili che, a volte nascondendosi ai nostri occhi, formano il tessuto complesso del racconto delle Confessioni. Influirono su questo pro­cesso anche motivi di ordine pratico, ai quali pare non rimanesse insensibile neppure Santa Monnica (5). Agostino apprezzò i van­taggi che gli potevano dare un matrimonio vantaggioso e amici in­fluenti ; ebbe le sue ambizioni mondane ; avrebbe gradito un po­sto di certa importanza nell’amministrazione dell’impero. Ma tut­te queste considerazioni, sia che le facesse spontaneamente, sia che gli fossero suggerite da altri, non fecero, al più, che fomentare e affrettare lo sviluppo di una crisi tutta interna e spirituale, L’ori­gine di questa, per quanto ci è dato penetrare nella psicologia di Agostino, va cercata in quel contrasto tra le aspirazioni dell’ani­ma sua fantasiosa e assetata di bellezza e purità, e la sua sensua­lità sempre accesa (in relazione, — è probabile — con quella stes­sa fantasia così vivace e ardente) : contrasto che aveva provocato le crisi precedenti. In questa incertezza, in queste angosce, può avere arriso ad Agostino, in qualche momento, una filosofia scet­tica e pessimista : egli può aver pensato, a tratti, che meglio vale­va rinunciare alla ricerca del vero, e, annullato il valore di tutte le scienze e distrutte le basi della vita morale, stordirsi nell’attività pratica. Ma non pare che questa si sia presentata mai come una

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conclusione. Dovette essere più uno stato d’animo momentaneo, che un convincimento maturato.

Le esigenze d’ordine morali erano in lui troppo forti, e rinasce­vano più prepotenti ad ogni suo atto di debolezza.

Quella che alcuni biografi — seguendo una delle versioni che egli stesso dà della sua conversione (5 bis) — hanno voluto isola­re come una « fase scettica » nello sviluppo spirituale di Agosti­no, dovette essere in realtà un periodo di dubbi e di lotte inter­ne, non un’epoca di accettazione piena di una .filosofia, che sod­disfacendo l’intelletto infondesse anche tranquillità e serenità a tutta l’anima. Lo scetticismo accademico dovette dapprima appa­rire ad Agostino come consono con le dottrine di Alani : ma al tempo stesso alimentare nuovi dubbi relativamente allo stesso ma­nicheismo. Ma insieme, doveva riuscire difficile rinunciare all’i­dea di una vittoria del Bene sul Male, mentre, d ’altra parte, l’as­serita impossibilità per l’uomo di giungere alla conoscenza della verità non era una prova sufficiente dell’inesistenza di questa.

La crisi si chiuse con la lettura dei libri neoplatonici (6) e la famosa « scena del giardino ». Su questa crisi di Agostino, come sull’attendibilità del racconto delle Confessioni e sul carattere del­la conversione, si è discusso moltissimo. Io vorrei solo presentare qui alcune considerazioni. In primo luogo, non conviene dimenti­care - - anche chi elimini qualsiasi elemento sovrannaturale — che si tratta di ricostruire un processo psicologico dei più sottili e deli-j cati : ogni nostro tentativo di analizzarlo e di ricostruirlo non può non essere alquanto schematico e perciò, anche qualora riuscisse a non trascurare nessun elemento, avrebbe sempre qualcosa di arbitrario. In secondo luogo, non va perduto di vista che all’inizio deH*attività filosofica di Agostino vi fu la lettura de\Y Hortensius ciceroniano : di un’opera cioè, che riecheggiava il Protrettico di Ariste'®’?, quell’« Aristotele perduto », tuttora platonizzante, noto agli antichi ma a noi rivelato da indagini recenti. Di qui, e ricor­dando che gli Accademici erano i continuatori della tradizione pla­tonica, dovette venire malgrado tutto ad Agostino l’idea che all’a­nima umana, purificandosi da tutte le scorie, non dovesse essere im­possibile giungere alla scoperta del Vero. Anche il sentire in sè l’aspirazione ad una vita più alta e più nobile dovette parere ad

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Agostino una prova convincente di tale capacità. Ma quell’aspira· zione andava favorita e sostenuta : con il sottrarsi alle tentazioni, con la fuga dal mondo, con il rifugiarsi, dalle tempeste della vita pratica, agitata da ambizioni e preoccupazioni, nel porto sicuro della filosofia (7).

Ma appunto la riluttanza sempre maggiore ad accettare lo scetticismo accademico, doveva portare con sè anche l’abbandono definitivo del manicheismo. Dovette fare profonda impressione, allora, nell’animo di Agostino anche l’argomento di Nebridio (8) ; un Dio, che può essere vinto, anche momentaneamente, dalle forze del male, cessa di essere assoluto, non è più Dio. A poco a poco, il dualismo manicheo appariva assurdo; e, grazie all’interpreta­zione allegorica, anche i racconti biblici, oggetto di tante critiche da parte manichea, si rivelavano invece pieni di sublimi ammae­stramenti etici. Restava il problema del male ; particolarmente diffìcile da risolvere per chi non sapeva ancora decidersi a conce­pire Dio — l’unico Dio — come assolutamente incorporeo. La lettura dei libri neoplatonici, e la conoscenza dell’ascetismo cristia­no, con i racconti di San Simpliciano e, poco dopo, di Ponticiano, ebbero allora un’influenza decisiva.

Ma va ancora osservato, a proposito di questa crisi agostinia­na, quanto è difficile il determinare in essa momenti successivi e il segnalare dei cambi nètti di orientamento. Qualsiasi presenta­zione di questo processo, che si voglia tentare con il proposito di non allontanarci troppo dalla verità, non sarà mai abbastanza ricca di sfumature.

Un esempio, ce lo dà la relazione che corre tra gli avvenimenti esteriori e lo sviluppo interno. Alle ambizioni mondane, succede il progetto di realizzare l’abbandono del mondo, di ritirarsi in una specie, si direbbe con termine moderno, di « convento laico » ; qualcosa tra una Tebaide, che fosse centro di vita intellettuale oltre che religiosa, e una « Platonopoli » (l’ideale di Plotino) con un colorito ascetico-cristiano. Ma il momento in cui Agostino sì preparò a realizzare questo progetto era quello stesso in cui si pote­va già considerare come ormai inevitabile il conflitto aperto tra Valentiniano II e Massimo, e si era fatto più acuto il contrasto tra l’imperatrice madre Giustina e Sant’Ambrogio. E allora che Ago­

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stino, allegando le cattive condizioni della sua salute, si ritira nella solitudine di Cassiciaco. Sarebbe senza dubbio ingiusto ed eccessivo attribuire l’allontanamento di Agostino dall’insegnamento e da Mi­lano a un calcolo opportunistico e al timore di prendere un atteg­giamento netto nella grave crisi politica. Ma sarebbe alquanto ardi­to, credo, l’affermare a p r io r i che questa situazione non esercitò alcun influsso su Agostino, per lo meno nel senso che esso contri­buì a farlo decidere : anche in quanto potè accrescere in lui la ripugnanza per la politica attiva e il desiderio di abbandonare una volta per sempre quel terreno infido.

Non è possibile, infatti, ravvisare nel ritiro di Cassiciaco sol­tanto l’aspetto ascetico, farne un atto di rinuncia totale al mondo

,e alle sue attività. Si oppone a ciò il fatto che precisamente allora, in quei pochi mesi di Cassiciaco, comincia l’attività letteraria pro­priamente detta di Sant’Agostino. E ’ come se tutte le sue ambizioni precedenti si fossero trasferite del tutto al campo della cultura. E ciò potè ben essere dovuto, in parte, all’influsso di circostanze esterne, il quale venne a sovrapporsi, ad aggiungersi e quasi a confondersi, a quello della sua lotta spirituale. Dall’uno e dall’altro— il secondo senza dubbio più forte, il primo forse con maggiore prontezza — venne ad Agostino l’impulso di dedicarsi a una forma superiore di attività, dandosi a quella vita contemplativa, che tanto nella « letteratura protrettica » quanto negli scritti dei neoplatonici era presentata come la forma più nobile di esistenza, anzi la sola veramente degna dell’uomo.

Così anche quell’interiore irresolutezza, quell’oscillare tra l’aspirazione al successo materiale e alla vita filosofica, giunse al suo termine. Tornò insomma a predominare nella mente di Ago­stino l’entusiasmo giovanile per la filosofìa, destato già dalla lettura dell'Hortensius, ma ora fatto più forte e più intimo dalla maturità e consapevolezza raggiunta dopo una lunga lotta con se stesso; e con una rinnovata e prepotente vitalità che lo spingeva a scrivere. Non rinuncia, dunque, ad esercitare un’azione sugli altri; non ri­nuncia nemmeno, quindi, a continuare ad essere un maestro. Ma sembra non desiderare per sè altro alloro da quello, più duraturo di tutti, che procurano le opere dell’ingegno ; non dare alla sua vita altro scopo che la disinteressata contemplazione del Vero, nella perfetta tranquillità d ’animo del sapiente. E di questo vero è parte

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integrante, essenziale, il cristianesimo. Ma un cristianesimo che, nel suo pensiero, coincideva perfettamente con la filosofia da lui accettata, e alla quale si accedeva attraverso le arti liberali, come propedeutica necessaria. Di qui anche il progetto di quella che è stata chiamata, a ragione o a torto, 1’« enciclopedia » di Agostino, i Disciplinarum lib r i (9). Per mezzo dei quali egli desiderava, senza dubbio, anche acquistare fama; ma questa, come i vantaggi con­seguenti, non era da lui ambita, ormai, se non come ricompensa della sua opera di studioso, di uomo dedito alla vita contemplativa. Si opera in questo momento una vera « conversione », proprio nel senso etimologico del termine : la sua vita -prende una direzione nuova.

Ma qui è da fare un’altra osservazione. Molti, quasi tutti, i biografi e in genere gli studiosi di Sant’Agostino si domandano a questo punto se la sua conversione fu di natura filosofica o religio­sa, se fu conversione al neoplatonismo o al cristianesimó. Posto il problema così, con un vero aut, aut, le soluzioni tendono natural­mente ad essere nette, taglienti, e sempre con una certa intonazione polemica. In realtà, il problema in quei termini è posto male, come oramai si comincia a riconoscere (10). Perchè, nello stabilire una opposizione recisa, quasi una incompatibilità assoluta, tra cristia­nesimo e neoplatonismo, noi forse ci lasciamo guidare un po’ troppo dal nostro modo di considerare quest’ultimo; e non possiamo di­menticare che Plotino e Porfirio scrissero contro i cristiani. Ma, nel IV secolo, contavano anche gli elementi di cultura comuni a tutti coloro che avevano ricevuto un certo grado di educazione; contava la tradizione della letteratura protrettica; e contava anche tutto ciò che del pensiero antico, e di platonismo e neoplatonismo, per tale modo e per sforzo cosciente di alcuni maestri, era già pene­trato nel pensiero cristiano (11).

E d ’altra parte, era tuttavia vivo nella coscienza cristiana il problema, se tale cultura, pagana d’origine e di modi e tale ancora di spiriti in alcuni suoi cospicui rappresentanti, fosse compatibile con la vera fede. Agostino, sul quale influivano poderosamente e la sua formazione retorica ed esempi antichi e contemporanei, sem­bra, almeno per ora, non avere dubbi in proposito. I disciplinarum l ib r i vanno, perciò considerati anche sotto questo aspetto, di uno sforzo cosciente per inserire nel cristianesimo il più e il meglio della

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cultura antica, mettendola al servizio della Verità e di Dio, dei quali, del resto, le menti superiori dell’antichità avevano avuto già qualcosa di più che un vago sentore. Nel fonte battesimale di Mi­lano, Agostino scendeva, entusiasta e convinto; ma — se si può dire — vi faceva entrare con sè anche Platone e Cicerone.

* *

Quei primi scritti di Agostino sono uniti tra loro da nessi strettissimi. Se ognuno si occupa di un problema determinato o insiste sopra un punto speciale, è perchè essi si completano a vi­cenda : i motivi fondamentali sono identici, il pensiero è identico. E in ciascuno, quand’anche solo per via di accenni, è in realtà tutto l’insieme dei problemi filosofici che forma l’oggetto della tratta­zione. Ma questi scritti di Cassiciaco sembrano concepiti già come parti di un complesso, e destinati a essere letti e studiati tutti in­sieme.

11 Contra Academicos (12) è, prima di ogni altra cosa, un « Protreptico », una esortazione alla filosofia. La felicità può con­sistere. secondo alcuni, anche nel solo ricercare la verità, senza trovarla ; ma Agostino* reagisce contro lo scetticismo degli accade­mici, falsi filosofi che abusivamente si richiamano all’autorità di Platone. A dir vero, però questo scetticismo non è che un accor­gimento, uno stratagemma difensivo contro gli stoici. L ’autentica dottrina di Platone si è perpetuata, è giunta fino ai pensatori con­temporanei di Agostino : i neoplatonici (13). Così egli può combat­tere lo scetticismo accademico e al tempo stesso salvare il suo Cice­rone. La verità può essere conosciuta (e dimostrare la ragionevolez­za di questa fiducia nelle capacità dell’anima umana è per lui un’esi­genza fondamentale) ; conoscerla è possedere Dio ; nel possesso di Dio è la felicità. Chè la sapienza è divina sapienza, e al tempo stesso il sapiente la trova in sè; ma soprattutto è modus animi (14), predominio della ragione sulle passioni, cioè moralità, senza la quale non è possibile conoscere il vero. A questa eticità superiore, alla purificazione dello spirito, conduce anche il cristianesimo, che, esso pure, pratica e promuove la vita ascetica : pertanto cristiane­simo e vera filosofia sono sostanzialmente concordi, e hanno comu­ne anche l’avversario : lo scetticismo, che è tutt’uno con il pessi­mismo, con la dottrina dei manichei. Tra la filosofia platonica (ben

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diversa dalla « filosofìa di questo mondo » contro cui S. Paolo e tutte le Scritture sacre ci mettono in guardia) Agostino non ravvisa alcuna differenza di sostanza. L’àubv μέλλων del Vangelo è il κόσμος νοητός dei neoplatonici, la vita dei Padri nel deserto è il θεωρητικός βίος dei filosofi (15). Tale appare ad Agostino il genere di vita condotto a Cassiciaco : a diventare perfetto filo­sofo occorre intensificare l’attività spirituale, rivolgerla a fini sempre più alti, sùbordinando anche gli studi meramente letterari — pur senza trascurarli del tutto — alla ricerca della verità, per mezzo della filosofia. Nemmeno il dogma trinitario presenta difficoltà ad Agostino (16), perchè anche per lui Dio è trascendenza assoluta, il Cristo è il Logos divino e al tempo stesso umano in quanto la ra­gione non è, in ogni uomo, se non una particella, una scintilla, di quello stesso Logos divino ; e purché essa ragione umana si ricordi della sua origine e del suo fine, e si purifichi da ogni carnalità, non vi sono ostacoli al suo ricongiungimento con Dio. Gesù ha additato la via. Ma anche i grandi filosofi hanno conosciuto il vero, e pos­seduto Dio e conseguito la felicità.

E il De beata vita sembra scritto specialmente per dimostrare questa sostanziale identità tra religione cristiana e vera filosofia (neoplatonica); lo dimostrano, tra l’altro, l’accettazione del dogma trinitario e la chiusa con la citazione del verso di S. Ambrogio (sacerdotis nostri), che fa riscontro in maniera assai significativa alla dedica a Manlio Teodoro (16 bis). Ci spieghiamo cosi la parte, molto importante, che in questo dialogo è fatta a Monnica (17), personaggio reale ma, al tempo stesso, starei quasi per dire sim­bolico (primo passo verso quell’idealizzazione e sublimazione di lei che tocca l’apice nelle Confessioni, dove essa è reale e ideale a un tempo). Monnica rappresenta, non tanto la donna incolta, che ragiona col semplice e schietto « buon senso » ; quanto il cristiane­simo, ossia ciò che Agostino chiama ancora fede ingenua nell’auto­rità e che arriva di prim o acchito, e inconsapevolmente, alle con­clusioni stesse cui il ragionamento condurrà il filosofo. Ma questi vi giunge mediante la ragione; e in ciò consiste la sua superiorità sul semplice credente. 11 quale, se non è in grado di giustificare razionalmente la sua fede, vive però, attenendosi ai precetti della religione, una vita moralmente buona; e così adempie alla prima e più importante delle condizioni indispensabili affinchè la ragione

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possa elevarsi a riconoscere la trascendenza, unicità, bontà e prov­videnza di Dio. La beatitudine consiste nell’unione con Dio, cum Deo esse, ma tale unione non ha nulla di mistico ; è invece tutta,0 quasi, intellettuale. Nè troviamo accenni alla redenzione : anche1 'admonitio quaedam quae nobiscum agit ut Deum recordemur (18) ncn è conseguenza di un atto di Dio, che nella sua misericordia si protenda, per cosi dire, in soccorso del credente nella preghiera; non è insomma il risultato di un atto d’amore; è soltanto consc guenza del fatto che l’anima umana partecipa in qualche modo della natura divina e, pur nell’imperfezione di questa vita, non dimen­tica la propria origine. Del resto, se così non fosse, l’uomo non potrebbe neppure aspirare alla conoscenza della verità, ad ammi­rare l’ordine che regna nel creato e a riconoscere nel Creatore il Sommo Bene.

Parallelamente, nel De ordine, con un rafforzamento dei mo­tivi polemici antimanichei, troviamo l’esaltazione della vita contem­plativa. A qualche accenno di sapore prettamente cristiano (Deum colant, cogitent, quaerant, fide, spe, cantate subnixi) fa tuttavia riscontro il concetto che Agostino ha ancora della morale evangeliga come inferiore all’etica ragionata dei filosofi : la Regola aurea è un vulgare proverbium. Tanto ancora egli, pure riconoscendo l’i­dentità della mèta ultima, subordina l’autorità, e la fede delle masse che si contentano del dettame oramai proverbiale, alla ragione e al filosofare cosciente. Dalla prima è possibile elevarsi alla seconda, e ciò è anzi necessario, perchè non si può comprendere l’ordine che regna nell’universo, senza possedere la cultura, che richiede l’ordine degli studi.

Solo con uno sforzo grande e costante si arriverà ad appren­dere le varie disciplinae, ordinate in modo da condurre a Dio. Chè la filosofia, secondo una dottrina abbastanza diffusa (19), conside­rata come suprema, tra le arti e le scienze, nel De ordine è collo­cata appunto in cima alle altre disciplinae (grammatica, dialettica, retorica, musica, geometria, astronomia) e completa il numero tra­dizionale delle sette arti liberali (20).

Cosi il De ordine ci si rivela come strettamente collegato, non solo con i due scritti precedenti, ma con la serie dei disciplinarum libri, tanto da non far parere assurda l’ipotesi che fosse concepito come una specie di introduzione, in cui esporre le conclusioni e i

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fini dell’opera, alla « enciclopedia », di cui Agostino andava com­piendo, e in parte colorando, il disegno. Questa doveva essere appunto la grande opera, destinata a condurre la ragione umana dai primi elementi della scienza fino a Dio : intuito, sì, dalla sem­plice fede, ma dimostrato e compreso dalla filosofìa (21) ; la grande opera alla quale Agostino, mutando ambizioni, aveva pensato di legare il proprio nome. E ’ sempre un fatto degno di nota che, appunto nei giorni in cui si preparava a ricevere il battesimo — e questa non era per lui una formalità vana — egli attendesse alla redazione dei primi cinque libri De musica; chi di ciò si stupisse, mostrerebbe di non aver inteso bene la vera natura e lo scopo di questo scritto, che si rivela chiaro quando lo inquadriamo nel com­plesso dell’attività di Agostino in questo periodo.

Il De ordine si chiude con la dottrina del ritorno dell’anima su sè stessa e con l’affermazione ch’essa è immortale. A dimostrare l’immortalità, strettamente congiunta con l’Ìmmaterialità, dell’anima sono destinati i due libri dei Soliloquia nonché gli altri due, il De immortalitate animae e il De quantitate animae. La prima opera si apre con la famosa preghiera, su cui s ’è tanto scritto e discus­so (22). Il carattere neo-platonico di questa preghiera è stato rico­nosciuto da tutti coloro che l’hanno studiata; essa è però allo stesso tempo una preghiera cristiana, nella quale è vivissimo, per esem­pio, il senso della paternità di Dio. Ma questo riconoscimento non deve poi trascinarci a ridurre il neoplatonismo di questa preghiera a pura apparenza superficiale; quello che dobbiamo riconoscere ormai è, allo stato degli studi, ripeto, l’esistenza di un neoplatoni­smo cristiano, il cui principale rappresentante fu appunto quel Mario Vittorino, l’esempio e gli scritti del quale furono così potenti sull’animo di Agostino (23). Ma appunto per ciò è inutile, mi sem­bra, sforzarsi di voler trovare nella preghiera dei Soliloquia quello che non c’è nè ci può essere ancora ; e, se vi fosse, non sapremmo spiegarci più la sua assenza in opere posteriori (24). Del resto ritroviamo nei Soliloquia l’identificazione del mondo intelligibile con il « mondo venturo » e la dottrina della luce intima, del raggio divino che è nell’anima umana. Il De immortalitate animae riprende quello che è anche il tema dei Soliloquia (24-bis).

Ma la terza di queste opere, il De quantitate animae, merita che vi fermiamo sopra l’attenzione, non solo per gl’intenti polemici

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antimanichei, bensì anche per gli accenni al cristianesimo. L’anima è similis Deo, pertanto incorporea ; deve sottrarsi al dominio degli oggetti sensibili, che le sono inferiori, per aspirare alla sua vera patria; la religione cristiana c’insegna appunto a disprezzare tutto ciò ch’è corporeo, ed a staccarci da questo mondo sensibile, affin­ché possiamo ritornare simili a Dio, quali siamo stati creati. In ciò consiste la salvezza dell’anima, la sua redenzione. A questo con­cetto si contrappone quello del peccato, che ne è il presupposto. Agostino parla infatti di « uomo vecchio » e di « uomo nuovo » e mostra così di aver presente la caratteristica terminologia di San Paolo. Ma fino a qual punto, e in che modo, ne ha inteso e assi­milato il pensiero, e in che cosa consistono ora per lui il peccato, la redenzione e quel soccorso divino che ad ottenere quest’ultima egli dichiara indispensabile? Il peccato, realtà misteriosa che col­pisce di riverenza e di timore e addirittura fa sbigottire Agostino, è bensì per lui una violazione della legge divina ; ma esso consiste nel volgersi alle cose carnali, agli oggetti sensibili, a quel mondo della materia, che ancora una volta è identificato col mundus hic di cui parla il Vangelo e contrapposto a quello delle realtà intelligibili (e questo, dunque, è considerato ancora identico all’ άιών μέλλων). Ché l’anima umana si trova dinanzi due vie. Può, accostandosi alla materia, degradarsi fino a diventar simile all’animale; e può altresì — ecco in che consiste la redenzione — elevarsi, per ratio­nem atque scientiam, e divenire sempre più simile a Dio, ritraen­dosi dal mondo sensibile per ritornare a sè stessa. L 'abrenuntio, che Agostino ha pronunciato nel ricevere il battesimo, implica appunto l’impegno di sottrarsi al dominio degli oggetti sensibili, per innalzarsi alla conoscenza razionale di Dio : alla quale non può non pervenire chi cerchi per puro amore della verità, pie caste ac diligenter. Si tratta di ritornare alla natura propria dell’uomo, per cui è al disopra di tutte le creature e inferiore a Dio solo; di risplasmarsi secondo quell'immagine di Dio, che il creatore ha posto in noi e che è quanto noi uomini abbiamo di più prezioso. Questa purificazione, questo ritorno dell’anima a sé stessa, non è possibile senza un aiuto divino. Ma tale aiuto è da Agostino stesso paragonato alla creazione : il suo paolinismo non arriva ancora al punto da indurlo a meditare sulla morte e la risurrezione del Cristo. E, in sostanza, l’indispensabile aiuto divino è già in noi.

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poiché in noi è il modello cui dobbiamo conformarci ; si tratta sol­tanto di ricordarcene. In ciò consiste il soccorso, largito a tutti. Preoccupato di combattere i manichei, Agostino mostra che, imma­teriale come l’anima umana che gli somiglia, Dio creatore del mondo continua a manifestare la sua clemenza verso il genere umano. Se il peccato fu un piegare verso gli oggetti corporei, la redenzione sta nello staccarsene, nel purificarsi dalle passioni. E questa è cosa difficile, ma non impossibile : basta che l’uomo si ricordi della pro­pria natura e usi quel soccorso divino che trova in sé stesso, cioè il libero arbitrio che Dio gli ha .dato (25). Da questo dipende che l’uomo si possa conformare al modello celeste secondo il quale è stato fatto ; e perciò l’aiuto che egli riceve da Dio è tanto mag­giore quanto più egli procede sulla via della sapienza. Evodio, rimasto in fondo aH’anÌma ancora manicheo, e per il quale l’ap­prendere è un crescere dell’anima (quindi materiale), domanda ad Agostino come si spieghi che il bambino, venendo al mondo, non sappia nulla. Ed Agostino gli risponde con la dottrina della remi­niscenza. Ma ciò non toglie che l’anima possa compiere un pro­gresso continuo, attraverso i sette gradi della sua purificazione (26).

Lo stesso concetto, che la sapienza si possa ottenere mediante un progressivo perfezionamento morale ispira i due trattatelli De moribus, redatti anch’essi da Agostino durante il suo nuovo sog­giorno in Roma (27). La felicità, cui l’uomo anela, consiste nel possesso del bene più alto a cui possa aspirare : un bene, dunque, superiore all’uomo e tale che non possa essere perduto. Rispetto al corpo, il massimo bene è l’anima ; per questa, è tale la virtù ; essa si raggiunge seguendo Dio. E a farci conoscere Dio soccorre per prima — poiché si tratta di apprendere — l’autorità, ossia la Sacra Scrittura; poi la ragione. Il De moribus Ecclesiae catholicae è quindi in gran parte dedicato a dimostrare — altro evidente mo­tivo antimanicheo — l’accordo tra l’Antico ed il Nuovo Testamento e il valore dell’interpretazione allegorica. Giacché i cristiani hanno di Dio un concetto ben superiore a quello dei manichei.

L’amore dell’uomo si volge -a Dio, a Cristo che è virtù, verità e sapienza; la virtù è amore sommo di Dio, e di tale amore le quattro virtù cardinali non sono che aspetti diversi. Prima tra esse, e sopra le altre lodata da Agostino, è la temperanza, con l’eser­cizio della quale ci si spoglia dell’« uomo vecchio » e si riveste il

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nuovo. Anche qui dunque ritroviamo il linguaggio di S. Paolo; del quale Agostino ricorda con altri i due passi, in cui la cupiditas è detta origine di tutti i mali (I a Timoteo, VI, 10) e in cui l’apostolo mette in guardia contro la filosofia. Ma a tale proposito Agostino insiste sopra le parole et elementa huius mundi (A i Colossesi, II, 8) per trarne la conferma che non il filosofare per se stesso, bensì l’amore per le cose sensibili è pernicioso ai cristiani. Anzi, non si possono neppure chiamar tali coloro, l’oggetto del cui amore sia altro da Dio. Ora, la temperanza ha come propria funzione il far disprezzare ogni attrazione esercitata dal mondo corporeo, o dalla vanagloria, per dirigere invece l’amore a ciò ch’è invisibile e divino. Ché il mondo sensibile può sedurre l’anima fino a farle credere reale solo ciò che ha corpo, o se pure essa riconosca per fede l’esistenza di realtà incorporee, a pensarle e raffigurarsele per mezzo di immagini tratte daH’ingannatrice esperienza dei sensi. All’esal­tazione della temperanza segue quella delle altre virtù, e la glori­ficazione della Chiesa. Mater christianorum verissima, essa insegna a venerare Dio, eterno, evitando il culto delle creature e di tutto quanto è fatto, mutevole, corporeo — è questo il solo modo di evi­tare l’infelicità — e ad amare il prossimo, nel che è la fonte di tutte le virtù : la Chiesa fornisce così i rimedi a tutti i mali onde le anime soffrono, per i loro peccati (28).

Così nel De moribus manichaeorum, dopo aver insistito sulla trascendenza e unicità di Dio — dimostrate anche argomentando in base alla ratio numerorum (29), Agostino può contrapporre il falso e superficiale ascetismo manicheo a quello della Chiesa cattolica, che è in possesso della verità; e contrapporre altresì alle azioni immorali, compiute perfino dagli « eletti » manichei, la virtù dei fedeli e l’eroismo dei martiri di Cristo.

E ’ chiaro, da tutto ciò, che cosa Agostino intenda in questi scritti per cupiditas e come egli interpreti San Paolo. Insomma, il suo sforzo è tutto diretto ad affermare il sostanziale accordo tra la filosofia e la religione (e la prima, cioè la ratio, è considerata superiore alla seconda, Yauctoritas), nonché la bontà e l’ordine dell’universo, insieme con la trascendenza e la provvidenza di Dio. Agostino polemizza continuamente con i manichei — cioè con se stesso, quale era nel momento in cui s ’iniziò il processo della sua conversione — e perciò ritorna continuamente sul problema che

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10 assillava, e di cui nel manicheismo stesso aveva creduto di trovare la soluzione : qullo del male. Di esso discute lungamente nei primi capitoli del De moribus manichaeorum ; e in polemica con essi è condotta la dimostrazione del libero arbitrio, che s ’inserisce logi­camente — e non soltanto cronologicamente — a questo punto dell’attività letteraria e dell’evoluzione spirituale di Agostino' (30).11 libero arbitrio dell’uomo rientra anch’esso nell’ordine dell’uni­verso, dipende da quella stessa suprema legge dalla quale il mondo è governato.

In che consiste, infatti, il fare il male? Non certo nel solo agire contro la legge, poiché vi sono azioni, in sé malvagie, che essa permette; d ’altronde l’adulterio, per esempio, non è certo male perché vietato ma vietato in quanto è un male. E’ interes­sante l’ossequio tutto romano, per la legge e l’ordine costituito che dà vivezza alla discussione, il cui scopo, beninteso, è sol­tanto di condurre alla conclusione che esiste una legge eterna, mo­dello alle umane, contingenti e mutevoli. Essa è la summa ratto; in forza di essa è giusto che tutte le cose siano ordinatissime ; essa mantiene l’ordine dell’universo. Per questa legge, per questo ordi­ne, l’uomo, dotato di ragione, è superiore agli animali ; e nell’uomo l’ordine medesimo esige che predomini la ragione. Male è dunque la violazione dell’ordine, l’appetito smodato cui la ragione non frena. Ora, colui che giunge ad attuare il predominio della mens sulla libido è il sapiente. Ma questo potere sulle passioni è stato con­cesso alla ragione dalla legge eterna ; dunque la ragione è più forte della libido, e del corpo. Quindi, se la mens si degrada sino a farsi compagna e complice degli appetiti, ciò avviene perché essalo ha voluto, di propria spontanea e liberissima iniziativa. E ’ per­tanto giusto che in tal caso la mens sia punita.

A Evodio si presenta tuttavia ancora qualche difficoltà : è giu­sta la sofferenza del sapiente, non quella dello stolto. E Agostino gli risponde in due modi. Prima di tutto, cerca di annullare quella distinzione : tu, gli dice, presupponi per certo e chiaro che noi non siamo mai stati sapienti prima di questa vita ; in realtà è un problema assai grave, e da trattarsi a suo luogo, se prima di unirsi al corpo l’anima non abbia vissuto un’altra sua vita, e se abbia vissuto secondo sapienza. Agostino non pensa a una vera trasmi­grazione delle anime, ma soltanto a una loro preesistenza, nel

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mondo delle idee : dottrina della quale Agostino non è ben sicuro, e che non sa se e in che modo possa conciliarsi con il cristiane­simo (31). Perciò preferisce ricorrere a un secondo ordine di argo­menti. Bene superiore a tutti gli altri è la buona volontà, che ci fa desiderare di vivere con rettitudine e onestà e giungere alla sapienza suprema, e alla quale si riducono tutte le virtù cardinali. Dipende dunque da noi il vivere moralmente, cioè Tessere felici, o no : perchè alla volontà cattiva tiene dietro necessariamente l’in­felicità, in virtù di quella eterna legge divina, per la quale secondo la nostra volontà siamo meritamente premiati o puniti. La volontà buona consiste appunto neU’amare quella legge eterna ed immuta­bile, nel preferire cioè i beni superiori e non transeunti ai contin­genti e materiali; sicché coloro i quali preferiscono i secondi sono giustamente puniti.

L’umanità si divide così in due categorie : coloro che inten­dono e servono la legge superiore, gli σπουδαίοι, starei per dire,0 meglio γνωστικοί, e che sono pertanto sciolti da ogni legge tem­porale. beati ; e gli altri, φαΰλοι, υλικοί, ψυχικοί, sottomessi e alla legge temporale e all’eterna, onde discende ogni giustizia, ma inca­paci d’intenderla ; e infelici. La legge temporale impone di amare1 beni temporali, tra i quali sono la famiglia e la patria; sua caratteristica è la coazione, l’imporsi col timore delle pene. Per contro, la legge divina è legge di libertà. E’ chiaro, che Agostino ha presente qui anche la discussione paolina sul valore della legge, nelle lettere ai Galati e ai Romani ; e infatti la libertà cristiana è da lui intesa qui in modo perfettamente consono al suo concetto dell’« uomo veccfilo » e dell’« uomo nuovo ». La conclusione ultima è che il male consiste per l’uomo nell’essere soggetto a quelle cose, che dovrebbero essere sottoposte a lui; e pertanto il male non è nelle cose stesse, bensì nell’uso che ne viene fatto, cioè, in sostan­za, esso dipende dalla nostra volontà.

Evodio si dichiara vinto : gli uomini fanno il male a causa del loro libero arbitrio. Ma egli chiede ancora se conveniva che Diolo concedesse. Senza di esso, infatti, noi non saremmo stati capaci di peccare; se dunque Dio ce lo ha dato, egli è in certo qual modo l’autore primo delle nostre malefatte. Così il dialogo ritorna, un po’ inaspettatamente, proprio a quella domanda fondamentale,

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che Evodio ha formulato fino dal principio : Dic mihi, quaeso te, utrum Deus non sit auctor mali? (32).

Siamo di nuovo al problema che assilla l’animo di Agostino, e che egli dice di aver voluto risolvere seguendo prima l’autorità poi la ragione. Con ciò, egli applica alla propria vita il principio enun­ciato nel detto profetico : nisi credideritis, non intellegetis (33). E’ chiaro però che con quel ritornare alla questione iniziale, Agostino intendeva aprirsi l’adito a una nuova trattazione del problema che egli infatti promette di dare. 11 che significa che non gli pareva di avere completamente debellato i manichei, e che qualche cosa nella sua dimostrazione lo lasciava ancora scontento, per quanto certo di poter giungere a una soluzione soddisfacente.

Neppure è senza significato, che per definire il rapporto ira1 'auctoritas e la ratio Agostino senta ora il bisogno di rivolgersi proprio alla Scrittura; quando, in altri luoghi dello stesso primo libro De libero arbitrio (34) egli ha anche dichiarato essere im­possibile, ad uomini che desiderano di comprendere, il cercar rifugio nell’autorità. Agostino si viene accostando maggiormente alla vita della Chiesa, desidera aderire ad essa più strettamente, ser­virla come apologista. Gli avversari restano sempre i manichei ; ma ora, in Africa, per combatterli, e con una confutazione che sia acces­sibile a tutti, abbandona il campo della discussione filosofica e la forma del trattato dialogato, per quella del commento ai libri sacri, di cui ormai egli ha un concetto più alto. E scrive appunto il De Genesi contra manichaeos.

Gli si presenta subito una grave questione. I manichei, leggendo che <( in principio Dio creò il cielo e la terra », chiedono che cosa facesse Dio prima della creazione e per qual motivo egli si sia deciso a creare. Era il problema, cui il loro mito dava pure una risposta. Ma per un ingegno filosoficamente educato, è questo il problema del rapporto che intercede tra Dio e l’universo, tra la eternità e il tempo : problema che travaglierà a lungo la mente di Agostino. Ora, egli risponde che in principio non significa « all’inizio del tempo», bensì in Christo, cum Verbum esset apud Patrem;, e che, del resto, anche ammettendo la prima interpretazione, il tempo stesso, opera di Dio, non poteva esistere prima della creazione. Ma si accontenta di ciò e abbandona subito questo argomento, per ribattere le altre obiezioni dei manichei. Infatti, quella prima dif­

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ficoltà tendeva soltanto ad avvalorare il mito manicheo della crea­zione, e questo, anche quando si accolga semplicemente come un mito, implica i principi dualistici su cui si fonda tutto il loro sistema, che Agostino vuole confutare. Si tratta dunque, per lui, di dimo­strare la bontà e perfezione del creato, giustificando il male che esiste nel mondo e nelTuomo, soggetto a morire.

Ma, quando insistono sulla debolezza, le sofferenze e la morta­lità dell’uomo, i manichei commettono un errore fondamentale : essi considerano infatti l’uomo quale è dopo il peccato. E questo è con­sistito nella superbia, cioè nell’allontanamento da Dio. Nel peccato di Adamo e nella sua condanna si manifesta infatti ciò che si veri­fica ancora oggi. In un primo momento, si ha la suggestione, attra­verso le raffigurazioni del pensiero o dei sensi che possono suscitare— ma anche non suscitare — una passione. Può anche darsi che questa trovi a sua volta un freno nella ragione. Ché se invece questa, con o senza lotta, acconsenta alla passione, allora l’uomo è veramente scacciato dal paradiso, perde cioè ogni felicità. Vi è dunque la possibilità di non peccare e il libero arbitrio è riaffer­mato, mentre la storia e le condanne del serpente e dei progenitori significano che non possiamo subire tentazioni se non attraverso quella ch’è la parte materiale di noi, nonché le difficoltà e i dolori provocati dal resistere alle tentazioni stesse, dal far sorgere, in luogo della cattiva la consuetudine buona, dall’affaticarsi per giun­gere alla conoscenza della verità.

Quindi Agostino confuta le obbiezioni dei manichei contro la Bibbia. Egli osserva che i cristiani sanno interpretare allegorica­mente i passi che quelli tacciano di antropomorfismo, .e sono ben lungi dal considerare Dio come esteso, cioè corporeo. L’espressione, che l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio si riferisce sol­tanto all’uomo interiore, dotato d’intelletto e di ragione, il quale può essere chiamato anche uomo spirituale. Tale egli fu creato quando Dio gl’insufflò lo « spirito di vita ». Quindi, nel Paradiso l’uomo era spirituale e solo dopo esserne stato scacciato divenne animale. E perciò, noi creati dopo il peccato percorriamo la via inversa : animali dapprima, seguendo l’Adamo spirituale che è Cristo, ricreati e nuovamente vivificati, veniamo reintegrati nel Pa­radiso. Questo ritorno si compie gradatamente, progressivamente, ed è facoltà dell’uomo l’iniziarlo, anche se forse non il condurlo a

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termine. Il corpo spirituale, perduto da Adamo, potrà essere riac­quistato da coloro che sappiano rendersene degni. Il peccato di Adamo ed Èva è stato punito da Dio trasformando il loro in un corpo mortale, che ospita un cuore mendace ; ma la somiglianza tra la condizione di Adamo dopo il peccato e quella di tutto il genere umano non implica l’impossibilità di giungere al bene. Vi sono infatti uomini, i quali anche in questa vita, riescono a odiare ed eliminare i pensieri falsi e mendaci, effetto della loro condizione mortale, e meritano con ciò che il loro corpo venga trasformato in angelico e degno del Paradiso.

Agostino infatti sa che vi è un processo di rigenerazione, stabi­lito dalla Provvidenza e di cui i sette giorni della creazione sono il simbolo. Questi sette giorni significano le sette età del genere umano : da Adamo a Noè, da Noè ad Abramo, da questi a Davide, l’epoca dei re, quella dalla cattività babilonese a Cristo ; col Vangelo ha inizio la sesta età che, a differenza dalle altre, non comprende un numero fìsso di generazioni, sicché la sua durata è ignota; e la settima giungerà improvvisa, quasi vespera, quae utinam nos non inveniat, ma seguita però dal mattino, cum ipse Dominus in clari­tate venturus est (35). Ma gli stessi sette giorni simboleggiano altresì le varie tappe della vita spirituale, della nostra ascensione a Dio. Agostino le ha già descritte nel De quantitate animae (36). Vi sono senza dubbio tra questi due luoghi delle differenze, ma identico è in entrambi il concetto fondamentale della possibilità di una pro­gressiva purificazione interiore e di un’ascesa graduale verso la perfezione morale, la sapienza, la conoscenza e il possesso di Dio in cui consiste la beatitudine. E ciò, almeno per quando riguarda l’inizio e le prime tappe del processo, per mezzo delle sole forze umane. E ’ infatti certamente degno di nota che Agostino, parlando della redenzione e graduale purificazione dell’anima, non accenni affatto al battesimo. Non meno notevole è poi che il grado nel quale l’uomo può dire di se stesso : mente servio legi Dei, carne autem legi peccati (Rorn., VII, 25) sia soltanto il terzo; mentre — se il passaggio dell’indicativo al congiuntivo desiderativo significa qualche cosa — egli personalmente si considera già arrivato al quarto (37).

Il problema dei rapporti tra 1 'auctoritas e la ratio torna a pro­porsi nel De magistro. Qui la lunga discussione sul linguaggio con­

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duce a concludere che le parole altro non sono che signa delle co­se, le quali sole contano : tutto ciò che esse significano ci è già noto in una certa misura. E tale notizia si può avere per i soliti due modi, la differenza tra i quali è espressa da Agostino ricorrendo ancora una volta allo stesso testo di Isaia, VI, 9. Il credere è più ampio che Yintellegere o lo scire; però il credere anche ciò che propriamente non si sa, è utile.

Tutto ciò che è compreso intellettualmente è conosciuto; vero conoscere è quindi soltanto Vintellegere; ma a ciò le parole possono servire soltanto come richiamo. Senonchè ora per Agostino, cono­scere non è più soltanto un ricordare; le parole non risvegliano in noi idee apprese in una conoscenza anteriore. Esse bensì rimet­tono per cosi dire in azione quella mens che possiede la verità in quanto è stata deposta in essa da Dio, in quanto cioè vi è nella anima dell’uomo come una particella, o un raggio, della verità e sapienza divina (38), £ioè del Logos : Cristo, che abita e vive nel­l’interno di ogni uomo e si rivela a ciascuno esattamente nella mi­sura in cui questo ha saputo compiere la propria purificazione mo­rale, nella misura cioè in cui ciascuno è disposto ad accoglierlo, se­condo la propria volontà buona o cattiva. In queste parole, così ce­lebri, è contenuta — mi sembra — una nuova giustificazione dell’in­terpretazione data più sopra, deH’affermazione agostiniana che è ne­cessario all’uomo, per redimersi, un soccorso divino. Infatti, se­condo lo stesso De magistro, bisogna distinguere le cose sensibili e le intelligibili o, per parlare come la Bibbia, carnali e spirituali. Le prime, o sono oggetto di una sensazione diretta e immediata, oppure non si apprendono se non in quanto si presti fede alle parole altrui. Le altre, invece, che vediamo con l’intelletto e con la ragione, noi parlando le abbiamo presenti in quella luce spiri­tuale che c’illumina internamente : chi ascolta, per poco che riesca a sua volta a purificare il proprio occhio interiore, le contempla anch’egli, in realtà, anziché farsene soltanto una pallida immagine attraverso le altrui parole. In questo senso si deve intendere che Cristo è il solo maestro, come dice la Scrittura (39) ; le cui afferma­zioni sono cosi dimostrate e chiarite nel loro autentico significato dalla filosofìa. La quale rappresenta dunque un grado di conoscenza superiore e più completo, ma il cui contenuto non è diverso dal­l’altro. Praticamente il credere ci porta allo stesso risultato dello

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intellegere; ma questo soltanto ci permette di dimostrare, e pertanto conoscere veramente, la dottrina contenuta nella rivelazione. Di pari passo, la dottrina della conoscenza si è modificata; e troviamo qui una spiegazione del conoscere più conforme alla dottrina della crea­zione dell’uomo per opera di Dio (40).

Dall’inizio della sua conversione al cristianesimo. Agostino è andato dunque approfondendo via via la sua esperienza, affron­tando i problemi che gli si presentavano, preparando un’apologetica antimanichea e rivolta a dimostrare la perfetta consonanza tra la filosofia e il cristianesimo. Ma proprio in omaggio a quella concor­danza egli lascia cadere qualcosa delle sue dottrine d’un tempo e attenua in gran parte il vigore con cui aveva sostenuto la subordi­nazione dell 'auctoritas alla ratio. Nel De quantitate animae (41) egli aveva osservato che il credere magnum compendium est et nullus labor, e aveva lasciato sdegnosamente questa via facile e comoda agli imperitiores : che, se volessero arrivare all’intelligenza razionale, si smarrirebbero; mentre coloro che non si contentano di credere e non riescono a frenare la nobile ambizione di percorrere la via più ardua, hanno anche forze sufficienti a superare le dif­ficoltà. Invece ora, nel De magistro, il credere resta bensì solo un passo verso la conoscenza vera; ma Agostino ammette che non tutto può essere conosciuto; e, in ogni modo, dichiara di saper molto bene quam sit utile credere etiam multa quae nescio.

Si osserverà forse che si tratta d’una differenza solo di tono, di una questione di forma più che di sostanza; di una semplice sfu­matura. Tuttavia, questa differenza non è trascurabile. E per di più, siamo arrivati a un momento, nel quale Agostino ritiene di poter esporre il suo pensiero integralmente e in forma sistematica.

NOTE

(1) Sul seneo della dedica a Jerio, v. H.-I. Marrou, Saint Augustin et la fin de la culture antique, Parie 1939, p. 163. Sul manicheismo del De pul­chro et apto, anche R. Jolivet. Saint Augustin et le néoplaionisme chiétlen, Paris (1932), p. 35.

(2) Non riesce a convincermi J. Guitton. Le temps et l'éternilé chez ì‘lotin et saint Augustin, Parie 1933, pp. 92 sgg., 102 sgg. ecc.

(3) Con ciò non si vuol dare un giudizio d'insieme sul manicheismo, gl’influssi cristiani 6ni quale eono stati mese· in luce sempre più da recenti scoperte e studi. Ma neppure 6i può trascurare l’impiego nel manicheismo greco-latino di una terminologia filosofica, testimoniata da Alessandro di

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Licopoli e dallo stesso Agostino; o l'aspetto «scientifico» delle spiegazioni che davano dei fenomeni celesti; o il carattere razionalista delle obiezioni che i manichei facevano alla Bibbia e anche al Corano, riferite da S. Agostino e da fonti copte e musulmane.

(4) Vorrei cosi precisare maggiormente ciò che il Marrou, o. c. p. 399, osserva circa l'affinità della formazione culturale dei due uomini.

(5) In una molto cortese recensione al mio Sant'Agostino d'ippona il prof. Tescari (in Convivium, 1930, p. 475) muove varie obiezioni a ciò che a proposito di Monnica e della madre di Adeodato avevo scritto, forse con espressioni che — trascinato da giovanile ricerca d'nna certa scioltezza di stile — andavano un po’ al di là del mio pensiero. Ma, quanto alla so­stanza, devo dirgli che non mi ha convinto. Si potrà foree, per riguardo ad Agostino, dire col Jolivet — del resto, ben più eevero di me nel fondo — che per un giudizio definitivo « nous manquons des renseignements néces- saires » (o. c., p. 85) sebbene questa non sia che una supposizione, di fronte al chiaro racconto tielle Confessioni, al quale dobbiamo pure attenerci. Il Tescari muove a me e ad altri un appunto circa l'interpretazione di Coni. VI, 13, 23: cuius aetas ferme biennio minus quam nubilis erat. Dopo aver citato Coni. IX, 9, 19, Virgilio (Aen. 7, 53) Ovidio (Metam. 14, 335) e Gice- rone (Pro Cluent, 11) il Tescari conclude «che pur nel passo delle Confes­sioni, che ha scandalizzato tanti ,la parola nubilis non abbia significato di­verso dai passi citati (e dall'altro passo di Agostino stesso) e %valga da ma­rito ». E gli potrei rispondere che in Coni. IX, 9, 19 non è affatto indicato quanti anni avesse Monnica quando andò sposa: che « con ogni verisimi- glianza » fosse « sui ventanni » è mera suppoeizione del Tescari, fondata sul fatto che Monnica morì di 55 anni, quando Agostino ne aveva 32. Ma ciò non prova nulla, perchè come il Tescari osserva nella nota della sua traduzione a cui mi rimanda, Agostino aveva una sorella, e un fratello, Navigio, di lui maggiore, ma di cui non sappiamo se fosse il primogenito e, anche in questo caeo, perchè dovremmo supporlo nato durante il primo anno di matrimonio? Ma è invece da aggiungere che proprio nei pasei citati dal Tescari (e Coni. IX, 9, 19 è chiara reminiscenza vergiliana) nubilis è accom­pagnato da un’altra determinazione (plenis anniIs: Agostino e Virgilio che aggiunge matura; le due idee unite pure in Ovidio; grandis: Cicerone) a indi­care appunto l'idea di un pieno sviluppo; mentre proprio in Con/. VI, 23 questa ulteriore determiinazione manca. Piuttosto, mi chiederei questo: se Agostino tace il nome della madre di Adeodato, sarà proprio per disprezzo— come si enuppone in genere — o non piuttosto per delicatezza?

(5bis) De util. cred., 2: racconto che Guitton, o. c. p. 250 ritiene ispirato da una tesi; cfr. c. II, nota 32.

(6) Quali fossero questi libri, ei è discusso di recente con una certa vivacità, specie tra W. Theiler (Porphyrius und Augustin, Halle 1933) e il p. Henry (Plotin et 1'Occident, Louvain 1934). Per mio conto, ritengo più plausibile la soluzione data ora da P. Courcelle, Les lettres grecques en Occident de Macrobe à Cassiodore, Parie 1943, pp. 159-176) secondo il quale l'espressione platonicorum libri indica veramente parecchie opere di vari autori quindi almeno il ΠβρΙκαλοΰ di Plotino e il De regressu animae di Por­firio nella traduzione di Mario Vittorino, oltre, probabilmente, a un trattato di Manlio Teodoro che il Courcelle (Jp. 124 sgg.) propone suggestivamente

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d'identificare con l'uomo immanissimo tyio turgidus (Conf. VII. 9, 13) che pose in mani d'Agostino le opere dei neoplatonici.

(7) Il trovarsi questa metafora due volte in scritti agostiniani poste­riori alla conversione (c. Acad. II, 1, 1; De b. vita, 1. l) e il confronto con altri scrittori ha fatto pensare a G. Lazzati (L’Aristotele perduto e gli scrittori cristiani, Milano 1938) che essa derivi in qualche modo dal Protrettico di Aristotele. Può darsji. Comunque, ha tutta l’aria di eesere un'espressione corrente. Cfr. anche le osservazioni del Marrou, o. c p. 213 sg, a proposito della « sorte de κοινή phiiosophique », della « tradition scolaire représentée par toute une littérature de f lo r ilèg i et de manuels » da cui spesso dipende Agostino.

(8) Su costui, v. ora il breve articolo di John J. Gavigan, St. Auguttines ìriend Nebridius in Cathoìic Hisiorical Rewiew, XXXII, 1 (Aprile 1946)* pp. 47-58.

(9) Sulla concezione agoetiniana della έγκύκλιος παιδεία e le fonti di essa, e in particolare le varie liste delle scienze e il fatto di aver omesso in De ordine, II, 12, 35; 16, 44; 18, 47 l’aritmetica; cfr. Marrou, o. c., specie pp. 191-197 e 213-217. Ma quanto al problema del perchè Agostino non co­minciò, a redigere un De astronomia, e quasi certamente non vi peneò nep­pure, conviene non solo constatare, come fa il Marrou (p. 249), che Agostino probabilmente non si dedicò allo studio di quella scienza (l’astronomia ma­tematica), ma approfondire l'altra oeservazione (jp. 196 sg.) relativa all'imiba- ràzzo che Agostino mostra ogni qualvolta ne parla: esso non traduce solo « la crainte toujours présente de voir le lecteur confondre la science ma- thématique et eon usage superstitieux », ma la resipiscenza di chi, per un momento, vi prestò fede. Non ho potuto vedere, neppur io, il lavoro di De Vreese, Augustinus en de astrologie, Maastricht 1933, che anche i! Marrou conobbe solo attraverso la recensione in Philol-Wochenschr., 1934, col. 4555.

(10) Mi associo quindi a quanto, recensendo l’opera di Suor Mary Pa­tricia Garvey (Saint Augurine: Christian or Neo-Platonist? From his retreat at Cassiciacum until kis ordination at Hippo, Milwaukee, Wiec., Marquette University Press, 1939) scrive O. Amand, in Revue bénédictine, LII (1940), p. 166: « Partant d une question mal posée, qui ne tient pas compte de l’atti- tude philoeopliique, intellectualiste, du passionné de vérité qu’était l’ex-pro- fesseur de rhétorique la réponse est néceesairement déficiente. C est une gageure de vouloir eéparer en lui [Agostino] le croyant, le chrétien sincère et ardent de Cassiciacum et l'ami de la sagesse, le quèteur du vrai, celui qui a écrit et pratiqué: Intellectum valde ama. Avec Jolivet, Grabmann, Boyer, Gilson et d’autres, je reconnais volontiers qu’il n’y a pas de con- tradiction majeure entre les Diaiogues et les Confessions et que ΓAugustin qui se recueille dane la maison de campagne près de Milan est un chrétien qui a soumis son intelligence à la vérité divine se manifestant dane les Ecritures et dans l’Eglise. Mais je refuse à réduire au minimum, comme le fait S Garvey, l'influence prépondérante du néo-platonisme sur reeprit spé- culatif et avide d'explication rationnelle de notre converti ... Dresser la foi chrétierane en antagoniste irréductible de la métaphysique et de l'éthique de Plotin, c’est indùment simpliifìer les données de fait ».

(11) E’ quanto mi ero sforzato di mettere in chiaro fin dal 1930 (jcfr. nota 13) e viene ora confermato da studi recenti: p. e. G. de Plinval, Pélage, ses écrits, sa vie et sa réforme, Lausanne 1943, specialmente pp. 84 sg., 131 sg.

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Si confronti anche, per la tradizione protrettica, il lavoro cit. del Lazzati, oltre, s'intende, gli ©dritti fondamentali del Bignone; e le osservazioni del Marrou, cit. alla n. 7; inoltre Courcelle, o. c , p. 169 sg. e p. 397: «la con­versioni d’Augustin est à la foie une convereion au néo-.platonisme et au christianisme ».

(12) Di questa, come di varie altre opere di Agostino fino al De vera religione ha dato eccellenti analisi anche A. Guzzo (Agostino dal « Contra Academicos» al «De vera religione», Firenze [1925]); buone osservazioni ha anche, tra altri, J. Guitton, o. c. Superfluo avvertire che non sempre mi è possibile consentire in tutto con que«ti autori, o con altri.

Avverto anche, una volta per tutte, che così in questa, come nelle note successive, indico soltanto quei passi che hanno più diretto e immediato riferimento con il testo ; ma che di ciascuno scritto agostiniano è da tener presente l'insieme e l'intonazione generale; ossia anche ciò che, a volte, per brevità di esposizione, viene sottinteso.

Del C. Acati, ei veda: 1, 1 e 2; 8, 25 (la exercitatio); II, 1, 1; 2, 5-6; 3, 9» 6, 14; ΠΙ, 1, 1; 9, 20; 17 sgg.

(13) Agostino (riecheggila così una tradizione di ecuola, come anche— secondo osserva Courcelle (o. c., p. 165 6g.) — riproduce una formula scolastica in C. Acad. Ili, 18, 41 (Agostino tanto simile a Platone, che si po­trebbe credere fossero vissuti insieme, o meglio, che quesito fosse rivissuto in quello). Cfr. altresì Solii, I, 4, 9 dove sono messi ancora insieme Plato et Pìotinus; e così d’altra parte Aug. Ep. VI, ad Nebridium: « epistolae tuas... illae mihi Christum, illae Platonem, illae Plotinùm sonabunt ». Il prof. Teecari* nella recensione citata (p. 474), mi aittriibuiva evidentemente la tesi del- l'Alfaric, non avvedendosi che proprio di neo-platonismo cristiano (o, se si vuole, di cristianesimo neoplatonico) io intendevo parlare. Cfr. anche c. II, n. 3.

(14) De b. vita , IV, 33.(15) Cfr. De ordine, I, 11, 32; II, 2, 7; 4, 17.(16) Cfr. De b. v. IV, 35(16bis) L'aver messo insieme questi due personaggi è significativo:

anche Manlio, studiosissimus di Plotino, venera in Ambrogio il vescovo; è il modello del neoplatonico cristiano, che Agostino si propone d'imitare. Ciò suppone la piena inserzione della cultura antica nel cristianesimo.

(17) Cfr. De b. v. I. 10-12; 19; 35; anche De ord., I, 11, 31; II, 20, 52.(18) De b. v., IV, 35.(19) Macrobio, Sat. I, 24, 21; VII, 15, 14; cfr. Ammonio, In Isag. Porph.

cit. da Courcelle o. c., p. 16: la definizione aristotelica della filosofia come τέχνη τεχνών καί έπιστήμη έπΰττημών.

(20) De ord., II, 4, 13 — 5, 14, cfr. II, 12, 35 — 16. 44; 18. 47; cfr. Marrou,o. c., pp. 191, 216 sg. ecc.

, (21) De ord. I, 10, 29; II, 5, 15-16; 7, 21-24; 8, 25; 9, 26-27; 17, 45-46, ecc. 17, 45-46, ecc.

(22) Solil., I, 1, 2-6.(23) Courcelle, o. c., p. 128: « L'exemple de Manlius Théodorus montre

qu'il existait, à la mort de Théodose, outre le néo-platonisme pa’ien à la manière de Macrobe, un néo-platonisme chrétien: la lignée de Marius Vi-

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ctonnus, qui cherchait à accomoder les données de la raison et de la foi. La voie tracée par les travaux de Théodorus n'a pas été s-uivie seulement par Augustin...». Cfr. note 11 e 13.

(24) Non vi è dubbio che le apparenze sembrano favorire l'interpreta- z'one che ravvisa già in Sol. I, 1, 2-6 la dottrina della grazia: Agos>tino implora da Dio che gli conceda di pregarlo bene, che gli dia la fede, o il valore, o la scienza, se l'una o l’altra di esse è mezzo per trovarlo. Ma, si noti bene, che trovano Dio coloro che si rivolgono già a lui (Si fide te inve­niunt qui ad te refugiunt); e che Dìo non abbandona chi lo cerca (Tu enim si deseris, peritur; sed non deseris, quia tu es summum bonum, quod nemo recte quaesivit et minime invenit). E’ bensì vero che Dio è cercato da tutti coloro che Egli fa che lo cerchino (Omnis autem recte quaesivit quem tu quaerere fecisti), ma appunto la frase denota che Agostino non ha in mente un numero ristretto di eletti, non pensa a una esclusione; e d'altra parte l'azione divina si riduce anche qui (Pater pignoris, quo admondmur redire ad te...; Deus quem nemo quaerit nisi admonitus) aU'admonitio quaedam del De beata vita (cfr. n. 18); che già ei nota qui il ricorso al «pulsate et ape­rietur vobis » (facis ut p/ulsantibus aperiaitur...; pateat mihi pulsanti ianua tua); e che, finalmente Agostino chiede a Dio che gli insegni il cammino per giungere a lui, nuLTaltro (Deus, qui nisi mundos verum scire voluisti... quem nemo invenit, nisi purgatus...; nihil aliud scio niei fluxa et caduca spernenda esse, certa et aeterna requirenda. Hoc facio, Pater, quia hoc solum novi; sed unde ad te perveniatur, ignoro). E accanto a questa va tenuità presente l'altra, più breve, invocazione di Solii. II, 6, 9 (Deus, Pater noster, qui ut oremus hortaris, qui et hoc quid rogaris praestas, siquidem cum te rogamus, melius vivimus melioresque eumus; exaudi me palpitantem in his tenebris et mihi dexteram porrige. Praetende mihi lumen tuum, revoca me ab erro­ribus; te duice in me redeam et in te). Il vero senso di tutte queste espres­sioni appare quando si prendano nel loro contesto e ei mettano a raffronto con quelle, analoghe, di opere posteriori. Ma è chiaro che Agostino non chiede qui a Dio che lo liberi dia un peccato, e meno ancora originale; il loro carat­tere è nettamente intellettualistico; e si veda com e chiaramente espressa l'idea del « regressus animae ». Gli autori che, dopo aver riconosciuto il carattere neiplatonizzante di questa preghiera, sentono il bisogno di sottolinearne, pole­micamente, J'aspetto cristiano, lo fanno in parte perché suggestionati ancora dal libro deH'Altfaric, e in parte per quell'opposizione artificiale tra neoplatoni­smo e cristianesimo, che l'Aliarle ha pure contribuito ad accentuare, e che non risponde alla mentalità della maggior parte dei cristiani colti del IV e del V secolo.

(24-biis) Il De immortalitate animae fu scritto quasi come primo abbozzo di un terzo libro di Soliloquia (cfr. Retract. I, 2, 1); il De quantilate animaie, redatto a Roma, sembra invece alquanto, sebbene di poco, posteriore ai due libri De moribus.

(25) Cfr. Solii. I, 1, 4: Deus... cuius legibus arbitrium animae liberum est e De quant. an., 80, cit. alia n. 30.

(26) De quant, an., 3; 4 (i d e o q u e b e n e p r a e c i p i t u r e t i a m i n m y s t e r i i s ut omnia corporea contemnat u n i v e r s o q u e h u i c m u n d o r e n u n t i e t , qui ut videmus corporeus est, quisquis se talem reddi desiderat, qualis a Deo fa&tus est, id est similem Deo) cfr. ancora Solii.I, 1, 4 (qui fecisti hominem ad imaginem et similitudinem tuam, quod qui se

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ipse novit agnoscit) con un'interpretazione del testo biblico che è superfluo sottolineare; 24; 34 (magnam omnino ... quaestionem moves, in qua iantum nostrae sibimet opiniones adversantur, ut tibi anima nullam, mihi — Ago­stino — contra omnes artes sécum attulisse videatur; nec aliud quidquam esse id quod dicitur discere, quam reminisci et reaoitdari); 55 (quamobrem...7ibenter in eo sermone demoror, quo admonetur anima ne se ultra quam ne­cessitas cogit refundat in sensus, sed ab his potius ad se ipsam colligat et repuerascat — cfr. Matt. XVIII, 3 — quod est novum hominem fieri vetere exuto, a quo incipere propter neglectam Dei legem certa est necessitas, quo neque veniUs neque secretius quidquam divinis scripturis continetur. Vellem hinc plura dicere, ac me ipsum constringere, dum tibi quasi praecipio, ut nihil aliud agerem quam redderer mihi, cui me maxime debeo atque ita Deo fieri, quod ait Horatius, — Sat. II, VII, 2-3 — amicum mancipium Do­mino. Quod omnino fieVi non potestr, nisi ad eius reformemur imaginem, quam nobis ut pretiosissimum quiddam et carissimum custodiendam dedit, dum nos ipsos nobis tales dedit, qualibus nihil possit praeter ipsum ante- poni. Hac autem actione nihil mihi videtur operosius et nihil est cessationi similius; neque tamen eam suscipere aut implere animus potest, nisi eo ipso adiuvante cui redditur. Unde fit ut homo eius clementia reformandus sit, cuius bonitate ac potestate formatus est); 80 (v. nota 30).

(27) Appunto, in Roma, doveva apparire tanto più urgente e necessario ad Agostino rendere evidente il suo dislacco definitivo dal manicheismo.

(28) De moribm Ecclesiae catholicae, 3 (Unde igitur exordiar? ab au­ctoritate an a ratione? Naturae quidem ordo ita se habetr ut cum aliquid discimus, rationem praecedat auctoritas); 4; 12 (quid beneficentius, quid libera­lius divina providentia dici potest, quae a legibus suis hominem lapsum, et propter cupiditatem rerum mortalium iure ac merito mortalem sobolem propagantem, non omnino deseruit?) 14-17; 26-29; 30; 39; 56-59 (sull'accordo tra il V. T. e il N. T., ecc.); 22; 25; 36 (Dicit ergo Paulus radicem omnium malorum esse cupiditatem, per quam etiam lex vetus primum hominem lapsum ?.sse significat. Monef Paulus ut exuamus nos veterem hominem et induamus novum. Vult autem intelligi, Adam qui peccavit veterem hominem, illumautem quem suscepit in sacramento Dei Filius ad nos liberandos, novum .......Omne igitur officium tempeiantiae est exuere veterem hominem et in Deo renovari; id est, cQntemnere omnes corporeas illecebras laudemque popu­larem, totumque amorem ad invisibilia et divina conferre); 37; 38 (cautissime 'jpostolus, ne ab amore sapientiae deterrere videretur, subiecit: « et elementa huius mundi ». Sunt enim qui desertis virtutibus et nescientes quid sit Deus, et quanta maiestas semper eodem modo manentis naturae, magnum aliquid se agere putant, si universam istam corporis molem, quam mundum nuncupa­mus, curiosissime intentissijneque perquirant... Tali enim amore plerumque decipitur (l'anima), ut aut nihil putet esse, nisi corpus; aut etiamsi auctori­tate commota fateatur aliquid esse incorporeum, de Hio tamen nisi per ima­gines corporeas cogitare non possit, et tale aliquid esse credere, qualis fallax corporis sensus infligit); 62. ecc.

(29) P. e. De mor. manich. 20 (docet enim ratio... Deum esse incorrupti­bilem, incommutabilem, inviolabilem, in quem nulla indigentia, nulla imbe- cillilas, nulla miseria cadere possit) e 24.

(30) Ma già in De quant. an., 80 aveva addirittura negato che potesse

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esservi qu^leiasi difficoltà nel conciliare l'affermazione del libero arbitrio umano con quella dell'onnipotenza divina: Deus igitur summus et verus lege inviolabili et incorrupta, qua omne quod condidit regit, subicit animae cor­pus, animam sibi, et sic omnia sibi, neque in ullo actu eam deserit sive poena sive proemio. Ia enim iudicavit esse pulcherrimum, ut essei quidquid est quomodo est, et ita naturae gradibus ordinaretur, ut considerantes univer­sitatem nulla offenderet ex ulla parte deformitas, omnisque animae poena et omne praemium conferret semper aliquid proportione iustae pulcritu\dini di- spositionique rerum omnium. Datum est enim animae Uberum arbitrium, quod qui nugatoriis ratiocinationibus labefactare conantur, usque adeo caeci sunt, ut ne ista ipsa quidem vana atque sacrilega propria voluntate se dicere intelligant. Nec tamen ita liberum arbitrium animae datum est, ut quodlibet eo moliens ulktm partem divini ordinis legisque perturbet. Datum est enim a sapientissimo atque invictissimo tolius creaturae Domino.

(31) Peir chi come me ritiene molto probabile che Agostino andasse de­bitore di molte delle sue cognizioni e idee filosofiche a uno scritto di Manlio Teodoro che trattava appunto, tra l'altro, dell’anima umana e della eua origine e natura (è l'ipotesi del Courcelle, o. c., p. 124 sgg.)» vi sarebbe qui un altro segno del suo progressivo allontanarsi da Teodoro, allontanamento di cui Courcelle (p. 127) segnala una prima tappa già nel De ordine.

(32) De libero arbitrio, I, 1; 6; 15; 21; 24 («Ita istuc dicis, quasi liquido compertum habeos numquam nos fwsse sapfentes; adtendis enim tempus ex quo in hanc vitam nuli sumus. Sed cum sapientia in animo sit, u t r u m a n t e c o n s o r t i u m h u i u s c o r p o r i s a l i a q u a d a m v i t a v i x e r i t animus, et an aliquando sapienHer vixerit, magna quaestio est, magnum secre­tum et suo considerandum loco); 25; 27; 28-30 (Itaque, cum dicimus volun­tate homines esse miseros, non ideo dicimus, quod miseri esse velint, sed quod in ea voluntate sunt, quam etiam eis invitis miseria sequatur necesse est): 31; 32 (Recte iuclicas, dummodo illud inconcussum teneas ... eos qui tempo­rali legi serviunt non esse posse ab aeterna liberos, unde omnia quae iusia sunt, iusteque variantur, exprimi dicimus·, eos vero qui legi aeternae per boncm voluntatem haerent, temporalis legis non indigere, satis... intelligis); Iubet igitur aeterna lex avertere amorem a temporalibus, et eum mundatum convertere ad aeterna); 34-35.

(33) Isaia VI. 9 nei Settanta: in De lib. arb. Ι,·4.(34) 6 e 12.(35) De Genesi c. Man., I, 1-2; 3 (Deus enim fecit el tempora. Et ideo

cinte quam faceret tempora, non erant tempora ... Et si tempus cum caelo et terra esse coepit, non potest inveniri tempus quo Deus nondum fecerat cae- ium et terram)· 26 (In omnibus, ... cum mensuras et numeros et ordinem vides, artificem quaere. Nec alium invenies, nisi ubi summa mensura ct sum­mus numerus et summus ordo est, id est Deum); 28 (Sed tamen noverint [i manichei] in catholica disciplina spirituales fideles non credere Deum forma corporea definitum: et quod homo ad imaginem Dei factus dicitur, secuim- dum interiorem hominem dici, ubi est ratio et intellectus); 29 (hic illis primo dicenctum .est quod multum errant qui p o s t p e c c a t u m considerant ho­minem, cum in huius vitae mortalitatem damnatus est et amisit perfectionem illam qua factus est ad imaginem Dei), 30*31: 34? 35-43; II, 6; 8; 10 (et ideo anima- 'nm hominem prius agimus omnes, qui de illo post peccatum nati sumus, donec

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assequamur spiritalem Adam, id est Dominum nostrum' Jesum Christum, qui peccatum non fecit; et ab illo recreati et vivificati, restituamur in paradi­sum); 11 (spiritus autem hominis in Scripturis dicitur ipsius animae potentia rationalis); 12; 21 (etiam nunc in unoquoque nostrum nihil aliud agitur, cum ad peccatum quisque delabitur, quam tunc <tatum est in illis tribus, serpente, muliere et viro. Nam primo fit suggestio sive per cogitationem sive per sen­sus corporis... quae suggestio cum facta fuerit, si cupiditas nostra non mo- vebitur ad peccandum, excludetur serpentis astutia; si autem mota fuerit, quasi mulieri iam persuasum erit. Sed aliquando ratio viriliter etiam commo­tam cupiditatem refrenat atque compescit... Si autem ratio consentiat, ... ab omni vita beata tamquam de paradiso expellitur homo. Iam enim peccatum imputatur etiamsi non subsequatur factum, quoniam rea tenetur in consen­sione conscientia); 22; 32; 41-43.

(36) De q. a., 70-76.(37) De Gen. c. Man. I, 41; 43.(38) Non si traftta, però, di identità di natura tra l'anima dell'uomo e la

divinità: affermare la qual cosa saTebbe, secondo Agostino, ricadere per un verso nel manicheismo e commettere un gravissimo peccato: Et ipse spiritus hominis cum aliquando errat et aliquando prudenter sapit, mutabilem se esse clamat: quod nullo modo de natura Dei fas est credere. Non autem potest maius signum esse superbiae, quam ut dicat se humana anima hoc esse quod Deus est (De Gen. c. man. II, 11).

(39) Matteo, XXIII, 10.(40) De magidlro, 37: « Quod ergo intelligc id etiam credo; at non omne

quod credo, icf etiam Melligo. Omne autem quod intelligo scio; non omne quod credo scio (cfr. Soliloquia, I, 3 (8): omne autem quod scimus, recte for­tasse etiam credere dicimur; at non omne quod credimus, etiam scire). Nec ideo nescio quam sit utile credere etiam muLa quae nescio »; 38 (De universis autem quae intelligimus, non loquentem qui personat foris, sed intus ipei menti praesidentem consulimus veritatem (cfr. Confessioni, XI, 5, 7), verbis iortasse ut consulamiie admoniti. Ille autem qui consulitur docet, qui in inte­riore homine habitare dictus est Christus, id est incommutabilis Dei Virtus aique sempiterna Sapientia, quam quidem omnis rationalis anima consulit, sed tantum cuique panditur, quantum capere propter propriam sive bonam sive malam voluntatem potest); 39j 40 (Cum vero de iis agitur, quae mente conspici­mus, ild est intellectu atoue ratione, ea quidem loquimur quae praesentio con­tuemur in fila inKeriore luce veritatis, qua ipse qui dicitur homo interior illu­stratur et fruituT; sed tunc quoque noster auditor, si et ipse secreto ac simplici oculo videt, novit quod dico sua contemplatione, non verbis meis. Ergo ne hunc \quidem doceo vera dicens, vera intuentem; docetur enim non verbis meis, sed ipsis rebus Deo intus pandente manifestis).

(41) De q. a., 12, cfr. 76.

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II

Fin dagli inizi dell’attività letteraria di Sant’Agostino, ci è dato cogliere un fenomeno caratteristico. In una produzione così vasta — tanto da passare in proverbio — sono scarsissimi gli scritti che non abbiano carattere occasionale o la cui composizione non sia stata provocata da una polemica. Per di più, la composizione dei trattati puramente teorici e sistematici, fu interrotta continuamente, e tenne occupato l’autore per moltissimi anni (1). E ’ un fatto, questo, il quale si ripete con una tale costanza, che, se si trattasse di un feno­meno naturale, si potrebbe forse essere indotti a parlare di una « legge ». E chissà non sia effettivamente, una legge o un ritmo spirituale : quelli propri del genio e della santità di Agostino, in perpetua tensione tra la filosofia, intesa come pura teoria, e l’apo­stolato, l’anelito di ricavare dalla propria esperienza ciò che me­glio possa servire all’edificazione altrui. Ma, approfondendo di più, si scopre anche ciò che unisce intimamente questi due diversi aspetti della mente e dell’operosità di Agostino. La filosofia, infatti, fu per lui non solo il complemento e il coronamento della cultura intellettuale, ma un mezzo per ottenere la purificazione dell’anima e al tempo stesso la culminazione della fede. Filosofo per vocazione, nel senso che i problemi filosofici furono per lui assai più che un oggetto di speculazione intellettuale, bensì qualcosa di profonda- irente radicato nella vita, qualcosa che rispondeva a un’esperienza, Agostino (per quanto molti sembrino ancora volerlo considerare come tale) non fu mai il « filosofo di professione » — e meno che mai il « professore di filosofia » — che si dedica alla costruzione meramente intellettuale, logica, razionalistica, di un sistema che possa

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scomporsi nelle sue varie parti e ricomporsi poi, come certi giocat­toli meccanici. Perciò in ogni circostanza, la lotta contro l’errore, allo stesso modo che la ricerca e l’esposizione sistematica della ve­rità, non ebbero per lui un valore meramente intellettuale e teorico. Essi rispondono a una preoccupazione intima, a un’esperienza di vita; e perciò è in primo luogo il frutto di questa esperienza che Agostino desidera far conoscere, affinchè riesca di vantaggio ad altri.

Perciò egli concepì, durante il processo della sua conversione, e nel momento immediatamente successivo, il progetto della grande opera, o serie sistematica di scritti, destinati ad esporre le varie discipline della Ιγκύκλιος παιδεία, che fossero però al tempo stesso una iniziazione alla filosofia, ed elevassero così gradatamente fino alla vetta, dove la vera filosofia e la vera religione si congiungono nella contemplazione e nell’adorazione della Verità Suprema. Iniziata ap­pena l’attuazione del suo programma, si accorse però, e lo raf­forzarono in tale convincimento anche le circostanze della sua vita, ch’era indispensabile, prima, combattere i manichei. L’esecuzione del progetto pertanto dovette essere rimandata. Ma, più tardi, Agostino dovette sentirsi in grado di riprenderlo e attuarlo. Una volta chia­riti i problemi più ardui della filosofia, dimostrate le sue attitudini di apologista nella polemica diretta, e la sua idoneità come esegeta, Agostino certo pensò che sarebbe bastato riunire e svolgere armo­nicamente i pensieri sparsi nei suoi scritti anteriori, per comporre un’opera sistematica e di ampio respiro. Essa avrebbe potuto eli­minare, non solo gli errori degli accademici e dei manichei, ma al­tresì le prevenzioni dei fedeli contro la filosofia e la cultura tradi­zionale in genere, e quelle dei pagani colti contro il cristianesimo. E ’ noto quanto questo problema della conciliazione tra la cultura antica e la religione cristiana affaticò e preccupò Sant’Agostino, sug­gerendogli finalmente l’ideale di una cultura specificamente cristiana, che tuttavia non rinnega, anzi mette a profitto l’antica. Anche a questo proposito converrebbe forse studiare lo sviluppo delle sue idee per mezzo di un esame degli scritti di lui secondo l'ordine cronologico. Ne risulterebbe, credo, che questo svolgimento fu in funzione del suo modo di considerare il problema, per lui fonda- mentale e che lo tormentò fin dalla gioventù, quello cioè della na­tura e dell’origine del male e del peccato (2).

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L’accordo tra la cultura antica, con la sua filosofia, ed il cri­stianesimo, è segnalato già fin dall’inizio del De vera religione. Re­ligione vera è infatti quella che riconosce e venera un solo Dio, ravvisa e adora in lui l’unico creatore e conservatore dell’universo. Ora, i filosofi antichi hanno riconosciuto la falsità del politeismo, pur continuando a frequentare i templi, perchè non ardivano opporsi alle credenze del volgo ; tuttavia, se Platone fosse vivo oggi e un discepolo l’interrogasse, riconoscerebbe sicuro che certe verità può averle insegnate soltanto la sapienza divina. Tanto più condanna- bili sono perciò quei pensatori moderni, tutti dediti alle cose tem­porali e sensibili, i quali hanno sempre in bocca il nome di Pla­tone, ma tradiscono l’insegnamento del maestro. E’ chiaro qui il nesso con il Contra Academicos. Insomma, soggiunge Agostino, se Socrate e Platone rinascessero ora, riconoscerebbero subito nella dottrina e nella prassi della Chiesa quelle verità che essi compresero, ma non osarono propagare, e si farebbero cristiani (bastando a ciò modificare poche espressioni) così come hanno fatto i più tra i loro seguaci recenti (3).

Ritorna in questo libro la dimostrazione del libero arbitrio, che Dio ha concesso agli uomini perchè, da liberi, sarebbero stati mi­gliori servi, che non da schiavi. La condizione presente deU’uomo, soggetto a morire, è effetto di una disposizione amorevole di Dio, come un ammonimento rivolto all’uomo, perchè si rivolga verso la Verità eterna. Ed il libero arbitrio, permettendo che la volontà inclini verso beni inferiori, è l’unica causa del male, che pertanto non è una vera sostanza (4). E ritorna la distinzione tra Vauctoritas e la ratio, ma nella forma che abbiamo veduto già nel De ma­gistro (5). Ritorna altresì la distinzione delle sette età dell’uomo, corrispondenti ai sette gradi della vita spirituale ; e con essa quella interpretazione di S. Paolo che pure abbiamo trovato nel De quan­titate animae. V’è l’uomo esteriore' o terreno, cioè il « vecchio uomo » paolino, e il nuovo, interiore e celeste ; ciascuno dei due ha il suo posto nell’ordine del creato. Ma il primo si corrompe, muta, in due modi : per forza propria, tendendo cioè a beni ancora inferiori, che sono pene ; o per un progresso del secondo, cioè del­l’interiore, e allora esso si rifà migliore, riacquista la sua primitiva natura nel giudizio finale, acquistando così l’immutabilità (6). Un passo, questo, dove anche più che l’intenzione polemica antima­

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nichea è interessante e importante l’uso della terminologia giuridica : il rivestire il corpo celestiale nel giudizio'Anale è effetto di una vera e propria restitutio in integrum. Pena del peccato di Adamo è stata la trasformazione del suo corpo, e per conseguenza del nostro, da celestiale e incorruttibile in mortale e soggetto alle malattie. Ma ciò non implica la condanna di tutto il genere umano; ché anzi, la pena è puramente medicinale, rivolta ad ottenere che l ’uomo, con­siderando appunto la sua fralezza, s ’induca a dirigere il suo amore alla verità suprema. La redenzione consiste, anche qui, nel sottrarsi al dominio delle cose visibili per entrare in quello delle spirituali ; dunque dipende, in primo luogo, dalla volontà dell’uomo; e Ago­stino riafferma vigorosamente l’ordine del creato e la bontà e bel­lezza di tutte le cose. E così, partendo dalle sensazioni stesse che abbiamo del mondo intorno a noi, e giudicando delle stesse sen­sazioni, siamo condotti a trovare che cos’è il bello e l’arte. 11 fon­damento di essa è in una aequalitas o similitudo, di cui acquistiamo coscienza attraverso la memoria di ciò che altra volta ci è piaciuto o dispiaciuto; ma questa stessa aequalitas, e la ipsa vera et prima unitas, si comprendono con la mente, non si percepiscono con i sensi (7).

Si tratta dunque di una legge, superiore a tutte le cose sen­sibili, misura comune di tutte, universale e assoluta, mentre la nostra mente umana è mutevole. Essa è quindi superiore alla nostra mente, è la verità stessa, è Dio, cui l ’anima si ricongiunge, quando, par­tita dalla visione del mondo sensibile sale ai gradi più alti della contemplazione spirituale, anziché fermarsi alla humana delectatio (8). Anche le apparenze sensibili possono dunque ricondurci alla verità suprema; Agostino ricorda ciò che S. Paolo (Romani, I, 20) dice degli invisibilia Dei. Non vi è quindi nulla, neppure i vizi, che non possa in qualche modo rincuorare gli uomini a conseguire la virtù ; sono dunque essi che fanno il contrario di quello che dovrebbero, e antepongono il mezzo al fine; ma coloro che desiderano vera­mente il fine, non si lasciano sedurre dalla curiosità né si rivolgono a cose esteriori, ben sapendo che la conoscenza certa è quella che è in noi (9).

Siamo ricondotti così alla dottrina del De magistro; alla luce della quale vanno esaminate le frasi famose intorno al « ritornare in se stesso » e alla « verità che abita dentro dell’uomo » ; frasi

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che basterà leggere con tutto il contesto per fare giustizia di tanti fraintendimenti e vedere che, come nel De magistro le parole, qui sono tutte le cose, e gli stessi vizi, che possono guidare l’anima a ritornare su se stessa ; l’anima, superiore a tutto ciò ch’è nel mondo e a sua volta inferiore a Dio. E Dio è la verità, e di questa ha deposto i germi nell’anima umana. Contro questa dottrina Ago­stino non vede altra possibile obiezione che non si riassuma nella po­sizione dello scetticismo ; e questa egli combatte con l’argomento tra­dizionale : dubita pure di tutto, non dubiterai di dubitare. Et si cer­tum est te esse dubitantem, quaere unde sit certum; non illic tibi, non omnino solis huius lumen occurret, sed lumen verum quod illuminat omnem hominem venientem in hunc mundum (10). Nelle quali parole vi sarà forse anche un’allusione al manicheismo; ma è più certa e degna di nota quella al Cristo, Logos divino che illumina l’anima umana e depone in lei quelle verità, che essa scopre tor­nando in se medesima (11).

Questo processo della palingenesi morale, che va di pari passo con la conquista progressiva della verità, è dunque concesso a tutti. Ognuno è in grado di sottrarsi al dominio delle cose sensibili, di far perire in sè l’uomo esteriore e carnale, e di far progredire in­vece l’uomo interiore; trasformandosi così in quel perfetto cri­stiano, che appena sfiora il mondo su cui pone i piedi, non si ad­dolora per la morte di nessuno, non si lascia vincere o affliggere da alcun dolore o fatica ; ama il prossimo, ma non si preoccupa troppo della sorte di ciascuno ; e vive nel mondo, come in una dimora prov­visoria (12). Nulla vince, nulla turba profondamente questo cristiano perfetto, nella raffigurazione del quale sembra di veder confluire elementi del cristianesimo primitivo derivati direttamente dalla pre­dicazione evangelica, ed elementi che risalgono alla speculazione teo­logica di un Clemente Alessandrino o di un Origene, ai quali risale in ultima analisi questa raffigurazione dello γνωστικός cristiano, la cui imperturbabile beatitudine ha pur qualcosa di stoico (13). A questo vertice della perfezione religiosa e morale si arriva seguendo la ragione e constatando quanto sian vani e fuggevoli i beni terreni, di cui non possiamo restar paghi. Si aspira a una libertà superiore ed ecco segnata la via che conduce dalla ricerca del piacere e dalla superbia all’amore di Dio e all’esercizio di ogni virtù. Dio ha dato all’uomo la facoltà di scegliere tra bene e male ; per aiutare l’uomo.

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la Provvidenza ha disposto due guide, l’autorità e la ragione. La prima, antecedente in ordine di tempo ma subordinata alla ragione, è — secondo l’immagine di S. Paolo (14) — come il latte dei bambini, cui tiene dietro il cibo solido, cioè la dottrina che permette di ravvisare nell’Antico Testamento la prefigurazione del Nuovo. Ma non c’è alcun contrasto tra l’una e l’altra guida : i miracoli ora sono ces­sati, per volere della Provvidenza ; ma anche alla fede nell’autorità non si perviene, se non spogliandosi prima d’ogni superbia (15). Questo è appunto ciò che gli eretici non sanno fare. Eretici sono coloro che non condividono la fede ortodossa nella Trinità e sono perciò esclusi dai sacramenti cattolici. Alcuni, come gli ofìti e i manichei, ne hanno di propri, altri no, come i fotiniani e gli aria­ni, che tuttavia sono anch’essi fuori della Chiesa, così come i giudei, qui in vetere homine remanserunt, e gli scismatici. Ma que­sti ultimi vanno distinti dagli eretici, perchè si sono volontaria­mente allontanati dalla Chiesa, la quale avrebbe potuto tollerarli. In­fatti soltanto coloro i quali si rendono intollerabili o non si vogliono correggere vengono espulsi dall’aia del Signore, prima che sia ve­nuto il momento della separazione finale. Altrimenti la Chiesa tol­lera gli uomini carnali, così come la paglia non va separata dal gra­no prima del tempo (16). L’accenno alla parabola evangelica (17), di cui Agostino farà così largo uso nella polemica contro i donatisti, merita di essere osservato con attenzione; e tutto questo tratto fa pensare ad una qualche conoscenza che Agostino avesse già al­lora dell’opera di S. Ottato di Milevi (18). Ma certo non convie­ne esagerare; ed evidente esagerazione sarebbe il ravvisare già in germe in questi passi qualcosa come la distinzione delle due città. Basta infatti pensare come per Agostino, ora, l’essere carnale o spirituale dipenda dalla volontà di ciascuno. Sia questa distinzione, sia la condotta prescritta ai buoni se accade loro di essere espulsi dalla Chiesa per le macchinazioni dei malvagi, sia infine anche la funzione attribuita alla stessa eresia nell’economia della vita cristia­na (19), appaiono semplici corollari della dottrina che nell’ordine dell'universo rientra anche il male, di cui Dio è ordinatore, ma vero autore è l’uomo, dotato di libero arbitrio.

Ma è pure significativa nel De vera religione la tendenza a vedere nel Cristo assai più il Logos, la Sapienza divina, il Rive­latore e il Maestro, che non il Redentore, il Crocifìsso e Risorto ; a

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considerare il suo ministero in terra soprattutto come insegnamento ed esempio che conferma con la sua autorità suprema dottrine de­dotte da principi razionali ed esposte da Agostino (20). Tuttavia men­tre nel De quantitate animae la perfezione sembra ancora raggiun­gibile su questa terra (21) qui, nel De vera religione, Agostino affer­ma che il vecchio uomo sopravvive accanto all’antico e la perfe­zione non si consegue se non dopo la morte del corpo. Come tutte le cose create da Dio, anche la materia e il corpo sono buoni. Ma per quanto Agostino tendesse con tutte le sue forze a combat­tere il manicheismo, non era facile neppure per lui sottrarsi all’in­clinazione di vedere nella materia, in quanto non - essere, il male. Tale propensione, così come l’impulso verso l’ascetismo, gli doveva essere suggerita da quella stessa filosofìa cui aveva dato la sua ade­sione (22).

La redenzione dal male e dalla materia gli si presenta ancora sotto un aspetto tutto intellettualistico : il bene è il vero cui la ragione tende quando si ricorda della sua origine e ritorna su se stessa. E ciò dipende interamente da essa ; purché l’uomo lo voglia, può ottenerlo.

Cosi si comprende che nella professione di fede con cui il De vera religione (23) si chiude sia affermata esplicitamente la so­miglianza tra la ragione umana e la divina, cioè il Verbo, seconda persona della Trinità, per mezzo del quale furono create tutte le cose, buone, da Dio supremamente buono. Il problema dell’eresie nella Chiesa (e perciò dell’unità di questa) nton è se non un aspetto del più vasto problema dell’esistenza del male nel mondo. Perciò Agostino non è meno attratto da due altre questioni : quella della creazione (24) e il dogma della Trinità : ossia problemi che è ine­vitabile affrontare quando ci si chiede come e perchè esiste nel mondo il male.

Nel De vera religione, egli li affronta o tocca tutti ; se qualche volta abbiamo l’impressione di trovarci di fronte a dottrine male ac­coppiate, o a qualche incertezza, ciò importa poco. L’interessante è constatare l’orientamento generale del pensiero di Agostino, e il fatto che egli credeva di essere giunto a una formulazione completa e definitiva di esso.

Ci spieghiamo, cosi, il fatto che in questo momento Agostino, dopo un intervallo abbastanza lungo, tornasse a dedicarsi ai suoi libri sulle disciplinae. Ma è altrettanto significativo, almeno per chi

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studia la sua formazione spirituale in quegli anni, che fra tutta la serie di quegli scritti, vari dei quali incompiuti (25), egli non si sia dedicato se non al De musica, aggiungendo, ai primi cinque libri, di carattere meramente manualistico, il sesto (26).

Agostino vi espone una teoria della purificazione graduale della anima, in parte ripetendo, in parte sviluppando, motivi che ci sono già familiari attraverso il De vera religione. Conseguenza del peccato originale è che l’anima, la quale prima dominava interamente il corpo, ora può abbandonarsi alla tentazione di rivolgersi ad esso, e rima­nerne contaminata e diminuita, mentre il progresso dell’anima con­siste nel dirigersi verso Dio. Diminuzione, e per contro aumento,o regresso e progresso, dell’anima, sono entrambi necessari, ma solo in quanto sono conseguenza di una scelta completamente li­bera. Col dirigersi verso il bene superiore, l’anima assicura anche la salute del corpo benché non possa, pur così facendo, impedire ch’esso sia mortale : la perfezione assoluta non è conseguibile in questa vita e non si avrà se non dopo la risurrezione. Tuttavia an­che durante la vita terrena l’anima può prepararsi alla perfezio­ne, vincendo la resistenza oppostale dal corpo e contrastando o domando i carnales motus. Essa è, insomma, in grado di liberar­si dal peccato, benché soggetta ancora alla pena ; e Cristo appun­to, assumendo non il peccato ma la condizione dell’uomo peccatore, con la sua passione e la sua morte ammonì gli uomini a sop­portare la morte e a evtfare la superbia, a fuggire cioè il pecca-io di Adamo e a tollerarne la conseguenza, ossia la trasmutazio­ne del corpo stesso di Adamo di perfetto in corruttibile e morta­le. Il peccato originale è dunque possibilità di peccare, di rivolgersi al mondo — inferiore — della materia, che cade sotto i sensi, e tro­varvi diletto, da parte deH’anima, relegata ora in un corpo tendente a ribellarsi a lei e condannato alla morte ; ma anche in questo è da ammirare il piano della Provvidenza, che ha lasciato tuttavia l’anima libera di scegliere tra ciò ch’è superiore e inferiore. Perchè l’anima sia capace di frenare le passioni, è necessario il soccorso della mise­ricordia divina ; ma tale bontà di Dio si manifesta già nell’incarna­zione di Cristo, venuto ad insegnare all’uomo come si possa conse- seguire la perfezione. L ’aiuto divino e l’azione del Cristo, conce­pita anche qui come piuttosto esemplare, o ammaestratrice, che propriamente redentrice, sono dunque intesi in questo libro come*

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nel De vera religione. Lo stesso passo della lettera A i Romani (VII, 25), — citazione la quale mostra già la maggiore importanza che Agostino attribuiva ormai alla Sacra Scrittura — è applicato agli uomini non ancora giunti alla perfezione — pertanto, non all’apo­stolo. Esso è, inoltre, interpretato alla luce di una preoccupazione escatologica, quale poteva suscitare il ricordo di I Corinzi, XV : Ago­stino pensa a difendere e giustificare razionalmente la resurrezione dei corpi ; nel che si manifestano a un tempo, l’avversione al mani­cheismo, e un distacco dal neoplatonismo puro (27).

Il corpo è essenzialmente buono : mortale, certo, ma la morte stessa è soltanto pena del peccato commesso dai primi progenitori, dotati di libero arbitrio. Questa pena permane, e così il male si per­petua nel mondo, ma solo in quanto l’anima, risentendo l’influsso del corpo mortale, indulge e cede ad esso; però l’anima è capace di affrancarsi dal dominio dei sensi, sottomettendosi a Dio, e pre­parare la restituzione anche del corpo alla perfezione primitiva (28).

Un’ampia parte della trattazione è appunto destinata a chiarire che l’anima, rivolgendosi ai beni inferiori, si allontana da Dio, e in ciò appunto consiste il peccato, la cui origine è la superbia. Eppure amare chi solo può appagare le aspirazioni dell’anima stessa, non può essere difficile. Ritroviamo anche il ritratto del perfetto cristiano, come σπουδαίος ο γνωστικός Segue poi una serie di esortazioni. Dalla passione per i beni inferiori, vincendo la consuetudine cat­tiva che le resiste, l’animo può liberarsi mediante uno sforzo per seguire le virtù, e specialmente la temperanza. Esse sono tutte con­tenute nel precetto di amare Dio e il prossimo; e senza di esse è impossibile raggiungere la felicità. Dobbiamo quindi ammirare la Provvidenza di Dio onnipotente, creatore e conservatore dell’uni­verso, e dell’ordine che si ammira in ogni sua parte. Questo sviluppo costituisce la materia degli ultimi capitoli del libro, dedicato « multo infiormioribus... quam sunt illi qui unius summi Dei consubstantialem et incommutabilem Trinitatem... duorum Testamentorum auctorita­tem secuti venerantur et colunt eam credendo, sperando et diligendo. Hi enim non scintillantibus humanis ratiocinationibus, sed validis­simo et flagrantissimo caritatis igne purgantur » (29). Riappaiono qui due motivi antimanichei : in primo luogo, l’unità inscindibile delle due parti della Bibbia; in secondo, l’importanza attribuita alla fede. L’autorità non è proprio collocata al disopra della ragione, nel

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senso, che questa debba sottomettersi a quella, però il seguirla non è considerato come cosa propria di menti inferiori (30) : il che è senza dubbio interessante. Infatti, il razionalismo appare ora ad Agostino una caratteristica degli avversari. Del resto, egli ha già riconosciuto nel De magistro (31) che il credere, se anche non dà la conoscenza perfetta, è nondimeno utile. E appunto contro il razio­nalismo manicheo Agostino scrive ora, divenuto prete in Ippone Regio, il De utilitate credendi.

E ’ questa una delle opere in cui Agostino mette a profitto la sua esperienza personale, dandole un valore normativo, a uno scopo di edificazione ; ma non è senza importanza che ciò coincida con il sacerdozio. Ma su di lui influirono anche (e del resto sono stretta- mente connesse con lo scopo principale) il desiderio di combattere

manichei, che lo consideravano un transfuga e mostravano di com­patirlo, facendo apparire la sua conversione al cristianesimo come dovuta a un indebolimento delle sue capacità intellettuali ; e quello di provare non soltanto la sincerità della sua conversione, ma il modo in cui si era compiuta, affinchè tutti intendessero ch'egli non era indegno del suo ufficio ecclesiastico. Questa intenzione di Ago­stino, che si manifesta anche nell’insistenza con cui egli sottolinea che al manicheismo non ha mai dato un’adesione totale, si è purifi­cata dai motivi personali ; e il racconto ch’egli fa della sua conver­sione si trasforma in un invito ad Onorato, e ai lettori, di seguirlo per la medesima via. La realtà della sua vocazione è così dimostrata nel più nobile dei modi.

Perchè Agostino era divenuto manicheo? Precisamente per aver creduto di potersi affidare alla ragione, disconoscendo l’autorità. Ma in realtà questo non era stato che l’accettare l’autorità di alcuni maestri, la cui insipienza gli apparve chiara quando egli siesso ap­prese a impiegare la ragione. Il racconto che egli fa della sua vita interiore è pertanto straordinariamente interessante, anche perchè si ricollega a quelli che sono i motivi fondamentali dell’opera (32).

Se nel De vera religione contrassegno della religione vera è il monoteismo, qui, nel De utilitate credendi egli prende le mosse dal­l’anima : non vi è religione, e tanto meno vera, senza la credenza in un’anima immortale (33). Ma questa anima è soggetta ad errare, finché non abbia trovato la verità, cui tuttavia essa anela, anche se irretita nell’errore e come sommersa nella stoltezza. Naturale è dun-

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que il rivolgersi a maestri, e tra questi, professanti opinioni diverse, a coloro che hanno acquistato maggior fama e più largo seguito (34). N è c’è da vergognarsi per questo: bisogna distinguere il credulus dal credens. Ma è colpa grave insegnare la religione a un indegno, qu i fleto pectore accedit. La fiducia dunque è reciproca : come il maestro crede alla buona fede e alla capacità dello scolaro, questi dimostrerà la sua buona fede credendo al maestro. D ’altronde, dovremmo negare la religione a coloro che non sono capaci di per­venire alla - conoscenza del Vero? Non sarà meglio condurli grada­tamente ai misteri più alti? E che male verrà agli altri, agli intelli­genti, se da principio seguiranno la stessa via? (35). Ma agli stolti, sarà sempre meglio attenersi ai precetti dei saggi che governarsi da sè. E affinché lo stolto possa riconoscere il sapiente, ché da sè non potrebbe, ha provveduto Dio ; perciò per prima cosa la Chiesa cat­tolica inculca la fede. Essa è il primo passo verso la purificazione dell’anima, condizione indispensabile alla conoscenza del vero (36). La ragione non ha perduto dunque qui la sua preminenza ; ma Ago­stino riconosce la necessità di fare posto nella Chiesa a tutti, agli stolti non meno che ai sapienti. Cui la ragione fa difetto, abbia alme­no la fede : chi non arriva da sè alla sapienza, alla moralità e alla comprensione di Dio, troverà almeno la norma della propria con­dotta, e pertanto il mezzo per purificarsi e redimersi, nei precetti della Chiesa e nella regola della fede. E d ’altra parte questa puri­ficazione morale è necessaria a tutti. Vale la pena di rilevare che, da vero ecclesiastico, Agostino non ha più di mira un gruppo ari­stocratico e necessariamente ristretto di filosofi immersi nelle loro meditazioni, ma si preoccupa anche della massa degl’incolti, che pregano con umiltà.

Ma questa umiltà è necessaria anche ai sapienti. Agostino si ricorda di quanto era manicheo e polemizza contro i suoi antichi compagni di fede, che accusano 1’ Antico Testamente : coloro che credono di trovarvi contraddizioni, assurdità, immoralità non sono

•che degli stolti. I veri sapienti, sanno che la Scrittura Sacra deve essere interpretata allegoricamente. L ’interpretazione allegorica è necessaria per l’Antico Testamento, in quanto esso è la Legge, fatta per i servi (ma utile) ; il rapporto tra legge e grazia è da Ago­stino concepito analogamente a quello tra autorità e ragione. L’au­torità, insomma, dice sotto il velame dell'allegoria le stesse verità

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che la ragione scopre da sè : credere è mettersi sulle orme del sapiente, che ci mostrano la strada verso Dio. Il quale, nella sua somma indulgenza e liberalità, ci ha facilitato il compito, avvicinan­dosi a noi, mediante l’incarnazione. E quale autorità può essere più salutare e insegnarci meglio il modo di staccarsi dal mondo per rivolgere il nostro amore a Dio? Ché Dio abita nell’anima umana : ma per riconoscerlo, per accostarci alla verità ed essere sapiente, è necessario che l’anima sia pura (37).

La rivendicazione dell’autorità è dunque fondata ancora sugli stessi argomenti che si trovano nelle opere anteriori ; anzi, per certi rispetti, il De utilitate richiama i De moribus. L’immoralità è l’errore; Agostino dice ad Onorato ch’egli non cessa « gemitibus... vel etiam... fletibus Deum deprecare ut te ab erroris malo libe­ret » (38) : singolare parafrasi del Pater noster! Ma qui, ciò che interessa non è tanto che l’azione del Cristo sia considerata soprat­tutto come quella di un maestro, bensì il richiamo alla preghiera dominicale, e il manifestarsi di certe preoccupazioni proprie di un ecclesiastico.

Con il De utilitate credendi, presenta vari punti di contatto il De duabus animabus. Anche qui, Agostino riconosce di essere stato manicheo, ma attribuisce il suo errore prima di tutto, a inespe­rienza giovanile e alla facilità di essere sedotto da false immagini di bene ; poi all’orgoglio, pure caratteristicamente giovanile, lusingato dalle facili vittorie che la sua abilità di retore gli permetteva di riportare nelle discussioni con cristiani incolti. Anche qui, come nel De utilitate credendi, egli polemizza bensì con i manichei, ma pensa ai suoi amici rimasti tali, e li esorta e prega Dio perchè si conver­tano. E anche qui ritiene necessario, per intendere la Bibbia, rivolgersi ad interpreti autorizzati (39). L ’argomentazione è popo­lare, tutta fondata, in primo luogo, sulla differenza tra le cose sen­sibili e le spirituali : tra queste è la vita. Ora, le anime indubbia­mente vivono, onde non si possono attribuire se non all’autore della vita. Altro principio fondamentale di questo libro è che i <( vizi » non sono che « difetti ». Da che segue, che il peccare dipende dalla nostra volontà (40). E’ notevole, che più volte Ago­stino accenni alla necessità di una illuminazione divina per ben ragionare, anzi a una verità che è come scritta da Dio neH’anima di ciascuno, ma si riconosce solo qualora nella propria uno si

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prepari a leggere con sguardo purificato dall’umiltà (41). Ugual­mente interessante è che anche qui effetto del peccato originale è soltanto la trasformazione del corpo umano da immortale in mortale, onde deriva la difficoltà a tenersi lontani dalle cose sensibili e car­nali. Di questo peccato, dunque, gli uomini continuano a portare la pena (42), alle cui conseguenze nondimeno possono sottrarsi, riconoscendo il bene superiore e la giustizia e aderendovi con ferma volontà.

Il medesimo ordine di idee si ritrova nel secondo libro De libero arbitrio (43). L’indagine riprende al punto in cui era rimasta sospe­sa, al termine del primo dialogo (44) : perchè Dio ha detto all’uomo, col libero arbitrio, la possibilità di peccare ? Evodio non è ancora in grado di rispondere alle obiezioni dei manichei : egli crede, ma non comprende. Crede che il libero arbitrio sia stato dato all’uomo da Dio, il quale è giusto, e giusta cosa è che i cattivi siano puniti e i buoni premiati ; da Dio, dal quale proviene tutto ciò che è bene (cioè anche l’uomo, che volendo può vivere secondo giustizia). Ma con ciò, osserva Agostino, la questione è risolta : se infatti la li­bertà ci fosse stata data da Dio allo scopo di farci peccare, sarebbe ingiusto punirci (45). Senonchè Evodio risolleva subito il proble­ma con un’altra oomanda : perchè all’uomo non è stata data sol­tanto la volontà del bene ? Al che Agostino gli fa osservare, che non si può chiedere se Dio dovesse o no darci una cosa ; al con­trario, dal fatto che una cosa è buona, dobbiamo concludere ch’essa viene da Dio. Onde i tre oggetti della ricerca : se Dio esista ; §e da lui vengano tutti i beni; se il libero arbitrio sia un bene (46).

La dimostrazione di Dio si fonda sulla superiorità della ragione.I « sensi del corpo » infatti percepiscono ciascunp un singolo aspetto delle cose, mentre il « senso interno » giudica di loro tutti (46 bis). A questo punto si fermano le bestie; ma l’uomo possiede la ragione, la quale è superiore anche a tale senso interno che giudica delle sensazioni, perchè essa intende non solo se medesima, bensì la sapienza, che la trascende. Tuttavia, osserva Evodio, non basta dimostrare l’esistenza di un’entità superiore alla ragione : Dio si può chiamare solo l’Essere al quale nulla è superiore. Ma Agostino replica che gli basterà allora dimostrare l’esistenza di qualche cosa di eterno e immutabile, superiore alla ragione, e che questa scopre da sè : esso sarà Dio, o, ammesso che vi sia qualche cosa che tra­

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scenda anch’esso. Dio sarà quest’ultimo : comunque, Dio esiste (47). Nè importa qui ricercare che nessi esistano precisamente tra questa dimostrazione di Agostino e quella di S. Anseimo.

Possiamo distinguere gli oggetti che vengono percepiti solo individualmente, e ciò che viene sentito da tutti senza per questo subire alcuna mutazione. Ma ciò che veramente si mantiene iden­tico a se stesso, pur essendo percepito da tutti mediante la sola ra­gione, e che si mantiene tale, indipendentemente anche dal fatto di essere percepito o no, è la ratio et veritas numeri : a differenza da quanto si verifica nel mondo delle cose sensibili, sette e tre fanno e faranno sempre dieci (48). Ma ciò che costituisce i numeri è l’u­nità, che non è percepita dai sensi e non si trova nei corpi (49). Agostino esalta quindi l’importanza dei numeri come verità intelli­gibili : e del resto anche la Scrittura mette insieme sapientiam et numerum (50). Ma, la sapienza, è una? Molte sono le scuole filo­sofiche, e ognuna pretende di aver ragione ; ma tutte cercano ugual­mente il bene, un bene ; e quindi ricercano la sapienza, senza la quale non esiste beatitudine. Questa a sua volta consiste nel sommo bene, identico alla verità. Quanto al rapporto tra sapienza e nume­ro, Agostino lo dimostra con l’interpretazione allegorica di un passo della Scrittura e con un’immagine, che egli stesso riconosce non adeguata : ma, insomma, è un fatto che entrambi sono veri e im­mutabilmente tali (51). V’è dunque una verità assoluta, tale che non noi la giudichiamo, ma secondo essa giudichiamo le cose. E con ciò, la dimostrazione è compiuta. S’è trovato infatti qualche cosa di immutabile ed eterno, superiore alle nostre menti, e a cui nulla è superiore. Questo qualche cosa è la verità : dunque la verità è Dio. Qui è opportuno ricordare il dogma trinitario : il Padre è consustanziale al Figlio, al Logos. La sapienza è dunque il Cristo, è la verità che rende liberi coloro i quali a Cristo si mantengono fedeli (52).

11 male, il peccato, è dunque una deviazione intellettuale. Ma la verità, che intus docet, ci ammonisce di continuo; la sapienza, cioè il Logos divino, c’impone il ritorno a noi stessi. E ’ ben vero che noi siamo mutevoli nel corpo e nell’anima; ma tutto ciò che muta ha una sua forma, che riceve, ma non può dare a se stesso ; e poiché all’infuori di corpo e anima non esiste se non Dio, dob­

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biamo concludere che tutto è stato creato da Dio e che ogni cosa è governata dalla Provvidenza, autrice di tutti i beni (53).

Resta da dimostrare che il libero arbitrio sia un bene. Ma se tutto è da Dio, tutto è bene ; vi possono essere beni di cui si può usare male, ma che non per ciò cessano di essere tali. Beni dell’a- nimo di cui non si può fare .malo uso sono le virtù. Ora, come la ragione conosce sè stessa, così la volontà usa se medesima, può rivolgersi a Dio, aderire a lui (e in ciò consiste la beatitudine), e può rivolgersi ai beni mutevoli e inferiori. Ma questa scelta è volon­taria e quindi giustamente retribuita. Ma, se non procede da Dio, donde viene il moto della volontà per cui pecca? Per un momento, Agostino avverte il pericolo di Scadere nel manicheismo, e senteil bisogno di combatterlo. Il peccato è un « difetto », una diminu­zione di essere e dipende dall’uomo; ma, se cade, per risollevarsi l’uomo ha bisogno dell’aiuto di Dio. Questa affermazione, però, va intesa, ricordando che per Agostino, ora, il Cristo è quella Verità e quella Sapienza, la quale, anche per mezzo degli oggetti esteriori, ammonisce l’uomo a ritornare a sé stesso. Quindi le virtù sona in potere dell’uomo ; la « mano di Dio tesa dall’alto » censiste nel­l’illuminazione dell’intelletto. Dio agisce sull’uomo in quanto Egli è la Verità. E l’opera del Cristo è ancora soprattutto quella di un maestro. Ma al tempo stesso è evidente che Agostino vuole anche mostrare la necessità della fede, ed egli insiste sul valore dell 'aucto­ritas e della Chiesa (54). Tuttavia, si rende conto che non è giunto ancora ad una soluzione del problema che lo tormenta ; e rimanda Evodio (e con lui il lettore e, ciò che più importa, sé stesso) a un altro dialogo (55).

N O T E

(1) Mi riferisco — come è facile comprendere — particolarmente ad opere come il De doctrina christiana, il De Trinitate, il De consensu evan- gelistarum, il De Genesi ad litteram e anche il De civitate Dei, che pure, come è noto, fu suggerito all'autore da considerazioni di carattere polemico; cfr. Retractationes, II, 4 (30); 15 (41J: 16 (42]j 24 (50); 43 (69). Nulla più interes­sante che, fondandosi 6U questi e altri dati fomiti dallo stesso Agostino, l'an­dare investigando, per mezzo di una minuziosa analisi interna, le tracce dei vari momenti in cui furono composte le diverse parti di queste opere, o delle loro varie edizioni (v. p. ee.. per il De doctrina christiana, d. D. de Bruyne, in Rev. bénéd. XXX, 1913, p. 294 sgg.: tesi che si regge indipendentemente cte quella relativa all'J/α/α ver sio).

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(2) Sarebbe ingiusto non menzionare qui, anche a costo di ripetermi, l’opera del Marrou. Non tutte le eue conclusioni sono completamente con­formi a quelle cui i miei studi mi hanno condotto; ma spesso il disaccordo è più Che aHro apparente, questione di sfumature; si vedano, p. e., le eue oeservazioni circa il carattere poco sistematico della filosofia agostiniana, a pp. 183 e 193, o sulla tendenza di S. Agostino all’apostolato, p. 382. Alcuni punti, in cui dissento da lui, saranno segnalati via via. Ma probabilmente è proprio il non aver tenuto con-to dello sviluppo del pensiero agostiniano, ciò che forma il punto debole dello scritto del Marrou; alle cui ricerche sono venute ora ad aggiungerei quelle del Courcelle, o. c., pp. 153-182.

(3) De v. religione, 1; 4; 6; 7: Socrate e Platone «paucis mutatis verbis atque sententiis christiani fierent (cfr. c. I, η. 13) sicut plerique recentiorum nostrorumque temporum platonici fecerunt ». Agostino ha in mente senza dub­bio Mario Vittorino e Manlio Teodoro. Cfr. però anche De d v . Dei, XXII, 27; «Singula quaedam dixerunt Plato atque Porphyrius, quae si inter ee com­municare potuiesent, faoti eesent fortaise christiani ».

(4) De v. relig., 21-44, specialmente 27 « Usque adeo peccatum volun­tarium est malum, ut militi modo sit peccatum, si non sit voluntarium... Po­stremo, si non voluntaie male iacimus, nemo obiurgandus est omnino aut monendus, quibus sublatis christiana lex et disciplina omnis religionis aufe­ratur necesse est... Et quoniam peccari non dubium est, ne hoc quidem dubi­tandum video, habere homines liberum voluntatis arbitrium. Tales enim ser­vos suos meliores esse Deus iudicavit, si ei libenter servivent »; 29: Quod vero corpus hominis... post peccatum factum <e&l imbecillosum et morti desti­natum, quamquam iusta vindicta peccati sit, plus tamen clementiae Domini quam severitatis ostendit. Iba enim nobis suadetur a corporis voluptatibus ad aeternam essentiam veritatis amorem itostrum oportere converti; 39: vitium ergo animae est quod fecit et difficultas ex vitio poena est quam patitur; et hoc est totum malum. Facere autem et pati non est substantia; quapropter substantia non est malum.

(5) De v. rei, 13; 14: « illa omnia, quae primo credidimus, nihil nisi au­ctoritatem secuti, partim sic intelliguntur, ut videamus esse certissima, partim sic, ut videamus fieri posse atque ita fieri oportuisse ». A questo ultimo gruppo appartengono l'incarnazione, la Passione, la Morte e Resurrezione di Crieto. Inoltre, 45-47; 51-52.

(6) D. v. rei, 48 sgg., specie 50: « Sicut autem isti ambo nullo dubitante ita sunt, ut unum eorum, id est veterem atque terrenum, possit in hac tota. vil\a unus homo agere, novum verum et caelestem nemo in hac vita possit nisi cum ve tere — nam et ab ipso incipiat necesse est — et usque ad visibilem mortem cum illo, quamvis eo deficiente, se proficiente, perduret; sic pro­portione universum genus humanum, cuius tamquam unius hominis vita est ab Adam usque ad finem huius saeculi; ita sub divinae providentiae 1 g bus administratur, ut Jn duo genera distributum appareat. Quorum in uno est turba impiorum, terreni hominis imaginem ab initio saeculi usque ad finem gerentium; in altero series populi uni Deo dediti »; 73-74: « Ιία renascitur inte­rior homo et exterior corrumpitur de die in diem. Sed interior exteriorem re­spicit et in sua comparatione foedum videt, in proprio tamen genere pul- erum...»; 77: «Corrumpitur autem homo exterior aut profectu interioris aut defectu suo. Sed profectu interioris ita corrumpitur ut totus in melius re­formetur et r e s t-i t u a t u r i n i n t e g r u m in novissima tuba, ut iam

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non corrumpatur neque corrumpat. Delectu autem suo in pulchritudines cor­ruptibiliores, id est poenarum ordinent, praecipitatur. Nec miremur quod adhuc pulcritudinem nomino; nihil enim est ordinatum quod non sit pulchrum.

Nel passo dei c. 50 la distinzione è tra il popolo d'Israele, e l’Israele spirituale suo successore da un lato, dall’altro la massa dei pagani: bisogna quindi resistere alla tentazione di vedervi come un'anticipazione dell’idea delle « due città ».

(7) De v. rei., 29; 51; 54; 55: Porro ip&a vera aequalitas ac similitudo, atque ipsa vera et prima unitas, non oculis carneis neque ullo tali sensui, sed mente intellecta conspicitur (cfr. Rom., I, 20); 56.

(8) De v. rei., 57-59 (cfr. per legge terrena e l'eterna, 58).(9) De v. rei, 101: Quid est autem unde homo commemorari non possit

ac virtuites capessendas, quando de ipsis vitiis potest?; 103: coloro che « iines ipsos desiderant, prius curiositate carent, cognoscentes eam esse certam co- gniiionem q u a e i n t u s e s t » (cfr. note 10 e 46).

(10) De v. r e i , 73; 72: Quid igitur' restai, unde non possit anima recor­dari primam pulcritudinem quam reliquit, quando de ipsis suis vitiis potest? (cfr. 101: cit. alia n. 9);... Ita illa boruXas a summo usque ad extremum nulli pul·· critudini, quae ab ipso solo esse posset, invidit, ut nemo ab ipsa veritate deicia- tur, qui non excipiatur ab aliqua etiigie veritatis. Quaere in corporis voluptate quid teneat, nihil aliud invenies quam convenientiam; nam si resistentia pa- riunt dolorem, convenientia pariunt voluptatem. Recognosce igitrn quae sit summa convenientia; noli ioras ire, in t e i p s u m r e d i , i n i n t e r i o . r e h o m i n e h a b i t atL v e r i t a s ; e t si tuam naturam mutabilem inve­neris, transcende et te ipsum. Sed memento cum te transcendis, ratiocinantem animam te trascendere: illuc ergo tende, unde ipsum lumen rationis accendi­tur. Quo enim pervenit omnis bonus ratiocinator, nisi ad veritatem? Cum ad se ipsam veritas non utique ratiocinando perveniat, sed quod ratiocinantes vppe- tunt ipsa sit. Vide ibi convenientiam qua superior esse non possit, et ipse con­veni cum ea.

(11) Cfr. Joh. I, 9 e, per l'allusione al manicheismo, De Gen. c. man. I, 6.(12) De v. rei., 91: Quamquam temporalia non diligat, ipse recte utitur tem

poralibus, et pro eorum sorte hominibus consulit, si aequaliter non potest om­nibus... Tractat enim tempori deditos tanto melius, quanto minus ipse obdigatus est tempori. Cum itaque omnibus, quos pariter diligit, prodesse non possit, nisi coniunctioribus prodesse malit iniustua est. Animi autem conkinctio maior est quam locorum aut temporum quibus in hoc corpore gignimur, sed ea ma­xima est quae omnibus praevalet. Non ergo iste affligitur morte cuiusquam, quoniam qui toto <jwmo Deum diligit, novit nec sibi perire quod Deo non perit; 92: In omnibus autem officiosis laboribus, falurae quietis certa exspectatione, non frangitur.

(13) Cfr. le osservazioni di E. Bréhier, Histoire de la philosophie, I, 2, p, 506 sg. (Parigi 1934).

(14) / Cor., Ili, 2.(15) De v. rei, 93: Quem ergo delectat libertas, ab c/more mutabilium

renun liber esse appetat; et quem regnare delectat, unj omnium regnatori Deo subditus haereat, plus eum diligendo quam seipsum. Et haec est per­lecta iustitia, qua potius potiora et minus minora diligimus ; 45; 51.

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(16) De v. rei., 8; 9: possit enim eos — scismatici — area dominica usque ad tempus ultimae ventilationis veJut paleas sustinere, nisi vento superbito# nimia levita te qesstesent; 10: la chiesa cattolica per totum orbem valide lateque diffusa... carnales suos... tamquam paleas tolerat... Sed quia in hac area pro voluntate quisque ve l palea ve l frumentum est, tamdiu sustinetur peccatum aut error cuiuslibet, donec aut accusatorem inveniat, aut pravam opinionem pertinaci animositate defendat; 50. Circa gli ofiti, cfr. De Gen. c. rrum., 39.

(17) Matt.. XIII, 31 etc.(18) Y. oltre, cap. III.(19) De v. rei. 11; 15: l'eresia è utile ad verum quaerendum carnales et

ad verum aperiendum spiritales catholicos excitandb.(20) De v. rei., 32: Tota itaque vita eius in terris per hominem quem su­

scipere dignilus est, d i s c i p l i n a m o r u m fuit. Resurrectio vero eius ... nihil hominis perire naturae, cum omnia salva sunt Deo, satis indicavit et quemadmodum cuncta serviant Creatori suo, stive ad vindictam peccatorum, sjve ad hominis liberationem, quamque facile corpus animae servicot, cum ipsa subicitur Deo.

La stessa osservazione fa Plinval, a proposito di Pelagio (o. c., p. 79).(21) Gfr. De quant. an., 76; 79; 80. Tuttavia, in De Gen. c. man., I, 41

la settima età comincià col Giudizio; οίτ. II, 43, dove afferma «nullum malum esse naturale, sed omnes naturae bonas esse... in quantum sunt... sed distin­ctionis gradibus ordinatas ».

(22) Cfr. E. Bréhier, o. c.r p. 461 eg.(23) De v. rei., 113.(24) Alcuni capitoli de. De v. rei., p. e. 36, non sono che commento al

Genesi.(25) Retract. I, 5 (6); cfr. Marrou, o. c., App. C. pp. 570-579.(26) Il problema della composizione del 1. VI De musica è stato risolle­

vato da Marrou (o. c., p. 580 sgg.), il quale osserva che vi sono tra questo e i primi cinque, differenze di tono e di idee, che non si possono spiegare soltanto invocando la diversità della materia. Il 1. VI è più filosofico, più religioso, pdu ecctesiastico; p. e., mentre nei primi cinque ei citano versi «di autori pagani, qui l'unico verso studialo è di Sant'Ambrogio, e di contenuto ieligioso: Deus creator omnium; inoltre nel 1. VI vi sono numerose citazioni bibliche, che man­cano negli altri; in terzo luogo, Agostino nel 1. I parla della musica come di una scienza nobile e bella, mentre nel VI la disprezza come cosa vana e pue­rile,· infine, appare evidente in quest'ultimo la preoccupazione di non scanda­lizzare le anime semplici, di ricordare loro che ciò che importa è la carità, per cui sono eupsriori ai dotti imbevuti di cultura umana. Esaminata quindi la testimonianza di Retract., I, 5 (6) « eodem sex libros iam baptizatus iamque ex Italia regressus in Africani scripsi; incoaveram quippe tantummodo ietam apud Mediolanium disciplinam», trova che essa costringe a collocare la com­posizione del liibro VI verso la fine del 387 o poco dopo, « car il est difficile de supposer qu'Augustin ait pu encore s'occuper du De musica après son or- dination (printemps 391) ». L'intervallo è quindi troppo breve per giustificare tali differenze; e anche quelle che esistono tra il 1. VI De musica e il De vera religione. La soluzione si troverebbe quindi neìì'Epistola CI, del 408-09, con

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la quale Agostino accompagna l’invio a Memorio di un esemplare del solo VI libro, « quem emendatum repperi » in luogo di tutti e sei, « quos emendaturum me esse promiseram », ma non potè farlo, perchè troppo occupato. Agostino avrebbe dunque riveduto e corretto il 1. VI prima del 408: il che lascia tutto il tempo necessario per giustificare il cambiamento di tono osservalo. Ma, quanto alle modificazioni introdotte in questa « seconda edizione », il Marrou non sa essere preciso; e si limita all'ipotesi che il riferimento possa essere consistito nell’aggiunta del cap. 1, (che·è forse quello in cui « s ’affirment le

. plus brutalement les traits caractéristiques de la mentalité ecclésiastique ») e, forse, della conclusione, 17 (59).

Ma in realtà le differenze non sono poi tanto grandi. Per ciò ohe riguarda le citazioni bibliche, lo stesso fenomeno si osserva, quasi nelle stesse propor­zioni (e conviene considerare anche la materia trattata) nei vari libri De libero arbitrio; e quelle di De mus. VI non sono più numerose, nè in senso assoluto nè in senso relativo, di quelle che si leggono in altri scritti anteriori all'ordi­nazione sacerdotale di Agostino: De moribus Ecclesiae Catholicae, de Genesi c. manichaeos, De vera religione. II diverso modo di considerare la musica, si spiega, quando si tenga presente il concetto, tante voflte espresso e commen­tato da Agostino nelle opere di questo periodo: tutte le cose sono buone, ma ciascuna nel suo ordine. Di modo che la musica può essere presentata al tempo stesso come nobile ed elevata per chi è all’inizio della propria elevazione spi­rituale, e come vana e puerile per chi si sia già innalzato fino al sapere filo­sofico. La cura di non offendere le anime eempHci si ritrova pure in altre opere antediori al 391. Resta il tono generale, religioso o « ecclesiastico » che, secondo Marrou, si trova condensato nel cap. 1. Soppresso questo, « le livre VI parait bien plus en harmonie avec les précédente: le ton religieux y est moins apparent; il ne eaffirme que de facon progressive à mesure qu'on avance et qui est conforme au projet d'Augustin d aiJer a corporeis ad incorporalia ». Ma non dovrebbe sorprendere di trovare affermato con maggior forza il punto di vista e il proposito dell'autore nel preambolo del libro, lo scopo del quale è annunciato già alla fine del libro precedente. E d’altra parte, circa il tono e la finalità dei primi cinque libri, è proprio il Marrou che (p. 302 sgg. e 307) ha fatto notare che in quel procedimento per corporalia ad incorporalia rien­trano anche tutti quegli sviluppi tecnici, i quali servono come una specie di al­lenamento, di ginnastica preparatoria: exercitatio animi. E’ dunque abbastanza naturale che, nei pjimi 5 libri siano citati poeti pagani e eolo nel sesto un au­tore cristiano, con un verso di contenuto filosofico, che il libro stesso si pro­pone di chiarire.

Ma vi è di più. Marrou pensa che la « seconda edizione » non possa essere stata fatta da Agostino ee non dopo il 391. Ma allora, ci si può doman. dare per che ragione, dedicando nelle Retractationes una notizia speciale al 1 VI De musica, Agostino l'abbia collocata prima di quella destinata al De utilitate credendi (I, 13 [14]), nella quale l’indicazione che Agoetino la scrisse apud Hipponem Regium presbyter ha per scopo evidente di segnalare che si tratta della prima opera di lui, posteriore al sacerdozio. Che se poi, si volesse supporre una revisione compiuta dopo la consacrazione epi­scopale, allora, come apparirà da tutto il presente studio, le differenze tra il VI e i libri precedenti dovrebbero essere ben più gravi.

Ma esaminiamo ora YEp. CI. Il vescovo Memorio ha chiesto ad Agostinoi libri De musica , e questi gli ha promesso di correggerli e mandarglieli (1; ed.

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Goldbacher, C. S. E. L. XXXIII, p. 539); ma non ha potuto tener fede alla pro­messa, a causa delle molte occupazioni. E fa la storia della loro composi- zione: initio nostri otii... volui per ista, quae a nobis desiderasti, scripta pro­ludere, quando conscripsi de solo rhythmo sex libros et de mele ecribere alios forsitan sex, fateor, disponebam, cum mihi otium futurum sperabam. Sed poetea quam mihi curarum ecclestiasticarum sarcina imposita est, omnee illae deliciae fugere de manibus, ita ut nunc vix ipsum codicem inveniam... Sextum eane librum, quem emendatum repperi, ubi est omnis fiuctus'caeterorum, non distuli mittere caritati tuae» (3 e 4, ibid. p. 542). Dunque, la redazione dei eei libri è tutta anteriore al sacerdozio. Ma intanto, Agostino espone il s»uo modo di pensare presente, da vescovo: tutti questi studi, la cultura pagana e le disci­plinae, eccetto forse la storia, non valgono nulla, se non in quanto mezzo per la formazione di una cultura cristiana e nell’amibito di questa: « per eum (Fi­lium) namque praestatur, ut ipsae etiam, quae liberales disciplinae ab eis, qui in libertatem vocati non sunt (cfr. Gal., V, 13) appellamtur, quid in ee habeant liberale, noscatur ». E’ chiaro, che quei primi cinque libri ormai non rispon­dono più a questo punto di vista, e dunque non meritano di esser letti: « su­periores quinque vix filio nostro et condiacono luliano... digni lectione vel cognitione videbuntur» (2 e 4 ibid. pp. 540 e 542).

Agostino si è trovato in una situazione un po’ delicata: un vescovo gli ha manifestato il desiderio di leggere il De musica, opera di gioventù e della quale non è soddisfatto. Dapprima pensa di rivederla; ma glie ne manca il tempo. Non ricorda bene quando la scriese e ha l'impressione di aver com­posto i 6 libri tutti insieme. Ma il VI gli appare, in confronto degli altri, tol­lerabile; parò essere inviato a un vescovo. Dunque, dice Agostino, sarà etaito riveduto.

Quando però nel 427 Agostino si mise di proposito a ripercorrere con là mente tutta la sua carriera di scrittore, la memoria lo aiu/tò meglio; e tut­tavia, accanto al ricordo della redazione del De musica in due momenti di­stinti, agì su lui anche l’altro, della composizione in una volita sola, ricordo tenuto desto probabilmente — se possiamo argomentare dall'analogia con altri casi simili — dalla stessa Ep. CI. Da ciò le due notizie delle Retractationes. Nella seconda delle quali riappare anche l'idea che « ipse sextus maxime in­notuit, quoniam res in eo cognitione digna versatur ». E dunque tanto più strano, che Agostino, occupandosi due volite di questo libro, non menzioni mai di averne fatto una revisione tale, da meritare veramente il nome di « seconda edizione ».

Ciò non esclude tuttavia una possibilità, che forse un esame dei mano­scritti potrebbe mettere in chiaro: e cioè, che nel trascrivere il 1. VI per in­viarlo a Memorio, egli vi intioducesse qua e là qualche modificazione lieve, di cui potrebbe essersi conservata traccia nella tradizione. D'altra parte, le somiglianze con il De vera religione, il De magistro e il secondo libro De li­bero arbitrio sono tali, da obbligarmi a respingere l'ipotesi che il sesito libro del De musica abbia potuto essere redatto, o riveduto a fondo, molto dopo il 391. E lo stesso Marrou finisce con l’essere della stessa opinione. In conclu­sione, quindi, non vedo che vi siano ragioni sufficienti per rigati are l'assegna­zione dei primi cinque libri al 387-88 e del eesto al 390-91. Lo spazio di tempo intercorso è tale, da dar ragione delle differenze, e per di più questa datazione è ia più conforme ai dati forniti dalle Retractationes, della cui esattezza non vi è ragione di dubitare, come confermano anche ricerche recenti.

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Ho già indicato più eopra che il fine e il carattere filosofico del 1. VI è annunciato chiaramente dalla conclusione del 1. V. Ecco il testo (De mus., V, 28): « Sed iam si nihil habee quod contradicas, finis sit huius disputa­tionis, ut deinceps quod ad hanc partem musicae attinet quae in numerie tem­porum est, ab his vestigiis eius sensibilibus ad ipea cubilia, ubi ab omni cor­pore aliena est, quanta valemus 6agacitate veniamus ». Anche dopo le analisi di cui sono etati oggetto quei primi cinque libri, è opportuno segnalare le riflessioni intorno all unità in V, 13. Per quanto riguarda la superiorità della ratio sull'auctoritas, è interessante osservare que, eebbene la realizzazione sia alquanto imperfetta (cfr. le giuete osservazioni di Marrou, p. 309 sgg.). Ago­etino, nel dialogo tra maestro e discepolo, s>i sforza di procedere secondo la tradizione e di far sì che l’alunno venga scoprendo il vero da sè: cfr. Ili, 5 e 19: « M. Sed iam mihi dicas velim, utrum his quae dicta sunt cognitis dssentiaris. — D. Cognovi et assentioa*. M. Mihiine credene, an per te ipse vera esse perepiciens? — D. Per me ipse sane, quamvis dicente te vera haec esse cognosco ». Si ofr. inoltre i versi in IV, 4 sgg., p. ee.: « Beatus est bonus, fruens enim est Deo »; « Malus miser, eed ipse poena fit sua ».

(27) Ad Agoetino non sfuggiva che la conciliazione tra filosofia e cri- stianeeimo esigeva alcune correzioni, anche se non molte, al eistema neo- platonico (cfr. De v. re i , 7, cit. alla n. 3); ma a giudizio dei neoplatonici pa­gani, come Ma-seimo di Madaura (Epist. ad Awg. XVI, 4) egli si era già allon­tanato dalla loro scuola.

(28) De musica, VI, 7: Mirare potius quod aliquid in anima corpus po­test. Hoc enim fortasse non posset, si non peccato primo corpus illud quod nulla molestia et summa facilitate animabat et gubernabat, in deterius commu­tatum et corruptioni subiaceret et morti: quod tamen habet eui generis puJ- critudinem et eo ipso dignitatem animae satis commendat, cuius nec plaga nec morbus sine honore alicuius decoris meruit esse. Quam plaga-m summa Dei Sapientia mirabili et ineffabili sacramento dignata est adsumere, cum hominem sine peccato, non sine peccatoris conditione euscepit. Nam et nasci humanitus et pati et mori voluit; nihil horum merito sed excellentissima bonitate, uit nos caveremus magie superbiam qua dignissime in ista cecidimus, quam contume­liae, quas indignus excepit, et animo aequo mortem debitam solveremus, si propter noe potuit etiam indebitam suetinere... anima vero istis quae per corpus accipit carendo fit melior, cum sese avertit a carnalibus sensibus et divinis sa­pientiae numeris reformatur» (cfr. Eccl. VII, 26); 13: Conversa ergo a Domino suo ed servum suum necessario deficit converea item a servo suo ad Dominum suum necessario proficit et praebet eidem servo facillimam vitam et prcpiterea minime operosam et negotiosam ad quam propter summam quietem nulla de­torqueatur attentio ... Haec autem sanitas tum firmiesima erit atque certis­sima cum pristinae stabilitati certo suo tempore atque ordine hoc corpus fuerit resti/tutum, quae resurrectio eius ante quam pienissime intelligatur salubriter creditur. Oportet enim arVmam et regi a superiore et regere inferiorem. Supe­rior illa solus Deus est, inferius illa solum corpus, si ad omnem et totam ani­mam intendas... Quare intenta in Dominum intell-get aeterna eius et magis est, magisque est etiam ipse eervus in euo genere per illam Neglecto autem Do­mino inlenta in servum, carnali qua dicitur cincupiscentia sentit motue euoe quos ille exhibet et minus es't; 14: « Convertenti autem se ad Dominum, maior cura oritur ne avertatur: donec carnalium negotiorum requiescat impetus, effre­

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natus consuetudine diuturna et tumultuosis recordationibus conversioni eiue eese inserens; ita, eeddtie motibus euis quibus in exteriora provehebatur, agit otium intrinsecus liberum, quod significatur sabbato; sic cognoscit eolum Deum esse dominum suum cui uni eumma libertate servitur. Non autem illos carnales motue ut cum libet exserit, ita enim cum libet extinguit. Non enim sicut pecca­tum in eius potestate est, ita etiam poena peccati. Magna quidem res ©st ipsa anima, nec ad opprimendos lascivoe motus suos idonea sibi remanet. Valentior enim peccat, et post peccatum divina lege facta imbecillior minue potens est au­ferre quod facit; cfr. la citazione di Rom. VII, 24; 29: Quae vero euperiora sunt, nisi illa in quibus summa inconcussa immutabilis aeterna manet aequalitas?; 30: Ita peccantem hominem ordinavit Deus turpem non turpiter. Turpis enim factus es>t voluntate universum amittendo quod Dei praeceptis obtemperans poe>- sidebat et ordinatus in parte est ut qui legem agere noluit, a lege agatur. Quidquid autem legitime, utique iuste, et quidquid iuste non utique turpiter agitur,- quia et in malis operibus noetris opera Dei bona sunt »; 33: in questa condizione l'uomo rimane fino alla resurrezione, in conseguenza della pena sta­bilita dalla legge giustissima di Dio: « In qua tamen noe non ita deseruit, ut aon valeamue recurrere et a carnalium sensuum delectatione, m i s e r i c o r d i a e i u s m a n u m p o r r i g e n t e , revocari. Talis enim delectatio vehementer infigit memoriae quod trahit a lubricis sensibus » — e così domina 1'anima, indu_ cendoia a seguire i phantasmata scambiati per la verità (cfr. 32). « Haec autem animae consuetudo facta cum carne, propter carnalem affectionem, in scriptu­ris divinis caro nominatur. Haec menti obluctatur (Rom. VII, 25)... Sed in spiritalia mente suspensa atque ibi fixa et manente etiam huius consuetudinis impetus frangitur et paulatim repressus extinguitur. Maior enim erat cum sequeremur; non tam^n omnino nullus, eed certe minor, est cum eum refrena­mus atque ita certis Kegreeeibais ab omni lasciviente motu, in quo defectus essentiae est animae, delectatione in rationis numeros restituta, ad Deum tota vita nostra convertitur, dans corpori numeros eanitatis, non accipiens inde laetitiam: quod corrupto exteriore homine et eius in melius commu­tatione continget; 44: Haeccine (le cose tei rene) amare facile est animae, in quibus nihil nisi aecnialitatem ac similitudinem appetit, et paulo diligen­tius considerans vix eiue extremam umbram vestigiumque cognoscit; et Deum amare difficile est, quem in quantum potest, adhuc eaucia et eordida cogitans, nihil in eo inaequale, nihil sua dissimile, nihil disclusum locis, nihil variatum tempore suspicatur?... laboriosior est huius mundi amor. Quod enim in illo anima quaerit, constantiam scilicet aetemitatemque non invenit...; 45; 46: Non igitur numeri qui sunt infra rationem et in suo genere pulchri sunt, sed amor inferioris pulchritudinis animam polluit: quae cum in illa non modo aequalitatem... eed etiam ordinem diligat, amittit ipsa ordinem suum, nec tamen excessit ordinem rerum... Aliud enim est tenere ordinem, aliud ordine teneri. Tenet ordinem, se ipsa tota diligens quod supra ee est, id est Deum, socias autem animas tamquas se ipsam (cfr. 43: la Scrttura insegna ad amare Dio e il prossimo,· 40 e 54: 1'origkie dei peccato è la superbia)... Quod autem illa sordidat non est malum, quia etiam corpus creatura Dei est (ecco, ancora una volta, un motivo animanicheo; cfr. anche 57, a proposto della creazione) et specie eua quamvis infima decoratur, 6ed prae animae dignitate contem­nitur... A dilectione autem proximi tanta quanta praecipitur certiesimus gra­dus fit nobie ut inhaereamus Deo et non teneamur tantum ordinatione illius, sed nostrum etiam ordinem inconcussum certumque teneamus ». V. in generaie

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47-53. Si osservino inoltre le citazioni bibliche e specialmente le allusioni alla resurrezione, attraverso i riferimenti a Rom. Vili, 11; / Cor. XIII, 12 e XV, 54.

(29) De mus. VI, 59, cfr. 1.(30) Cfr. De mus. Ili, 30 e VI, 13 (cit. alla n. 28) e anche 52.(31) De mag., 37 e 40 (c. I n. 40) e anche De quantit. an. 17 e 76.(32) De util. cred., 2: Nosti enim, Honorate, non àliam ob causam nos in

tales homines incidisse nisi quod se dicebant terribili auctoritate separata mera et simplici ratione eoe, qui se audire vellent, introducturos ad Deum et errore omni liberaturoe. Quid enim me aliud cogebat annos fere novem, spreta religione quae mihi puerulo a parentibus insita erat, homines illos sequi ac diligenter audire, nisi quod nos 6uper6titione terreri et fidem nobie ante rationem imperari dicerent, se autem nullum premere ad fidem nisi prius discussa et enodata veritate,.. Sed quae rursum ratio revocabat, ne apud eos penitus haererem, ut me in ilio gradu quem vocant « auditorem » tenerem, ut huius mundi spem atque negotia non dimitterem, nisi quod ipsos quoque animadvertebam plus in refellendis aliis disertos et copiosoe esse, quam in suis probandie firmes et certos manere? 3: Cessino i manichei di dire che la luce mi ha abbandonato. Che luce era in me « cum vitae huius mundi eram implicatus, tenebrosam spem gerens de pulcritudine uxoris, de pompa divitiarum, de inanllate honorum ceterisque noxiis et perniciosis voluptati­busÌ Haec enim omnia, quod te non latet, cum studiose illos audirem, cuipere et sperare non desistebam. Neque hoc eorum doctrinae tribuo ». 20: « Ut enim a vobie trans mar^ abscessi, iam cunctabundus atque haesitans, quid mihi tenendum, quid dimittendum esset — quae mihi cunctatio in dies maior oboriebatur, ex quo illum hominem, cuius nobis adventus, ut nosti, ad explicanda omnia quae nos movebant quasi de caeio promittebatur, audivi, eumque excepta quadam eloquentia talem qualem ceteros eese cognovi — lationem ipse mecum habui magnamque deliberationem iam in Italia con­stitutus, non utrum manerem in illa secta in quam me incidisse paenitebat, sed quonam modo verum inveniendum esset, in cuius amorem euspiria mea nulli melius quam tibi nota sunt. Saepe mihi videbatur non posse inveniri magnique fluctus cogitationum mearum in academicorum suffragium fe­rebantur. Saepe rureus intuens, quantum poteram, mentem humanam tam vivacem, tam sagacem, tam perspicacem non putabam latere veritatem, nisi quod in ea quaerenda modus lateret, eundemque ipsum modum ab aliqua di­vina auctoritate esse sumendum. Restabat quaerere, quaenam illa esset au­ctoritas, cum in tantis dissensionibus se quisque illam traditurus polliceretur. Occurrebat igitur inexplicabilis silva, cui demum inseri multum pigebat: atque inter haec sine ulla requie cupiditate inveniendi veri animus agitabatur. Dis­suebam me tamen magis magisque ab istis, quos iam deserere praeposueram. Restabat autem aliud nihil in tantis periculis quam ut divinam providentiam lacrimosis et miserabilibus vocibus, ut opem mihi ferret, deprecarer. Atque id sedulo faciebam: et iam fere me commoverant nonnullae disputationes M e­diolanensis episcopi, ut non sine spe aliqua de ipso Vetere Testamento multa quaerere cuperem, quae, ut scis, male nobis commendata exeerabamur. Deere- veramque tamdiu esse catechumenus in ecclesia, cui traditus a parentibus eram, donec aut invenirem quod vellem aut mihi persuaderem non esse quae­rendum. Opportunissimum ergo me ac valde docilem tunc invenire posset, qui posset docere. Hoc ergo modo et simili animae tuae cura sit ».

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Questo racconto, specie se mesco a raffronto con quello del De beala vita, 1 e con le Confessioni, è tanto interessante, che nessun serio biografo e critico di Agostino ha potuto prescindere dal farne oggetto di esame. A me, sono sempre parsi notevoli questi fatti: 1. Agoetino insiste sul fatto che il crietianesimo gli venne inculcato fin daH’infanzia, da entrambi i genitori: non vi è cenno di una speciale influenza di Monnica, la quale non ha qui la funzione che aveva, viva, nel De beata vita, e non è ancora esaltata come nelle Confessioni; 2. la fase scettico-accademica di Agostino segue al suo distacco ideale dal manicheismo, ma non ancora alla sua rottura definitiva con questo; 3. non vi è nessuna menzione della lettura dell’Ho/fensius; 4. nep­pure vi sono menzionati i libri neoplatonici: in conseguenza di che, tutto U periodo del filosofare di Agostine si riduce appunto all·accademismo, e la conversione appare come un passaggio dal manicheismo, abbandonato gra­datamente, al cristianesimo; 5. in questa maniera di raffigurare la conver­sione di Agostino, acquista maggior risalto la figura di Sant'Ambrogio, da cui egli è stato indotto ad accettare l'Antico Testamento in virtù dell'inter­pretazione allegorica; 6. la ricerca del vero si identifica con quella di un’au­torità che guidi ad essa.

In confrorto con il De beata vita colpisce inoltre il non trovar men­zione di Manlio Teodoro, che nel De beata vita era ricordato accanto ad Ambrogio; ma è vero che anche di questo non si fa il nome. E' invece ricor­dato l’attaccamento di Agostino al mondo, però, a differenza dal De beata v i ta e dalle Confessioni, esso è presentato non quale causa di esitazioni a dedi­carsi al)a vita contemplativa, bensì come contemporaneo all'adesione al ma­nicheismo. Agostino dice esplicitamente che non la considera una conse­guenza del manicheismo, ma lascia intravedere che va imputato a questa dottrina falsa, la quale non è stata capace d’indurlo a compiere quella pu­rificazione spirituale, che nel cristianesimo gli è stata possibile ee non facile. Tutto ciò colpisce tanto più, quando consideriamo certe somiglianze anche formali: (p. e. la frase incidi in homines, De b. v . t 4; De util cred., 2; Confess. ITI, VI, 10: si direbbe che per certi avvenimenti della sua vita Agostino, abbia presto trovato l'espressione adeguata in una formula, che gli rimase impressa nella mente, e ricorse poi sempre).

Ma è anche evidente, che non ei può affermare, con ii Guitton (o. c., p. 253) che nel De utii. cred. Agostino « laisse de coté toute son hietoire morale, pour ne garder que l’histoire intellectuelle ». Direi piuttosto che l’ele­mento dottrinale e il morale sono ancora connessi, ma ij secondo è subordi­nato al primo, e considerato soltanto in funzione dell'« illuminazione » del­l’anima: che è un fatto intellettuale, e non di fede. Ma è ancora P*ù im­portante che il racconto in esame mostri, come dice lo stesso Guitton « quelle simpìification Augustin pourrait étre tenté de faire eubir à sa pensée, lorsqu’il veut démontrer qu'il est utile de croire»: insomma — e. credo, involontaria­mente — serve ad una tesi. Ora, Agostino ci dice altresì di aver concluso che non gli restava se non sperare nell’aiuto dellfi Provvidenza, e pregare. Ma questa preghiera parte da lui, è lui che ha deciso di farla e di continuare nella ricerca; ma il soccorso divino si limita a queeto: non vi è nessuna in­dicazione di un vero e proprio piano provvidenziale pfcr trarre Agostino alla fede; e, ripeto, Monnica non ha qui nessuna funzione. Più ancora che le dif- feienze materiali, conta, mi pare, il diverso atteggiamento spirituale. Certo non ei possono dimenticare i fini di questa operetta: attirare Onorato, impie­

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gando quegli argomenti che eono più suscettibili di far presa nell'animo suo, e dei suoi simili; e respingere le accuse dei manichei. Ma l'atteggiamento spirituale rivelatoci da questo racconto, e differentissimo da quello delle Confessioni, si spiega completamente solo mettendolo in relazione con le dottrine esposte nel resto del De util. cred.: l’armonia tra le varie parti è completa.

(33) De util. cred., 14: Nemo dubitat eum , qui vem m religionem requi­rit, aut Iam credere immontalem esse animam, coi prosit illa religio, aut etiam id ipsum in eadem religione ve lle invenire... Animae igitur causa ve l sollus ve] maxime, vera, si qua est, re l ig h constituta est ».

(34) De util. cred., 15: Fac nos repperisse alios aliud opinantes et di­versitate opinionum ad se quemque trahere cupicntes. Sed inter has fexce1- lere famae interim celebritate quosdam a t q u e o m n i u m p a e n e o c · . c u p a t i o n e p o p u l o r u m . Utrum isti verum teneant, magna quaestio es t; sed nonne prius sunt exptorandi ut, quamdiu erramus, siquidem homines sumus, cum ipso genere humano errare videamur? Che poi le chiese eiano frequentate anche da moltissimi imperiti, non è un buon argomento (16). Ti­midamente, ed espresso in modo ancora imperfetto, collegato con il concetto del consenso universale, fa qui capolino l'argomento dell'universalità della Chiesa.

(35) De util. cred., 22-25.(36) De U d ì . cred., 27: Nemini dubium homines taut stultos aut sa­

pientes esse. Nunc autem sapientes voco non cordatos et ingeniosos homines, sed eos, quibus inest, quanta in&sse homini potest, ipsius hominis Deique fir­missime percepta cognitio atque huic cognitioni v ita moresque congruentes... Quis mediocriter intellegens non plane viderit stultis utilius atque salubrius esse praecepth obtemperare sapientium quam suo iudicio vitam degere?... Porro recta salio est ipsa virtus. Cui autem hominum virtus nisi sapientis animo prae­sto est? Solus igitur sapiens non peccat. Stultus ergo omnis peccat, nisi in iis iactis, in quibus sapienti obtemperaverit: a recta enim ratione talis facta pro­ficiscuntur; 29. Huic igitur tam immani difficultati (che lo stolto riconosca il sa­piente), quoniam de religione quaerimus, deus solus mederi potest: quem nisi et esse et humanis mentibus opitulari credimus, nec quaerere quidem ipsam veram religionem debemus (si cfr. il De vera religione)... Recte igitur catholicae disciplinae maiestate institutum est, ut accedentibus ad religionem fides persua­deatur ante omnia. Si noti, anche qui, l’apparire dell argomentazione ricavata dall'uso ecclesiastico.

(37) De util. cred., 4: Reprehendentes Manichaei catholicam fidem et ma­xime Vetus Testamentum discerpentes et dilaniantes commovent imperitos... Et quia sunt ibi quaedam quae suboffendant animos ignaros et neglegentes sui — quae maxima turba est — populariter accusari possunt: defendi au­tem populariter propter mysteria, quae his continentur, non a multis admodum possunl. — Perciò Agostino fissa (5-8; cfr. De Gen. c. Man., e De vera relia., 46 e 98-99; ma qui Agostino è molto più allegorista) le norme principali del­l'interpretazione allegorica: quella usata appunto da Ambrogio (cfr. 20 cit. a n. 32; 9: Nec illam legefn necessariam esse dicimus nisi eis, quibus est adhuc utilis servitus, ideoque utiliter esse latam, quod homines, qui revocari a pec­catis ratione non poterant, tali lege coercendi erant, poenarum scilicet ista­rum, quae videri ab stultis possunt, minis atque terroribus; a quibus gratia Christi cum liberat, non legem illam damnat, sed aliquando vos obtemperare

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suae charitati, non servire timori legis invitat. Ipsa est gratia, id est benefi­cium, quod non intelligunt sibi venisse divinitus qui adhuc esse cupiunt sub vinculis legis. Uuos merito Paulus obiurgat tamquam infideles, quia a servi- tute, cui cefiio tempore iustissima Dei dispositione <9ubiecti erant, iam per do­minum nostrum lesum se liberatos esse non credunt... In quibus tamen legis praeceptis atque mandatis... tanta mysteria continentur, ut omnis pius intelli- gat nihil esse perniciosius quam quicquid ibi est accipi ad litteram... Si os­servi come la lettura di S. Paolo non abbia ancora presentato ad Agostino i problemi teologici essenziati, che gli rivelerà poi. 31: Nam ego credere ante rationem, cum percipiendae rationi non sit idoneus , et ipsa fide animum exco­lere excipiendis seminibus veritatis non solum saluberrimum iudico, sed tale omnino sine quo aegris animis salus redire non poss it; 33: cum enim sapiens sit Deo ita mente coniunctus (cfr. 13: «Testar, Honorate . . . p u r i s a n i m i s i n h a b i t a n t e m D e u m »), ut nihil interponatur, quod separet — Deus enim esi veritas nec ullo pacto sapiens quisquam est, si non veritatem mente contin­gat — negare non possumus inter stultitiam hominis et sincerissimam Dei veritatem medium quiddam interpositam esse hominis sapientiam. 'Sapiens enim, quantum datum est, imitatur Deum: homini autem stulto ad imitandum salubriter nihil est homine sapiente propinquius... Cum igitur et homo esset imitandus et non in homine spes ponenda, quid potuit indulgentius e t libera­lius divinitus fieri, quam ut ipsa Dei sincero aeterna incommutabilfsque sa­pientia, cui nos haerere oportet, suscipere hominem dignaretur? 34: Haec est, crede, saluberrima auctoritas, haec prius mentis nostrae a terrena inhabitatione suspensio, haec in verum Deum ab huius mundi amore conversio. Sola est au­ctoritas, quae commovet stultos, ut ad sapientiam festinent... Sed id nunc ag i­tur, ut sapientes esse possimus, id est inhaerere veritati:: quod profecto sor­didus animus non potest. Sunt autem sordes animi... amor quarumlibet rerum praeter animum et Deum: a quibus sordibus quanto est quisque purgatior, tanto verum facilius intuetur... homini vero non valenti verum intueri, ut ad id fiat idoneus puigarique se sinat, auctoritas praesto est Cfr. anche l'esorta­zione finale ad Onorato, 36: Dio non è l'autore del male. Ciò che Agoetino ha imparato dai manichei, lo ritiene: ma presso i cattolici ha appreso « Deum... non esse corporeum, nullam eius partem corporeis oculis posse sentiri, nihil de substantia eius atque natura ullo modo esse violabile aut commutabile aut compositicium aut fictum ».

(38) De util. cred., 33.(39) De duabus animabus, 1: Multa enim erant, quae facere debui, ne tam

facile ac diebus paucis religionis verissimae semina mihi a pueritia salubriter insita (cfr. De ulil. cred., 2 cit. alia n. 32) errore ve l fraude falsorum fallacium- v e hominum effossa ex animo pellerentur; 11: Sed me duo quaedam maxi­me, quae incautam illam aetatem facile capiuntt per admirabiles adtrivere circuitus: quorum est unum familiaritas nescio quomodo repens quadam ima­gine bonitatis tamquam sinuosum aliquod vinculum multipliciter collo invo­lutum; alterum, quod quaedam noxia victoria paene mihi semper in disputa­tionibus proveniebat disserenti cum imperitis, sed tamen fidem suam certatim ut quisque posset defendere molientibus, christianis; 23-24; 9: hortarer... ho­mines... nihil nos iam quasi c o m p e r i l e praesumeremus, sed quaereremus p o ­tius magistros qui sententiarum istarum, quae nobis inter se pugnare videren­tur, pacem concordiamque monstrarent. Per un preannuncio di questo scritto, v. De v. relig., 17.

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(40) De duab. anim., 1: Nam primo animarum illa duo genera ... si m e- cum sobrie diligenterque considerassem mente in Deum supplici et pia, lo t ­tasse mihi satagenti apparuisset nullam esse qualemlibet v itam, quae non eo ipso quo vita est, &i in quantum omnino vita est, ad summum vitae fontem principiumque pertineat: quod nihil aliud quam summum et solum et verum Deum possumus confiteri. Quapropter illas animas, quae a manichaeis vocan­tur malae, aut carere vita et animas non esse neque quidquam velle seu nolle, appetere ve l fugere, aut si viverenl, ut et animae esse possent et aliquid tale agere quale illi opinarentur, nullo modo eas nisi vita v ive re ; at si Christum dixisse constaret, ut constat, « ego sum vita », nihil esse causae, cur non om­nes animas, cum animae nisi v ivendo esse non possint, per Christum, id est per vitam, creatas et conditas fateremur; 5; 7; 9: Nam et nos fortasse i m p l o ­r a t o i n a u x i l i o D e o , (cfr. n. 47) facile videre possemus aliud esse vivere, aliud peccare et quamquam vita in peccatis in comparatione iuslae v i ­tae mors appellata sit (/ Tim.'W, 6) utrumque tamen in homine uno posse inve­niri, ut simul sit v ivus atque peccator. Sed, quod vivus, ex Deo, quod peccator, non ex Deo... cum Dei conditoris omnipotentiam insinuare volumus, eliam pec­catoribus dicamus, quod ex Deo sint... cum autem malos arguere propositum est, recte dicimus non estis ex Deo. 10: Etenim anima quamvis sit immortalis, tamen, quia mors eius rite dicitur a Dei cognitione* aversio, cum se convertit ad Deum, meritum est aeternae vitae consequendae, ut si t aeterna vita, sicut dictum est, ipsa cognitio. Converti autem ad Deum nemo, nisi ab hoc mundó se averterit, potest; 14: Non igitur nisi voluntate peccatur... Definitur itaque hoc modo: v o ­luntas est animi motus cogente nullo ad aliquid ve l non amittendum ve l adi­piscendum; 15: Prius etiam peccatum definiamus, quod sine voluntate esse non posse o m n i s { n e n s a p u d \9 e d i v i n i t u s c o n s c ri p t u m l e g i t . Ergo peccatum est voluntas retinendi ve l consequendi quod iustitia ve ta t et unde liberum est abstinere; 19: ita enim nunc constituti sumus ut et per carnem voluptate adfici et per spiritum honestate possimus... Possumus enim melius et multo expeditius intellegere duo genera rerum bonarum, quo- ricjn tamen neutrum ab auctore Deo sit alienum, animam unam ex diversis adheere partibusf inferiore ac superiore, vel quod rccte ita dici potes t , exte­riore atque interiore. Ista sunt duo genera, quae sensibilium et intelligibilium nomine paulo ante tractavimus, quae carnalia et spiritalia libentius et familia­rius nos vocamus. Sed factum est nobis difficile a carnalibus abstinere, cum panis verissimus noster spiritalis sit. Cum labore namque nunc comedimus pa­nem. Neque enim nullo in supplicio sumus peccato transgressionis mortales ex immortalibus facti.

(41) De duab. anim. 16: quisquis secreta conscientiae euae legeeque divinas penitus naturae inditas apud animum intus, ubi expressiores certioree- que eunt, consulene...; cfr. i paesi nelle note 39 e 40.

(42) Qfr. il ρβββο del c. 19 riferito nella η. 40.(43) P. Alfaric (Vévolution intellectuelle de Saint Augustin, ParÌ6 1918,

484 sgg., note) ne ha segnalato minuzioeamente punti di contatto col De mu­sica; ma dell’uno e dell'altro ha alquanto anticipato e spezzettato, secondo a me pare, la composizione. Conviene considerare anche le eomigiianze con il De vera religione, segnalate dal Dòrriee, o. c.

Che sia così, è naturale, perchè l’intervallo di tempo fra queste opere è minimo. Per me, è 6Ìgnificativo che proprio con il De duabus animabus si ri­presentò ad Agostino il problema della libertà del volere.

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(44) V. il cap. precedente.(45) De lib. arb., II, 3: Si enim homo aliquod bonum esi, et non poteei

niei cum vellet recte facere, debuit habere liberam voluntatem, sine qua recte facere non poeset. Non enim quia per illam etiam peccatur, ad hoc eam Deum dedisse credendum est. Satis ergo caueae eet, cur dari debuerit, quoniam sine illa homo recte non poteet vivere.

(46) De lib. arb., II, 4-7. Da notare 4: Donabit quidem Deus, ut spero, ut tibi valeam respondere, vel potiue ut ipee tibi, eadem, quae summa om - rium magistra est , veritate inlus docente, reepondeae. Cfr. 38 e 41. De m ag., 38 e 40; De vera rei., 101 e 72; De uMl. cred., 33 e 15; De duab. anim., 15: citati rispettivamente nelle note 52 e 53; c. I, n. 40; c. II, nn. 10, 34, 37, 40.

(46 bis) A proposito dol «eenso interno» ei veda: R. Mondolfo, La te o ­ria del sentido interior en San Agustin y sus antecedentes griegos, in Insula (Buenos Aires). I (1943), num, 2.

(47) De lib. arb., II, 13-14 « Cum ergo eam naiuram quae tantum est n ec v iv i t nec intellegit praecedat ea natura, quae non tantum est sed etiam v i v i t nec intellegit, sicuti est anima bestiarum, et rursus hanc praecedat ea q u a e simul esi et v iv i t et intellegit, sicut in homine mens rationalis; num a rb i tra ­ris in nobis, id est, in his quibus natura nostra completur ut homines s im us, aliquid intveniri posse praestantius quam hoc quod in his tribus tertio lo co posuimus?... Quid? si aliquid invenire potuerimus, quod non solum esse non dubites, sed ipsa nostra ratione praestantius, dubilabisne illud, quidquid ets , Deum dicere?»} (Ev.): « No n enim mihi placet Deum appellare, quo mea ra tio est interior, sed quo nullus est super ior»; (Aug.): «Se d quaeso te, si non in ­veneris esse aliquid supra nostram ralionem, nisi quod aeternum atque in ­commutabile est, dubitabisne hunc Deum dicere?... (ratio) si nullo adhibito corporis instrumento... sed per se ipsam cernit aeternum aliquid et incom mu­tabile, simul et se ipsam inferiorem et illum oportet Deum suum esse fa tea ­tur... mihi satis erit ostendere esse aliquid huiusmodi, quod aut fateberis Deum esse, aut si aliquid supra est, eum ipsum Deum esse concedes. Quare sive supra sit aliquid sive non sit, manifestum erit Deum esse, cum ego qu od promisi esse supra rationem e o d e m i p s o a d f u v a n t e monstravero » cfr. De duab. anim., 9 n. 40: imploralo in auèilio Deo: Γaiuto divino cohsiste nel fatto che la verità, la quale risiede nell’anima, si fa manifesta, cfr. i paesi

’cit. alla n. 46.(48) De lib. arb. II, 15-21; per l'eeempio: cfr. 34, n. 52 e Confess., VI, 6.(49) De Hb. arb. II, 22: Unum vero quisquis verissime cogitat, profecto

invenit corporis sensibus non posse sentiri; quidquid enim tali sensu attin­gitur, iam non unum, sed multa esse convincitur... Ubicumque autem unum noverim, non utique per corporis sensum novi, quia per corporis sensum non novi nisi corpus... Porro si unum non percepimus corporis sensu, nullum nu­merum eo sensu percepimus, eorum dumtaxat numerorum quos intelligentia cernimus. La legge che regge i numeri non ei comprende nisi in luce in te­riore conspicitur, quam corporalis sensus ignorat (ibid., 23).

(50) Eccl., VII, 26, cit. in De lib. arb. II, 24.(51) De lib. arb. II, 25; 26: Num aliud putas esse sapientiam nisi veri-

totem, in qua cernitur et tenetur summum bonum? Nam illi omnes quos com­memorasti diversa sectantes, bnnum appetunt et malum fugiunt; sed pro- pterea diversa sectantur, quod aliud alii videtur bonum... In quantum igllur

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omnes homines appetunt vitam beatam, non errant... Ut ergo constat nos beatos esse velle, ita noe constat velle esse sapientes, quia nemo sine sapien­tia beatus est , Nemo enim beatus est nisi summo bono, quod in ea veritate, quam sapientiam vocamus, cernitur et tenetur... Sicut ergo ante quam beali sumus, mentibus tamen nostris impressa est notio beatitatis... ita etiam prius quam sapientes simus, sapientiae notionem in mente habemus impressam ... Si summum bonum omnibus bonum est, oportet etiam veritatem in qua cer­nitur et tenetur, id est, sapientiam, omnibus unam esse communem »; 28-29: Abbiamo dimostrato che la sapienza esiste. Ma vi sano verità che tutti am­mettono: verità morali e altre « Manifestissimum est igitur omnes has, quas regulas diximus et lumina virtutum, ad sapientiam pertinere... Quam ergo v e ­rae atque incommutabiles sunt regulae numerorum... tam sunt verae atqa& incommutabiles regulae sapientiae; 30: (adtingit a fine usque ad finem fortiter et disponit omnia suaviter [Sap. VIII, 1]); ea potentia, qua fortiter a fine usque ad finem adtingit, numerus fortasse dicitur; ea vero qua disponit omnia suaviter, sapientia proprie iam vocatur, cum sit ulrumque unius eiusdemque sapientiae; 32: Sed quemadmodum in uno igne consubstantialis, ut ita dicam, sentitur fulgor et calor, nec separari ab invicem possunt, tamen ad ea calor pervenit, quae prope admoventur, fulgor vero etiam longius latiusque diffun­ditur; sic intelligentiae potentia, quae inest sapientiae, propinquiora ferve­scunt, sicuti sunt animae rationales, ea vero quae remotiora sunt, sicuti cor­pora, non attingit calore sapiendi sed persuadit lumine numerorum. Quod tibi fortasse obscurum est. Non enim ulla visibilis similitudo invisibili rei potest ad omnem convenliam coaptari. Ma in ogni modo, illud certum mani­festum est, utrumque (la eapienza e il numero) verum esse et incommutabili- ter verum.

(52) De lib. arb., II, 34: Et iudicamus haec secundum illas interiores re­gulas veritatitsv quas communiter cernimus; de ipsis vero nullo modo qiiiia* iudicat. Cum enim quis dixerit aeterna temporalibus esse potiora, aut septem et tria decem esse, nemo dicit ita esse debuisse, sed tantum ila esse cogno­scens, non examinator corrigit sed tantum laetatur inventor. Si autem esset aequalis mentibus nostris haec veritas, mutabilis etiam ipsa esset. Mentes enim nostrae aliquando eam plus viderit, aliquando minus, et ex hoc fatentur se esse mutabiles, cum illa in <se manens nec proficiat cum plus a nobis v i ­detur, nec deficiat cum minus, sed integra e t incorrupta et conversos laetificet lumine et aversos puniat caecitate... Quare si nec inferior nec aequalis est, restat ut sit superior atque excellentior; 37: Ha?c est libertas nostra, cum isti sub­dimur veritati, et ipse est Deus noster, qui nos liberat a morte, ed est, a con­ditione peccati. Ipsa enim Veritas, etiam homo cum hominibus loquens, ait credentibus sibi [ loh., VIII, 31]. Nulla enim re fruitur anima cum libertate, nisi qua fruitur cum securitate. Nemo autem securus est in iis bonis quae potest invitus amittere; veritatem autem atque sapientiam nemo amittit in­vitus; 38: De toto mundo ad se conversis qui diligunt eam, omnibus proxi­ma est, omnibus sempiterna; nullo loco est, nunquam deest; f o r i s a d m o ­n e t , i n t u s d o c e t ; cernentes se commutat omnes in melius, a nullo in deterius commutatur; nullus de illa iudicat, nullus sine illa iudicat bene, 39: Tu autem concesseras, si quid supra mentes nostras esse monstrarem. Deum te esse confessurum, si adhuc nihil esset superius... Si enim aliquid est excellentius, ille potius Deus est; si autem non est, iam ipsa Veritas Deus est. Sive ergo illud sit, sive non sit, Deum tamen esse negare non poteris...

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Nam si te hoc m ove t, quod apud sacrosanctam disciplinam Christi in fidem recipimus, esse Patrem sapi€/ifiae# memento rips etiam hoc in fidem accepisse , quod aeterno Patri sit aequalis quae ab ipso genita est Sapientia. Cfr. De Vera relig. 58 e 60-66.

(53) De lib. arb., II, 41: Quoquo enim te verteris vestigiis quibusdam quae operibus suis impressit loquitur tibi et te in exteriora relabentem, ipsis exterioribus formis retro revocat, ut quidquid te delectat in corpore et per corporeos illicit sensus v ideas esse numerosum et quaeras unde sit et i n t e i p s u m r e d e a s atque intelligas te id quod attingis sensibus corporis proba­re aut improbare non posse nisi apud te habeas quasdam pulcritudinis leges, ad quas referas quaeque pulcra sentis exterius. Non qccorre davvero rneistere su questo, e simili passi, per mostrare l'affinità col De vera religione: anche, qui la Sapienza, che è il Logos divino, è'quella stessa che c'impone il ritorno a noi stessi e insieme la « suavissima lux purgatae mentis (ibid., 43) ». V. anche 45: Hinc etiam comprehenditur omnia providentia gubernari. Si enim omnia quae sunt, forma penitus subtracta nulla erunt, forma ipsa incommutabilis, per quam mutabilia cuncta subsistunt, ut formarum suarum numeris impleantur et agan­tur, ipsa est eorum providentia: non enim ista essent, si illa non esset; 46: Quamobrem quanlacumque bona, quamvis magna, quamvis summa, nisi ex Deo esse non possunt.

(54) De lib. arb. II, 52: Voluntas ergo quae medium bonum est, cum inhaeret incommutabili bono, eique communi non proprio sicuti est... veritas, tenet homo beatam vitam,- eaque ipsa vita beata, id est animi affectio inhae­rentis incommutabili bono [cfr. il cum Deo esse dei dialoghi di Cassiciaco] proprium et primum est hominis bonum; 53: Voluntas autem aversa ab im­mutabili et communi bono et conversa ad proprium bonum, aut ad exterius aut ad inferius peccat: Ij peccato è dunque 1'« aversio » della volontà ab in­commutabili bono et conversio ad mutabilia bona; quae tamen aversio atque conversio, quoniam non cogitur, sed est voluntaria, digna et iusta eam mise­riae poena consequitur; 54: Si enim motus iste, id est aversio voluntatis a Domino Deo sine dubitatione peccatum est, num possumus auctorem peccati Deum dicere? Non erit ergo is te motus a Deo. Unde igitur erit? Ita quaerenii tibi, si respondeam nescire me, fortasse eris tristior: sed tamen vera respon­derim. Sciri enim non potest, quod nihil est... Omne autem bonum ex Deo; nulla ergo natura est, quae non sit ex Deo. Motus ergo ille aversionis, quod fatemur esse peccatum, quoniam defectivus motus est, omnis autem defectus ex nihilo est, v ide quo pertineat, et ad Deum non pertinere ne dubites. Qui ta­men defectus, quoniam est voluntarius, in nostra est positus potestate. Si enim times illum, oportet ut nolis; si autem nolis, non erit... Ssd quoniam non sicut homo siponte cecidit, ita etiam sponte surgere potest, porrectam nobis desuper dexteram Dei, id est, Dominum nostrum lesum Christum fide firma teneamus et exspectemus certa spe et caritate ardenti desideremus.

(55) Evodio sa come rispondere a chi non vuol credere: costui deve di­mostrare di essere incredulo in buona fede. De lib. arb. IIf 5· Tum ego demon­strarem quod cuivis facillimum puto, quanto est aequius, cum sibi de occultis animi sui, quae ipse nosset, velle t alterum credere qui non nosset, ut etiam ipse tantorum vnorum libris, qui se cum Filio Dei v ixisse testatum litteris re­liquerunt, esse Deum crederet... e t nimium stultus esset si me reprehenderet quod illis crediderim, qui sibi velle t ut crederem cfr. De util. cred. 23-24.

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I l i

Agostino ci si è mostrato finora, tra l’altro, animato da un gran fervore di combattere il manicheismo. Ma la polemica si è svolta per lo più indirettamente, in ogni modo non mai contro un avver­sario determinato, quasi campione della setta. Sotto questo rispetto è dunque una novità YAd Fortunatum, che viene così ad essere la prima delle opere direttamente polemiche di Agostino. E tro­viamo pure qui, per la prima volta, queH’argomento contro i mani­chei, del quale egli, nelle Confessioni, attribuisce la paternità all’a- mico Nebridio (1). Ma nel resto l’argomentazione sostanzialmente non muta. Bisogna distinguere due generi di mali, il peccato, che è volontario e opera dell’uomo, e la pena del peccato, la quale risale a Dio, che è giusto e ha dato all’anima umana il libero arbi­trio, affinchè tutto il creato le fosse sottomesso, purché essa volesse servire Dio. Quindi l’uomo può redimersi seguendo, volontaria­mente, i precetti di Cristo. Il peccato di Adamo è opera del suo libero arbitrio ; dopo di lui il genere umano pecca perchè il corpo è mortale e tutto l’uomo è reso più suscettibile di lasciarsi sedurre dai beni inferiori e a poco a poco si avvezza al male e perde la capacità di resistere. Ma quando la grazia ispira all’uomo l’amor divino, la sua anima è resa capace di liberarsi da quella consuetu­dine malvagia da cui prima era come avvinta ; e quindi può volgersi verso la giustizia e con ciò procurare l’elevazione del corpo, la quale sarà completa nella resurrezione.

!n tale modo Agostino interpreta ancora San Paolo. Quella che si trasmette all’uomo è la mortalità, cioè la pena del peccato. Se così non fosse, verrebbe meno — gli sembra — la giustizia oppure

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si attribuirebbe a lui l’origine del male, come fanno appunto i mani­chei. Tuttavia non si affaccia ancora alla sua mente, neppure come un dubbio, l’idea che nella lettera ai Romani l’apostolo possa parlare di sé, e non degli uomini in genere : perciò i passi dell’e­pistola, che sono presenti al suo spirito, Agostino li interpreta in relazione a I Corìnzi, XV. Ciò gl’impedisce d’intendere, anche in questo scritto, la grazia divina in modo diverso da come ha fatto nelle sue opere precedenti, e di vedere in essa molto più che l’illu­minazione dell’intelletto; così egli, in conformità con questo modo di pensare, si riferisce assai più ai precetti di Cristo, che non alla espiazione e redenzione operata da lui (2).

Non dissimili da queste sono, relativamente ai problemi del male, del peccato e della redenzione, le idee esposte nel De fide et symbolo. Ritroviamo anzitutto la distinzione tra coloro che si contentano di credere e gli « uomini spirituali » che non solo cre­dono, ma intendono pienamente il contenuto della fede e hanno il cuore puro (3). A proposito della remissione dei peccati, Ago­stino ricorda due volte il passo famoso di S. Pàolo, Rom. VII, 25, inteso del resto ancora come riferito a tutti gli uomini, non alla persona dell’apostolo. Ma ivi si parla solo di « mente » e di « car­ne » ; perciò Agostino deve spiegare che lo spiritus, parte razionale dell’anima, è lo stesso che la mens e che l’anima che desidera, beni carnali e temporali può essere chiamata carne. Questa resiste allo spirito, non perchè tale sia la sua natura, ma perché in natura si è trasformata la consuetudine al male, in conseguenza del peccato di Adamo. Ciò non toglie che l’anima purificandosi, possa sotto­mettersi allo spirito, e questo a Dio, benché più lentamente. Il risultate ultimo sarà la purificazione anche del corpo, restituito anch’esso alla sua natura originaria, che è buona; ma ciò avverrà soltanto più tardi, con la resurrezione (4).

Il raffronto con gli scritti precedenti di Agostino ci assicura che questo ravvicinamento della dottrina della redenzione con la resur­rezione, e specialmente questo interpretare i capitoli centrali della epistola ai Romani attraverso il c. XV della I ai Corinzi, non è una novità e non può essere spiegato col fatto che egli sta ora com­mentando il Simbolo della fede dove questi punti sono vicini.

Ma a proposito della resurrezione, è notevole come Agostino riaffermi qui la sua fede in essa contro le obiezioni di filosofi ed

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eretici (5). Questo proeccuparsi degli eretici non è cosa nuova in lui, ma ora egli vi pensa in modo particolare e li passa in rassegna partitamente, a proposito dei singoli articoli del Credo. In primo luogo vengono coloro che negano l’onnipotenza di Dio Padre, in quanto non attribuiscono a lui la creazione della materia (6). Appaiono qui i motivi antimanichei, evidenti anche nel passo intorno al peccato, e poco doco, a proposito di Dio e della nascita verginale del Cristo (7). A proposito del Verbo, sono segnalati sabelliani e ariani (8) ; e trattando dell’incarnazione, ripetuto il concetto che l’opera del Cristo è quella di un maestro, v ’è un accenno ad Apollinare (9). Quindi, venuto a parlare della Passione, Resurrezione ed Ascensione in cielo di Cristo, Agostino manifesta di nuovo la sua cura di combattere i manichei ed ogni forma di dualismo, anticipando quello che dirà occupandosi della resurre­zione (10), nonché la sua ansia di dimostrare la possibilità per il corpo umano, di riacquistare la perfezione primitiva. Come nell’o­pera del Cristo egli segnala l'esempio, e attribuisce la massima im­portanza alla Resurrezione ed all’Ascensione, così per lui la reden­zione del genere umano consiste nella purificazione ddl'anima, che causa anche quella del corpo.

Ma, nello stesso tempo, accanto alle indiscutibili somiglianze ideali con le opere precedenti, il De fide et symbolo ci presenta qualche cosa di nuovo. Anzitutto, anche se su qualche particolare si possa o voglia rimanere incerti, vi è il fatto della assai maggiore familiarità con gli scrittori cristiani dell’Africa (11) e una più viva conoscenza delle condizioni di quella Chiesa : la precisione con cui è segnata la distinzione tra scismatici ed eretici (12) mostra che Agostino conosce ora degli scismatici reali, e che anche delle varie eresie — a parte i manichei — egli ha una nozione più concreta. Anche le citazioni bibliche, come e.Vcrno meglio tra poco, si fanno più numerose.

Del resto, il De fide et symbolo — redatto con molta cura, come prova la paludata classicheggiante solennità del periodare e l’uso delle clausole metriche — è il discorso che Agostino, presbi­tero, pronunciò di fronte ai vescovi adunati a concilio in Ippona, in secretario Basilicae Pacis, Γ8 ottobre 393. La disputa con. For­tunato. l’opera cioè che secondo le Retractationes precedette imme­diatamente questo discorso, ebbe luogo il 28 e il 29 agosto del 392.

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Ma questo intervallo si riduce alquanto, se pensiamo che la reda­zione per iscritto dell\4rf Fortunatum avrà richiesto un certo tempo, e così pure la preparatone del De fide. Dalle Retractationes ( ’.3) è difficile ricavare qualche dato positivo : le espressioni eodem tem­pore e per idem, tempus, impiegate con una certa frequenza in questa parte del I libro, non sono che formule, ed equivalgono all'altra: adhuc pre'Jyter o equivalenti (14).

Conviene perciò considerare l’insieme del I libro delle Retrac­tationes e il suo ordine. Il primo libro enumera altre 10 opere ante­riori all episcopato; ma poiché anche della data di questo si discute, dobbiamo contare anche altri cinque scritti, tutti anteriori alle Confessioni, per le quali si può accettare la data del 397-8 (15). Per quanto alcune di queste opere posteriori al De fide abbiano potuto essere iniziate parecchio tempo prima della loro pubblicazione, e quindi si possa essere indotti a collocare la loro redazione nello stesso torno di tempo in cui Agostino preparava il suo discorso solenne, restano sempre, tra il Contra Fortunatum e il D e fide alcuni mesi, poniamo sei o sette, di inattività letteraria : cosa tanto più notevole, se la paragoniamo alla fecondità del periodo prece­dente e a quella del successivo. E appunto quest’ultima, insieme con la produzione degli anni 391-392, c’impedisce di credere che questa sospensione dell’attività letteraria di Agostino si possa attri­buire unicamente al fatto che le sue mansioni sacerdotali lo abbiano assorbito completamente. Se invece consideriamo che in questi mesi egli può aver incominciato a preparare qualcuno degli scritti pubbli­cati posteriormente all’ottobre 393, e se esaminiamo questi ultimi e i caratteri nuovi che presentano, allora tutto si fa chiaro. Quei mesi furono senza dubbio un periodo di raccoglimento e di prepa­razione durante il quale Agostino, divenuto uomo di Chiesa e posto in più immediato contatto con la vita religiosa del popolo, si accinse a rimediare alla lacune ch’egli avvertiva nella sua preparazione (16). In questo lavorio di adattamento alle nuove condizioni in cui si veniva svolgendo la sua attività e ai nuovi compiti che gli venivano imposti, anche come scrittore, molte cose dovettero essere sottopo­ste a revisione, e su parecchi punti egli dovette mutar di parere. La produzione letteraria successiva di Agostino ci fornisce la con­ferma di questa tesi e ci presenta parecchie novità.

Al più profondo ed intimo attaccamento alla Chiesa — di cui

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son segni la maggiore preparazione teologica e la più viva preoc­cupazione di combattere le eresie — si accompagnano una modifi­cazione del metodo esegetico e l’ardente desiderio di accostarsi al popolo. 11 De Genesi ad litteram Uber imperfectus ci offre la prima di queste novità. Esso s ’inserisce nella polemica che dalla sua conversione in poi Agostino conduce contro il manicheismo e tanto circa il male e il peccato quanto a proposito dei rapporti tra fede e ragione — ma circa questi ultimi forse insistendo un po’ mag­giormente sull’ossequio dovuto all’autorità della Chiesa (17) — ripete considerazioni che già conosciamo. Ma è innegabile che il metodo dell’interpretazione è mutato, e costituisce una novità degna di nota (18). Ora, se si ha presente ciò che Agostino stesso ha detto nel De utilitate credendi (19), nulla esser più pericoloso dell’accet- tare alla lettera ciò che è detto nella Scrittura, questo mutamento richiede pure una spiegazione. Egli stesso non ci dice altro se non che, quando volle sperimentare le proprie forze in questo negotio­sissimo ac difficillimo opere era ancora, in fatto d’esegesi biblica, un novizio (20). Può darsi che, a un certo punto della sua lotta contro il manicheismo, egli abbia ritenuto utile di rinunciare alla comoda interpretazione allegorica, per prendere la via più difficile e precludere così agli avversari ogni scampo, dimostrando che, anche presi alla lettera, Vecchio e Nuovo Testamento sono lungi dal contraddirsi, giacché, come Scritture entrambe rivelate, non possono contenere che la verità. Ma questa non è ancora una risposta sod­disfacente, in quanto non ci spiega né come Agostino sia giunto a constatare l’utilità di quel cambiamento di metodo, né perché esso sia avvenuto proprio in quel momento. L’ipotesi ch ’egli, entrato invece nella « vita vissuta » della Chiesa, abbia sentito il bisogno di aderire più strettamente alla regola di fede e di studiare la Scrittura per se stessa — e non più soltanto per trovare in essa la conferma di quanto la sua filosofia dimostrava — ci permette di pensare che proprio da questa rinnovata e approfondita lettura della Bibbia gli sia venuta l’idea di mutare il metodo della polemica e di attenersi anche nell’esegesi a quel modo più semplice, ch’era necessario adottare nella predicazione ai popolo.

E infatti Agostino si rivolge ora anche ai semplici fedeli, non soltanto a quel pubblico colto cui sono evidentemente destinate le

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opere da lui scritte finora. Il De Sermone Domini in monte ha tutta l’aria di essere la rielaborazione di una serie di sermoni, tenuti forse ai catecumeni. Egli ricorre ancora, è vero, all’interpretazione allegorica, cercando significati riposti e facendo qualche lambiccata speculazione sui numeri (21), ma il tono è generalmente semplice e discorsivo, né mancano le allusioni di carattere locale, i riferimenti al punico e le spiegazioni alla buona di termini difficili (22).

Non sono venute meno le preoccupazioni antimanichee e Ago­stino cita, per confondere questi avversari, un libro non canonico, ma da loro tenuto in onore : gli Acta Thomae (23). Ma egli ricorda accanto a questi anche altri ei etici e scismatici, i quali si vantano d’essere i più veri, anzi i soli cristiani, perché patiscono persecu­zioni (si tratta senza dubbio dei donatista e risponde loro che non v ’è giustizia dove non esistono te cantà e la retta fede e la disci­plina (24). Ricaviamo da tutto questo l’immagine di un Agostino che ha ormai molto maggiore familiarità con la Bibbia (25) ed è molto più legato con la vita ecclesiastica.

Pure, la concezione del peccato e della redenzione è rimasta la stessa. I bisogni fisici e la mortalità sono una pena; il peccato è opera della libera volontà umana, un cadere verso i beni inferiori, reso più facile dalla consuetudine. Resistere è difficile, ma non im­possibile; il precetto della carità, il dovere d ’aiutare gli altri, deve essere tanto più osservato da chi desidera per sé l’aiuto divino. 11 quale consiste nei precetti stessi del Vangelo. Se gli apostoli hanno potuto conseguire la perfezione in questo mondo, non è escluso che vi possano pervenire altri ; ma una perfezione assoluta non sarà raggiunta se non con la resurrezione. E anche il celebre inciso Romani VII, 25, come gli altri passi che Agostino cita, è interpretato nella maniera che conosciamo. La fiducia di Agostino nei princìpi che lo hanno guidato fin qui e ispirato in tutta la sua polemica contro il manicheismo è tutt’altro che scossa : ma sembra di scorgere, neirinsistenza con cui quei passi ritornano sotto la sua penna, un certo bisogno, ancora da lui non bene avvertito, di vedere più chiaro, di comprendere più a fondo (26).

Ciò che Agostino dice degli scismatici nel De sermone Domini può far pensare ch’egli avesse in mente i donatisti. Ad ogni modo, anche se ciò non apparisse dimostrabile, sta di fatto che l’inizio della polemica — ed è una novità importante, anche se si voglia

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vederne il preannuncio già negli accenni del De vera religione (27) — cade precisamente in questo periodo. Del 392 è la lettera a Massimino di Sinitum (28), in cui troviamo già l’argomento che la circoncisione dell’Antico Testamento, — prefigurazione del batte­simo — era unica, e quello cavato dalla parabola del grano. En­trambi derivano probabilmente da Ottato di Milevi. All’accusa che i donatisti rivolgevano ai cattolici, di ricorrere cioè alla forza pubblica, Agostino risponde implicitamente, in quanto rinuncia all’appoggio dell’autorità ; mentre nella proposta di tenere una disputa in regola non è forse avventato scorgere un riflesso della vittoria da lui riportata nella discussione pubblica con Fortunato.

Ma l’inizio della controffensiva cattolica contro il donatismo è segnato appunto dal concilio di Ippona. E in relazione con esso è da porre senza dubbio il Psalmus abecedarius contra partem Donati, in cui l’influsso di S. Ottato di Milevi è evidentissimo. Nonostante la sua scarsa originalità e il mediocre interesse che presenta dal punto di vista teologico, questo Psalmus (interessante e assai studiato sotto Γ aspetto letterario e metrico) costituisce però un documento importante, perchè ci mostra Agostino sollecito di condurre una attiva propaganda tra il popolo. Ma accanto ad esso,lo scrittore che si era tanto distinto nella confutazione del mani­cheismo sentì il dovere di preparare un’opera più seria, e avendo potuto leggere uno scritto del fondatore della setta redasse il Contra epistolam Donati. Il poco che sappiamo di quest’opera perduta mostra che Agostino era tuttora non bene al corrente di questioni come quella del battesimo degli eretici e continuava ad usare codici della Bibbia di origine italiana (29). Assieme a cotesti scritti, e sempre in relazione con il concilio d ’Ippona, è da porre con ogni probabilità anche YEnarratio in Ps. XXXV dove, nono­stante la distinzione tra scisma ed eresia, Donato e il recentissimo Massimiano sono considerati come eretici, insieme con Ario (30).

Che l’inizio della polemica antidonatista cada in questo mo­mento della vita di Agostino, non è certamente un caso. Sembra infatti strano che egli non avesse alcuna notizia dello scisma ante­riormente al concilio d’Ippona. E ’ vero che i dissidenti erano rari a Tagaste, e numerosi invece a Ippona, dove anche si associarono ai cattolici nel domandare che fosse confutato Fortunato (31); ed è vero altresì che la stessa gerarchia cattolica per parecchio tempo,

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prima del concilio d ’ippona, non aveva agito energicamente. Ma il primo di questi argomenti vale soltanto per il periodo successivo a) ritorno di Agostino dall’Italia; sembra però incredibile che per anni, mentre visse in Cartagine, egli ignorasse completamente l’esi­stenza dello scisma che travagliava la Chiesa africana e aveva dato tanto da fare anche alle autorità civili. Può darsi che allora egli lo considerasse con indifferenza ; e può darsi che tale indifferenza continuasse anche dopo il battesimo e il ritorno in patria, allorché la sua preoccupazione più viva fu quella di combattere le dottrine alle quali si sentiva rinfacciare di avere un giorno aderito e che ora egli detestava con tutta l’anima. Ma se il donatismo cominciò ad attrarre l’attenzione di Agostino in Ippona, non dobbiamo di­menticare che ivi egli si stabilì quando fu chiamato al sacerdozio; se il suo disinteresse per lo scisma cessa nel momento stesso in cui i vescovi decidono di combatterlo, questa è una conferma del fatto che, da questo momento in poi, Agostino incomincia a par­tecipare attivamente alla vita della Chiesa.

Colpi contro i manichei non mancano del resto neppure nel- YEnarratio in ps. XXXV (32), e la polemica viene ripresa nel Contra Adimantum, che tuttavia non presenta grande interesse. V’è qualche punto di contatto con il De sermone Domini in monte, in ispecie il racconto tratto dagli Acta Thomae, con somiglianze anche verbali (33). Vi ritroviamo il solito argomento principe (34) di cui abbiamo segnalata l’apparizione nel Contra Fortunatum; ma su tutti gli altri punti che hanno richiamato sin qui la nostra attenzione — contrasto tra Γ« uomo vecchio » e 1’« uomo nuovo » e tra carne e spirito, distinzione tra peccato e pena, perfezione conseguita in terra dagli apostoli, ecc. — non vi è nulla di nuovo da segnalare (35). Può colpire, forse, il fatto che l’autorità è tuttora subordinata alla ragione; ma questo affermare che si ricorrerà soltanto alla ragione è comune ad ogni polemica che si proponga di convincere l’avversario o per lo meno un lettore senza pre­concetti (36). Nuovo è qui soltanto il metodo seguito nella pole­mica, il quale consiste nell’esporre tutte le antitesi tra il Vecchio e il Nuovo Testamento segnalate dall’avversario, per confutarle minutamente una per una ; anzi, Agostino indica altre antitesi, ma che conducono a conclusioni del tutto diverse da quelle dei ma­nichei.

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Agostino si muove ora a tutto suo agio attraverso le varie parti della Bibbia e le citazioni si affollano numerose sotto la sua penna. E ’ questa un’altra delle novità che riscontriamo in questo periodo, specialmente a partire dal De sermone Domini in monte, e anche dal D e fide et symbolo (37). In pari tempo, il problema dei rap­porti tra l’Antico e il Nuovo Testamento, che gli si ripresenta nel confutare Adimanto, lo spinge ad accogliere il concetto di S. Paolo, che la legge è stata il pedagogo del tempo della schiavitù e a rav­visare nell'Antico Testamento la prefigurazione del Nuovo (38) ; e ciò a sua volta trattiene Agostino dal continuare il tentativo iniziato nel De Genesi ad litteram e lo respinge verso l’interpretazione alle­gorica : ma soprattutto lo avvia verso uno studio rinnovato, e più accurato e approfondito, del pensiero di S. Paolo.

N O T E

(1) A c ta contra Fortunatum, 7: « Si Deus nihil pati potuit a gente tene­brarum, quia inviolabilis eet, eine causa huc nos misit ut nos hic aerumnae patiamur. Si autem pati aliquid potuit, non est inviolabilis»; 9: « Si enim potest aliquiid nocere ei, non eet inviolabili^. Si non poteet ei aliquid nocere, quid ei factura erat gens tenebrarum? »; cfr. C. Adimantumt 28, 1: «Q u id ergo incor­ruptibili Deo factura erat gens tenebrarum, si cum ea pugnare noluisset? », da cui più direttamente sembra derivare Confess., VII, 2, 3. Ecco dunque un’altra « formula » che rimane fieea: cfr. cap. II, n. 32.

(2) C. Fortun., 15: « Contraria isbà quae te movent, ut adversa 6entiamue, propter peccatum nostrum, id eett propter peccatum hominis contigerunt. Nam omnia Deus et bona fecit et bene ordinavit; peccatum autem non fecit ©t hoc est eolum quod dicitur malum, voluntarium nostrum peccatum. Eet et aliud genus mali, quod est poena peccati. Cum ergo duo sint genera malorum, pec­catum et poena peccati, peccatum ad Deum non pertinet, poena peccati ad vindicem pertinet. Etenim, ut bonus est Deus, quia omnia constituit, eie iustus eet, ut vindicet in peccatum. Cum ergo omnia eint ordinata, quae videntur nobie nunc adversa eeee, merito contigit hominie lapsi, qui legem Dei servare no­luit. Animae enim rationali, quae est in homine, dedit Deus liberum arbitrium; sic enim poeeet habere merita, si voluntate, non necessitate, boni e6eemus. Cum ergo oporteat non neceeeitate, eed voluntate bonum e6ee, oportebat ut Deue animae daret liberum arbitrium. Huic autem animae obtemperanti legibus suie omnia eubiecit eine adversitate, ut ei cetera quae Deus condidit servirent, ei et ipea Deo servire voluis6et; βί autem ip6a noluisset Deo eervire, ut ea, quae illi serviebant, in poenam eiue converterentur, quare si recte omnia a Deo ordinatà 1 eunt, et bona eunt, et Deue non patitur maium»; 16: « Peccando enim ad/versi eramus a Deo, tenendo autem praecepta Christi reconciliamur Deo, ut qui in peccatis mortui eramue, eervantes praecepta eius vivificemur...; 22: Liberum voluntatis arbitrium in illo homine fuisee dico, qui primus formatus est. Ille 6ic factus est, ut nihil omnino voluntati eius reeieteret, si vellet Dei praecepta

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servare. Postquam autem libera ipse voluntate peccavit, noe in necessitatem praecipitati eumus, qui ab eius stirpe descendimus... Hodie namque in actio- nibue nostrie antequam consuetudine aliqua implicemur, liberum habemus ar­bitrium faciendi aliquid vel non faciendi. Cum autem ista libertate fecerimus aliquid, et facti ipsiue tenuerit animam perniciosa dulcedo et voluptas, eadem ipsa consuetudine sua sic implicatur, ut postea vincere non possit quod sibi ipsa peccando fabricata est... et hoc eet, quod adversus animam pugnat, consue­tudo facta cum carne. Ipsa eet nimirum carnis prudentia, quae quamdiu ita est, legi Dei subigi non potesi, quamdiu prudentia carnis est; eed inluminata anima desinit illa esse caraie prudentia... Sed... illa carnis prudentia id est consue­tudo facta cum carne, cum fuerit mene ncetra inluminata et ad arbitrium divi­nae legis totum hominem elbi Deus subiecerit, pro illa consuetudine animae maLa facit consuetudinem bonam... Quamdiu ergo portamus imaginem terrena hominis, id est quamdiu eecundum carnem vivimus, qui vetus etiam homo nominatur, habemue necessitatem consuetudinis nostrae, ut non quod volumus faciamus (cfr. Rom., VII, 15). Cum autem gratia Dei amorem nobis divinum inspiraverit et nos suae voluntati subditos fecerit... ab ista lege liberamur, cum iusti esse coeperimus... Ex ipso (Adamo) enim omnes sic nascimur quia terra eumus, et in terram ibimus propter meritum peccati primi hominis; pro- pteT autem gratiam Dei, quae nos liberat a lege peccati et mortis, ad iustitiam conversi liberamur ut postea eadem ipsa caro, quae nos poenis torsit in pec­catis manentes, subiiciatur nobis in resurrectione, et nulla adversitate nos qua­tiat, quominus legem et divina praecepta servemus.»

(3) La dottrina cattolica è stata formulata nel Credo, « ut incipientibus atque lactantibus (cfr. 1 Cor., Ili, 2) eis, qui in Christo renati sunt, nondum Scripturarum divinarum dUigentisisima et spirituali tractatione atque cognitione roboratis, paucis verbis credendum constitueretur, quod multis verbiie exponen­dum eeset proficientibus et ad divinam doctrinam certa humilitatis atque cha- ritatis firmitate surgentibue. Sub ipsie ergo verbis paucis in symbolo constitu­tis, plerique heretici venena sua occultare conati s u nt; quibus restitit et resi­stit divina misericordia per spiritales viros qui catholicam fidem non tantum in illis verbis accipere et credere, sed etiam Domilo revelante intellegere atque cognoscere meruerunt (De ficfe et symbolo, 1); cfr. 20, trattando della Trinità; « verum haec dici possunt facile et credi: videri autem nisi corde puro quomodo se habeant cannino non possunt»; si osservi però che ora Yauctoritas è rappresentata solo dal Credo: vuol dire che la Scrittura, con la sua interpretazione, appartiene ormai alla ratio?

(4) De f. et symb., 23: « Et quoniam tria sunt quibue homo constat, spiri­tus anima et corpus, quae rursus duo dicuntur, quia eaepe anima simul cùm spiritu nominatur, — pars enim quaedam eiusdem rationalis, qua carent be­stiae, spiritus dicitur — principale nostrum spiritue est... Hic enim spiritus etiam mens vocatur, de quo dicit apostolus [Rom., VII, 25). Anima vero, cum carnalia bona adhuc appetit, caro nominatur, et resistit spiritui, non natura eed consuetudine peccatorum... Quae consuetudo dn naturam versa eet secundum generationem mortalem peccato primi hominis... Est autem animae natura per­fecta cum spiritui suo subditur et eum sequitur sequentem Deum... sed non tam cito anima subiugatur spiritui ad bonam operationem, quam-cito spiritus Deo ad veram fidem et bonam voluntatem, eed aliquando tardius eius impetus, quo in carnalia et temporalia diffluit, refrenatur. Sed quoniam et ipsa munda­tur, recipiens stabilitatem naturae suae dominante spiritu, quod sibi caput estr

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ruius caput est Christus, non est deeperandum etiam corpus restitui naturae propriae, sed utique non tam cito quam anima, sicut neque anima non tam cito quam spiritus, sed tempore opportuno in novissima tuba (cfr. I Cor. XI, 3; XV, 52) ...et ideo credimus- et in carnis resurrectionem, non tantum quia reparatur anima, quae nunc propter carnales affectiones caro nominatur, sed haec etiam visibilis caro, quae naturaliter est caro, cuius nomen anima non propter natu­ram sed proptes carnales affectiones accepit, haec ergo visibilis quae proprie dicitur caro credenda est resurgere ».

(5) De f. et symb., 24; Resurget igitur corpus secundum Christianam fidem, quae fallere non poteet. Quod cui videtur incredibile, qualis nunc sit caro ad- tendit, qualis autem futura sit non considerat; quia illo tempore immutationis angelicae non iam caro erit et sanguis, sed tantum corpus (ofr. I Cor., XV, 50)l. ... Philosophi autem, quorum argumentis saepius resurrectioni camis resistitur, quibus asserunt nullum esse posse terrenum corpus in caelo, omne corpus in omne corpus converti et mutari posse concedunt ». Cfr. 13 alia n. 10.

(6) De i.et symb., 2.(7) De f. et s.f 7: « Ex quo iam spiritalibus animis patere confido nullam

naturam Deo esse posse contrariam»; cfr. relativamente a Maria Vergine, 9 e 10.

(8) De f. et s., 3: « Sicut enim verbis nostris id agimus, cum verum lo­quimur, ut noster animus innotescat audientibue... sic illa Sapientia, quam Deus Pater genuit, quoniam per ipsam innotescit dignis animis secretissimus Pater, Verbum eius convenientissime nominatur »; 5: « Hac igitur fide catho­lica et illi excluduntur, qui eundem dicunt Filium esse, qui Pater est... Exclu­duntur etiam illi, qui creaturam dicunt esse Filium, quamvis non talem, quales sunt ceterae creaturae ».

(9) De f. et s., 6: « Christus hominem indutus, per quem vivendi exem ­plum nobis daretur, hoc est via certa, qua perveniremus ad Deum »; 8: « Sed quisquis tenuerit catholicam fidem, ut totum hominem credat a Verbo Dei eese susceptum, id est corpus animam spiritum, satis contra illos munitus est... Cum homo excepta forma membrorum non distet a pecore nisi rationali spi­ritu, quae mens etiam nominatur (cfr. 23, alia n. 4) quomodo sana est fides qua creditur quod id nostrum susceperit Dei Sapientia, quod habemus commune cum pecore, illud autem non eusceperit, quod inlustratur luce sapientiae et quod hominis proprium est? ». Questa allusione ad Apollinare, il cui errore sedusse per un momen Lo Alipio (Coni., VII, 19, 25) va aggiunta a quelle elencate da Courcelle, o. c., p. 188, n. 4.

j (10) De f. et s.r 13: Solet autem quosdam offendere vel impios gentiles vel haereticos, quod credamus adsumptum terrenum corpus in caelum. Sed gentiles plerumque philosophorum argumentie nobiscum agere student, ut dicant terrenum aliquid in caeìo esse non poese... (/ Cor., XV, 44). Non enim ita ^Lictum est quasi corpus vertatur in spiritum et spiritus fiat, quia et nunc corpus nostrum, quod animale dicitur, non in animam versus est, et anima factum; sed spiritale corpus intellegitur, quod ita spiritui eubditum est, ut caelesti habitationi conveniat omni fragilitate ac labe terrena in caelestem puritatem et stabilitatem mutata atque conversa ».

(11) Nell'articolo in Ricerche Religiose, VII (1931) p. 45 accennai a una possibile reipiniscenza di Tertulliano, nel passo del De fide, 17, in cui Agostino tratta della Trinità; e al fatto che la più rigorosa distinzione tra eresia e sci-

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ema, in confronto con il De vera religione (cc. 9 e 10) potesse essergli e tata suggerita dalla lettura di S Cipriano. Soggiungevo che maggior luce su questo punto sarebbe potuta venire dalle ricerche di H. Koch sulla « eopravvivenza di Cipriano », di cui la stessa rivista aveva intrapreso la pubblicazione. Il Koch raccolse il mio invito: e poco dopo espose le conclusioni a cui era giunto (in Ric. Rei., Vili, 1932, pp. 317-337) e che a mia vodta riassunsi e com­mentai brevemente {ibid., IX, 1933, p. 399 sg.). Il Marrou, al quale il lavoro del Koch è sfuggito, non dà (o. c. pp. 420-21) che indicazioni molto sommarie: anzi sembra non accorgersi neppure che sotto il nome dì Hilarius, nelle citazioni di Agostino, si nasconde, come è ora universalmente riconosciuto, accanto a Ilario di Poitiers, anche l'Ambrosiastro.

Secondo il Koch, è possibile che S. Agostino conoscesse Tertulliano, pro­babile che conoscesse S. Ottato e po66ibile che risentisse qualche influsso di S. Cipriano (Testimonia e lettere; quanto al De unitate vi sono argomenti in prò e in contro) quando scriveva il De fide et symbolo; mancano tracce d'ogni influsso jdi Tertulliano e S. Ottato negli scritti anteriori; e di essi, soltanto il De magistro, il De vera religione e il De utilitate credendi offrono qualche indizio circa la possibilità che Agostino conoscesse il De dominica oratione e il De unitate ciprianei (oltre l'ep. 33, nel De util. cred.). Invece, nel De sermone Domini in monte l'utilizzazione del De dominica oratione è sicura, quella del De unitate probabile; ed è fuori di dubbio l'influsso tanto di Cipriano quanto di Ottato (quest’ultimo, già segnalato da un pezzo) sul Psalmus abecedarius contra partem Donati. Come si vede, la ricerca è rimasta incompleta riguardo a Tertulliano; ma i risultati del Koch sono tali da giustificare la conclusione esposta nel testo. L’indagine delle conoscenze patristiche di Agostino andrebbe però proseguita metodicamente: cfr. c. VII, nota 25.

(12) De f. et s. 21: Haeretici de Deo falsa sentiendo ipsam fidem violant; schismatici autem discissionibus iniquis a fraterna casitate dissiliuntt quamvis ea credant quae credimus. tQuapropter nec haeretici pertinent ad ecclesiam catholicam, quoniam diligit Deum, nec schismatici, quoniam diligit proximum. Cfr. anche la n. precedente.

(13) Retract. I, 16 (17).(14) Retract. I. 3; l i (12); 16 (17); 18 (19): per idem tempus; 15 (16). 20

(21); 21 (22): eodem tempore (presbyterii mei); 4: inter haec; 12 (13): tunc. Cfr. 13 (14): lam vero apud Hipponem Regium presbyter; 14 (15): adhuc pre­sbyter; 15 (16); 20 (21); 21 (22) cit.; 22 (23): cum presbyter adhuc essem.

(15) Nel II libro delle Retractationes, le Confessioni occupano il sesto posto; all'ottavo sta il Contra Felicem manichaeum , al venticinquesimo il Contra litteras Petiliani, scritto circa il 401. Qualunque sia il momento, tra i termini estremi del 395 e dell'agosto 397 (IIII Concilio di Cartagine) in cui si voglia collocare la consacrazione episcopale di Agostino, l'ordine cronologico delle Retractationes resterebbe tutto sconvolto, qualora si accettasse per il Contra Felicem la data indicata dai manoscritti, ossia il dicembre 404. Fin dal lb08 però, P. Monceaux propose di considerare l’indicazione dei VI consolato di Onorio, nei mss. del C. Fel., come un errore, leggendo invece: IV: il che ci porterebbe al 398 e permetterebbe di collocare le Confessioni poco prima, come anche per altri indizi propone un sempre crescente numero di studiosi.

(16) Cfr. l'ep. XXI a Valerio, in cui Agostino chiede che gli conceda tempo fino alla prossima Paequa per potersi dedicare allo studio delle Scrit­

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ture; e non è affatto necessario supporre che questa « vacanza » gli veniese prorogata.

(17) Il libro si apre con una esposizione della fede cattolica secondo l'ordine steseo del Credo, che per ciò stesso rivela un'affinità con il De fide. Circa il male, il peccato e il libero arbitrio, cfr. 1: « esse autem omnia quae fecit Deus bona valde, mala vero non esse naturaiia, eed omne quod dicitux malum aut peccatum esee aut poenam peccati. Nec eeee peccatum nisi pravum liberae voluntatis assensum, cum inclinamur ad ea quae iustitia vetat et unde liberum est abstinere, id est non in rebus ipsis, 6ed dn usu earum non legitimo. Usu9 autem rerum eet legitimus, ut anima in lege Dei maneat, et uni Deo ple- nissinfe dilectione subiecta eit et cetera sibi subiecta sine cupiditate aut libidine ministret.... Poena vero peccati est, cum ipsis creaturis non sibi servientibus cruciatur anima, cum Deo ipsa non eervit; quae creatura illi obtemperabat, cum ipea obtemperabat Deo »; 5: « Quaedam ergo et facit Deus et ordinat, quaedam tantum ordinat. Iustoe et facit et ordinat, peccatores autem, in quantum peccatores sunt, non facit eed ordinat tantum ».

Orca la fede e Ia ragione: 1: « De obscuris naturalium ierum quae omni- potente Deo artifice facta sentimus, non adfirmaAdo eed quaerendo tractan­dum est in libris maxime quos nobis divina commendat auctoritas, in quibus temeritas adserendae incertae dubiseque opinionis difficile sacrilegii crimen evi­tat: ea tamen quaerendi dubitatio catholicae fidei metas non debel excedere »; 3: « Sed quoquo modo se hoc habeat — res enim secretissima eet et humanis coniecturis impenetrabilis — illud certe accipiendum est in fide, etiamsi modus nostrae cogitationis excedit, omnem creaturam habere initium tempusque ipsum esse creaturam ac per hoc et ipsum habere initium nec coaeternum esse Crea­tori », parole in cui è manifesta l’intenzione di opporsi al manicheismo; 28: Se Dio ha potuto in qualche punto adattare il racconto aile necessità umane, « ut ipsa depositio, quae ab infirmioribus animis contemplatione stabili videri non poterat per eiusmodi ordinem sermonis exposita quaei istis oculis cerneretur », pure chi sceglie l'una o l'altra di due interpretazioni possibili, dovrà guardarsi dal fare affermazioni temerarie e ricordarsi (30) « se hominem de divinie ope­ribus quantum permittitur quaerere ».

(18) Si osservino le differenze — e anche certe somiglianze — tra De util. cred., 5 (Secundum historiam ergo traditur, cum docetur, quid scriptum aut quid gestum sit; quid non geetum sed tantummodo scriptum quasi gestum eit. Secundum aetiologiam, cum ostenditur quid qua de causa vel factum vel dictum sit. Secundum analogiam, cum demonstratur non sibi adversari duo Testamenta, vetus et novum. Secundum allegoriam, cum docetur non ad litteram esse acci­pienda quaedam quae scripta sunt, sed figurate intelligenda), e De Gen. ad Iitt. lib. impf., 2 (Historia est cum sive divinitue sive humanitue res gestae com­memorantur; allegoria, cum figurate dicta intelleguntur; analogia, cum Veteris et Novi Testamenti congruentia demonstratur,- aetiologia, cum causae dictorum factorumque redduntur). Ma, dopo aver fatto supporre che egli intenda offrire u i commento completo, poiché osserva che il Genesi può essere spiegato in quei quattro differenti modi, Agostino si affretta a soggiungere: « Secundum histo­riam autem quaeritur quid sit " in principio *' » e poi non abbandona più l'in­terpretazione letterale. ,

(19) De util. cred., 9; v. cap. II, n. 37.(20) Retract. I, 17 (18).

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(21) Coei p. e. — θ scelgo questo passo per la sua importanza intrinseca — a proposito delle Beatitudini: esse sono otto e rappresentano i vari gradi, o tappe, delia vita spirituale. De Serm. Dom., 1, 10-12: « Incipit enim beatitudo ab humilitate... dum se divinae misericordiae eubdit anima, timens poet hanc vitam ne pergat ad poenae... Inde venit ad divinarum Scripturarum cognitionem, ubi oportet eam se mitem praebere pietate, ne id quod im­peritis videtur absurdum vituperare! audeat et pervicacibus concertationi­bus efticiatur indocilie. Inde iam incipit ©cire quibus nodie saecuii huiue per carnalem consuetudinem ac peccata teneatur: itaque in hoc tertio gra­du, in quo scientia est, lugetur amiesio eummi boni, quia inhaeretur ex­tremis. In quarto ailtem gradu labor eet, ubi vehementer incumbitur «t seee animus avellat ab eie quibus pestifera dulcedine innexus est: hic ergo esu­ritur et sititur iuetitia... Quinto autem gradu perseverantibus in labore datur evadendi consilium: quia niei quieque adiuvetur a superiore nullo modo sibi est idoneus ut seee tantis mieeriarum implicamentis expediat; est autem iu- stum coneilium ut qui se a potemtiore adiuvari vult adiuvet infirmiorem, m quo est ipse potentior. Sexto gradu eet coirdie munditia... valens ad contem­plandum summum illud bonum quod solo puro et eereno intellectu cerni po­test. Postremo e6t eeptima ipea sapientia, id eet contemplatio veritatis paci­ficans totum hominem et suecipiene similitudinem Dei. Octava tamquam ad cajput redit, quia consummatum perfeetumque ostendit et probat: itaque in prima et in octava nominatum est regnum caelorum. Septem eunt ergo quae perficiunt: nam octava clarificat et quod perfectum eet demonstrat. Videtur ergo mihi etiam septiformis operatio Spiritus Sancti de quo Ieaias loquitur (XI, 2-3) bis gradibus sententiieque congruere. Sed interest ordinis : nam ibi enumeratio ab excellentioribus coepit, hic vero ab inferioribus. Ibi namque incipit a Sa­pientia et desinit ad timorem Dei... Quapropter si gradatim tamque ascendentee numeremus, primus ibi eet timor Dei, secunda pietae, tertia scientia, quarta fortitudo, quintum consilium, sextus intellectue, eeptima sapientia. Timor Dei congruit humilibue... Pietae congruit mitibus ... Et ista quidem in hac vita p o ss u n t compleri, sicut completa esse in apostolis credimus. Nam illa om­nimoda in angelicam formam mutatio, quae post hanc vitam promittitur, nullis verbie exponi potest... Haec octava eententia quae ad caput redit perfeetumque hominem declarat, significatur fortasee et circumcisione octavo die in Veteri Testamento et Domini resurrectione poet sabbatum, qui est utique octavus idemque primus dies, et celebratione octavarum feriarum, quas in regenera­tione novi horomis celebramus, et numero ipeo Pentecostes. Nam septenario numero septies multiplicato, quo fiunt quadraginta novem, quasi ootavus ad­ditur, ut quinquaginta compleantur et tamquam redeatur ed caput, quo die missus eet Spiritus Sanctus ». E per altri esempi, cfr. I, 31; II, 6-7, etc.

(22) De serm. Dom . II, 18: « cuius rei significandae gratia, cum ad ora­tionem stamus, ad orientem convertimur»; I, 23 (racha); II, 47 (mammona).

(23) I, 65; cfr. anche II, 78-79 ecc.(24) De Serm. Dom. I, 13-14: « Ubi autem sana fides non est, non poteet

esse iuetitia, quia iustus ex fide vivit. Neque schismatici aliquid sibi ex ieta mercede promittant, quia similiter ubi charitas non est, non potest esse iusiti- tia: « dilectio enim proximi malum non operaiur ». — Propter me: propter eo<= additum puto, qui volunt de persecutionibus et de famae suae turpitudine gioriari, et ideo dicere ad ee pertinere Christum, quia multa de illis dicuntur

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mala, cum et vera dicantur, quando de illorum errore dicuntur; et si aliquando etiam nonnulla falsa iactantur, quod de temeritate hominum plerumque acci­dit, non tamen propter Christum ista patiuntur. Non enim Qiristum sequitur, qui non secundum veram fidem et catholicam disciplinam Christianus vocatur.

(25) Agostino registra anche qualche variante, p. ee. In II, 30 a M/. VI, 13: ne noe inieras ; inducas ; patiaris induci. Agostino sembra conoscere quest’ultima solo attraverso una tradizione orale (« multi autem precando ita dicunt»), benché sia in Cipriano, de domin. orai., 7, CSEL III, 1, p. 271: ne passus tueris (patiaris) nos induci (induci nos); ma si confronti altresì la variante μή άφης ήμας είσενεχ^ήναι (ve/ άπεν- vel κατεν-) a Le. XI, 4 considerata ge­neralmente come di origine marcionita. Streeter (The tour Gospels, Londra 1924, p. 276) non riconosce però come maicionita l'altra variante, a Le. XI, 2 έλ·έτω τό πνεύμα σου το άγιον έφ* ήμαζ καί καΡαρισάτω ήμας, di 162, 700, Greg. Nyss., Max. Taur., perchè dal commento di Tertulliano ( Adv. Marc., IV, 26, CSEL 47, p. 509) non risulta sia degli eretici da lui combattuti; e lo stesso si può dire di questa. Varrebbe dunque la pena di studiarla, anche perchè è questo l'unico luogo di Agostino in cui si trovi. Cfr. C. H. Milne, A recon- struction of thè O ld - la t in text or texis oi thè Gospels used b y Saint Augustine, Cambridge 1926, p. 15. Altre varianti in II, 74 a Mi. VII, 12, ecc. La conoscenza del greco e i criteri che Agostino adotta nello stabilire il testo, sono ancora quelli di un principiante.

(26) Cfr. De serm. Dom., I, 15: In caelis dictum puto in spiritalibus fir­mamentis, ubi habitat sempiterna iustitia; in quorum comparatione terra dicitur anima iniqua... Sentiunt ergo iam istam mercedem, qui gaudent spiritalibus bonis; sed tunc ex omni parte perficietur, cum etiam hoc mortale induerit immortalitatem [cfr. 1 Cor., XV, 53-54]; I, 34: Nam tria eunt quibus impletur pec­catum: suggestione, delectatione, et consensione. Suggestio sive per memo­riam fit, sive per corporis seneus... Quo si frui delectaverit, delectatio illa refrenanda est... Si autem consensio facta fuerit, plenum peccatum erit... Tria ergo haec... eimilia eunt illi gestae rei quae in Genesi scripta sunt, ut quasi a serpente fiat suggestio et quaedam suasio; in appetitu autem carnali, tam­quam in Eva, delectatio; in ratione vero, tamquam in viro, consensio. Quibus peractis, tamquam de paradiso, hoc est de beatissima luce iustitiae, in mortem homo expellitur; i ustissime omnino. Non enim cogit qui suadet. Et omnes na­turae in ordine suo gradibus suis pulcrae sunt; sed de superioribus, in qui­bus rationalis animus ordinatus est, ad inferiora non esit declinandum. Nec quisquam hoc facere cogitur; et ideo, ei fecerit, iusta Dei lege punitur,- non enim hoc committit invitus; I, 54-55: Quibus laboriosius et operosius dici aut cogitari potest, ubi omnes nervos industriae suae animus fidelis exerceat, quam in vi­tiosa consuetudine euperanda?... Verumtamen in his laboribus cum quisque difficultatem patitur et per dura et aspera gradum faciens circumvallatur variis tentationibus... timet ne aggreeisa implere non possit, arripiat consi­lium, ut auxilium mereatur. Quod est autem aliud consilium, nisi ut infirmi­tatem aliorum ferat, et ei quantum potest opituletur, qui sibi divinitus desi­derat subveniri?; II, 23: Illi- etiam non absurdus, immo et fidei et spei nostrae convenientissimus intellectus est, ut caelum et terram accipiamus spiritum et carnem. Et quoniam dicit apostolus « mente servio, ecc. », [Rom., VII, 25] vi­

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demus factam voluntatem Dei in mente id est in spiritu; cum autem absorpta fuerit mors in victoriam et mortale hoc induerit immortalitatem [/ Cor., XV, 54-55], quod fiet carnis resurrectiqne atque illa immutatione quae promittitur rustie, secundum eiusdem apostoli praedicationem, fiat voluntas Dei in terra sicut in caelo; id eet, ut quemadmodum spiritus non resistit Deo, sequene et faciens voluntatem eius, ita et corpus non resistat spiritui vel animae, quae nunc corporis infirmitate vexatur, et in carnalem consuetudinem prona esi, quod erit summae pacie in vita aeterna, ut non solum velle adiaceat nobie, sed etiam perficere, bonum... [cp. Rom. VII, 18] quia nondum in terra sicut in caalo, id' est nondum in carne sicut in spiritu facta est voluntae Dei. Nam et in miseria nostra fit voluntas Dei, cum ea patimur per carnem quae nobis morta­litatis iure debentur, quam peccando meruit nostra natura. Sed id orandum est, ut... quemadmodum corde condelectamur legi secundum interiorem ho­minem, ita etiam corporie immutatione facta, huic nostrae delectationi nulla pars nostra terrenis doJoribue seu voluptatibus adversetur; inoltre II, 44; 56;I, 78, ecc. e anche I, 10-12 cit. alla η. 21 ecc.

Con il passo I, 15 cfr. De Genesi c. Man. II, 21 cit. a cap. I n. 35.(27) Cfr. c. II, nota 16 e gli accenni analoghi nel De fide et symbolo.(28) Epist. 23 cfr. Monceaux, Hist. liti, de 1 Air. chret.t VII (1923), pp. 129

sgg. e 279.(29) Cfr. Retract. I, 20 (21|); e 5 £3), a proposito di Eccli. XXXIV,

(XXXI), 30.(30) Enarratio in Ps. XXXV, 9; Monceaux, o. c., pp. 153 e 286, meglio

• che Zarb, in Angelicum, XXIV 1947), 47-69.(31) Possid., Vita August., 6.(32) Nello stesso oap. 9.(33) Cfr. Contra Adimantum, XVII, 2; De serm. Dom. in m., I, 65.(34) C. Adim., XXVIII, 1; cfr. la η. 1.(35) C. Adim., V, 2; XIV, 1; XVII, 2-5; XVIII, 1; XX, 2; XXVI.(36) Cfr. C. Adim., XVII, 2: « indoctos et impios... qui quoniam non sunt

idonei videre ista, mole potius auctoritatis urgendi sunt.(37) Non mi è stato possibile — nelle condizioni in cui ho dovuto lavorare

nel Perù, senza avere a mia disposizione neppure la raccolta del Migne — procedere a una nuova rilevazione; e qui, me n’è mancato il tempo. D’altra parte, sebbene qualche citazione e allusione mi sarà quasi certamente sfug­gita, come suole accadere, e sebbene una verifica sia sempre desiderabile e opportuna, non credo che un nuovo oonlputo (dal quale vanno naturalmente escluse le citazioni ripetute) potrebbe alterare i risultati da me ottenuti in maniera tale da costringere a modificare le conclusioni esposte nel testo.

Comunque, chi volesse procedere a questa indagine, sobbarcandosi a un lavoro che esige attenzione e pazienza (più di quanta non ne abbia in questo momento io etesso) ma che considero utile, dovrebbe altresì curare non solo di raggruppare le citazioni e allusioni bibliche secondo i vari libri da cui sono tolte, ma altresì in certi casi, come per le Epistole paoline, per capitoli o gruppi di capitoli, e persino per versetti, secondo -gli argomenti; e, nel preparare g»li indici percentuali, tener conto della lunghezza dei diversi scritti di Agostino.

Ripeto pertanto che i dati qui sotto riassunti debbono considerarsi sola­mente come provvisori. Con questa avvertenza, ecco i risultati principali:

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1) fino al Contra Fortunatum; i eoli scritti agostiniani che contengono un nu­mero apprezzabile di citazioni bibliche sono, in ordine crescente, De vera re­ligione (56), De moribus Ecclesiae catholicae (75), De Genesi contra Manichaeos libri II (81, escluse quelle della stessa Genesi). Se ei consideri la diverea am­piezza delle varie opere, le citazioni appaiono proporzionalmente molto più ab­bondanti nel De fide et symbolo (85). Però, pur con l'avvertenza che si tratta di dati soggetti a revisione, vi è un vero salto quando dagli scritti esaminati si passi all'Enarratio in ps. XXXV (52; si consideri la sua brevità in confronto col De vera religione), al De sermone Domini in monte (280, escluse quelle di Matt. V-VII) e al Contra Adimantum (168). 2) le citazioni da S. Paolo man­cano in De lib. arb. I e II; in alcuni scritti, raggiungono invece un numero ab­bastanza elevato (De mor. Eccl. cath., 48; De Gen. c. Man., 36; De v. relig., 17; De fide et symb., 43; De serm. Dom., 116; Enarr. in ps. XXXV, 14; C. Adim., 45).

Quanto ai paesi di San Paolo più interessanti per la nostra indagine,1 Cor. XV è citato con maggior frequenza in De serm. Dom., Enarr. in ps. XXXV e C. Adim., e ancor più in De fide et symb., che in opere anteriori (De vera rei., De mor. Ecc.1. cath. De Gen. c. Man. e De mus. VI). Ho trovato citazioni di Rom. VII, 25 in De Gen. c. Man., De muis. VI (2 volte), De fide et symb. (2), De serm. Dom., Enarr. in ps. XXXV. E' interessante osservare che nel C. For­tunatum questo versetto è citato, insieme con Gal. V, 17 e VI, 14, ma da For­tunato, non da Agostino.

Comunque, il fatto che negli scritti posteriori al C. Fortunatum la cono­scenza che Agostino ha della Scrittura e l'uso ch'egli ne fa si siano notevol­mente accresciuti — il che è stato rilevato del resto anche da altri — mi seui- bra posto ormai fuori discussione; come pure il fatto che, da questo momento, la eua attenzione è attratta sempre più dall’epistolario paolino.

(38) C. Adim., XII, 5; XIV, 3; XV, 2; XVI, 2-3; ΧΧΙΙΙ-ΧΧίν.

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IV

Ecco dunque Agostino intento a rileggere e spiegare agli amici che gli fanno cerchio intorno, la Lettera ai Romani. Non è assurdo supporre che fin dall’inizio pensasse di poterne ricavare una voltao l’altra un vero e proprio Commento in forma di libro. Sta di fatto che, su preghiera dei compagni e forse in vista di un’elabo­razione ulteriore, mise intanto per iscritto le dilucidazioni che veniva dando via via (1). Queste si riferiscono, evidentemente, ai passi che lo colpivano maggiormente, e in relazione con i problemi che lp assillavano. Quali fossero, lo dimostra il fatto che l’interpre­tazione dei capitoli centrali dell’Epistola, dal V all’Vili, occupa poco meno di metà di quest’opera. Dovunque intravede il pericolo di cadere nel dualismo, o di stabilire un’antitesi troppo netta tra l’Antico Testamento e il Nuovo, Agostino corre ai ripari (2). Ma so­prattutto, egli si oppone recisamente a coloro, secondo i quali San Paolo avrebbe inteso negare all’uomo il libero arbitrio. La preoccupazione principale di Agostino è dunque ancora quella di combattere il manicheismo.

Gli stadi della vita spirituale sono ora quattro, descritti in termini molto più strettamente religiosi e scritturali di prima; l’an­tico linguaggio intellettualistico e di sapore filosofico è messo da parte. Le quattro tappe, per cui passano nel loro cammino verso la redenzione, così l’individuo singolo come l’intero genere umano, sono: prima della legge; sotto la legge; nella grazia; nella pace. Nel primo stadio, prima della legge, siamo completamente vittime e schiavi della carne e delle sue passioni. Esse scompariranno del tutto soltanto nell’ultimo stadio, ma non in questo mondo.

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bensì con la resurrezione, quando saremo rinnovati del tutto. In­fatti, se il peccato consiste nel non condiscendere alle passioni, sotto l’impero della Grazia e con l’aiuto di questa, l’uomo è già capace di non peccare; però i desideria carnis per se stessi, in quanto conseguenza della natura mortale del nostro corpo in seguito al peccato di Adamo, non cesseranno se non quando il corpo stesso avrà riacquistato l’immortalità (3). E questa spetta a tutti coloro che, con la loro fede, si siano resi degni della Grazia, la quale rafforza il libero arbitrio, sicché l’uomo così aiutato è in grado non solo di volere il bene, ma altresì di compierlo.

E’ nel libero arbitrio dell’uomo l’ottenere, mediante la fede, questo aiuto della grazia, elevandosi così dallo stadio sub lege a quello sub gratia. Quindi, la concessione della grazia implica una chiamata da parte di Dio, però giustificati non sono tutti i chia­mati, ma soltanto quelli secundum propositum, ossia coloro, dei quali Dio nella sua prescienza sa che avranno la fede. Questa tut­tavia dipende interamente dall’ uomo. Se di predestinazione si tratta, questa è nettamente post praevisa merita o, per essere più esatti, post praevisam fidem. Agostino infatti tiene ad escludere una giustificazione in virtù delle sole opere. E ciò è senza dubbio molto notevole ed importante. Nel pensiero di Agostino, in questo momento della sua vita e del suo sviluppo spirituale, Dio non elegge le opere, bensì soltanto la fede ; ma, ripeto, questa a sua volta dipende tutta dall’uomo. Quindi, in fondo la concessione della grazia è rimunerazione di un merito, di un atto d’umiltà, tale essendo da parte dell’uomo il riconoscere ch’egli per se ipsum surgere non valere. A coloro che, liberamente credono e pregano il Liberatore, Dio concede lo Spirito Santo e la capacità di operare il bene. Si tratta dunque di un premio concesso a chi vuole cre­dere, così come l’abbandono da parte di Dio, che trae seco l’operar male e la pena, punisce la cattiva volontà dell’incredulo (4). Dio, perfettamente giusto, non agisce con l’arbitrarietà di un tiranno, traendo dalla stessa argilla i vasa in honorem e quelli in ignominiam. Perciò l’uomo, dopo avere preso di sua volontà la deliberazione, se credere o no, non ha alcun diritto di lamentarsi di Dio. 11 solo momento in cui potrebbe dubitare della giustizia divina è quello in cui l’uomo si trova ancora sub Lege; ma egli a questo punto è ancora troppo ignorante per poter giudicare delle cose spiri­

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tuali. Finché è ancora « argilla », l’uomo è troppo immerso nelle cose di questo mondo, troppo « fango », per poter chiedere a Dio ragione del suo operare ; non appena si eleva allo stadio succes­sivo e diventa vaso in honorem, la giustizia di Dio gli si manifesta chiara e incontestabile (5). 1

Affermare tale giustizia è appunto ciò che ora più preme ad Agostino. Questa nuova lettura dell’Epistola ai Romani — fatta metodicamente e con ferma vqlontà di afferrarne il significato pro­fondo — gli fa sentire tanto più vivo il bisogno di conciliare l’esi­genza, impostagli dal testo sacro, di rendere a Dio il vero merito di ogni opera buona compiuta dall’uomo, con l’altro, di non attri­buirgli un agire arbitrario e di non far risalire a lui l’origine del male. Difendere e mantenere il libero arbitrio dell’uomo è per Agostino tanto più necessario, in quanto il suo testo lo porta a sottolineare il contrasto tra la materia — il corpo, questa carne mortale e agitata dalle passioni — e lo spirito. Del resto, questo era un motivo suggeritogli già dalla filosofia ch’egli conosceva e accettava ; ma che poteva anche ricondurre a un dualismo peri­coloso, quando fosse venuto a mancare il correttivo, l’idea della bontà del creato e di tutte le cose, ciascuna nel proprio genere e ordine. Perciò Agostino insiste tanto su questa idea. Però ora egli si trova di fronte al testo biblico. Fino a questo momento, egli è stato sempre sorretto dalla tranquilla fiducia, che la vera religione sia in perfetto accordo con la filosofìa, e che questa abbia rag­giunto tutte le verità contenute nel cristianesimo. Ora invece, con la partecipazione più piena ed attiva alla vita della Chiesa, la speculazione agostiniana si accentra intorno a un testo scritturale, che gli presenta il problema della salvezza sotto un aspetto in gran parte nuovo, non più intellettualistico, ma strettamente reli­gioso. Per il momento la grazia rimane, in fondo, per Agostino un’illuminazione della mente, la quale corona e rende efficace lo sforzo dell’uomo per elevarsi verso il mondo spirituale, sottraen­dosi all’impero delle cose sensibili ; il passaggio dell’uomo da car­nale a spirituale è effetto di un cambiamento che dipende intera­mente dalla sua volontà. D ’altra parte, sta di fatto che Agostino ora parla di predestinazione. Se non che, abbiamo veduto questa predestinazione quale sia; e il vero problema, quello del rapporto tra la predestinazione, la prescienza e l’onnipotenza di Dio, ancora

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gli sfugge ; così come non ha ancora una visione chiara di tutte le conseguenze del peccato originale. Quindi non si può dire, che Agostino non abbia modificato in nulla il suo modo di pensare, ma neppure si può parlare di un cambio completo e radicale. Indub­biamente nuovo in lui è questo sforzo di accostarsi al pensiero di San Paolo, non più attraverso dottrine filosofiche, ma direttamente. E questo, anche quando non vi fosse assolutamente nuli'altro, è già molto. E si potrebbe dire che %è moltissimo, o persino tutto, quando si considerino le conseguenze di questa novità ; ma esse sono, se guardiamo a questo preciso momento dello sviluppo di Agostino, soltanto potenziali. Ebbe Agostino allora coscienza della importanza di questo cambiamento, si da sentire d ’aver fatto un gran passo avanti e una notevole conqusta? Purché non si pre­tenda di attribuirgli la previsione di ciò che avvenne dopo, direi di sì. Infatti, nonostante tutti i punti deboli della dottrina da lui appena elaborata, nonostante la sua poca coerenza, l’essere ancora piuttosto una giustapposizione di elementi nuovi e vecchi, che non riescono a combinarsi e comporsi in un tutto veramente saldo e armonico ; di questa dottrina elaborata nel leggere la lettera Ai Romani Agostino sembra essere ora perfettamente soddisfatto.

Infatti, si accinse subito a scrivere un ampio commento siste­matico all’Epistola. Non ne rimane altro che un frammento, ossia la Epistolae ad Romanos inchoata expositio. Egli stesso racconta come e perchè si accontentò di pubblicarlo (6). Il pensiero che vi è esposto, come è naturale, corrisponde perfettamente a quello che abbiamo or ora constatato. La grazia è quella che rimette i pec­cati ; ma sarebbe ingiusto che Dio non perdonasse a coloro che si pentirono ; il pentimento d’altronde deve essere accompagnato dal fermo proposito di non ricadere e dalla coscienza che per evitare il peccato è necessario l’aiuto divino. Dunque, la grazia precede il pentimento ; essa è un ammonimento che Dio manda, una vocatio rivolta a tutti gli uomini in quanto esseri ragionevoli : insomma, essa è in fondo un’illuminazione della mente, per cui l’uomo, pec­catore seguace dei beni terreni, si ravvede del proprio errore (7).

L ’Expositio inchoata non andò più in là del primo libro; dal canto suo, la Expositio quarundam propositionum rappresenta sol­tanto un primo tentativo, forse destinato in origine a circolare solo tra una cerchia di amici poco più larga del gruppo che prese parte

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aila lettura del testo e alle discussioni su di esso. Però non è avventata l’ipotesi che il materiale da Agostino raccolto, o forse una prima stesura del commento stesso ad alcuni passi tra i più significativi, sopravvive ancora. Agostino stesso infatti ci racconta che le sue 83 Quaestiones (De diversis quaestionibus LXXXII1), « dispersae... per cartulas multas » furono da lui fatte raccogliere quando era già vescovo ; che però aveva incominciato a redigerle subito dopo il suo ritorno in Africa, « nulla servata ordinatione » ma solo per rispondere a domande che gli venivano rivolte (8). Anche nella raccolta pervenuta sino a noi risulta impossibile tro­vare un criterio che spieghi l’ordine in cui sono disposte. Al con­trario, si prestano a una suddivisione in gruppi, ognuno dei quali possiede una certa unità, un certo legame ideale, che si lascia scorgere abbastanza chiaramente. Così, se soltanto consideriamo gli argomenti trattati, vediamo che in un primo gruppo si discorre spesso della natura deH’anima, di Dio come creatore, dell’origine e della natura del male, del libero arbitrio (9). Appare evidente in questo gruppo lo scopo di combattere il manicheismo (10). Un esame interno più accurato permetterebbe forse di stabilire paral­lelismi di espressioni o di pensiero con questa o quell’opera di Agostino, e quindi arrivare a una datazione, almeno approssima­tiva, mentre l’avversione al manicheismo per sé sola, non basta. Ma un tale esame, per quanto interessante, ci condurrebbe ora troppo lontano ; e d’altra parte l’ipotesi — che si presenta spon­tanea — che queste Quaestiones siano precisamente le prime re­datte da Agostino subito dopo il suo ritorno in patria, è avvalorata dal fatto che solo nella qu. Z I troviamo una citazione biblica, solo nella qu. 29 commentato un passo di San Paolo, mentre ancora la qu. 31 è intorno a un luogo di uno scrittore pagano (11). Per di più, a partire dalla quaestio 51, troviamo tutto un gruppo che tratta, quasi senza eccezione, di materia biblica. Ma di nuovo non solo manca in esso qualsiasi ordine sistematico, ma anche il tentativo di considerare le varie questioni disposte secondo l’or­dine dei libri della Bibbia non dà completa soddisfazione. Infatti, si passa bensì dal Genesi all’Esodo al Cantico dei Cantici e a un Salmo; ma più innanzi ecco tre questioni suggerite da Matteo (e collocate in un ordine contrario a quello dei luoghi che commentano) interporsi tra un gruppetto di due e un altro di tre, che si riferi-

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scono a Giovanni; e mentre in opnuno di essi è seguito l’ordine dei passi nel Vangelo, i due gruppi riuniti non formano una serie (12). Però il fatto di poter isolare un intero gruppo di questioni di ca­rattere nettamente esegetico, a noi potrebbe bastare, dopo quanto abbiamo osservato, per considerarle come non anteriori al pe­riodo in cui Agostino si è dedicato, dopo la sua ordinazione sacer­dotale, a un rinnovato e approfondito studio della Scrittura. Non è forse da escludere che troviamo qui un residuo (anche se ridotto a semplici tracce) dell’attività iniziale di Agostino nel campo della predicazione. Comunque, è chiaro che le varie questioni sono di­sposte secondo un ordine che è, sia pure in maniera approssima­tiva, quello cronologico : e ciò sembra tanto più probabile in quanto è da supporre che tale sarà stato, press’a poco, anche quello in cui le varie cartulae furono trovate e disposte al mo­mento della loro pubblicazione.

Tanto più significativo e tanto meno sorprendente appare dun­que il fatto che questo gruppo di questioni sia seguito da altre, destinate a commentare passi di S. Paolo; e che tre di esse, con­secutive, e disposte nell’ordine del testo, si riferiscano alla lettera Ai Romani (13). E ’ dunque da supporre che devono essere presso a poco contemporanee agli altri due scritti sulla medesima epistola, teste esaminati ; e ne risulta almeno la possibilità, che rappresen­tino, almeno in parte, lavori preparatori per il grande commento, che. come sappiamo, Agostino si era accinto a scrivere (14).

Perciò queste tre Quaestiones meritano di essere esaminate con una certa cura. La qu. 66 presenta anch’essa la distinzione dei quattro stati, ante Legem, sub Lege, in gratia, in pace, con le solite spiegazioni (15). E ’ notevole che Agostino ritiene che fino a Rom. VII, 23 parli l’uomo sub Lege (ΓApostolo non si riferisce dunque a se'stesso). In tale uomo, la consuetudo carnalis e la mortalità, conseguenza del peccato di Adamo, sonò ancora più forti della vo­lontà di non peccare. Per vincere, occorre la grazia del Libera­tore, onde l’uomo riconosce che suo è il cadere, non però il risollevarsi ; e deve ancora lottare contro la mortalità della carne, che Adamo si meritò per il suo peccato, ma non può vincere. Alla prudentia carnis che tende verso i beni temporali e impedisce alla anima di adempiere i precetti della legge, si contrappone la prudentia

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spiritus, la quale fa rivolgere l’anima verso i beni superiori e an­nulla le passioni e la prudentia della carne. Ai piaceri carnali ce­dono cjunque coloro che sono ancora « nella carne » ; ma anche chi è già al terzo stadio, sub gratia, avverte in sè, benché non si lasci vincere, quella lotta, che è destinata a cessare solo nello stadio successivo e finale, con la resurrezione (16).

La qu. 67 commenta Rom. Vili, 18-24 e anch’essa contiene qualche dichiarazione interessante per noi. Il peccato di Adamo ha trasformato l’uomo sottoponendolo all’inganno, che è pena del peccato d ’Adamo, stabilita da Dio : ma temporaneamente, in vista della redenzione futura. Infatti col peccato l’uomo ha perduto il segno della somiglianza con Dio ed è rimasto semplicemente crea­tura, cioè non perfettamente e autenticamente figlio di Dio. Ma anche di coloro che non sono ancora figli di Dio non si deve disperare : costoro, che pure non hanno ancora la fede e sono soltanto creature, crederanno anch’essi e saranno liberati dalla morte, così come gli altri che già credono e sono figli di Dio, ma senza che ciò appaia, perchè ancora non è giunta la resurrezione. E ’ notevole qui che, ponendo se stesso e altri già nel novero dei (( figli di Dio », Agostino mostri così di considerarsi come già per­venuto al terzo grado, allo stadio cioè sub gratia. Ma non meno notevole è che in questo momento egli concepisce la redenzione come concessa, — o per lo meno accessibile — a tutti (17).

Più lungo discorso richiede la quaestio sequente, 68, su Rom. IX. 20-21. Agostino comincia col riprendere certe intepretazioni erronee : mentre la celebre domanda di S. Paolo è rivolta contro la «curiositas» (18), alcuni empiamente vogliono sostenere che l’a­postolo in quei versetti, non abbia fatto altro che cercare una scap­patoia : sentendosi incapace di dare una spiegazione soddisfacente, S. Paolo secondo costoro avrebbero cercato di distogliere anche gli altri dal ricercare il vero. I manichei, poi, sostenevano che quel versetto 21 era un’interpolazione introdotta nelle lettere dello Apostolo, dalle medesime persone che, secondo gli stessi manichei, avrebbero introdotto nel testo dell’apostolo le citazioni dell’Antico Testamento. Contro tutti costoro, Agostino rileva che le parole dell’apostolo si riferiscono non già ai ” santi ” o ” spirituali ” che posseggono la verità, ma ai ''carnali ” , ai ” fangosi e terreni ” che, non ancora rigenerati, portano tuttavia in sé l’immagine di

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Adamo: coloro stessi ai quali, non essendo ancora ” figli di Dio ” si applica (come egli ha detto nella quaestio precedente) il termine di ” natura ” : insomma, coloro che non sono ancora giunti allo stadio sub gralia, ma sono rimasti al secondo, sub lege. In­fatti, dopo il peccato di Adamo, gli uomini sono formati secondo la carne, e divenuti pertanto una sola ” m assa” di fango, che è ” massa ” di peccato. Ora, avendo perduto co! peccato ogni me­rito, e non essendo i peccatori, quando la misericordia divina s’è allontanata da loro, degni d'altro che di dannazione, come può l’uomo che appartiene a questa ” massa ” chiedere a Dio che risponda alle sue domande? Per conoscere la giustizia divina, bi­sogna liberarsi da questa condizione di ” fango ” e diventare figli ci Dio. Tali si diventa, grazie alla misericordia divina, quando si crede in Lui : il semplice desiderio di conoscere i segreti della giu­stizia e misericordia divina non basta. Infatti tale conoscenza ricom­pensa i meriti, che si acquistano con l’aver fede ; mentre a sua volta la grazia, concessa attraverso la fede, non rimunera alcun merito precedente dell’uomo, che finché rimane nel secondo stadio non è che un peccatore. Cristo, dice ora Agostino, è morto per gli empii e i peccatori, affinchè noi fossimo chiamati alla fede, ma non in virtù di alcun merito anteriore ; e credendo acquistassi­mo dei meriti. Bisogna quindi incominciare dalla fede, perchè i precetti di Cristo, che inducono i credenti a staccarsi'da questo mondo materiale, purifichino i loro cuori : quando l’uomo si sia purificato, allora conoscerà i segreti della grazia e della giustizia, e saprà se vi siano meriti arcani. Infatti Dio opera secondo la sua volontà sovrana : ha compassione di chi vuole e indurisce il cuore di chi vuole. Ma questa volontà di Dio è razionale e giusta ; quindi essa tiene conto di meriti nascosti e segretissimi, così che anche sei peccatori costituiscono una sola massa, pure vi sono tra loro certe differenze ; alcuni, sebbene non ancora giustificati, sono degni di esserlo, altri no.

Ora, ci deve essere una ragione di tale differenza. E nondi­meno tutto dipende da Dio e dalla sua misericordia : non basta il pentirsi, non basta il desiderio, se Dio non viene in aiuto; Io stesso desiderio è suscitato in noi da Dio. Infatti, l’uomo non può volere qualche cosa senza aver sentito uno stimolo, ricevuto un invito, un richiamo, che gli pu·» essere rivolto sia dall’interno,

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sia dall’esterno (per mezzo di parole o di segni). Così è Dio che causa in noi il volere. La parabola del banchetto conferma questa interpretazione : vi è dunque una vocatio rivolta all’uomo, che è libero, e della quale si può dire che crea la volontà buona o cat­tiva, prima che esista ogni merito. Chi risponde alla chiamata, non può attribuire a se stesso il fatto di essere stato chiamato ; chi non risponde, si acquista un merito negativo, per cui è punito giu­stamente (19).

La giustizia di Dio : questo è il punto che Agostino tiene a difendere, evidentemente contro i manichei (20). Pertanto egli tiene a far rilevare che il peccato è conseguenza unicamente d ’un atto dell’uomo, ha le sue origini nel libero arbitrio. E, data quella sua concezione della vocatio, il rivolgersi a Dio, il credere a Cristo, diventa un atto del tutto volontario, libero, autonomo deU’uomo; la redenzione consiste nella purificazione dell’anima, nello staccarsi cioè dal mondo materiale, seguendo i precetti evangelici. Così, gli occultissimo merita, non si intendono se non come meriti futuri che uno si acquisterà credendo, e che sono tuttavia già noti alla prescienza divina, ma ad essa sola; in tal senso, possono dirsi occultissimi. Agostino si sforza di avvicinare le sue concezioni, maturate e conservate per tanti anni, al pensiero dell’apostolo, ma in fondo non le modifica sostanzialmente. Il pensiero che si mani­festa in queste quaestiones è ancora in sostanza lo stesso che abbiamo trovato nell’Expositio quarundam propositionum. E della soluzione data alle difficoltà che gli si presentavano, Agostino deve essere rimasto così soddisfatto, che egli abbandonò, è vero, l’idea di scrivere un grande commento a Romani; ma per qualche tempo non sentì il bisogno di ristudiare questa lettera (21).

Non mancano nelle questioni successive affermazioni dello stesso genere di quelle che abbiamo veduto or ora. Così nella qu. 70, a proposito di I Corinzi, XV, 54-56, Agostino ribadisce il concetto che « morte » significa la « consuetudine carnale » che, desiderando beni terreni, resiste alla buona volontà, cioè allo spirito illuminato e vivificato. Questa è la condizione in cui l’uomo si trova, onde ha bisogno dell’aiuto che Dio gli porge mediante gli angeli e gli uomini buoni ; ne sarà liberato con la resurrezione allorché egli avrà rivestito il « corpo spirituale » e la volontà buona non troverà quindi più ostacoli. Tale era stato creato Adamo; ma

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dopo il peccato di lui, il genere umano ha meritato la morte (22). E allo stesso modo, sebbene in una forma abbreviata, direi di ellissi, la quale a prima vista può forse indurre a una interpreta­zione differente, mi pare che Agostino si esprima altresì nella qu. 76, su Giacomo II, 20 (23). E infatti ancora nella quaestio 82, troviamo il concetto di una giustizia suprema e assoluta, che è di Dio, e un’affermazione del libero arbitrio (24).

Questa, della libertà del volere, è ancora la preoccupazione fon­damentale per Agostino, che vi ritorna sopra nel L. Ili del De libero arbitrio. Al principio del quale sembra posto nettamente· il problema del rapporto tra prescienza e onnipotenza di Dio, ossia tra la prescienza divina e la predestinazione, o il libero arbitrio umano. Evodio, anche ammesso il libero arbitrio, vuol sapere donde sorga la tendenza della volontà verso i beni inferiori ; in­fatti se questo moto dell’anima fosse necessitato, la responsabilità morale dell’uomo svanirebbe. Al che Agostino replica che si tratta d ’un movimento volontario, ed Evodio si dichiara convinto. Ma propone una difficoltà più grave : come si concilia questa libertà umana con la prescienza divina? Quest’ultima non si può negare e d ’altra parte, ciò che Dio conosce, deve realizzarsi. Ecco h dubbio che, dice Evodio, ineffabiliter me movet. Agostino scorge il pericolo di ricadere nuovamente nel manicheismo, e questo ti­more lo ispira durante tutta la discussione. La sua argomentazione è alquanto complicata; ma, nonostante l’abuso della dialettica for­malistica, e il perdersi in disquisizioni sottili che in realtà non fanno progredire la ricerca, quella preoccupazione fondamentale appare evidente. Dopo quella schermaglia preliminare, si torna ad affron­tare la questione in tutta la sua gravità. Dio è nello stesso tempo giusto e presciente ; ma con che giustizia punirebbe peccati, il cui realizzarsi è necessitato? Oppure ci sono cose di cui Dio ha pre­scienza e che non si realizzano necessariamente? Oppure si può non attribuire al Creatore ciò che accade di necessità? E qui tro­viamo finalmente la distinzione che aspettavamo : quella tra la pre­scienza di Dio e la sua onnipotenza. L’apparente contraddizione tra la libertà umana e la prescienza divina, osserva ora Agostino, non dipende dal fatto che si tratta di prescienza di Dio, ma sempli­cemente dall’essere prescienza, conoscenza previa di cosa certa e rale. In tal modo, la prescienza di Dio può paragonarsi alla previ­

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sione o prescienza dell’uomo. Allo stesso modo che tu — egli dice a Evodio — con la tua prescienza conosci ciò che un altro farà vo­lontariamente, così Dio, senza obbligare nessuno a peccare, prevede coloro che peccheranno per loro volontà. Inoltre, la prescienza di Dio si può paragonare anche alla memoria dell’uomo. Allo stesso modo che tu con la tua memoria non obblighi le cose del passato a essersi realizzate, così Dio con la sua prescienza non obbliga a realizzarsi le cose future. Pertanto Dio può castigare con tutta giustizia peccati di cui egli ha prescienza, ma non è l’autore (25).

Questa argomentazione è interessante, perchè in esse s’intrav- vede già come un’anticipazione delle profonde analisi psicologiche che sono caratteristiche delle opere .posteriori di Sant’Agostino e giustamente celebri. Però è evidente che, animato dalla preoccu­pazione di opporsi ai manichei e ribattere le obiezioni che essi pote­vano sollevare, egli non ne vide altre, o non se ne preoccupò molto. La sua ansia di combattere i manichei si fa evidente, quando lo vediamo insistere sull’ordine e la perfezione dell’universo e fondare la sua interpretazione della salvezza su questi concetti. L ’anima del­l’uomo, legata al corpo mortale, è ora incapace di nutrirsi del Verbo divino, cibo di ogni natura razionale : essa, ora, non sa più sfor­zarsi di comprendere le cose invisibili, se non per mezzo di conget­ture che ricava dalle cose visibili. Perciò il Verbo si è reso visibile mediante l’incarnazione. Gli uomini, in seguito al peccato di A- damo, erano soggetti al demonio : dominazione non fondata sulla forza, ma pienamente giuridica, perchè, essendosi Adamo dato al demonio, questi ha continuato a possedere il genere umano, così come al possessore di buona fede spettano i frutti dell’albero. Per­ciò il Verbo non ha neppur esso ricorso alla forza, bensì provocando il consenso dell’uomo, allo stesso modo che il demonio aveva otte­nuto il consenso di Adamo. Cristo è dunque venuto a rivelare il bene, come un maestro. Ma si tenga presente, aggiunge Agostino, che ogni difetto è qualche cosa che si contrappone alla natura della còsa divenuta difettosa, e che pertanto questa natura i n . sè rimane buona, e quindi va lodata ; quanto più, dunque, il suo Creatore ! Da biasimare sono soltanto i difetti stessi, e i peccati. I quali, dun­que, in quanto si contrappongono a Dio, sono volontari (26).

Evodio è tuttavia soddisfatto solo fino a un certo punto. Se non è la prescienza di Dio quella che fa peccare gli uni e non pec­

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care gli altri, egli tuttavia vorrebbe sapere la ragione di questo diverso comportarsi degli uomini. E se la causa è nella volontà, allora qual’è la causa della volontà? Al che Agostino risponde che questo ricercare continuamente la causa della causa è un desiderio sfrenato di conoscere, una cupidigia non dissimile dall’avarizia, radice di tutti i mali (cfr. I Tim. VI, 10). Del resto, questa cupi­digia non è che una volontà cattiva : ecco dunque la causa di ogni male. Ma poi, dopo un'argomentazione piuttosto verbalistica, e in cui in sostanza Agostino dice soltanto che, qualunque sia la causa della volontà, è solo il determinarsi di questa verso il bene o il male che merita premio o castigo, egli riconosce che si rimpro­verano all’uomo anche azioni commesse per ignoranza. E questa osservazione, avvalorata anche da citazioni di passi biblici cruciali, conduce Agostino a considerare la condizione dell’uomo dopo il peccato di Adamo. La sua debolezza, la sua incapacità di essere buono è una pena, e certamente giusta poiché viene da Dio ; quindi pena di un peccato. Infatti questa incapacità di scorgere il vero non può essere qualche cosa di inerente alla natura umana, che altrimenti, se il peccare fofcse per l’uomo cosa naturale, non sa­rebbe più imputabile, ossia non sarebbe peccato. Ma quando par­liamo di libera volontà di fare il bene, ci riferiamo alla condizione in cui l’uomo è stato creato. Ma non si può dire che la condanna dell'umanità per la colpa dei progenitori sia ingiusta-, tale sarebbe infatti soltanto se nessuno fosse in grado di sottrarsi all’errore o alla passione. Invece Dio è sempre presente, e in molti modi chiama a sé l’uomo ; da lui dipende l’ascoltare questa chiamata, o il respingerla. In quest’ultimo caso, l’uomo si rende direttamente col­pevole, per avere rifiutato la salvezza che gli è stata offerta. Infatti le azioni commesse soltanto per ignoranza, o l’incapacità di operare il bene, pur volendo, si chiamano peccati solo per metonimia, in quanto hanno la loro origine sul peccato del progenitore. Quindi il termine « peccato » ha due sensi, uno proprio e l’altro estensivo, allo stesso modo che anche « natura » si usa talvolta nel senso di « natura viziata », come p. es. S. Paolo in Ephes. II, 3. Ma, insomma, alla ignorantia e alla difficultas che l’ostacolano, l’anima umana può sempre sottrarsi, sicché la sua condizione gravosa, la sua pena, dovrebbe tradursi piuttosto in un’incitamento a rispondere all'appello che Dio continuamente le rivolge. Così Agostino è tratto

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ad occuparsi dell’origine dell’anima. Tra le diverse ipotesi, egli rimane incerto e vorrebbe che ognuno, riconoscendo che si tratta di quesfione oscura e dubbia, rispettasse le opinioni altrui (27). Ma l’importante è che, se l’anima è incolpata non a causa di ciò che essa ignora o di cui è incapace ma per non aver voluto sapere o agire, Dio la punisce giustamente (28).

Nell’insieme, come si vede, e se prescindiamo dalla discus­sione, per quanto importante, intorno alla prescienza, non troviamo qui posizioni dottrinali nuove, in confronto con gli altri scritti di questo periodo (29). Però questo stesso problema della relazione tra prescienza divina e libertà umana sembra presentarsi, ad Ago­stino piuttosto per la necessità di respingere argomentazioni e obie­zioni dei manichei, che per un’esigenza completamente interiore sorta dalla riflessione intorno alla dottrina di San Paolo. E siccome egli ripete le spiegazioni date nei commenti già esaminati, vi è ragione di credere che, per il momento, queste gli sembrassero del tutto convincenti.

Ma c’è ancora qualche cosa di nuovo. Agostino affronta un problema che non gli si è ancora presentato. A qual fine, dato l’or­dine e la perfezione del creato, vengono al mondo quei bambini che muoiono nell’atto stesso del nascere, incapaci quindi di deter­minarsi in un senso o nell’altro? E quale sarà la sorte di queste anim e? Egli non esita ad affermare che vi può essere una vita intermedia tra il peccato e l’operare bene, e così una vita ultra- terrena intermedia tra il premio e la pena. V’è anche — sog­giunge — chi si domanda a che giovi il battesimo degl’infanti ; i quali, se muoiono subito e non hanno potuto acquistarsi né colpa nè merito, non dovrebbero essere, in giustizia, né condannati né premiati. Che Agostino si prospetti ora queste difficoltà è partico­larmente interessante, quando si ricordi quale importanza l’argo­mento tratto dal battesimo degl’infanti assunse poi nella con­troversia con Pelagio. Ed egli risponde che il Battesimo è l’in­troduzione alla vita cristiana, cioè alla via verso la perfezione, fondata sulla conoscenza del bene e l’adesione, libera, a questo. Nel battesimo conta la fede la quale è prestata agli infanti dai genitori. Da ciò ognuno può arguire quanto valga la fede propria : e questo basta per giustificare la prassi della Chiesa (30) nel battez­zare gli infanti. Ma non è meno importante che Agostino si preoc-

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cupi di difendere tale prassi. Come non è senza importanza che anche in questo libro egli si occupi delle eresie (31); per non pariare delle citazioni di San Paolo e del carattere più strettamente religioso e meno intellettualistico che anche la sua polemica contro il manicheismo è venuta assumendo.

Accanto alla lettera Ai Romani era naturale che attirasse la attenzione di Agostino quella Ai Calati, a commentare la quale egli

. si accinse in questo stesso torno di tempo, forse come esercizio preparatorio al Commento a Romani, oppure con l’intenzione di redigere un commentario completo a S. Paolo. Anche qui ritro­viamo i-quatro stadi già segnalati, anche qui l’Apostolo è conside­rato in realtà giunto ormai a quello sub gratia, anche qui il con­cetto che Agostino ha della grazia è sostanzialmente quello di una illuminazione intellettuale per cui l’uomo è messo in grado di eser­citare con piena efficacia il suo libero arbitrio. La grazia pre­senta alla volontà umana i beni superiori e spirituali che si con­trappongono a quelli materiali e sensibili, affinchè la nostra volontà (che non può non rivolgersi a ciò che più la diletta, e se le due attrattive sono eguali rimane incerta), così illuminata, scelga i primi beni e non i secondi. E neppure la spiegazione circa la necessità della grazia, quando la si consideri da vicino, presenta alcunché di nuovo (32).

Lo studio di S. Paolo ha dunque posto Agostino di fronte a qualche problema nuovo. Lo ha spinto soprattutto a considerare la salvezza dell’anima non più come un graduale elevarsi alla cono­scenza della verità, ossia, intellettualisticamente (anche ammettendo che per lui la purificazione era condizione preliminare e indispen­sabile per tale elevazione) bensì in modo più specificamente reli­gioso, in termini di grazia, di fede, di giustificazione. Com’era na­turale, egli cercò di adattare il s io pensiero a questo nuovo modo di vedere, muovendo evidentemente dalla convinzione in lui ben radicata che nelle conclusioni ultime vera religione e vera filosofia coincidono. E poiché in base a questo concetto, il male morale e l’errore sono a loro volta identici, egli ha potuto mantenere la sua concezione del mondo come ordine e del peccato come violazione di Quest’ordine e quindi totalmente volontario da parte dell’uomo, e di Dio, supremamente buonp in quanto creatore e supremamente giusto in quanto punisce. Dalla giustizia divina egli fa dipendere

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anche la condizione, dell’uomo, che nonostante sia dotato di anima razionale può peccare e anzi in certi stati non può farne a meno : e la pena cuf l’intero genere umano è sottoposto, da quandoil corpo è stato reso mortale. In tutto questo, non c’è — come abbiamo notaio — nessun cambiamento. Ma quell’antico ottimismo, per cui Agostino si mostrava così sicuro che gl’indotti affidandosi all’autorità e i più sapienti in virtù della ragione avrebbero tutti egualmente potuto assurgere a una certa conoscenza di Dio e del vero, si è alquanto attenuato. Egli non parla più con l’antico calore, della voce divina che risuona nel cuore di ogni uomo ; am­mette che alla chiamata di Dio l’uomo possa non rispondere, anzi proprio pèr dimostrare che la salvezza è possibile (e quindi il pec­cato volontario e la pena meritata e Dio giusto), riconosce che al­cuni si salvano, sottraendosi all’impero della carne. E ’ chiaro — an­che se Agostino non lo dice esplicitamente — che ciò rende tanto più necessaria l’adesione alla Chiesa e la partecipazione ai suoi sa­cramenti. Il professore di retorica e di filosofia si è cambiato in apologista e a questo, che continuava a ispirarsi in concezioni filo­sofiche, si sono aggiunti in lui l’ecclesiastico e l’esegeta. Non è difficile concludere che l’esercizio del ministero sacerdotale e la più piena, diretta e assidua partecipazione alla vita sacramentale della Chiesa abbiano contribuito ad attenuare quell’ottimismo di un tempo, per cui Agostino si sentiva sicuro di essere del numero degli eletti. Ma questo cambiamento è avvenuto attraverso la lettura e la meditazione delle Epistole di San Paolo. E si tratta di un cambio che non ha nulla di brusco, di rivoluzionario, e non è ancora nemmeno molto considerevole; però fu un cambiamento ef­fettivo ed ebbe conseguenze importanti.

N O TE

(1) Cfr. Retiact. I, 22 (23), 1.(2) Expositio quarundam propositionum ex epistola ad Romcmos, 9: « ira »

di Dio significa in realtà « castigo » e d'altronde di quest’ira parla non solo l'Antico ma anche il Nuovo Testamento (a Rom. II, 5); 11: S. Paolo non stabi­lisce alcun contrasto tra le due parti della Bibbia, però la Legge si deve interpretare allegoricamente (a Rom., II, 29); 49: l'apostolo non permette af­fatto di concludere, dualisticamente « tamquam ex adverso principio aliquam naturam, quam non condidit Deus, inimicitiae adversus Deum exercere » (a Rom. VIII, 7); 53: è falso che vegetali e minerai siano dotati di sensibilità

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(a Rom. Vili, 19-20 e 23); 54: solo agli stolti possono sembrare inutili certe tribolazioni, ohe invece Dio ci manda per il nostro bene (a Rom* VIII, 27).

(3) Expos. quarr. propp., 13-18 (a Rom. Ili, 20): « Quod' autem dicit *’ Quia non iustificabitur in lege... " » et caetera similia, quae quidam putant in con­tumeliam legie obicienda, eoi licite sa tis legenda eunt, ut neque lex ab Apostolo improbata videatur, neque homini arbitrium liberum sit ablatum. Itaque quat­tuor istos gradus hominis dietinguamus, ante Legem, sub Lege, in gratia, in pace. Ante legem, sequimur concupiscentiam camis; sub Lege, trahimur ab ea; 6ub gratia, nec sequimur eam nec trahimur ab ea; in pace, nulla est con­cupiscentia carnis. Ante Legem ergo non pugnamus, <juia non eoJum concupi- 6cimus et peccamue, eed etiam approbamus peccata. Sub Lege pugnamus, sed vincimur; fatemur enim mala esse quae facimus, et fatendo mala esse, utique nolumus facere, eed quia nondum est gratia superamur. In ieto gradu ostendi­tur nobis quomodo iaceamus et dum eurgere volumus et cadimus, gravius affligimur. Inde hic dicitur « Lex subintravit ut abundaret delictum » (Rom., V, 20). Inde et quod nunc positum est « per Legem enim cognitio peccati ». Non enim ablatio peccati esi; quia per eolam gratiam aufertur peccatum. Bona est ergo Lex quia ea vetat quae vetanda sunt, et ea iubet quae iubenda sunt. Sed cum quieque illam viribus euie se putat implere, non per gratiam Liberatoris sui, nihil ei prodest ista praesumptio; immo etiam tantum nocet, ut et vehementiori peccati desiderio rapiatur et in peccatis etiam praevaricator inveniatur. « Ubi enim non est Lex, nec praevaricatio ». (Rom. IV, 15). Sic ergo iacens cum se quisque cognoverit per se ipsum eurgere non valere, im­ploret Liberatoris auxilium. Venit ergo gratia quae donet peccata praeterita et conantem adiuvet et tribuat charitatem iustitiae et auferat metum. Quod cum fit, tametsi desideria quaedam carnis, dum in hac vita sumus, adversu6 spi­ritum nostrum pugnant ut eum ducant in peccatum, non tamen his desiderile coneentiene epiritue, quoniam est fixue in gratia et charitate Dei, desinit pec­care. Non enim in ipeo desiderio pravo, eed in nostra consensione peccamus. Ad hoc valet quod dicit idem apoetolus « Non ergo regnet peccatum in vestro mortali corpore ad obediendum desideriis eius» (Ro. VI, 12). Hinc enim osten­dit esse desideria, quibus non obediendo, peccatum in nobie regnare non si­nimus. Sed quoniam ista desideria de carnis mortaiitate nascuntur, quae trahimus ex primo peccato primi hominis, unde carnaliter naecimur, non finien­tur haec nisi reeurrectione corporis immutationem illam quae nobis promittitur meruerimue, ubi perfecta pax erit, cum in quarto gradii constituemur. Ideo «tutem perfecta pax, quia nihil nobi6 resietet non resistentibus Deo... Liberum ergo arbitrium perfecte fuit in primo homine, in nobis autem ante gratiam non est 1iberum arbitrium ut non peccemus, sed tantum ut peccare nolimue. Gratia vero efficit ut non tantum velimus recte facere, sed etiam poeeimue, non vi­ribus nostri6, eed Liberatoris auxilio, qui nobis etiam perfectam pacem in re­eurrectione tribuet (Cfr. per i 4 etadi, C. Fortun. 22 al c. ΙΠ, n. 2); 21: « Deue per gratiam dedit, quia peccatoribus dedit, ut per fidem iuste viverent, id est ope­rarentur. Quod ergo bene operamur, iam accepta gratia, non nobie sed illi tribuendum est, qui per gratiam nos iustificavit » (a Rom. IV, 4); 30: «Data e6t Lex ad ostendendum quantis quamque arctis vinculi6 peccatorum costringe- rentur qui de 6uie viribus ad implendam iustitiam praesumebant » (a V, 20).

Nel terzo eiadio « homo iam mente servit Legi Dei, quamvis carne serviat legi peccati. Non enim obaudit deeiderio peccati, quamvie adhuc eollicitent concupiscentiae et provocent ad conseneionem donec vivificetur etiam corpus

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et absorbeatur more in victoriam (cfr. I Cor. XV, 55). Quia enim non consenti­mus desideriis pravie, in gratia sumus, et non regnat peccatum in nostro mor­tali corpore.» (35; a VI, 14). Ma nel eecondo stadio, l'uomo « peccatis vincitur dum viribus suis duste vivere conatur sine adiutorio liberantis gratiae Dei. In libero autem arbitrio habet ut credat Liberatori et accipiat gratiam, ut iam illo qui eam donat liberante et adiuvante non peccet, atque ita desinat esse *ub Lege» (44, a VII, 19-20); «In eo enim est damnatio, quod obtemperamus et servimus desideriis pravis carnalibus. Si autem existant et non desint talia desideria, non tamen his obediamus, non captivamur et sub gratia iam eumus » (45; a Vii, 22).

(4) Expos. quarr. piopp. ex Ep. ad Roni., 55: « Manifestum est non iusti- ficatos nisi vocatos, quamquam non omnee vocatos, sed eos qui secundum pro­positum vocati sunt... Non enim omnes qui vocati eunt, secundum propoeitum vocati sunt: hoc enim propositum ad praescientiam et ad praedestinationem Dei pertinet, nec praedestinavit aliquem, nisi quem praesciverit crediturum, et se­cuturum vocationem suam» (a VIII, 30); 60; « Respondemus praeeeientia Dei fac­tum esse, qua novit etiam de nondum natis qualis quisque futuru« sit... nisi quisquam credat in eum et in accipiendi voluntate permaneat, non accipit donum Dei, id est Spiritum Sanctum, per quem diffusa caritate bonum possit operari. Non ergo elegit Deus opera cuiusquam in praescientia, quae ipse daturus est, sed fidem elegit in praescientia ut quem sibi credituTum esse praescivit, ipsum elegerit cui Spiritum Sanctum daret... Quod ergo credimus, nostrum est; quod autem bonum operamur, illius est qui credentibus in se dat Spiritum Sanctum... Quod si vocatus vocantem secutus fuerit quod est iam in libero arbitrio, mere­bitur et Spiritum Sanctum... in quo permanens... merebitur etiam vitam aeter­nam » (a IX, 16); 62: «In his quos damnat, infidelitas et impietas inchoat poenae meritum... bona per donum Dei operemur et mala per supplicium; cum tamen homini non auferatur liberum voluntatis arbitrium, sive ad credendum Deum, ut consequatur nos misericordia, eive ad impietatem, ut consequatur supplicium» (a IX, 19 sgg.).

(5) Expos. quarr. propp. ex epist. ad Rom., 62: « Quamdiu figmentum es, inquit, et ad massam luti pertinee, nondum perductus ad spiritalia ut sis spi­ritalis omnia iudicans et a nemine iudiceris, cohibeas te oportet ab huius- modi inquisitione et non res<pondeas Deo » (a IX, 21). Per le discussioni su que- eto passo, v. più avanti, cc. VI e VII.

(6) Retract. I, 24 (25), 1.(7) Epist. ad Rom. inch. expos., 8: « Gratia est ergo a Deo patre et Do­

mino nostro Iesu Christo, qua nobis peccata remittuntur, quibus adversabamur Deo; pax vero ipsa qua reconciliamur Deo » (cfr. Expos. Epist. ad Gai., 3, cit. alia n. 32); 9: «Sed hoc plane iustum est apud Deum: quia vere iustum eet utii quos peccatorum suorum paenitet, eo tempore quo nondum poenarum mani­festus terror apparet, misericorditer eeparentur ab iis qui defensiones pecca­torum suorum pertinaciter exquirentes nulla paenitentia corrigi volunt. Iniu- etum eet enim ut cum his i\li ad consortium poenale copulentur qui vocantem Deum non spreverunt et peccantes displicuerunt sibi, ut quemadmodum ille peccata eorum, sic etiam ipei odissent sua. Ea enim demum est humanae justi­tiae disciplina, non in se amare nisd quod Dei est et odisse quod proprium est, nec approbare peccata sua nec in eis alium improbare, sed se ipsum,- nec putare «alie sibi esse ut sua peccata displiceant, nisi etiam vigilantissima deincepe in­

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tentione vitentur; nec in eie vitandis vires euas existimare sufficere, ni-si divini, tus adiuvetur. Iustum est ergo apud Deum ut ignoscatur talibus quaecum­que antea commiserunt... Iusta eet ergo gratia Dei et grata iustitia, d\un in eo quoque etiam paenitentiae meritum gratia praecedat, quod neminem peccati eu i paeniteret, ni6i admonitione aliqua vocationis Dei ».

(8) Retract., I, 25 (26), 1.(9) De diversis quaestionibus LXXXIII, qu. 1 Utium anima a se ipsa sit;

7, quae proprie in animante anima dicatur; 8, Ulrum per se anima moVeatur; 9, Utrum corporeos sensibus percipi veritas possit; 13, Quo documento constet homines bestiis antecellere; 3, Utrum Deo auctore sit homo deterior; 4, Quae sit causa ut sit homo delerior; 6, De malo; 10, Utrum corpus a Deo sit; 21, Utrum Deus auctor mali non sit; 22. Deum non pati necessitatem; 24. Utrum peccatum et recte factum in libero sit voluntatis arbitrio.

(10) La stessa preoccupazione potrebbe ravvisarsi nella qu. 14: Non fuisse corpus Christi phantasma; e con essa formerebbero idealmente un gruppo le 16· De Filio Dei, la 18: De Tramiate, e la 23: De Patre et Filio.

(11) Qaestt. 27, de Providentia (Luca II, 14); 29, Utrum aliquid sit sursum aut deorsum in universo (cfr, Coloss. III, 2); 31, Sententia Ciceronis, quemad­modum virtutes animi ab illo divisae ac definitae sunt (Cie., De Indent., 2).

(12) Quaest. 51, De homine facto ad imaginem et similitudinem Dei (Gen. I, 26; V, 3); 52. De eo quod dictum est « Paenitet me fecisse hominem » (Gen . VI, 6); 53, De auro et argento quod Israelitae ab Aegyptiis acceperant (Ex. III, 22; XII, 35); 54, De eo quod scriptum est «Mihi autem adhaerere Deo bonum est» (Ps. LXXII, 28); 22, De eo quod scriptum est « Sexaginta eunt re­ginae, etc. » (Cant. VI, 7); 56. De annis quadraginta eex aedificati Templi {Joh. II. 20-21); 57, De cencum quinquaginta tribus piscibus (Ioh. XXI, 11); 58, De Iohanne BaptLòta,· 59, De decem virginibus (Matt. XXV); 60. De eo quod scriptum est «De die autem illo et hora nemo scit» (Matt. XXIV, 36); 61. De eo quod scriptum est in Evangelio « Turbas Dominum in monte pavisse de pa­nibus quinque » (Matt. XIV, 15, 21); 62, De eo quod scriptum est in Evangelio < Quia baptizabat Iesus plures quam Ioannes, etc. » (Ioh. IV, 1); 63, De Verbo; 64, De muliere Samaritana; (Ioh. IV, 9); 65, De resurrectione Lazari (Ioh. XI, 44). Si noti che la qu. 79 è su Eso, VII, V ili e la qu. 83 gu M c J . V, 32.

(13) Quaestt. 66, a Rom. VII-VIII, 11; 67, a Rom. Vili, 18-24; 68, a Rom. IX, 20; 69, a I Cor. XV, 28; 70, a I Cor. XV, 54-56; 71, a Gal, VI, 2; 72; a Tit. I, 2; 73, a Philipp. Il, 7; 74, a Coloss. I, 14-15; 75, a Hebr. IX, 17. Si noti il poeto assegnato a Tito. La qu. 76 è su lac. II, 20; la qu. 82 eu Hebr. XII, 6.

(14) S. Zarb, Chronologia operum S. Augustini, in Angelicum, X, 1933, p. 395 dichiara che « ordo inter ipsas quaestiones servatus non est chronolo.cTL cus sed systematicus, ita priores quinquaginta quaestiones eunt potius philo­sophicae, aliae vero sunt potius quaestiones biblicae, atque inter se ordinantur secundum ordinem Sacrorum Librorum »; il che è vero, come si è visto, sol­tanto in senso molto lato, come riconosce lo stesso autore con quel potius.

Marrou, o. c., p. 168, n. 4 riconosce che « un certain nombre des Diversae Quaestiones LXXXUI doit ètre rapporté à la mème période (cioè gli anni 386- 391); il est difficile de décider lesquelles; j'utilise celles qui ont une portée priilosophique » e cita le quaestt. 12, 31, 33, 35, 29. Poi, trattando di Agostino come esegeta, o s s e rv a a p. 382, n. 4: « je ne dis rien dee 83 Questions cliverses

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dont la rédaction s'est prolongee jusqu’à à 396. Les questione d exégèse et de dootrine y abondent, mais il est difficile de dater chacune d elles ».

Ora è evidente che sarebbe difficile, anzi forse impossibile, trovare nel­l’interno di ciascuna quaestio gli elementi per una datazione precisa. Ma poiché l'ordine di esse non è che apparentemente sistematico, se ci proviamo invece a considerarlo come cronologico, vediamo che tutto si spiega, in relazione con la stessa evoluzione spirituale di Agostino.

(15) Si osservi del resto che la distinzione dei quattro stadi si trova già nella qu. 61, 7:« In toto enim saeculo generis humani tertium tempus est quo fidei Christianae gratia data eet. Primum est ante Legem, secundum sub Lege lertium sub gratia. Et quoniam quartum adhuc restat ,quo ad plenissimam pa­cem Ierusalem caeleetis venturi sumus, quo tendit quisquis recte credit in Christum, propterea se dicit turbam illam reficere Dominus, ne deficiant in via ». Nella qu. 55, che secondo la mia ipotesi dovrebbe essere press'a poco contem­poranea all'inizio della polemica antidonatista, troviamo il concetto della sepa­razione dei buoni dai malvagi in fine saeculi, cioè precisamente uno dei prin­cipali argomenta di Agoetino contro i donatisti.

(16) De div. quaest. LXXXI11, qu. 66, 1: «Ubi ergo non est gratia Libera­toris, auget peccandi desiderium prohibitio peccatorum. Quod quidem ad hoc utile est, ut sentiat anima se ipsam non sibi sufficere ad extrahendum se de servitute peccati., atque hoc modo deiuniescente atque extincta omni superbia subdatur Liberatori suo, sinceriterque homo dicat « adhaesit anima mea post te» (Ps. 62, 9) quod est iam non esse sub lege peccati sed in lege iustitiae »; 4: « Ad primam actionem demonstrandam, ista testimonia interim occurrunt {liom. V, 12-13;. VII, 8 segg.) ...manifestum est quod superius ideo dicebat mor­tuum et non deputari, quia non apparebat antequam Lege prohibente ostendere­tur»; 5: «Ad secundam actionem ista testimonia conveniunt {Rom. V, 20; VII, 5, 7-8, 9-11, 14 eeg.; 20-23). Huc usque sunt verba hominis sub Lege constituti non­dum sub gratia; qui etiamsi nolit peccare, vincitur a peccato. Invaluit enim consuetudo carnalis et naturale vinculum mortalitatis, quo de Adam propagati sumus. Imploret ergo auxilium, qui sic positus est, et noverit suum fuisse quod cecidit, non suum esse quod surgit. Iam enim liberatus agnoscens gra­tiam Liberatoris sui dicit: «Miser ego homo... {Rom. VII, 24); 6: «Et incipiunt iam verba hominis sub gratia constituti, in actione quam tertiam demonstravi­mus, quae habet quidem reluctantem mortalitatem carnis, sed non vincentem atque captivantem ad consensionem peccandi... « In similitudinem carnis paec- cati»; non enim caro p>eccati erat, quae non de carnali delectatione nata erat; sed tamen inerat ei similitudo peccati carnis, quia mortalis caro erat; mortem autem non meruit Adam nisi peccando... Sic et prudentia camis dicitur, cum anima pro magnis bonis temporalia bona concupiscit. Quamdiu enim appetitus talis inest animae, legi Dei subiecta esse non potest; id est, non potest implere quae Lex iubet. Sed cum spiritalia bona desiderare coeperit et temporalia con­temnere, desinet esse carnis prudentia et spiritui non resistet. Eadem namque anima, cum inferiora appetit, prudentiam carnis habere dicitur; cum superiora, prudentiam spiritus; non quia prudentia carnis substantia est, qua induitur anima vel exuitur, sed ipsius animae affectio eet, quae omnino §sse desinet, cum se totam ad superna converterit... « Si tamen, inquit, Spiritus Dei habitat... vita est propter iustitiam » {Rem. VIII, 9-10). Mortuum corpus dicit, quamdiu tale eet ut indigentia rerum corporalium molestet animam et quibusdam motibue ex ipsa indigentia venientibus ad appetenda terrena sollicitet. Quibus tamen,

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quamvis existentibus, mene ad illicita facienda non coneentit, quae iam servit legi Dei et sub gratia constituta est. Ad hoc enim valet quod eupra dictum est « Mente servio... » (/tom. VII, 25). Et ille homo nunc describitur eese sub gratia, qui nondum habet perfectam pacem, quae corporis resurrectione et immutatione est futura »; 7: « Restat ergo ut de ip<sa pace dicat resurrectionie corporie, quae quarta est actio... Si ergo Spiritus... (Rom. VIII. 11). Hic et de resurrectione corporis evidentiesimum teetimonium eet, et satis apparet, quamdiu in hac vita sumus, non deesse molestias per mortalem carnem neque titillationes quasdam delectationum carnalium. Quamvis enim non cedat qui sub gratia conetitutue mente servit legi peccati, tamen cam e eervit legi peccati. Illis gradibus homine oerfecto, nulla substantia invenitur malum; neque Lex mala est quae ostendit homini in quibus peccatorum vinculis iaceat, ut per fidem implorato Liberatorie auxilio et eolvi et erigi et firmissime constitui mereatur. In prima ergo actione, quae est ante Legem, nulla pugna est cum voluptatibus huius saeculi; in se­cunda, quae sub Lege est, pugnamus sed vincimur; in tertia, pugnamus et vin­cimus; in quarta, non pugnamus, sed perfecta et aeterna pace requdeecimus. Subditur enim nobis quod inferius nostrum est, quod propterea non subdebatur, quia superiorem nobis deserueramus Deum ».

(17) De div. quaest. 6’3, qu. 67, 3: « Vanitati » ergo « creatura subiecta est, non sponte ». Bene additum est: non eponte. Homo quippe sponte peccavit, sed non sponte 'damnatus est. Peccatum itaque fuit spontaneum, contra praecep­tum facere veritatis; peccati autem poena subiici fallaciae. Non ergo eponte creatura subiecta eet veni tati « sed propter eum qui subiecit eam in spe », id eet, propter eius iustitiam atque clementiam, qui neque impunitum reliquit pec­catum ,neque insanabilem voluit esse peccantem» (a Rom. VIII, 20): 4: «Quia et ipea creatura» (Rom. VIII, 21), id est, ipse homo, cum iam^eignaculo ima­ginis propter peccatum amisso remansit tantummodo creatura, « et ipsa » itaque « creatura », id est, et ipea quae nondum vocatur filiorum foima perfecta, sed tantum vocatur creatura, «liberabitur a servitute interitus». Quod itaque ait « et ipsa liberabitur » facit intelligi, « et ipsa » quemadmodum et nos, id est et de ipsie non est desperandum qui nondum vocantur filii Dei quia nondum cre­diderunt, sed tantum creatura; quia et ipsi credituri sunt et liberabuntur a ser- virtute interitus, quemadmodum nos qui iam Dei filii sumus, quamvis nondum apparuerit quid erimus » (a Rom. VIII, 21).

(18) Sulla curiositas in senso deteriore, e la disistima di Agostino per essa, a partire dal De vera religione v. Marrou, o. c., pp. 148 sgg. 350 sgg,

(19) De div. quaest. LXXX111, qu. 68, 1: « Cum videatur apostolus corri­puisse curiosos... de hoc ipso illi quaestionem movent et in ea eententia non desinunt esse curiosi qua obiurgata est ipsa curiositas; et impii quidem cum contumelia, ut dicant apostolum in solvenda quaestione defecisse et obiurgaese quaerentes quia non poterat quod quaerebatur exponere. Nonnulli autem haeretici qui non decipiunt niei cum scientiam quam non exhibent pollicentur, et adversantes Legi et Prophetie quaecumque de illis apostolus sermoni suo inseruit falsa et a corruptoribus immissa esse criminantur, etiam hoc inter ipsa quae interpolata dicunt numerare maluerunt et negare Paulum dixis­se », etc. 2: « Non enim apostolus hoc loco eanctoe prohibuit a quaerendo, sed eos qui nondum eunt in charitate radicati et fundati, ut poesint comprehendere cum omnibus sanctis latitudinem, longitudinem, altitudinem et profundum et cetera quae in eodem loco (Eies. III, 18-19) exsequitur. Non ergo prohibuit a quaerendo qui dicit « epirituales... » et illud praecipue « Nos autem... » (I Cor.

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II 15 e 12). Quos ergo prohibuit, nisi luteoe atque terrenoe, qui nondum in­trinsecus regenerati atque nutriti imaginem illius hominis portant, qui primus factus est de terra terrenus {ibid. XV, 47-49)? Et quia ei a quo factue est noluit obtemperare, in id lapsus est unde factus eet meruitque post peccatum audire: « Terra es... » [Gen. III, 19). Talibus igitur hominibus dicit Apo­stolus « o homo... ». Quamdiu ergo figmentum es, nondum perfectus filius, quia nondum hausisti plenissimam gratiam qud nobis data est potestas fi­lios Dei fieri, quo poesis audire « iem non dicam... [Ioh. XV, 15); tu quis es... » et velis Dei nosse consilium? ». 3: « Et ut manifestum eit, non san­ctificato spiritui, sed carnali luto ista dici, vide quod sequitur « aut non habet... ». Ex quo ergo in paradiso natura nostra peccavit, ab eadem divina providentia, non secundum caelum, sed secundum terram, id est non secundtun spiritum sed secundum carnem (cfr. De serm. Dom. in monte , II, 23 cit., c. III. n. 26) mortali generatione formamur et omnes una massa luti facti sumus, quod est massa peccati. Cum ergo meritum peccando amiserimus, et misericordia Dei remota nihil aliud peccantibus nisi aeterna dannatio debeatur, quid sibi vult homo de hac massa, ut Deo respondeat et dicat « Quare eie me fecisti? ». Si \ris ista cognoscere, noli esse lutum, sed efficere filiue Dei per illius misericordiam, qui dedit potestatem filios Dei fieri credentibus in nomine eius; non autem, quod tu cupis, antequam credant, divina nosee cupientibus. Mer­ces enim cognitionie meritis redditur, credendo autem meritum comparatur. Ipsa autem gratia quae data est per fidem, nullis nostris meritis praecedenti­bus data est. Quod est enim meritum peccatoris et impii? Christus autem pro impiis et peccatoribus mortuus est ut ad credendum non merito eed gratia vocaremur, credendo autem merita collocaremus (Var.: « compararemus »). Peccatores igitur credere iubentur, ut (« et ») a peccatis credendo puTgentur ( < purgantur »). Nesciunt enim quid recte vivendo visuri eint. Quapropter cum videre non possint, nisi recte vivant, nec recte vivere valeant, nisi credant; manifestum est a fide incipiendum ut praecepta quibus credentes a saeculo hoc avertuntur, cor mundum faciant, ubi videii Deus possit... Quapropter rccte dicitur hominibus in vetustate vitae manentibus et propterea tenebro­sum oculum animae gerentibus « o homo... » Expurga vetus fermentum, ut sis nova conspersio (/ Cor. V. 7) et in ea ipsa non adhuc parvulus in Christo ut lacte potandus sis (cfr. 1 Cor. III, 2) eed perveni ad virum perfectum. Tum demum recte et non praepostere audies, si qua sunt de animarum se­cretissimis meritis et de gratia vel iustitia, secreta omnipotentis Dei ». 4: « Ex eadem ergo massa, id est peccatorum, et vasa misericordiae protulit, quibus eubveiliret, cum eum deprecarentur filii Israel; et vasa irae, quorum supplicio illoe erudiret, id est Pharaonem et populum eius; quia quamvis essent utrique peccatores et propterea ad unam massam pertinerent, aliter tamen tractandi erant qui uni Deo ingemuerant... Prorsus cuius vult miseretur et quem vult obdurat; sed haec voluntas Dei iniusta esse non potest. Venit enim de occultissimis meritis; quia et ipsi peccatores cum propter generale peccatum unam maseam fecerint, non tamen nulla est inter illos diversitas. Praecedit ergo aliquid in peccatoribus, quo, quamvis nondum 6int iustificati, digni efficiantur iuetificatione; et item praecedit in aliis peccatoribus, quo digni sint obtusione. Habes eundem apostolum alibi dicentem: (Rom. I, 28). Qnod eos dedit in reprobum eensum, hoc eet quod induravit cor Pharaonis; quod autem illi non probaverunt Deum habere in notitia, hoc eet quod cigni extiterunt qui darentur in reprobum sensum ». 5: « Tamen verum est quiri " non

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volentis neque currentis... ” (Rom. IX, 16)... Quia etiamsi levioribus quisque peccatis aut certe quamvis gravioribue et multie, tamen magno gemitu et dolore paemtendi, misericordia Dei dignus fuerit, non ipsius eet, qui si relin­queretur interiret, sed miserentis Dei, qui eius precibus doloribusque subve­nit. Parum est enim velle, nisi Deus misereatur; sed Deus non miseretur, qui ad pacem vorat, nisi voluntas praecesserit... Et quoniam nec velie quidquam quisquam potest, nisi admonitus et vocatus, sive intrinsecus, ubi nullus homi­num videt, 6ive extrinsecus per eermonem sonantem, aut per aliqua signa visibilia, efficitur ut etiam ipsum velle Deus operetur in nobis (cfr. Philipp.II, 13). Ad illam enim coenam, quam Dominus dicit in Evangelio praeparatam, nec omnes qui vocati eunt venire voluerunt ,neque illi qui venerunt venire possent nisi vocarentur (cfr. Lue., XIV, 16-26). Itaque nec illi debent sibi tribuere qui venerunt, quia vocati venerunt, nec illi qui potuerunt venii*e debent alteri tribuere, sed tantum sibi; quoniam, ut venirent, vocati erant in libera voluntate. Vocatio ergo ante meritum voluntatem operatur. Propterea, et si quisquam sibi tribuit quod venit vocatus, non sibi potest tribuere quod vocatus est. Qui autem vocatus non venit, sicut non habuit meritum praemii ut vocaretur, sic inchoat meritum supplicii cum vocatus venire neglexerit ».

(20) De div. quaest. LXXX111, qu. 68, 6: « Haec autem vocatio, quae sive in singulis hominibus, sive in populis, atque in ipso genere humano per tem­porum opportunitates operatur, altae et profundae ordinationis est... Illud ta­men constantissima fide retinendum, neque quidquam Deum iniuste facere, neque ullam esse naturam quae non Deo debeat id quod est: quia Deo debetur omne decus et pulcritudo et congruentia partium, quam si penitus persecutus fueris et usque ad omnes reliquias de rebus detraxeris, remonet nihil ». Per la differenza tra pulcritudo e congruentia partium, cfr. Confessioni, IV, XIII, 20.

(21) Nessuna delle altre Questioni si riferisce a questa epistola. E’ vero che il Commentò completo rimale incompiuto; ma non c'è ragione di du­bitare che ciò fosse dovuto a una ragione diversa da quella indicata nelle Retractationes.

(22) De div. quaest. LXXXIII, qu. 70; « Morte eignificari arbitror hoc loco carnalem consuetudinem, quae resistit bonae voluntati delectatione tem­poralium fruendorum. Non enim diceretur ” Ubi est, mors, contentio tua? (I Cor. XV, 55) si non restitisset et repugnasset. Istius contentio etiam illo loco describitur " Caro concupiscit... " (Gal. V, 17). Fit ergo per sanctificationem perfectam ut omnis carnalie appetitus spiritui nostro illuminato et vivificato, id est bonae voluntati, subiciatur. Et sicut nunc videmus multis puerilibus delectationibus nos carere, quae nos pueros, si denegarentur, acerrime cru­ciabant, ita credendum est de omni carnali delectatione futurum esse, cum perfecta sanctitas totum hominem reparaverit. Nunc autem quamdiu est in nobis quod resistat bonae voluntati, auxilio Dei per bonos homines et bonyos angelos indigemus ut donec sanetur vulnus nostrum non ita molestet ut perimat etiam bonam voluntatem. Hanc autem mortem peccato meruimus, quod pec­catum erat ante omnimodo in libero arbitrio cum in paradiso nullus dolor denegatae delectationis (var.: denegata delectatione) voluntati bonae homi­nis resistebat, sicuti nunc... Ergo " aculeus mortis peccatum ” est: quia pec­cato facta est delectatio, quae iam possit resistere bonae voluntati et cum dolore cohiberi. Quam delectationem, quia in defectu est animae deterioris effectae, iure mortem vocamus. Virtus autem peccati lex: quia multo scele­ratius et flagitiosius quae lex prohibet comnrttuntur, quam ei nulla lege

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prohiberentur ». E’ superfluo rilevare le somiglianze con gli scritti che venia­mo esaiiiinando; ed è chiaro che si Iratta qui del passaggio dal terzo al quarto dei gradi da Agostino descritti e distinti.

(23) De div. quaest. LXXXIII, qu. 76, 1: <Locue iste epietolae eundem sensum Pauli apostoli, quomodo sit intelligendus exponit... Cum enim bona opera commendat Abrahae, quae eiue fidem comitata eunt, satie ostendit Pau­lum apoetolum non ita per Abraham docere iustificari hominem per fidem sine operibus, ut si quis crediderit non ad eum pertineat bene operari; sed ad hoc potiue ut nemo meritis priorum operum arbitretur Ge pervenisse ad domum iusti- ficationis, quae est in fide... Apostolus Paulus dicit posse hominem sine ope­ribus, sed praecedentibus, iustificari per fidem. Nam iustificatus per fidem quo. modo potest nisi iuste deinceps operari quamvis antea nihil operatus iuste ad fidei iustificationem pervenerit, non merito bonorum operum, sed gratia Dei, quae in illo iam vacua esse non potest cum iam per dilectionem bene operatur? Quod si cum crediderit mox de hac vita decessit, iustificatio fidei manet cum illo, nec praecedentibus bonis operibus, quia non merito ad illam, sed gratia, pervenit; nec consequentibus, quia in nac via esse non sinitur ». Qui che cosa Agostino intenda per gratia non è definito: ma dal modo in cui si esprime in tutto il passo e nell'intera quaestio è chiaro che non vi può eseere differenza sostanziale d'indirizzo tra essa e la qu. 68.

(24) De div quaesi. LXXXlli, qu. 82, 2: «Omnis isla hominum iustitia, quam et tenere animus humanus recte faciendo potest, et peccando amittere, non imprimeTetur animae nisi vesset aliqua incommutabilis iustitia, quae integra inveniretur a rnstis, cum ad eam converterentur, integra relinqueretur a pec­cantibus, cum ab eius lumine averterentur. Quae iustitia incommutabilis utique Dei est, néc eam porrigeret ad illustrandos ad se converecs si res humanas non curaret Deus ».

(25) De lib. arb. ili, 1: «(Evodio) cupio per te cognoscere, unde ille motus existat, quo ip6a voluntas avertitur a communi atque incommutabili bono, et ad propria vel aliena vel infima atque omnia commutabilia convertitur bona ». 4: « Quomodo est igitur voluntas libera, ubi tam inevitabilis apparet neceseitas? » 7: « Mihi ei esset potestas ut eseem beatus, iam profecto essem; volo enim etiam nunc, et non sum, quia non ego», sed ille me beatum facit. . (Agostino): non enim posses aliud sentire esse in potestate nostra, niei quod cum volumus facimus. Quapropter nihil tam in nostra potestate quam ipsa vo­luntas est ». Invecchiamo e moriamo senza volere: in tal caso pestiamo parlare di necessità. « Quamobrem quamvis praeeeiait Deus nostras voluntates futuras, non ex eo tamen conficitur, ut non voluntate aliquid velimus... Cum igitur prae­scius Deu« sit futurae beatitudini^ tuae... non tamen ex eo cogimur sentire, quod absurdissimum est et longe a veritate 6eclusum, non te volentem beatum futurùm. Sicut autem voluntatem beatitudinis, cum esse coeperis beatus, non tibi aufert praescientia £>ei, quae hodieque de tua futura beatitudine certa est, sic etiam voluntas culpabilis, si qua in te futura est, non propterea vo­luntas non erit, quoniam Deue eam futuram esse praescivit ». 8: « Quomodo ergo non potest aliud fieri quam praescivit Deue, si voluntas non erit, quam voluntatem futuram ille praesciverit?... Si enim necesse est ut velit [homo], unde volet cum voluntas non erit?... Voluntas ergo erit, quia voluntati6 est praescius [Deus]. Nec voluntas es6e poterit, si in potestate non erit. Ergo et potestatis est praescius. Non igitur per eius praescientiam mihi potestas

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adimitur, quae propterea mihi certior aderit, quia ille cuius praeecientia noa fallitur adfuturam mihi es6e piaescivit ». 9 (Evodio): « Nam et iustum Deum ne- cesse eet ut fateamur, et praescium. Sed scire vellem qua iustitia puniat pecca­ta, quae necesse est fieri; aut quomodo non sit necesse fieri quae futura esee praeecivit, aut quomodo non Creatori deputandum est quidquid in eius crea­tura fieri necesee est ». 10: (Agost.) « Sicut itaque non sibi adversantur haec duo, ut tu praescientia tua noveris quod alius eua voluntate facturus est, ita Deus neminem ud peccandum cogens praevidet tamen eos qui propria volun­tate peccabunt ». « Qur ergo non vindicet iustue, quae fieri non cogit prae­scius? Sicut enim tu memoria tua non cogis facta e^ee quae praeterierunt, eie Deus praescientia sua non cogit facienda quae futura sunt... Quorum autem. Λοη est malus auctor, iustus est ultor »

(26) De lib. arb. 111, 12: « Quapropter non te islud iam moveat, quod vitu­perantur animae peccatrices, ut dicas in corde tuo melius fuisse si non essent. In sui enim comparatione vituperantur, dum cogitatur quales essent, si pec­care noluissent ».13: «Illud quoque moneo caveas, ne forte non dicae melius fuisse ut non essent, sed dicas aliter fieri debuisse. Quidquid_ enim tibi vera ratione melius occurrerit, scias feciese Deum tamquam bonorum omnium conditorem ». — 14: « Nam ita quidam cum ratione verissima videant melio­rem esee creaturam quae quamvis habeat liberam voluntatem Deo tamen sem- per infixa numquam peccaverit, intuentes peccata hominum, non ut peccare desinant, sed quia facti eunt dolent.. Non cHament, non succenseant, quia neque ipsos ideo coegit peccare, quia fecit, quibus potestatem utrum vellent dedit... » ; 15: « Nam neque ab iLa creatura quam praescivit Deus non solum peccaturam, sed etiam in peccandi voluntate mansuram, abstinuit largitatem bonitatis suae, ut eam non conderet. Sicut enim melior eet vel aberrane equus, quam lapis propterea non aberrane quia proprio motu et sensu caret, ita eet excellentior creatura quae libera voluntate peccat, quam quae propteiea non peccat, quia non habet liberam voluntatem »; 18: « Ex illo igitur quod etiam ingratus habes quod vis, Creatoris lauda bonitatem; ex .illo autem quod pateris ingratus quod non vitì, Ordinatoris lauda i\istitiami ». 21: «Omnia tamen eo ipso quo eunt, iure laudanda sunt; quia eo ipso quo sunt, bona sunt. Quanto enim amplius eese amaveris, tanto amplius vitam aeternam desidera­bis»; 26: A chi dicesse che, allora, alla perfezione dei!«'universo sono neces­sari anche i peccati « respondetur non ipsa peccata vel ipeam miseriam perfectioni universitatis esse necessaria, sed animas in quantum animae sunt: quae ei velint peccant, ©i peccaverint, miserae, fiunt ». — 27 « Hanc tamen cor­ruptibilem carnem etiam peccatrix anima sic ornat ut ei speciem decentissi- mam praebeat, motumque vitalem. Habitationi ergo caelesti talis anima non congruit per peccatum; terrestri autem congruit per supplicium ». — 30: II Verbo «illoe (scii. : angelos) intrinsecus pascens per id quod Deus eejt noe lorinsecus admonens per id quod nos sumue » è cibo di ogrii anima razionale; ma quella umana è ·« ad hoc diminutionds redacta, ut per coniecturas rerum v :6ibilium ad intelligenda visibilia niteretur », perciò eseo « cibus rationalis creaturae factue eet visibilis non commutatione naturae euae, sed habitu nostrae, ut visibilia sectantes ad ee invi6ibilem revocaret ». Prima di Cristo, il demonio dominava tutto il genere umano (31) « tamquam euae arboris fru­ctus, prava quidem ha/bendi cupiditate, sed tsmen non iniquo poseidendi iure (questo passo merita foree di essere segnalato ai giuristi, che studiano l’evo­

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luzione del diritto romano nell’età poet-costantiniana e le influenze cristiane·, cfr. p. es. E. Alberta rio, li possesso romano, in Bull. Istit. Dir. Rom., XL, 1932, p. 5 segg.; anche: « malitioea quidem nocendi cupiditate, eed tamen iure aequissimo)... Ita factum est ut neque diabolo per vim eriperetur homo, quem non ipee vi, sed persuasione ceperat; et qui iuste plus humiliatus est, ut serviret cui ad malum consenserat, iuste pei eum cui ad bonum coneensit li­beraretur; quia minus iste (l'uomo) in consentiendo, quam ille in male sua­dendo peccaverat». — 37: Omnis autem natura rationalis, cum libero volun­tatis arbitrio condita, ei manet in fruendo summo atque incommutabili bono, procul dubio laudanda est: et omnis quae tendit ut maneat, etiam ipsa lau­danda est;omnis autem quae non in eo manet et non vult agere ut ma­neat, in quantum ibi non est et in quantum non id agit ut ibi sit, vituperanda est. Si ergo laudatur rationalis creatura quae est facta, nemo dubitat lau­dandum esse qui fecit; et ei vituperatur, nemo dubitat eius conditorem in ipsa eius» ^vituperatione laudar*. Cum enim propterea vituperamus hanc, quoniam summo et incommutabili bono, id eet, Creatore suo fruì non vult, illum eine ulla dubitatione laudamus». — 38: «Nullius autem vituperatur vi­tium, nied cuius natura laudatur». — 41: « Vilium autem... ncn aliunde malum est, nisi quia naturae adversatur eius ipsius rei cuiu6 eet vitium ». — 43: « Si cogit verissima ratio, sicuti cogit, ut et vituperentur peccata et quidquid recte vituperatur ideo vituperetur quod non est ita ut eeee debuit, quaere quid debeat natura peccatrix et invenies recte factum, quaere cui debeat, et inve­nies Deum. A quo enim accepit ροεββ recle facere cum velit, ab eo accepit ut sit etiam misera si non lecerit, et beata si fecerit». — 34: «Quia enim nemo superat legee omnipotentis Creatoris, non sinitur anima non reddere debitum. Aut enim reddit bene utendo quod accepit, aut reddit amittendo quo bene uti noiuit. Itaque ei non reddet faciendo iuetitiam, reddet patiendo mieeriam... si non reddit faciendo quod debet, reddet patiendo quod debet ». — 45: Deus autem nulli debet aliquid, quia omnia gratuito praestat. Bt ei quisquam dicet ab illo aliquid deberi meritie suis, certe, ut esset non ei debebatur. Non enim erat cui deberetur. Et tamen, quod meritum est converti ad eum ex qtio es, ut ex ipso etiam melior 6ie, ex quo habes ut sie?... Omnia ergo illi debent, primo quidquid 6unt, in quantum naturae sunt; deinde quidquid melius pos- mt esse, si velint, quaecumque acceperunt ut velint et quidquid oportet eae esse. Ex eo igitur quod non accepit, nullus reue est; ex eo vero quod non facit quod debet, iuste reus est. Debet autem, ei accepit et voluntatem liberam el sufficientissimam facultatem *. — 46: « Ueque adeo autem dum non facit cfuisque quod debel, nulla culpa est conditorie... Si enim hoc debet quisque quoti accepit, et si homo factus eet, ut necessario peccet, hoc debet ut peccet. Cum ergo peccat, quod debet facit. Quod si 6celus eet dicere, neminem na­tura 6ua cogit ut peccet. Sed nec aliena. Non enim quisquis dum id quod non vult patitur peccat... Quod si neque sua neque aliena natura quis peccare cogitur, restat ut propria voluntate peccetur. Quod ed tribuere voluerie Con­ditori, peccantem purgabis, qui nihil praeter sui Conditoris instituta commisit, qui si recte defenditur, non peccavit; non est ergo quod tribuas Conditori. Laudemus ergo Conditorem, 6i poteet defendi peccator, laudemus si non potest. Si enim iuste defenditur, non eet peccator: lauda autem Conditorem. Si autem defendi non potest, in tantum peccator est, in quantum se a Creatore avertit: lauda ergo Creatorem ».

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(27) Si sa che su tale questione Agostmo respingendo tanto la dottrina manichea guanto quella di Origene si mantenne a lungo incerto tra le varie opinioni inclinando poi sempre più vereo il traducianismo di Tertulliano, come è ammesso generalmente ‘dagl'interpreti del suo pensiero, tra cuij. Gilson \Intraduction à ì'étude de St. Augmtin , Paris 1929, p. 65). Curioso che il Gil- «on non ricordi tra le fonti agostiniane né De Genesi ad litt. X, né l'Epistola T.XC; né sembra distinguere bene tra 1 Ep. CXL De anima et eius origine t il trattato in 4 libri contro Vincenzo Vittore ,il cui titolo esatto è (cfr. C.S.E.L., 60) è De natura et origine animae.

(28) De lit. nrb. Ili, 47 (Evodio): Sed tarrien ecire vehem, si fieri potest, quaie illa natura non peccat, quam non peccaturam praescivit Deus, et quare ista peccet quae ab illo peccatura praevisa est. Non enim iam puto, ipsa Dei praescientia vel istam peccare vel illam non peccare cogi... Sed nolo mihi respondeatur "voluntas”; ego «enim causam quaero ipsius voluntatis». — 48: (Agostino) « avaritia cupiditas est; cupiditas porro improba voluntas eSt. Ergo improba voluntas malorum omnium causa est ». — 49: « Sed quae tan­dem esse poterit ante voluntatem causa voluntatis? Aut enim et ipsa volun­tas est, et a radice ista voluntatis non receditur; aut non est voxuntas et peccatum nullum habet. Aut igitur ipea voluntas eet prima causa peccandi aut nullum peccatum est prima causa peccandi. Nec est cui recte imputetur peccatum nisi peccanti; non est ergo cui recte imputetur, nisi volenti... Deinde, quaecumque illa causa est voluntatis, aut iusta profecto est, aut iniusta. Si insta, quisquis ei obtemperaverit non peccabit; si iniusta, non ei obtemperet et non peccabit» (cfr. 50). — 51: «Et tamen quaedam etiam per ignorantiam facta improbantur et corrigenda iudicantur (/ Tim. I, 13; Ps. XXIV, 7; Rom. VII, 19; Gal. V, 17). Sed haec omnia hominum sunt, ex illa mortis damnatione venientium; nam si non est ista poena hominis, sed natura, nulla ista pec­cata sunt ». L'uomo ora « non est bonus nec habet in potestate ut bonus sit, sive non videndo qualis esse debeat, sive videndo et non valendo esse, qua­lem debere eese ee videt: poenam istam esse quis dubitet? Omnis autem poena si iusta est, peccati poena est, et supplicium nominatur; si autem iniusta est poena, quoniam poenam esse nemo ambigit, iniuste aliquo dominante ho­mini imposita est. Porro quia de omnipotentia Dei et iustitia dubitare de­mentis est, iusta haec poena eet, et pro peccato aliquo penditur. Non enim quisquam iniustus dominator aut subripere hominem potuit, velut ignoranti Deo, aut extorquere invito, tamquam invalidiori, vel terrendo vel confligendo, ut hominem iniusta poena cruciaret. Relinquitur ergo, ut haec iusta poena de damnatione hominis veniat ». — 52: « Illa est enim peccati poena iustissi- ma, ut amittat quisque quo bene uti noluit, cum sine ulla posset difficultate, si vellet... Nam sunt re vera omni peccanti animae duo ista poenalia, ignoran­tia et difficultas. Ex ignorantia dehonestat error, ex difficultate cruciatus affligit. Sed approbare falsa pro verie, ut erret invitus, et resistente atque torquente dolore carnalis vinculi non posse a libidinosis operibus temperare non est natura instituti hominis sed poena damnati. Cum autem de libera voluntate recte faciendi loquimur, de illa scilicet in quo homo factus est loquimur ». — 53: Coloro che ritengono ingiusta la propria condanna « recte fortasse quererentur si erroris et libidinis nullus hominum victor exsisteret; cum vero ubique sit praesens qui multis modis per creaturam sibi Domino servientem aversum vocet, doceat credentem., consoletur sperantem, diligentem

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adhortetur, conantem adiuvet, exaudial deprecantem. Non tibi deputatur ad culpam, quod invitile ignoras, eed quod negligis quaerere quod ignoras; neque illud quod vulnerata membra non colligis, eed quod volentem eanare contem­nis: ista tua propria peccata sunt ». — 54: % Nam iilud quod ignorans quieque non recte facit et quod recte volens facere non potest, ideo dicuntur peccata, quia de peccato illo liberae voiun tatis originem ducunt. Illud enim praecedens meruit ista sequentia... Non solum peccatum illud dicimue, quod proprie voca­tur peccatum — libera enim voluntate et a sciente committi tur — eed etiam illud quod iam de huius supplicio consequatur necesse est ». — 56: « No» erit nascentibus animis ignorantia et difficultas supplicium peccati, eed pro­ficiendi admonitio et perfectionis exordium... Quamquam enim in ignorantia et difficultate nata sit (scii.: anima), non tamen ad permanendum in eo quod nata est aliqua necessitate comprimitur ». — 64: « Non enim quod naturaliter nescit et naturaliter non potest, hoc animae deputatur in reatum, sed quod scire non studuit et quod dignam facilitati comparandae ad recte faciendum operam non dedit». — 65: « Creator ve-ro eius (scii.: animae) ubique laudatur, vel quod eam ab ipsis exordii© ad summi boni capacitatem inchoaverit, vel quod eius profectum adiuvet, vel quod impleat proficientem atque perficiat, vel quod peccantem, id est aut ab initiis euis, sese ad perfectionem attollere ìecusantem aut iam ex profectu aliquo relabentem, iustieeima damnatione pro meritis ordinat... Quod ergo ignorat quid sibi agendum sit, ex eo est quod nondum accepit; eed hoc quoque accipiet, si hoc quod accepit bene usa fuerit. Accepit autem ut pie et diligenter quaerat si volet. Et quod agnoscens quid sibi agendum sit, non continuo valet implere, hoc quoque nondum accepit: praecessit enim quaedam pars eius sublimior ad eentiendum quod recte faciat bonum, sed quaedam tardior atque carnalis non consequenter in sententiam ducitur; ut ex ipsa difficultate admoneatur eundem implorare adiutorem per- fectionie suae, quem inchoationis eentit auctorem, ut ex hoc ei fiat carior, dum non suis viribus, eed cuius bonitate habet ut sit, eius misericordia sublevatur ut beata sit ».

(29) Ritengo che P. Alfaric (σ. c., p. 412 eg.) avesse ragione di considerare il terzo libro De libero arbitrio come non redatto di un solo getto. I cc. 13-17, p. es. hanno tutta l'aria d’essere alquanto posteriori ad altri; lo stesso po­trebbe dirsi de! cc. 50-62 (o forse anche 47-62); di questi ultimi sembrano essere contemporanei i cc. 63-76.

Ma per me contano le idee manifestate nelle parti più importanti del libro, e tali sono certo i cc. 31 e 51 sgg., che senza dubbio appartengono al tempo in cui Agostino si sforzava di approfondire il senso delle epistole Ai Romani e Ai Galati. Anche se alcune parti dello stesso libro fossero state redatte in precedenza, è evidente che le idee in esse esposte corrispon­devano ancora al pensiero dell'autore al momento della pubblicazione.

(30) Jbid., 66: « Non enim metuendum est, ne vita esse potuerit media quaedam inter recte factum atque peccatum et sententia iudicis media esee non possit inter praemium atque supplicium ». — 67: « Quo loco etiam il- Jud perscrutari homines solent, sacramentum baptismi Christi quid parvulis prosit cum eo accepto plerumque moriuntur priusquam ex eo quidquam co­gnoscere potuerint. Qua in re satis pie recteque creditur prodesse parvulo eorum fidem a quibus consecrandus offertur. Et hoc Ecclesiae commendat salu­berrima auctoritas, ut ex eo quisque eentiat quid sibi prosit fides sua, quando

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in akorum quoque beneficium, qui propriam nondum habent, potest aliena commodari » cfr. De quant an., 80: « Cum vero etiam puerorum infantium coneecrationes quantum proeint obscurissima quaestio est, nonnihil tamen p rodesse credendum est.

(31) De lib. arb. III, 60. Agostino considera qui soltanto quegli eretici che o non hanno un concetto esatto della trascendenza di Dio (cioè, i manichei) o non intendono correttamente il dogma trinitario.

(32) Epistolae ad Galatas expositio, 3: Giatia Dei est qua nobis dojiantur peccata ut reconciliemur Deo; pax autem, qua reconciliamur Deo» (a I, 3); 16: « Destruxit autem superbiam gloriantem de operibus Legie, quae de&trui et deberet et posset, ne gratia fidei videretur non necessaria, si opera Legis et iam sine illa iustificare crederentur» (a II, 17); 17; «Mortuum autem se Legi dicit, ut iameub Lege non esset, sed tamen per Legem; eive quia Iudaeus erat et* tauL- quam paedagogum Legem acceperat, sicut postea manifestat; hoc autem agitur per paedagogum ut non sit necessarius paedagogus..., eive per Legem spi- ritualiter intellectam Legi mortuus est, ne sub ea carnaliter viveret. Nam hoc modo per Legem Legi ut moreretur volebat, cum eis paulo poet ait... ut per eandem Legem spiritualiter intellectam morerentur carnalibus observationibus Legis... Sub Lege autem vivit, in quantum quisque peccator est, id est in quantum a vetere homine non eet mutatus; sua enim vita vivit, et ideo Lex supra illum est... Nam iusto Lex poeita non est (/ Tim. I, 9), id est imposita, ut supra illum sit; in illa est, potius quam sub illa; quia non eua vita vivit, cui coercendae Lex imponitur. Ut enim 6ic dicani. ipsa quodammodo Lege vivit qui cum dilectione iustitiae iuete vivit, non proprio ac transitorio, sed com­muni ac stabili gaudene bono (cfr.De lib. arb. II, 19: « manifestum est ergo ea quae non commutamus et tamen sentimus corporis seneibus et non pertinere ad naturam sensuum nostrorum et propterea magis nobis esse communia quia in noetrum et quasi privatum non vertuntur atque mutantur... Proprium ergo et quasi privatum intelligendum est quod unicuique nostrum soli est, et quod, in se solus sentit, quod ad euam naturam proprie pertinet; commune autem et quaei publicum, quod ab omnibus sentientibus nulla eui corruptione atque commutatione eentitur »). Et ideo Paulo non erat Lex imponenda, qui dicit « vivo autem » etc. ” etc. Quis ergo audeat Christo Legem imponere, qui vivit in Paulo?» (a II, 19-21); 46: « Quod autem ait "caro concupiscit ’* etc. putant hic homines liberum voluntatis arbitrium negare apostolum nos habere nec intei- ligunt hoc eie dictum si gratiam fidei susceptam tenere nolunt, per quam solam possunt spiritu ambulare et concupiscentias camis non perficere; si ergo nolunt eam tenere, non poterunt ea quae volunt facere. Volunt enim operari opera iustitiae quae sunt in Lege sed vincuntur concupiscentia carnis, quam se ­quendo deserunt gratiam fidei... Cum enim charitas Legem impleat, prudentia vero carnis commoda temporalia consectando spiritali charitati adversetur, quo­modo potest legi Dei esse subieota, id est libenter atque obsequenter implere iustitiam, eique non adversari, quando etiam dum conatur, vincatur necesse est, ubi inveneri! maius commodum temporale de iniquitate se posse aesequi, quam si custodiat aequitatem? Sicut enim prima hominis vita est an/te Legem, cum nulla nequitia et malitia prohibetur... sic secunda est sub Lege ante gra­tiam, quando prohibetur quidem et conatur a peccato abetinere se, sed vincitur, quia nondum iustitiam propter Deum et propter ipsam iustitiam diligit... Tertia est vita sub gratia, quando nihil temporalis commodi iustitiae praeponitur:

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quod nisi charitate spirituali, quam Dominus exemplo euo docuit et gratia do­navit, fieri non potest. In hac enim vita etiamsi exietant desideria carnis de mortalitate corporis, tamen mentem aid consensionem peccati non eubiugant. Ita iam non regnat peccatum in nostro mortali corpore, quamvis non possit Disi inhabitare in eo, quamdiu mortale corpus est. Primo enim non regnat, cum mente servimus legi Dei, quamvie carne legi peccati, id est poenali consuetu­dini, cum ex itta existunt desideria, quibus tamen non obedimus; postea vero ex omni parte exstinguitur... (a V, 17; si osservi come Agostino qui finisca per commentare Romani)'. 48: «Agunt autem haec (scii.: opera carnis) qui cupidi­tatibus carnalibus consentientes facienda esse decernunt, etiamsi ad implen­dum facultas non datur. Caeterum, qui tanguntur huiusmodi motibus et immo­biles in maiore charitate consistunt, non solum non eis exhibentes membra corporis ad male operandum, sed neque nutu consensionis ad exhibendum con­sentientes,- non haec agunt et ideo regnum Dei possidebunt. Non enim iam re­gnat peccatum in eorum mortali corpore.., quamvis habitet in eorum mor­tali corpore peccatum, nondum extincto impetu consuetudinis naturane, qua mortaliter nati sumus et propriae vitae nostrae, cum et nos ipsi peccando auximus quod ab origine peccati humani demnationisque trahebamus. Aliud est enim non peccare, aliud non habere peccatur. Nam in quo peccatum non regnat, non peccat, id est non obedit desideriis eius; in quo autem non existunt omnino ista desideria, non solum non peccat, sed etiam non habet peccatum. Quod etiam si ex multis partibus in ista vita possit effici, ex omni tamen parte nonnisi in resurrectione carnis atque commutatione sperandum est». (>a V, 19-21). 49: « Nam in quibijs haec regnant, ipsi Lege legitime utuntur quia non est illis Lex ad coercendum posita: maior enim et praepollentior de­lectatio eorum iustitia est... Regnant ergo spirituales isti fructus in homine, in quo peccata non regnant. Regnant autem ista bona, si tantum delectant, ut ipsa teneant animum in tentationibus, ne in peccati consensionem ruat. Quod enim amplius nos delectat, secundum id' operemur necesse est: ut, verbi gratia, occurrit forma speciosae feminae et movet ad delectationem fornicationis, sed sd plus delectat pulcritudo i i la intima et sincera epecies castitatis, per gratiam quae est in fide Christi, secundum hanc vivimus et secundum hanc operamur; ut, non regnante in nobis peccato ad oboediendum desideriis eius, sed regnante iustitia per charitatem cum magna delectatione faciamus quidquid in ea Deo placere cognoscimus. Quod autem de castitate et de fornicatione dixi, hoc de ceteris inteiligi volui» (a V, 22-23) 54: «Manifestum est certe secundum id nos vivere quod sectati fuerimus,- sectabimur autem quod dilexerimuG. Itaque si ex adverso existant duo, praeceptum iusLitiae et consuetudo camalie, et utrumque diligitur, id sectabimur quod amplius dilexerimus; sd tantumdem utrumque diligitur, nihil horum sectabimur, eed aut timore aut inviti trahemur in alteru­tram partem, aut si utrumque aequaliter etiam timemus, in periculo sine dubio remanebimus, fluctu dilectionis et timoris alternante quassati » (a V, 25). 50: « Cum carnis et spiritus nominibus a poena peccati usque ad gratiam Domini atque iustitiam nos converti oportere praediceret (scii.: Apostolus), ne dese­rendo gratiam temporalem qua pro nobis Dominus mortuus est, non pervenia- mue ad aeternam quietem, in qua pro nobis Dominue vivit, neque intell'gendo poenam temporalem in qua nos Dominus mortalitate carnis edomare dignatus est, in poenam sempiternam incidamus, quae perseveranti adversum Dominum superbiae praeparata eet ».

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V

Nell 'Expositio Epistolae ad Galatas un altro punto colpisce la nostra attenzione, ed è l’interpretazione del passo II, 11-16, dop­piamente celebre, per se stesso e nella storia dell’esegesi, il quale racconta il dissidio tra Paolo e Pietro in Antiochia. Agostino ac­cetta senza discussione la realtà dell’episodio e nell’attegiamento di Pietro, sottomessosi al rimprovero di Paolo a lui inferiore, ravvisa un insigne esempio di quell’umiltà che tutto il commento si pro­pone d’inculcare. Ma talune frasi hanno un’intonazione polemica, e lasciano chiaramente divedere che Agostino contrappone qui la sua esegesi a quella di un altro scrittore, secondo il quale Paolo avrebbe fatto a Pietro un rimprovero simulato; ché se la ripren­sione da lui rivolta a Pietro fosse stata vera, avrebbe dovuto svol­gersi in segreto. Anzi, Agostino sembra preoccuparsi di rispondere ad argomentazioni ricavate dalla condotta di S. Paolo in altre cir­costanze; e al modo di comportarsi di lui, ispirato dalla carità, contrappone quello di San Pietro, suggerito da motivi meno plausibili (1).

La stessa interpretazione del passo indicato, con la stessa into­nazione polemica, anzi più vivace e precisa, e con la medesima preoccupazione di confutare argomenti ricavati dafl’azione di San Paolo (2) si ritrova nell’opera composta poco o immediatamente dopo YExpositio Epistolae ad Galatas, un trattatello morale, la cui presenza in mezzo a una serie di opere esegetiche ci sorprende alquanto: il De mendacio (3). Qui Agostino si pone il duplice problema, di definire esattamente la menzogna e di stabilire se sia vero che il mentire sia in qualche caso lecito e utile o addirittura

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doveroso (4). La prima questione è trattata piuttosto rapidamente; alla seconda è dedicato quasi tutto il libro, di cui forma il tema principale. Vi sono, dice Agostino, alcuni i quali credono che la bugia sia talvolta buona, e citano a prova esempi tratti dall’Antico Testamento (Sara, Esau, le levatrici degli Ebrei) ; ma questi esempi non provano nulla, perchè ciò che è scritto neli’Antico Testamento, anche se è realmente accaduto, dev’essere inteso in senso figurato. Invece nel Nuovo Testamento, eccettuate le parabole, non si tro­vano né racconti allegorici né esempi che autorizzino la menzogna. Quindi è molto più plausibile l’opinione di coloro che sono contrari a ogni specie di bugia (5). In seguito, Agostino passa in rassegna· e discute minutamente tutti i casi in cui il mentire può sembrare lecito. Non lo seguiremo in questa disamina : la cui conclusione è che è sempre meglio dire il vero, anche quando la menzogna sia detta per evitare un danno grave ; giacché nessun male è peggiore che la corruzione dell’anima. Sarà lecito, egli osserva, commettere un peccato affine di evitarne un altro, allorché siano in pericolo due beni entrambi spirituali ; ma allora non è sempre il caso di parlare di peccato. Quali sono del resto i beni da salvare ad ogni costo? La pudicitia corporis in realtà non si perde, ove manchi il con­senso; la castitas animi consiste nella volontà buona e nell’amore del vero bene, cioè di quello rivelato dalla Verità divina ; la veritas doc­trinae religionis atque pietatis non è violata se non, appunto, dalla menzogna. Quindi noi siamo sempre liberi della scelta e poiché la stessa verità divina c’insegna a preferire la perfetta fede anche alla castità del corpo (la quale è nulla senza quella dell’anima ; ed essa a sua volta consiste in un amore dei diversi beni rispettoso della loro gerarchia), sappiamo che nessuna menzogna è lecita e che vano è l’addurre a nostra giustificazione un presunto stato di ne­cessità. Mentire o dire il vero dipende da noi, come il preferire i beni inferiori e materiali o quelli spirituali e superiori (6).

Appare evidente che anche in quest’opera Agostino mira a combattere i manichei, con la riaffermazione sia del libero arbitrio, sia dell’accordo esistente tra le due parti della Bibbia, quando per l’Antico Testamento — o almeno per quelle parti di esso che ap­paiono scandalose — si sappia ricorrere all’interpretazione alle­gorica. Ma è anche chiaro che Agostino non ha scritto il De men­dario principalmente con questo scopo e altresì che il problema del-

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Γ« officiosum mendacium » non gli si è presentato che in conse­guenza di un fatto concreto, quale non può essere altro che quella interpretazione dell’incidente di Antiochia, alla quale egli si oppone con tanta forza. E che si trattasse di una questione importante per Agostino — come lo fu del resto per parecchi altri — r.l punto da indurlo a scrivere un intero libro, si spiega allorché si consideri ch’egli si trovava ad opporre la sua opinione a quella del più illustre esegeta del suo tempo, celebre anche come polemista : San Giro­lamo (7). E infatti, questo dell’interpretazione del contrasto tra Pietro e Paolo in Antiochia è uno degli argomenti della celebre controversia epistolare, tra i due grandi Padri latini (8), in cui Ago­stino osserva appunto che l’esegesi di Gerolamo mette in pericolo l’autorità della Bibbia. I manichei sostengono già che i passi del Nuovo Testamento a loro contrari sono falsificati e a mala pena li possiamo confutare mettendo loro sott’occhio codici antichi e il testo greco : che avverrà se noi stessi riconosceremo che gli apo­stoli hanno scritto cose non vere? (9). Ma Agostino sembra an­nunciare a Gerolamo uno scritto speciale intorno all’interpretazione dei passi biblici addotti a sostegno della menzogna « doverosa » : certamente il De mendacio. E sono questi accenni che possono aver contribuito a far correre la voce che Agostino avesse scritto un’o­pera polemica contro Girolamo : voci che giunsero anche a Betlem­me e a Ippona e che Agostino, appena le conobbe, si affrettò a smentire (10). Anzi, queste voci, e il rispetto per il solitario di Be­tlemme, contribuirono a indurre Agostino a tenere il suo scritto per sé. Veramente, nelle Retractationes (11) dice che esso gli parve obscurus et anfractuosus et omnino molestus, tanto che pensò di distruggerlo e che per questo non lo pubblicò, tanto più, in quanto aveva scritto un’altra opera sullo stesso argomento, il Contra men­dacium. Però non lo distrusse. Anzi, nel redigere le Retractationes, Agostino riconosce che il De mendacio, nonostante i suoi difetti, e ancora utile, anzi necessario, perchè contiene cose che non si tro­vano nel Contra mendacium : del che, dice, si rese conto nel rileggere tutte le sue opere. Ora, le Retractationes sono all’incirca del 427, ma il progetto di scrìverle alquanto anteriore (12); il Contra mendacium è del 419 o 420. Dopo averlo scritto, Agostino man­tenne la decisione di lasciare inedito il De mendacio, ma poi invecelo pubblicò, tra il 420 e il 427, anno nel quale ne parla come di

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opera già in circolazione da qualche tempo. 11 che significa che la pubblicazione avvenne solo dopo che Agostino ebbe notizia della morte di S. Girolamo (30 settembre 420). Né d’altronde si vede per qual ragione, fuori di quella di non urtare la suscettibilità di Giro­lamo (13) e di non riaccendere la polemica, Agostino avrebbe man­tenuto inedito per più di 25 anni questo suo libretto, senza distrug­gerlo né alterarlo. E’ davvero paradossale, che lo scrittore contrario alla menzogna in tutte le sue forme, sia stato poi, nelle Retracta­tiones, per lo meno reticente circa le vere ragioni per cui non pub­blicò il De mendacio : ma é reticenza che costituisce un esempio di carità.

* * *

Ci troviamo così di fronte ad un’altra serie di problemi. Infatti, noi abbiamo veduto Agostino incominciare a informarsi degli scrittori ecclesiastici e prender loro a prestito argomenti e me­todi (14). Già in base a questo fatto si pone il problema delle fonti delle opere esegetiche di lui ; di fronte alla dichiarazione esplicita ch’egli ha voluto leggere il commento di S. Girolamo all’epistola Ai Calati, non è possibile sottrarci all’obbligo di ricercare se e fino a che punto egli abbia utilizzato non soltanto quel commento, ma anche altri dello stesso S. Girolamo, nonché quelli di altri esegeti. Per quanto è dato stabilire attraverso una rilevazione parziale (15), il commento a Galati di Girolamo fu letto e utilizzato da Agostino non solo a proposito dell’« incidente di Antiochia » ma anche di altri punti (16).

Del pari sembra si possa affermare con relativa sicurezza che Agostino conobbe e in qualche punto ebbe presente il commento di Mario Vittorino (17). Eppure, una lettura seguita di tutta l'Expositio agostiniana, condotta tenendo presenti anche i commenti dei pre­decessori, fa risaltare in piena luce l’indipendenza di Agostino chi anche là dove ha aderito alle spiegazioni altrui, accoglie bensì il loro pensiero, ma si mantiene originale. D’altronde, 1 'Expositio stes­sa ha tutta l’aria di derivare da un commento orale, anzi si direbbe qua e là, occasionale e forse addirittura improvvisato : ché, a parte qualche luogo in cui Agostino si addentra in discussioni di alta teo­logia. l’esegesi procede generalmente piana e semplice, senza le

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osservazioni filologiche di cui si arricchis.ce quasi ad ogni passo il commento geronimiano, e lasciando invece trasparire qua e là la persona dell’ecclesiastico e il tono del sermone (18).

Un problema ben più grave, anche per le discussioni a cui ha dato luogo, è presentato dall’Ambrosiastro, il quale commenta l'in­cidente di Antiochia nello stesso senso di Agostino. Ora questi, po­lemizzando con Girolamo non solo contesta l’autorità degli esegeti da lui addotti a sostegno della propria tesi, ma contrappone a co­storo S. C ipriano e S. Ambrogio (19). 11 passo del primo, al quale evidentemente Agostino s» riferisce, è stato ritrovato ; non così quel­lo del secondo. Perciò si presenta spontanea l’ipotesi che non di S. Ambrogio si trattasse, bensì dell’Ambrosiastro : al quale rimanda infatti il Goldbacher nell’apparato della sua edizione, indicando il commento a S. Paolo ; mentre il Baxter costruiva un’ipotesi alquanto più 'Omolicata, tenendo conto aliresi di quanto era stato assen'o da altri circa la conoscenza deirAmbrosiastrc da parte di Agostino, a proposito della lettera Ai Romani (20). Ma il problema è reso al­quanto più complicato dal fatto che del dissidio tra Pietro e Paolo l’Ambrosiastro si occupa non soltanto nel commento a Galaii, ma altresì in una delle Quaestiones Veteris et Novi Testamenti.

Conviene prima di tutto ricordare che l’epistola 82 di Agostino è generalmente assegnata al 405 circa, perciò di un diecina d’anri.o più, posteriore all’inizio della polemica e a\YExpositio ; e che poco prima del passo riferito Agostino ricorda un’altra volta Ambrogio, ed esattamente, benché in maniera affatto generica (21). Ma soprat­tutto colpisce il fatto che, nel suo Tractatus a Galati l’Ambrosiastro esamina gli argomenti di Girolamo, ma in particolare quello tratto dalla circoncisione di Timoteo (22), mentre Agostino si ferma — e solo per un istante — a confutare l’altro, che cioè se Paolo avesse voluto rimproverare Pietro davvero e non soltanto quasi per uno stratagemma, sarebbe ricorso alla riprensione segreta. Quindi, se en­trambi concordano nelPopporsi all’interpretazione accolta e difesa da Girolamo, questo accordo è, direi, puramente negativo, in quanto, pur essendo loro comune il proposito di respingere llinterpretazio- ne di quello, la confutano in maniera diversa. E ’ vero che dobbiamo tener conto anche di quel desiderio di indipendenza, che abbiamo os­servato in Agostino anche quando utilizza scritti di predecessori. Ma mi preme aggiungere subito, che, per quanto ho potuto vedere,

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non s ’incontrano ndì'Expositio agostiniana altri punti di contatto con i Tractatus del misterioso contemporaneo di papa Damaso. Alla circoncisione di Timoteo, Agostino accenna invece nel De mendacio e più ampiamente nel Contra Faustum e nella ricordata epistola 82 (23). Ora, si comprende benissimo che Agostino, nel commento a Galati si contentasse di respingere sommariamente l’interpreta­zione altrui per sostenere la propria, indicando solo l’argomento che gli pareva perentorio ; mentre poi, nella polemica diretta, doveva prendere in considerazione tutte le ragioni dell’avversario, che non aveva certo bisogno di apprendere dall’Ambrosiastro. Il che non to­glie che Agostino abbia forse potuto conoscere anche il Tractatus in Galatas quando scriveva il Contra Faustum. Ma quello che importa stabilire ai fini del nostro studio, non è tanto se Agostino abbia cono­sciuto in un’epoca qualsiasi questo scritto dell’Ambrosiastro, bensì se lo conoscesse nel momento particolare in cui redigeva 1’Expositio. E resta il fatto della nessuna somiglianza tra questa e il Tractatus

Ma l’Ambrosiastro si occupa del medesimo argomento anche in una delle Questiones : precisamente la LX dell’Appendice nell’ed. Souter. In essa, il problema è posto negli stessi termini di Girola­mo : come mai poteva davvero rimproverare Pietro quello stesso Paolo il quale, circoncidendo Timoteo, s ’era comportato precisamen­te allo stesso modo di P ietro? E la risposta è identica a quella data nel Tractatus : se Timoteo, nato di madre giudea, fosse venuto al cristianesimo senza passare attraverso la Legge, ciò avrebbe dato scaricalo a tutti i fedeli provenienti dal giudaismo. Ma non troviamo menzionati nella Quaestio (né, del resto, rei Tractatus) i cognati di Timoteo, dei quali parla invece Agostino nella lettera a Girolamo (24). Per contro la preoccupazione antimanichea da cui Agostino stesso sembra essersi lasciato principalmente guidare nel combattere Giro­lamo, è del tutto assente dai due scritti dell’Ambrosiastro. Quanto alla relazione tra questi due, è da considerare che molte delle Quae­stiones lasciano chiaramente intravedere il loro carattere di scritti d’occasione : non sembra quindi inverosimile che la Quaestio LX sia stata suggerita proprio dal desiderio di contrastare l’interpreta­zione di Girolamo. Certo non polemizza con l’altro commento, quello di Mario Vittorino, in cui non vi è traccia di tale spiegazio­ne (25). Il fatto che detta quaestio, così come la qu. LII, su Galati V, 17, manchi nella seconda edizione delle Quaestiones, si

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spiegherebbe qualora si ammettesse che fossero entrambe ante­riori al Tractatus in Galatas, in seguito al quale l’autore avrebbe ritenuto superfluo ripubblicarle (26). Ma, concludendo, credo di non poter rispondere affermativamente al quesito se sia la Quae­stio sia il Tractatus fossero noti ad Agosiino nel momento in cui componeva VExpositio Epistolae ad Galatas.

* * *

Resta tuttavia da considerare, a proposito della conoscenza dei Tractatus dell’Ambrosiastro da parte di Agostino e dell’influenza che essi avrebbero esercitato su di lui, la serie degli scritti relativi alla lettera Ai Romani. A tal fine non sarà inutile esaminare il pensiero dell’Ambrosiastro, almeno quale risulta dal corìimento a Romani. Incominciamo precisamente dal passo che, per essere citato dallo stes­so Agostino, ha in certo modo dato origine alla discussione (27). Da vero commentatore, l’Ambrosiastro segue fedelmente il testo; e per primo sottolinea il parallelismo tra l’unico Adamo e l’unico Cristo, per cui mezzo soltanto il genere umano fu salvato, e che è uno in so­stanza con Dio Padre. Quindi passa a commentare l’inciso in quo omnes peccaverunt. Il pronome relativo, maschile, si riferisce evi­dentemente a Adamo; quindi tutto il genere umano, discendente da lui, è stato generato sub peccato e tutti gli uomini sono peccatori, perchè Adamo prevaricò e meritò la morte. Ma questa è solo la morte corporale, cioè la separazione dell’anima dal corpo e non va confusa con la « seconda morte », quella della Geenna, alla quale siamo bensì sottoposti in conseguenza del peccato di Adamo, ma solo in quanto esso fornisce un’occasione ai peccati personali, che sono la causa del­la condanna. Da tale seconda morte sono dunque esenti i giusti — s’intende, quelli dell’Antico Testamento — , sebbene d’altra parte le loro anime non potessero ancora salire al cielo, a causa appunto del­la sentenza che ha colpito lo stesso Adamo (28). Vi sono dunque stati sempre dei giusti, anche se pochi, o per lo meno uomini che non hanno peccato allo stesso modo di Adamo. Giacche per l’Ambrosiasiro il peccato fondamentale è l’idolatria e non diverso da essa è lo stes­so peccato di Adamo, il quale pensò di poter diventare un dio. Nel suo sforzo per intendere il valore e il significato della legge, egli s ’i­spira a questa considerazioie fondamentale : quello che conta è il rap­porto che gli uomini hanno o non hanno saputo stabilire con Dio.

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Prima della legge mosaica, esisteva già tra gli uomini la legge natu­rale ma si riteneva ch’essa valesse soltanto a regolare i rapporti uma­ni, e s ’ignorava che Dio avrebbe giudicato le azioni di ciascuno. Ciò divenne chiaro allorché fu promulgata la legge mosaica, ma gli uo­mini avrebbero potuto e dovuto non ignorarlo ; senonchè essi abban­donarono Dio per venerare gli idoli, violando così la prima parte della stessa legge di natura, che impone di onorare il Creatore e non attribuire ad alcuna creatura la maestà e la gloria proprie di lui solo. Così gli uomini peccavano, nella loro stolta illusione di rima­nere impuniti, e se ne allietava Satana, sicuro che Dio gli avesse abbandonato l’uomo in possesso, a causa di Adamo. Ma la morte non regnava su tutti, perchè non tutti peccarono « in somiglianza alla prevaricazione di Adamo », poiché non tutti abbandonarono il Crea­tore. Coloro che rimasero fedeli a Dio, peccarono anch’essi — per­chè è impossibile non peccare — ma non contro Dio, quindi su questi pochi la morte non regnò. Così il regno della morte cominciò ad es­sere distrutto fra gli Ebrei, che conobbero Dio ; e oggi è distrutto ogni giorno più fra tutti ■ i popoli, che in maggioranza si cambiano da figli del demonio in figli di Dio. Ché Dio stabilì di emendare per mezzo di Cristo ciò che era stato violato per opera di Adamo (29).

Venuta la legge mosaica, si vide che Dio punisce le cattive azioni degli uomini, ma questi dominati dall’antica consuetudine radicata in loro, rimasero « carnali » e continuarono a fare ciò che la legge vieta ; « dominati dal senso della carne », che impedisce di credere alle ve­rità spirituali della fede, vissero nel peccato, schiavi di esso. Anzi il peccato — cioè il demonio — trasse maggior forza dal divieto e, spingendo l’uomo a contaminarsi sempre più con peccaminosi pia­ceri, rese ancora più saldo il proprio dominio. L ’uomo è. incapace, senza il soccorso della misericordia divina, di ubbidire alla leg:ge e di resistere al nemico; ha un corpo corrotto da un difetto dell’a­nima ed è soggetto al peccato, in quanto il demonio può imporsi alla sua volontà e dominarla. Il diavolo non aveva questo potere prima del peccato di Adamo ; ma, dopo che questi ebbe dato ascolto al serpente, il demonio ottenne il potere di sottomettere l’anima dell’ucmo e si­gnoreggiarla; perchè il corpo dell’uomo — creato tale che, essendo unito all’anima, non era soggetto alla morte — divenne invece mor­tale, soggetto a desideri inferiori che si comunicano all’anima e le sono come un peso opprimente. Ma sin dall’inizio Dio volle pre­

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disporre un modo di riparare al peccato di Adamo e alle sue conse­guenze : onde alla legge naturale è subentrata la Legge mosaica e a questa quella della fede e della grazia. La grazia di Dio, concessa mediante Cristo, ha liberato l’uomo dalla seconda morte e dal peccato rendendolo così capace di servire con l’anima la Legge di Dio, ben­ch é la carne serva ancora la legge del peccato, cioè del diavolo, che attraverso la carne a lui soggetta presenta ancora all’anima le sue tentazioni malvage. Ma quando si dice « Legge di Dio » si intendono tan to la Legge mosaica, esclusa la parte cerimoniale, quanto la gra­zia. Ora, in virtù di questa, l’uomo, tornato alla consuetudine buona e con l’aiuto dello Spirito Santo, è in grado di resistere alle tentazioni e

al nemico, mentre il corpo vi è ancora soggetto. Ma il corpo non po­teva essere restituito al suo stato primitivo di immortalità, ostandovi la sentenza emanata da Dio su Adamo. Pur rispettando la santità della cosa giudicata, fu trovato dunque un rimedio, che rendesse al­l’uomo la sua primitiva salute spirituale. In altri termini, all’uomo già reso incapace di resistere alle tentazioni, è stato restituito pienamente il libero arbitrio (30).

E infatti Dio, nella sua prescienza, conosce coloro che gli saranno fedeli, e li elegge in base appunto alla sua prescienza. N on si tratta dunque di una predestinazione nel senso stretto della parola ; ma — anche nell’Ambrosiastro come nelle opere di Ago­stino che abbiamo esaminato — di una predestinazione conse­guente la previsione dei meriti. L’Ambrosiastro non si nasconde la difficoltà, che solleva il separare troppo nettamente la prescienza dall’onnipotenza, il conoscere dal volere in Dio; sa — e lo dice — che le cose non possono svolgersi altrimenti da come Dio le ha pre­viste. Ma — a parte il fatto che l’argomento cui si interessa real­mente è molto più la condizione degli Ebrei e la loro conversione (31) che non il problema della salvezza in maniera generale — egli si preoccupa straordinariamente di salvaguardare la giustizia di Dio. Perciò afferma che i decreti con i quali Dio stabilisce la sorte del­l’uno o dell’altro sono posteriori al suo conoscere in che maniera si comporterà ciascuno. L’eleggere, cioè il chiamare alla fede co­lui del quale Dio sa in precedenza che darà ascolto, non è un atto di favore, per cui, tra due uomini nelle stesse condizioni, Dio ne sceglierebbe uno in base a una specie di simpatia personale : anzi, Dio non fa considerazione di persona, ripete l’Ambrosiastro, ricor-

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dando ancora Rom. II, 11. Tanto forte è in lui questa preoccupazione, che egli vede addirittura nelle parole del vs. 18, non l’espressione del pensiero di Paolo, ma parole da lui messe in bocca a un supposto contraddittore. Insomma, Dio non agisce arbitrariamente, come fa­rebbe il vasaio ; è vero che noi siamo di fronte a lui come dinanzi al vasaio la massa amorfa, ma Dio sa bene di chi aver compassione giustamente. Non solo; ma è longanime, aspetta che coloro i quali non hanno fede si rendano con la loro pervicacia indegni di ogni scusa ; e nella sua longanimità prepara questi alla rovina, e i buoni e credenti alla gloria. Ma tale preparazione consiste appunto nella sua prescienza, la auale pertanto non si può in alcun modo disgiungere dalla giustizia (32).

Già da questa rapida esposizione è facile vedere in quanti e quali punti l’esegesi dèll’Ambrosiastro coincida con quella di Agostino. Sebbene animato da motivi che il secondo non condivide menoma­mente (l’altissimo valore attribuito alla Legge mosaica, la sorte del popolo ebraico, insieme con una mentalità di giurista che si manifesta ne! rispetto per l’intangibilità della sentenza regolarmente emanata e passata in giudicato) pure in sostanza anche l’Ambrosiastro distingue la storia del genere umano in quattro periodi, che corrispondono a quelli di Agostino, sebbene non li definisca altrettanto nettamente né dia loro gli stessi nomi. Ma anche per lui il peccato è dovuto al dominio esercitato dai sensi sull’uomo, incapace di sottrarsi, senza l’aiuto divino, e del tutto, asl'impulsi e agli appetiti di natura infe­riore, che provengono dal corpo mortale. Concedendo all’uomo, dopo la grazia· della nuova legge, la capacità di resistere agl’impulsi mal­vagi — si noti che questa « legge della fede » è la terza, dopo quella naturale e la mosaica ; facendo della « seconda morte » una pena speciale per il mancato riconoscimento dell’onore dovuto a Dio; e introducendo il concetto di consuetudine buona e cattiva : l’Ambro- siastro, precisamente come Agostino nelle opere fin qui studiate, fa del peccato un atto tutto volontario, riconosce come sola conseguenza del* peccato di Adamo la trasformazione del corpo da immortale in mortale (la reintegrazione completa appartiene a un quarto stadio) ; e per conseguenza (si consideri altresì il valore ch’egli attribuisce al- l’Antico Testamento) l’Ambrosiastro assume un atteggiamento deci­samente opposto a quello dei manichei, contro i quali, per di più di­fende la libertà deH’arbitrio umano (33). Con questo modo di vedere

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collima perfettamente la sua dottrina della predestinazione post prae­visa merita, per cui Dio concede il suo aiuto a coloro dei quali sa fin dall’inizio che non solo si rivolgeranno a lui, ma gli resteranno fedeli.

Ma per l’Ambrosiastro il peccato è il demonio ; attraverso il corpo che, come si è visto, è rimasto mortale anche dopo la redenzione

operata da Cristo, affinchè non venisse annullata la sentenza resa da Dio su di Adamo — esso esercita il suo dominio sull’uomo, in virtù di un suo preciso diritto. Quella sentenza di condanna è infatti il presupposto di tutta l’economia della salvezza. E qui, credo, tocchia­mo il punto centrale della soteriologia dell’Ambrosiastro, il quale con­cepisce la redenzione come un autentico riscatto che il Cristo fa del­l’umanità, passata giustamente e giuridicamente in potere del de­monio. Adamo, cioè, si è volontariamente venduto ; Dio con la sua sentenza, rendendolo mortale (e cioè ponendolo in una condizione per cui cede più facilmente alle attrattive dei beni inferiori e alle sug­gestioni del nemico) ha ratificato quel patto e messo il demonio stes­so in grado di esercitare la sua padronanza. Ma nello stesso tempo Dio ebbe compassione del genere umano e ne predispose il riscatto, in modo però da non distruggere la sentenza che egli stesso aveva pronunziato (34). Questo suo modo di vedere spiega la preoccupazio­ne per la sorte dei giusti morti prima di Cristo (35), la stessa forza con cui sostiene la lezione dei suoi codici in Rom. V, 14 (36) e quel­la con cui accentua la contrapposizione delle due leggi di Dio e del demonio, la quale può anche sembrare ispirata dal manicheismo ; ma ad esso l’Ambrosiastro, come si è visto, è recisamente contrario. In questa concezione, che ci riporta col pensiero ad Ireneo, scrit­tore del resto che l’Ambrosiastro cita volentieri è, io credo, la spiegazione dei passi in cui egli sottolinea la solidarietà del genere umano con Adamo. Il parallelismo tra questi e Cristo dev’essere per­fetto e come il secondo ha redento in sè l’umanità, così il primo l’ha contaminata in sè e asservita al demonio. Ma, nell’uno come nel- l’aitro caso, non si tratta dell’umanità intera : l’Ambrosiastro sa che Cristo non salva se non coloro che hanno, e continuano ad avere, fede in lui (fede che forma l’oggetto della prescienza divina ma non è essa stessa puro dono di Dio) ; e così Adamo non ha assoggettato alla morte spirituale, alla condanna eterna, se non coloro che hanno peccato a somiglianza di lui.

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Noi conosciamo il pensiero di Agostino in questo momento della sua evoluzione spirituale, tra l’ordinazione sacerdotale e la consacra­zione all’episcopato. E ’ facile rilevare le somiglianze tra questo suo pensiero — cioè il suo modo di intendere S. Paolo — e quello dell’Ambrosiastro. E’ facile anche rilevare le differenze (37). In com­plesso, dunque, lo studio dell’epistolario paolino ha posto ad Ago­stino dei problemi nuovi, o almeno in termini e sotto aspetti rinno­vati ; allo stesso tempo, la lettura degli scrittori cristiani anteriori, a cui si dedica da quando, diventato sacerdote, l’autorità della Chiesa e la forza della tradizione hanno conquistato per lui un valore più concreto — ed evidente — lo mette di fronte a qualche opinione da cui dissente (e che egli non esita a combattere) ma anche ad almeno uno scrittore, le cui idee in gran parte concordano con le sue.

* * *

Ma VExpositio epistolae ad Galatas presenta ancora un punto interessante. Nel commentare IV, 21 Agostino annota che S. Paolo stesso chiarisce il significato allegorico dei due figli di Abramo, ma che l’apostolo non parla di quelli nati al patriarca dopo la morte di Sara, e questo perchè Abramo aveva solo due figli allorché accaddero i fatti cui allude il passo da interpretare. Molti dùnque, i quali igno­rano il racconto del Genesi, possono credere che Abramo non avesse se non due figli ; mentre ne ebbe altri da Chetura (cfr. Genesi XXV,1 segg.). Questi furono anch’essi generati da una libera ma non secondo una promessa di Dio : non possono quindi rappresentare il seme d’Àbramo spirituale. Dunque Isacco è l’erede, e rappresenta il popolo del Nuovo Testamento, non solo perchè nato dalla libera, ma perchè — cosa ben più importante — generato secondo la promessa. I figli di Chetura, nati essi pure da una libera, ma non in virtù di una promessa bensì secondo la carne, non hanno parte dell’eredità né appartengono alla Gerusalemme celeste ; sono i « carnali » che stanno materialmente nella Chiesa e vi suscitano scismi ed eresie. D ’altra parte la persecuzione che Isacco patì ad opera di Ismaele è allegoria di quella che tutti coloro che vissero secondo lo spirito eb­bero a soffrire da parte dei giudei carnali (38). Non è questa un’af­fermazione dell’idea che i giusti debbono necessariamente patire in questo mondo; ma è significativo vedere che la persecuzione di Isacco è messa in relazione col fatto — a chiarire il quale è destinato

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tutto l ’excursus sui figli di Chetura — che vi sono nella Chiesa uo­mini i quali le appartengono bensì materialmente, però, quali eretici e scismatici, non sono figli della promessa, né fanno parte del po­polo del Nuovo Testamento predestinato presso Dio. Questa idea si trova anche (e lo abbiamo segnalato) già nel De vera reli­gione (39), ma espressa in forma differente. Qui poi si presenta con ben altra profondità, legata com’è strettamente a un’interpretazione biblica e a una visione completa di tutto il problema della salvezza. E nulla di simile si trova nelle altre opere esegetiche di Agostino che abbiamo finora esaminato, nulla di simile negli altri commentatori, della medesima epistola, che Agostino potè consultare ; e neppure in S. Ambrogio che nello spiegare gli stessi passi della Genesi parla in modo affatto diverso (40). Un raffronto invece ce lo offre invece una delle ultime questioni, la 81 — ossia una di quelle composte più tardi — del De diversis quaestionibus LXXXllL In essa, in mez­zo a una interpretazione tutta allegorica dei numeri 40 e 50, leggiamo che la Chiesa nel mondo soffre dolori e afflizioni, in attesa della re­surrezione, con cui cesserà la mescolanza dei buoni e dei malvagi (41).

Qualche cosa di simile troviamo anche in un’opera alquanto po­steriore, scritta o almeno pubblicata, da Agostino già vescovo, ma che spiritualmente si dimostra contemporanea a quelle che abbiamo sopra esaminate, il De agone christiano. Qui l ’elenco delle eresie è più ricco che in scritti anteriori, quali il De vera religione e an­che il De fide et symbolo (42). Ma ciò che colpisce è l’importanza attribuita ai concetto della lotta contro il demonio, che costituisce il tema fondamentale di questo scritto (43). Questa lotta consiste nel sottrarsi all’attrazione delle cose sensibili, e la salvezza dipende ancora principalmente da un atto di fede volontario, perché l’uomo è dotato di libero arbitrio ; ad esso consegue la purificazione della condotta e deH’anima, che mette in grado di conoscere la verità, prima accolta solo per fede. Primo passo verso la purificazione, dunque è l’accogliere i precetti di Cristo (44). Del resto, abbiamo dinanzi a noi l’esempio dell’apostolo stesso, S. Paolo (45) che dun­que in questo scritto Agostino considera ancora come « spiri­tuale », sub gratia (46). Nella Chiesa, però, non tutti sono spiri­tuali e ai buoni sono frammisti i malvagi, fino al momento della se­parazione (47). E! evidente che il problema dell’eresia e dello sci­sma, così come quello del potere della Chiesa di rimettere i pec-

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cati (48) è sempre più ognora allo spirito di Agostino. In fondo, si tratta sempre di quel problema dell’esistenza del male, che ha affa­ticato Agostino fin dall’inizio della sua attività intellettuale : e che ora lo interessa anche sotto questi aspetti particolari, e più propria­mente ecclesiastici.

E ’ altresì notevole — soprattutto considerando, per ragioni che si vedranno in seguito, l’epoca in cui fu composto — che Agostino professi anche nel De agone christiano le medesime dottrine che abbiamo trovato nelle opere precedenti l’episcopato e di cui abbiamo osservato la somiglianza con quelle dell’Ambrosiastro. Anzi questa affinità è anche maggiore nel De agone christiano dove Agostino fa proprio anche il concetto della diuturna lotta contro il demonio ; mentre non si pone affatto un problema che, sembra, avrebbe do­vuto occupare interamente la sua attenzione, dopo YExpositio in Galatas. Giacché la interpretazione ch’egli vi dava — e che poi di­fese sempre strenuamente — dell’incidente di Antiochia implicava come conseguenza inevitabile che anche un apostolo, uno spirituale certo sub gratia, come Pietro, potesse a volte comportarsi male, tanto da meritare la giusta riprensione da parte di Paolo. E ’ una conseguenza che Agostino riconobbe esplicitamente più tardi (49); ma sorprende che non se ne avvedesse immediatamente.

Ma, d’altra parte, era poi Agostino così sicuro di stesso, come gli sarebbe probabilmente piaciuto, non dico di far credere, ma di potersi credere egli stesso? Si sentiva intimamente tale da po­ter additare il suo proprio esempio come quello di un uomo che, per le virtù della sua sola volontà, dedicandosi interamente alla ri­cerca del vero e alla meditazione della parola di Dio, si era defi­nitivamente sottratto all'impero delle cose sensibili, e al dominio della carne e del peccato? Domande come queste non si scrivereb­bero neppure, se la risposta dovessimo darla noi : ma essa è data ’ invece, in gran parte, dallo stesso Agostino e per il resto, pro­prio dai fatti. Ché il fatto fondamentale, e che ci dice tutto, è che egli non smise dall’affaticarsi intorno ai testi di S. Paolo, anzi inten­sificò gli sforzi per afferrarne pienamente il significato.

; NOTE

(1) Expos. Ep. ad Gai., 15. « In nullam ergo simulationem Paulus lapsus erat, quia 6ervabat ubique quod congruere videbat, sive ecclesiis gentium

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sive Iudaeorum, ut nusquam auferret consuetudinem quae servata non impe­diebat ad obtinendum regnum Dei ... Petrus autem, cum venisset Antiochiam, obiurgatus est a Paulo non quia eervabat consuetudinem Iudaeorum... sed obiur­gatus eet quia gentibus eam volebat imponere, ... segregabat se a gentibus et simulate illis consentiebat ad imponenda gentibus ilia onera servitutis, quod· in ipsius obiurgationis verbie satie apparet... Non enim utile erat errorem quii palam noceret in secreto emendare. Huc accedit quod firmitas et charitae Petri... obiurgationem talem posterioris pastoris pro salute gregis libentissime susti­nebat... Valet autem hoc ad magnuon humilitatis exemplum, quae maxima est disciplina christiana; humilitate enim conservatur charitas... Quoniam « ex ope­ribus legis », cum suis viribus ea quisque tribuerit, « non iiistifioabitur oannis caro », id es.t omnis homo, sdve omnes camaliter sentientes. Et ideo illi qui, cum iam essent sub Lege, Christo crediderunt, non quia iusti erant, sed ut iustificarentur venerunt ad gratiam fidei ».

(2) Ùe mend ., V, 8: « Et ideo de libris Novi Testamenti, exceptis figuratis significationibus Domini, si vitam moresque sanctorum et facta ac dicta con­sideres, nihil tale proferri potest quod ad imitationem provocet mentiendi. Simulatio enim Petri et Barnabae non solum commemorata, verum etiam repre­hensa atque correcta est (cfr. « simulate iilis- consentiebat », Exp. Ep. ad Gai., 15, η. 1). Non enim, ut nonnulli putant, ex eadem simulatione etiam Paulus apo­stolus aut Timotheum circumcidit aut ipse quaedam ritu iudaico sacramenta celebravit, sed ex illa libertate sententiae suae qua praedicavit nec gentibus prodesse circumcisionem nec Iudaeis obesee». — XXI, 43: «Tanta porro caecitas hominum animos occupavit, ut eis parum sit, si dicamus quaedam mendacia non esee peccata, nisi etiam in quibusdam peccatum dioant eese si mendacium recusemus eoque perducti sunt defendendo mendacium, ut etiam primo illo genere, quod est omnium sceleratissimum (quello cioè che " fit in doctrina religionis ”, cfr. 17 e 25) dicant usum fuisse apostolum Paulum. Nam in epistola ad Galatas, quae utique sicut ceterae ad doctrinam religionis pietatisque con- scripta est, illo loco dicunt eum esse mentitum, ubi ait de Petro et Bamaba ’ cum vidissem, etc. " (Gal., II, 14). Cum enim volunt Petrum ab errore atque ab illa, in quam inciderat, v iae pravitate Refendere, ipsam religionis v iam in qua salus est omnibus, confracta et comminuta Scripturarum auctoritate, conan­tor evertere. In quo non vident non solum mendacii crimen, sed etiam periurii ee obicere apostolo in ip&a doctrina pietatis, hoc est in epistola in qua prae­dicat evangelium ».

(3) L'ordine in cui gli ultimi scritti precedenti l'episcopato sono ricordati nelle Retractationes è il seguente. 22 (23) Expositio quarundam propositionum ex Epist. ad Rom.; 23 (24): Expositio Ep. ad Galatas; 24 (25): Ep. ad R om expositio inchoata; 25 C26): De diversis quaestionibus LXXXIII; 26 (27): De mendacio. Però le « 83 questioni », composte via via, furono pubblicate da Agostino giù vescovo,· e la Expositio inchoaUi può, in certo modo, consi­derarsi contemporanea o di pochissimo posteriore a\\'Expositio quarr. propp. Si consideri inoltre il modo in cui Agostino si esprime: 22 (23), 1: « liber unus accessit superioribus opusculis meis»; 23 (24), 1: Post hunc librum exposui; 24 (25), 1: «Epistolae quoque ad Romanos sicut ad' Galatas expositionem su­sceperam ». Evidentemente Agostino considera i due commenti come comin­ciati nello stesso tempo.

(4) De mend., I, 1: «Magna quaestio est de mendacio, quae nos in ipsis quotidianis actibus noetrie saepe conturbat, ne aut temere accusemus menda-

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cium, quod non eet mendacium, aut arbitremur aliquando esse mentiendum honesto quodam et officioso ac misericordi mendacio ». — « Sed utrum sit utile aliquando mendacium; multo maior magieque necessaria quaestio esit » (IV, 5).

(5) lbid., III, 6: « Contra illi, quibus placet numquam mentiendum, multo fortius agunt, utentes primo auctoritate divina...» (cfr. V, 8, cit. alla n. 2); XXI, 42: « Elucet itaque discussie omnibus nihil aliud illa testimonia Scriptu­rarum monere nisi numquam esse omnino mentiendum, quando quidem nec ulla exempla mendaciorum imitatione digna in moribus factisque sanctorum inveniantur quod ad eas attinet Scripturas quae ad nullam figuratam signi­ficationem referuntur, eicuti sunt res gestae in Actibus apostolorum. Nam Domini omnia in Evangelio, quae imperitioribus mendacia videntur, figufatae significationes eunt » (cfr. 43 cit. alia n. 2; 26).

(6) lbid., XVIII, 38: « Nemo tamen potest dicere hoc se aut in exemplo aut in verbo Scripturarum invenire, ut diligendum vel non odio habendum ullum mendacium videatur, sed interdum mentiendo faciendum esse quod oderis, ut quod amplius detestandum est devitetur... Sed in hoc errant homines, quod subdunt praetiosa vilioribus... Ex sua quisque cupiditate atque 'consuetudine metitur malum et id putat gravius, quod ipse amplius exhorreecit, non quod amplius revera fugiendum est. Hoc totum ab amoris perversitate gignitur vi­tium. Cum enim duae sint vitae nostrae, una sempiterna quae divinitus pro­mittitur, altera temporalis in qua nunc sumus, cum quisque istam temporalem ampliue diligere coeperit, quam illam sempiternam, propter hanc quam diligit putat esse omnia facienda... ». 39: « iam illa deeinunt esse peccata, quae propter graviora vitanda suscipiuntur... et in rebus sanctis non vocatur peccatum, quod ne gravius admittatur admittitur. XIX, 40: « Ista eunt autem quae sanctitatis causa eervanda sunt, pudicitia corporis et castitas animae et veritas doctrinae. Pudicitiam corporis non consentiente ac permittente anima nemo violat: quid­quid enim nobis invitis nuilamque tribuentibus potestatem maiore vi contigit in nostro corpore, nulla impudicitia est. Sed permittendi potest esse aliqua ra­tio, consentiendi autem nulla. Tunc enim consentimus, cum adprobamus et volu­mus... Consensio sane ad impudicitiam corporalem etiam castitatem animi vio­lat. Animi quippe castirtas est in bona voluntate et sincera dilectione, quae non corrumpitur nisi cum amamus atque adpetimus quod amandum atque adpeten- dum non esse veritas docet.... Veritas autem doctrinae, religionis atque pietatis nonnisi mendacio violatur, cum ipsa summa atque intima veritas, cuius est ista doctrina, nullo modo potest violari: ad quam pertinere... non licebit, nisi cum ” comiptibi]e h o c ” induerit " incorruptionem " etc. (7 Cor., XV, 33). Sed quia omnis in hac vita pietas exercitatio est qua in illam tenditur, cui exercitationi ducatum praebet ista doctrina, quae humanis verbis et corporeorum sacra­mentorum signaculis ipsam insinuat atque intimat veritatem, propterea et haec, quae per mendacium corrumpi potest, maxime incorrupta servanda est»; XX, 41: «Unde cogimur non opinione hominum quae plerumque in errore est, sed ipsa quae omnibus supereminet atque una invictissima est veritate, etiam pudicitiae corporis perfectam fidem anteponere. Est enim animi castitas amor ordinatus non subdens maiora minoribus. Minus est autem quidquid in corpore quam quidquid in animo violari potest »... « Unde colligitur multo magis animi castitatem servandam esse in animo, in quo tutela est pudicitiae corporalie ».

(7) Cosi commenta S. Girolamo Gal. II, 11 sgg. (Comm. in Ep. ad Galatas,

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P. L. XXVI, 363-4) : « Cum itaque vidisset apostolus Paulue periclitari gratiam Christi, nova bellator vetus usus est arte pugnandi, ut dispensationem Petri, qua Iudaeos saivari cupiebat, nova ipse contradictionis dispensatione corri­geret... Quod si putat aliquie vere Paulum Petro apostolo restitisse, et pro veritate Evangelii intrepide fecisse iniuriam praecessori, non ei stabit illud quod et ipse Paulus Iudaeie Iudaeus factus est etc. (cfr. I Cor. IX, 20) et eiusdem simulattionis tenebitur reus quando caput totondit in Ceneris (A ct. XVIII, 18) et facto calvitio oblationem obtulit in Ierusalem (Aci. XXIV, 11) et Timotheum circumcidit (Act. XVI, 3) et nudipedalia exercuit, quae utique manifestissime de ' caeremoniis Iudaeorum sunt... Legerat utique Paulus in Evangelio Dominum praecipientem (Le. XVII, 3) ».

(8) Aug. ep. 28 (Hierom. 56), 3-4: «Legi etiam quaedam scripta quae tua dicerentur, in epistolas apostoli Pauii; quarum ad Galatas cum enodare velles, venit in manus locus iiie, quo apostolus Petrus a perniciosa simulatione revo­catur. Ibi patrocinium mendacii eusceptum esse vel abs te, tali viro, vel a quopiam, si alius illa scripsit, fateor, non mediocriter doleo, donec refellan­tur, si forte refelli possunt, ea quae me movent. Mihi enim videtur exitiosissime credi aliquod in librie sanctis haberi mendacium, id est eos homines, per quos nobie illa Scriptura ministrata est, atque conscripta, aliquid in libris suis fuisse mentitos. Alia quippe quaesito est, sitne aliquando mentiri viri boni, et alia quaestio est, utrum scriptorem Sanctarum Scripturarum mentiri opor­tuerit: immo vero, non alia sed nulla quaestio est. Admisso enim eemel in tantum auctoritatis fastigium officioso aliquo mendacio, nulla illorum librorum particula remanebit, quae non, ut cuique videbitur vel ad mores difficilis vel ad fidem incredibilis, eadem pemicioeiesima regula ad mentientie auctoris con­silium officiumque referatur. Si enim mentiebatur apostolus Paulus... quid respondebimus, cum exsurrexerint perversi homines prohibentes nuptias, quos futuros ipse praenuntiavit, et dixerint totum ihud quod idem apoetolus de ma­trimoniorum iure firmando locutus est, propter homines qui dilectione coniugum tumultuari poterant, fuisse mentitum?». 5.: «Et ego quidem qualibuscumque viri­bus, quas Dominus suggerit, omnia illa testimonia, quae adhibita sunt adstruen- dae utilitati mendacii, aliter oportere intellegi ostenderem, ut ubique eorum firma veritas doceretur. Quam erum testimonia mendacia esse non debent, tam non debent favere mendacio... Ad hanc autem considerationem co-get te pietas, qua cognoscis fluctuare auctoritatem divinarum Scripturarum, ut in eis quod vult quisque credat, quod non vult, non credat, si semel fuerit persuasum aliqua illos viros... in scripturie suis officiose potuisse mentiri; nisi forte re­gulas quasdam daturus es, quibus noverimus ubi oporteat mentiri, ubi non oporteat ».

(9) Cfr. altresì: Aug. Ep. 40 (= Hier. 67), 4-7; Aug. Ep. 73 (= Hier. 110, 4); Aug. Ep. 32 (= Hier. 116), 5, 6, 7, 8, 12, etc. Per l'argomento dell’importanza che allo scopo di confutare gli eretici, ha il testo greco della Bibbia, v. anche Aug. Ep. 71 ( = Hier. 104), 4; qui con riferimento alla Volgata. La storia di questa corrispondenza tra Agostino e Girolamo è stata fatta da molti; la cro­nologia delle lettere presenta punti oscuri o controversi. Si ammette di solito che l'ep. 28, portata da Profuturo, e che S. Girolamo non ricevette mai, sia la stessa, da lui scritta ancora da prete, cui Agostino allude nell’Ep. 71, 2: nel- l’ep. 28 ei nomina Alipio, il quale, essendo ancora semplice sacerdoté, visitò Girolamo in Palestina portandogli il ealuto di Agostino; ed ora è già Vescovo. Perciò come data dell'ep. 28 si suole indicare il 394-5; ma è evidente che la

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datazione di essa dipende da quella che ei accetti per la consacrazione episco­pale di Agostino. Questi poi, accorgendosi che la sua lettera non era giunta a destinazione, ecriese nuovamente a Girolamo l’ep. 40. Cfr. Cavallera, St. Jé- ròme, II, 47-50; J. Schmid, SS. Eus. Hieronymi et Aur. Augustini Epistolae mu­tuae, Bonn 1930 (Florilegium Patristicum, XXXII); D. de Bruyne, La correspon- dance échangée entre Augustin et Jéròme, in Zeitschr. i. neutestom. Wis9ensch., 1932, pp. 233-248.

(10) Cfr. Aug. Ep. 67 (= Hier. 101), 2; 68 (= Hier. 102), 1. Girolamo ha conosciuto, in una copia, una lettera nella quale Agostino lo invita a scrivere la sua palinodia (evidentemente \'Ep. 40 di Agostino); Aug. Ep. 72 (= HieT. 105).

(11) Retract. I, 26 (27).(12) Aug. Ep. 143 ad Marcellinum, 3 (del 412).(13) Per la suscettibilità di S. Girolamo, cfr. YEp. 105 (= Aug. 72). Si noti

che già i Maurini (Vifa Augustini, II, 7 e 8) e Tillemont avevano veduto che il De mendacio è contemporaneo all'Ep. 28; e eottolineano il fatto che nel Contra mendacium non eolo non vi è accenno al libro affine precedente, ma anzi Agostino « significare videtur ee nondum Scripturae testimonia de mendacio discussisse ». L'allusione all'incidente di Antiochia nel Contra m en ­dacium (12, 26) è brevissima e ecevra di ogni carattere polemico.

(14) Per Tertulliano, Cipriano e Ottato di Milevi, cfr. c. Ili, n. .1.(15) Tengo a sottolineare che si tratta di una ricerca rapida e limitata

ad alcuni punti, sufficienti allo scopo che mi ero prefisso. Rimane aperto il campo a chi volesse procedere ad un confronto completo e più minuzioso.

(16) P. es. a I, 1 Girolamo (P. L XXVI, 336) distingue quattro generi di apo­stoli («Unum quod neque ab hominibus est neque per hominem eed per Iesum Christum et Deum Patrem; aliud, quod a Deo quidem est sed per hominem; tertium quod ab homine non a Deo; quartum quod neque a Deo neque per hominem neque ab homine sed a eemetipao »); Agostino (v. ix testo a n. 17) fa una distinzione analoga, tralasciando però la quarta categoria. Un incontro più evidente sembra di poter trovale a proposito di I, 3-5, dove Girolamo (col. 338 seg.) osserva: « Quaeritur quomodo praesens saeculum malum dictum sit. Solent quippe haeretici hinc capere occasiones, ut alium lucis et futuri saeculi, alium tenebrarum et praesentis asserant conditorem. Nos autem dici­mus, non tam saeculum ip-sum, quod die ac nocte, annis currit et mensibus, appellari malum, quam όμωνύμως ea quae in saeculo fiant... Unde Ioannes ait (/ Ioh. V, 19); non quod mundus ipse sit malus, eed quod mala in mundo fiant ab hominibus... ita et saeculum, quod eet spatium temporum, non per seme- tipsum aut bonum aut malum est, eed per eos qui in illo sunt aut bonum appellatur aut malum »; e Agoetino, più brevemente e con allusioni meno cir­costanziate ai manichei, ma con le medesime preoccupazioni d[ Girolamo commenta « Saeculum praesens malignum propter malignos homines qui in eo sunt intelligendum est; sicut dicimus et malignam domum propter malignos inhabitantes in ea ».

(17) Per es. a I, 1 Mario Vittorino (P. L. VIII, 1147) mette in bocca a Paolo stesso questa conclusione: « ergo credendum mihi et habenda fidee; et verum evangelium est quod profero »; Agostino dal canto euo commenta: « Qui ab hominibus mittitur, mendax est; qui per hominem mittitur, potest esse verax quia et Deus verax potest per hominem mittere; qui ergo neque ab

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hominibus neque per hominem sed per Deum mittitur, ab illo verax eet qui etiam per homines misso® veraces facit », etc. (cfr. n. 16). — A II, 11-16 Mario Vittorino (col. 1163) annota: «neque Petrus neque ceteri transierant ad iu- •laicam disciplinam 6©d ad tempus consenserant; quod quidem aliquoties fit simulata consensione: verumtamen unde peccabat Petrus? quia non ille ad in­ducendos Iudaeos ista finxerat, ut consentiret illis, quod fecit ipee Paulus et fecisse se gloriatur, sed ut illos lucrifaceret (ofr. I Cor. IX, 20); eed quod Pe­trus simulavit quidem, in eo tamen peccavit, quod subtrahebat se timens eos qui erant cx circumcisione» (coi. 1163); per Agostino, η. 1. — A HI, 10, dice Vittorino: « Quod autem dixit « ex operibus legis » intelligamus esse etiam opera christianitatis, maxime illa quae saepe apostolus mandat... et caetera quae in hoc apostolo ad vivendum praecepta retinentur, quaeque opera ab apostolo omni christiano implenda mandatur. Alia igitur opera legis, scilicet observationes... intelligamus » (coi. 1169). E Agoetino a III, 2: « Sed haec quae­stio ut diligenter tractetur, ne quis fabatur ambiguo, scire prius debet opera legis bipartita esse. Nam partim in sacramentis, paitim veio in moribus acci­piuntur... Nunc ergo de his operibus maxime tractat, quae sunt in sacramentis, quamquam et illa inteTdum se admiscere significet. Prope finem autem episto­lae de his separatim tractabit, quae sunt in moribus: et illud breviter, hoc au­tem diutius». — A IV, 5, Vittorino osserva: « ut filii Dei simus, sed et filii ado­ptione. Non enim filii ut ipse Filius, sed per Filium filii » (coi. 1178) e Agostino « Adoptionem propterea dicit, ut distincte intelligamus unicum Dei Filium. Nos enim beneficio et dignatione misericordiae eius filii Dei eumus; ille natura est Filius, qui hoc est quod Pater ».

(18) P. es. a IV, 8-10, dopo aver discusso il problema del male (« procu­ratores auctoresque huius mundi nihil faciunt, nisi quantum Dominus sinit. Non enim latet eum aliquid, sicut hominem, aut in aliquo eet minus potens, ut procuratores atque auctoree, qui sunt in eius potestate, aliquid ipso sive non permittente sive nesciente in subiectie sibi pro euo gradu rebue efficiant. Non eis tamen rependitur, quod de ipsis iuste fit, sed quo animo ipsi faciunt; quia neque liberam voluntatem rationali creaturae suafe Deus negavit, et tamen poteetatem qua etiam iniustos iuste ordinat, sibi retinuit. Quem locum la- tiue et uberius in libris aliis saepe tractavimus ») rimandando, come si è visto, al De libero arbitrio, soggiunge quest'altra osservazione, interessante dal punto di vista documentario: « Et tamen si deprehendatur quisquam vel catechume­nus iudaico ritu sabbatum observans, tumultuatur ecclesia. Nunc autem innu­merabiles de numero fidelium cum magna confidentia in faciem nobis dicunt "die post kalendas non proficiscor Et vix lente ista prohibemus, arridentes, ne irascantur et timentes ne quasi novum aliquid mirentur » (già utilizzata da J. Zellinger, Augustin und die Volksfrommigkeit, Miinchen 1933, p. 21).

(19) Ep. 82, 23-24: « Flagitas a me ut aliquem ealtem unum ostendam cuius in hac re sententiam sim eecutue, cum tu tam plures nominatim commemorave­ris qui in eo quod adstruis praecesserunt, petens ut in eo ei te reprehendo er­rantem, patiar te errare cum talibus quorum ego, fateor, neminem legi». Ma su sette autori invocati da Girolamo, quattro sono di un’ortodossia almeno sospetta (Apollinare, Alessandro, Origine e Didimo); ne restano dunque tre eoli, Eusebio di Emesa, Teodoro di Eraclea, Giovanni di Costantinopoli. Indi Agostino prosegue: « Porro si quaeras vel recolae, quid hinc eenserit noster Ambrosius, quid noster itidem Cyprinaue, invenies fortasse nec nobie defuisse

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quos in eo quod adserimus, sequeremur ». Si noti, tra parentesi, come Agostino sottolinei il suo ricorrere a Padri occidentali e latini.

(20) Goldbacher (ed.), Sancti Aureli Augustius Epistolae pars IIf p. 376 (CSEL 34, Vienna etc. 1898); Hilberg (ed.) S. Eusebii Hieronymi Epistulae, pare II, p. 414 (CSEL 55 Vienna 1912); Baxter, in Journal of Theological Studies, 1922, p. 128; 1923, p. 187. V. anche cap. VII, nota 31.

(21) Aug. Ep. 82, 21: « Cur ergo non aperte dicis officiosum mendacium defendendum? nisi forte nomen te movet, quia non tam usitatum est in eccle­siasticis libris vocabulum officii, quod Ambrosius noster non timuit, qui suos quosdam libros utilium praeceptionum plenos " De officiis " voluit apppellare ».

(22) Ambrstr. In Galat., a II, 11: < Reprehensibilis utique ab evangelica veritate, cui hoc factum adversabatur. Nam quis eorum duderet Petro apo­stolo, cui claves regni caelorum Dominus dedit, resistere, nisi alius talie qui fiducia electionis euae sciens ee non imparem constanter improbaret quod ille sine consilio fecerat? » — 12-13: « Nam et ipse utique cessit animoeitati et audaciae Judaeorum, timens ne per hoc, quod facile est, subreperet ecanda- ’um( quod difficile sedaretur; quia et secundum legem purificavit ee coactus et Timotheum circumcidit invitus ». — 14: « Sed hic tota causa reprehensionis est quod, advenientibus Iudaeis ab Iacobo, non solum segregabat se ab eis cum quibus gentiliter vixerat (scii.: Petrus) sed et compellebat eos iudaizare, causa timoris illorum, ut quid horum verum esset ignorarent gentiles. Sciebant enim ipsum sscum non quasi Iudaeum vixiss:e post autem audientes ab eo quia Iudaeorum instar sequendum erat, haesitabant utique quid esset verum... Apostolus autem Paulus, quando ad horam cessit, non hoc et euasit, eed rem se superfluam et inanem facere clamitavit, propter furorem Iudaeorum. Cui quidem rei non succubuisset, nisi causa interfuieset, qua audacia Iudaeorum plurimorum se iactaret. Erat autem Timotheus filius mulieris iudaeae, patre autem Graeco; unde factum est ut infans secundum Legem minime circumci­deretur. Insidiabantur ergo, explorantes ei eum, qui Iudaeus natus erat, incir- cumcisum assumeret: quod illicitum putabant generi Iudaeorum, ooccasionem quaerentes qua eum eversorem tenerent Legis: hac causa ad horam cessit lurori eorum » (P. L. XVII. 369-70). Cfr. anche In I ep. A d Corinth., IX, 20.

(23) De mend., 8 cit. a n. 2; ep. 82, 12: « Ergo et Timotheum propterea circumcidit, ne Iudaeis et maxime cognationi eius maternae sic viderentur, qui ex gentibus in Christum crediderant, detestari circumcisionem sicut ido­latria detestanda est, cum illam Deus fieri praeciperit, hanc Satanas persuase- ut »; 17: «-longe ante quam tuae litteras accepissem, scribens contra Faustum manichaeum... »; C. Faustum, XIX 17: « Inde est quod Timotheum, iudaea ma­tre et graeco patre natum propter illos ad quos tales cum eo venerat, etiam circumcidit apostolus atque ipse inter eos morem huiusmodi custodivit, non simulatione fallaci, sed consilio prudenti; neque enim ita natis et ita in­stitutis noxia erant ista, quamvis iam non essent significandis futuris neces­saria... Si autem iis qui ex circumcisione venerant talibusque sacramentis adhuc dediti erant, ultro vellent, sicut Timotheus, conferre congruentiam, non pro­hiberentur; verum si in huiusmodi Legis operibus putarent suam spem salu- temque contineri, tamquam a certa pernicie vetarentur ». ...Contra hos [i giu- daizzanti] apostolus Paulus multa scripsit; nam in horum simulationem etiam Petrum adductum fraterna obiurgatione correxit ».

(24) Ep. 82, 12: « Ergo et Timotheum propterea circumcidit, ne Iudaeis

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el maxime cognationi eius maternae sic videretur, qui ex gentibus in Christum crediderant detestali circumcisionem, sicut idolatria detestanda est ».

(25) Nella prima stesura di questo scritto (cfr. Ric. Rei, VIII, 1932, p. 135) io mi ero rivolto la domanda, se la Quaestio LX deirAmbrosiastro non possa essere stata occasionata precisamente dalle discussioni romane; ee, anzi, essa non sia da identificare con lo scritto contro Girolamo, attribuito ad Ago­stino, e circolante in Roma,· e se, addirittura, lo epunto non fosse offerto dalla stessa ep. 28 di Agostino stesso. Questo crea qualche difficoltà cronologica, benché non insuperabile; infatti, volendo mantenere ciò che è detto nel testo, bisognerebbe ammettere che le Quaestiones della I edizione fossero state com­poste durante un periodo abbastanza lungo; ohe tra la detta I edizione, il Tra­ctatus in Romanos (per cui v. sotto), quello In Gulatus e probabilmente anche .a II edizione delle Quaestiones l'intervallo fosse invece relativamente piccolo. Ili complesso, preferisco per ora lasciare tutti questi problemi da parte. Si os­servi però che la quaestio 109 « De Melchisedech », sarebbe quella mandata da Evangelo a Girolamo (cfr. ep. 73) nel 398.

(26) Cfr. A. Souter, nei prolegomeni (p. XII) alla sua edizione delle Quaestiones (C.S.E.L. 50, Vienna 1908).

(27) Contra duas epi&iolas Pelagianorum, IV, 4, 7 (C.S.E:L. 60, p. 528).(28) Ambrstr. In Rom. V, 12 (P. L. XVII, 96-97): «Quoniam superius Dei

gratiam per Christum datam ostendit secundum ordinem veritatis, nunc ipsum ordinem unius Dei Patris per unum Christum filium eius declarat: ut quia Adam unue, id est Èva (et ipsa enim Adam est) peccavit in omnibus, ita unus Chri­stus filius Dei peccatum vicit in omnibus. Et quia propositum gratiae Dei eiga genus humanum ostendit, ut ipsa primordia peccati ostenderet, ab Adam coe­pit, qui primum peccavit, ut providentiam unius Dei per unum reformasse do­ceret quod per unum fuerat lapsum et tractum in mortem. Hic ergo unus est, pei quem salvati hanc illi reverentiam, quam Deo Patri, debemus, ipso volente... Si ergo soli Deo serviendum dicit, et Christo servire praecepit, in unitate Dei eet Chrislus nec dispar aut alter Deus.

In quo, idest in Adam omnes peccaverunt. Ideo dicit in quo, cum de mu­liere loquatur, quia non ad speciem retulit, sed ad genus. Manifestum itaque est in Adam omnee peccasse, quasi in massa; ipse enim per peccatum cor­ruptus quos genuit omnes nati sunt sub peccato. Ex eo igitur cuncti peccatores quia ex ipso sumus omnes. Hic enim beneficium Dei perdidit, dum praevarica- vit, indignus factus edere de arbore vitae, ut moreretur.... Est et alia mors,, quae secunda dicitur ingehenua, quam non leccato Adae patimur, std eius occasione propriis peccatis acquiritur, a qua boni immunes sunt; tantum quod in inferno erant f sed superiori quasi in libera (custodia?) f, qui ad caelce ascendere non poterant. Sententia enim tenebantur data in Adam, quod chirographum in de­cretis morte Christi deletum est (cfr. Coloss., II, 14). Sententia autem decreti fuit, ut unius hominis corpus solvereetur super terram, anima vero vinculis inferni detenta exitia pateretur ».

(29) Id., a V, 13: « In Adam omnes dicit peccasse, sicut supra memoravi efc usque ad Legem datam non imputatum esse peccatum; putabant enim 6e homines apud Deum impune peccare, sed non apud homines, Nec enim lex naturalis penitus obtorpuerat, quia non ignorabant quia quod pati nolebant aliie facere non debebant... Lex naturalis semper est, nec ignorabatur aliquando; eed putabatur ad tempus tantum auctoritatem habere, non et apud Deum reoe facere. Ignorabatur enim quia iudicaturus esset Deus genus humanum, ac per hoc non

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imputabatur peccatum quasi peccatum non cognitum eseet apud Deum, in­curiosum Deum asserentes. At ubi autem Lex data eet per Moyeem manifesta­tum eet curare Deum res humanae et non impune ii6 futurum qui malefacientes, quacumque ex causa in praeeenti evadunt. Nam utique ei inter ee, magistra iustitia vel natura, peccata non inulta ceneebant, quanto magis Deeum, quem mundi 6ciebant opificem, haec requieiturum non debuerant ignorare... Sed cum piaetermiseo Deo figmenta coeperunt in honorem Dei recipere, depravati mente, partem legis naturalie quae prima eet, calcaverunt. Quia lex na-turali6 tres habet partts, cuius prima haec est, ut agnitue honoretur Creator, nec eiue cla- ritae et maieetas alicui de creaturis deputetur; 6ecunda autem paie est moralie, hoc eet ut bene vivatur, modestia gubemante; congruit enim homini habenti notitiam Creatoris vitam suam lege refrenare, ne fruetretur agnitio; tertia vero pare eet docibilis, ut notitia Creatorie Dei et exemplum morum ceterie tradatur, ut diecant quemadmodum apud Creatorem meritum collocatur. Haec est vera et chrietiana prudentia ». A 14: « Quoniam non imputabatur peccatum antequam Lex daretur per Moysen, 6icut dixi, ipsa usurpationis impunitate regnabat more, eciens sibi illoe devotos. Regnabat ergo more securitate dominationi6 euae tam in hoe qui ad tempus evadebant quam in illos qui etiam hic poenas dabant pro malie suie operibue Omnes enim soios eesse videbat; quia « qui facit peccatum, servus est peccati» (Ioh. VIII, 34); imipune iam cedere putan­tes, magis delinquebant; circa haec tamen peccata promptioree quae mundue quasi licita nutriebat. Quo facto gaudebat Satanas, securae quod causa Adae relictum a Deo hominem in posseeeionem habebat. Regnabat ergo more in eoe « qui peccaverunt in similitudinem praevaricationi6 Adae », qui eet forma futuri, quod in subiectie monstrabimus. Itaque non in omnes mortem regnasse mani­festum est, quia non peccaverunt omnes in similitudinem praevaricationis Adae, id est non omnes contempto Deo peccaverunt. Qui autem sunt qui contempto Deo peccaverunt, nisi qui neglecto Creatore servierunt Creaturae, deos sibi constituentes quos colerent, ad iniuriam Dei? Idcirco laetabatur in i&Us dia­bolus, qui v idebat illos imitatores suos effectos... Et peccatum A dae non longe est ab idololatria; praevaricavit enim, putans se hominem futurum Deum... Qui enim intellexit, s ive ex traduce, sive iudicio naturali, et veneratus est Deum, nulli honorificentiam nominis ac maiestatis eius impertiens, si peccavit — quo­niam impossibile esi non peccare — sub Deo peccavit, non in Deum quem iu- dicem sensit; ideoque in huiusmodi mors nlon regnavit. Jn| hos asuitem, sicut dixi, regnavit, qui sub specie idolorum servierunt diabolo... Maxima enim par6 mundi Deum fore iudicem ignorabat; perpauci autem in quoe non regnavit more. In quos autem regnavit, post istam mortem, quae prima dicitur, a ee- cunda excepti eunt ad poenam et perditionem futuram. In quoe autem non regnavit, quia non peccaverunt in similitudinem praevaricationis Adae, eub spe reservati sunt adventui Salvatoris in libera ... Sicut enim poet Legem datam qui idolis aut formicationi servierunt, contemnentes legislatorem, regnavit in eos mors; ita et ante Legem, qui sensum Legie praesenserunt, honorificantee auctorem eiue, non utique regnavit in eoe more;' propterea enim regnasse di­citur quia cognitio unius Deei evanuerat in terrie... Primum igitur in Iudaea coepit destrui regnum mortis quia «notus in Iudaea Deue» (Ps. LXXV, 2); nunc autem in omnibue genlibue quotidie destruitur, dum magna ex parte ex filile diaboli fiunt filii Dei. Itaque non in omnes regnavit mors, sed in eo6 qui peccaverunt in eimilitudinem praevaricationie Adae, eicut eupra memo­ravi. Adam autem ideo forma futuri eet, quia iam tum in mysterio decrevit

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Deu® per unum Christum emendare, quod per unum Adam peccatum erat ». Tutta l'esegesi che ΓAmbrosiaOstro fa di questo passo si fonda sulla lezione « qui peccaverunt » — e perciò egli difende lungamente come originale, invo­cando anche le testimonianze di Tertulliano, Cipriano e Vittorino, contro quella dei codici greci (τούς μή άμαρτήσαντας) che del resto, dice, diffe­riscono anch'esei tra loro. Cfr. Aug. De peccat, mei. et remiss ., I, 11, 13.

(30) A V, 20: « Sicut enim nativitas interit, nisi nutrimenta habeat quibus fota adolescat, ita et naturale iustitiae ingenium, nisi habeat quod respiciat et veneretur, non facile proficit, eed aegrotat et supervenientibus cedit peccatis. Consuetudine enim delinquendi premitur, ne creecat in fructum et per hoc extinguitur. Providenter ergo data est Lex in adiutorium, sicut testatur propheta; eed populus veterem consuetudinem sequens multiplicavit peccata ». — A V, 21 : « Sicut per Adam coeptum peccatum regnavit, ita et per Christum gratia. Sic autem regnat gratia per iustitiam, si accepta remissione peccatorum iusti- tiam eequimur; ut videns gratia fructum se habere in bonie quoe redemit, re­gnet in vitam aeternam, sciens nos futuros aeternos ». — VI, 19: « Ut occasio­nem nobis auferret timoris accedendi ad fidem quia quasi importabilie nobis et aspera videretur, ea mensura nos Deo servire praecepit, qu^ prius famula­bamur diabolo; cum utique propensius deberet serviri Deo quam diabolo, quippe qui cum his salus, illic damnatio operetur; medicus tamen spiritalis non plus a nobis exigit, ne dum praecepta quasi gravia fugeremus, perpendentes infirmitatem nostram, maneremus in morte ». — VII, 5: « Cum in carne sit, est enim in corpore, negat se es6e in carne,- quàa hic dicitur esse in carne qui ali­quid sequitur quod lege prohibetur. Igitur in carne esse multifarie intelligitur: nam omnis incredulus in carne est; id est carnalis ; et Christianus sub Lege vivens in carne est; et qui de hominibus aliquid sperat, in carne est, et qui male intelligit Christum, in carne est; et ei quie Christianus luxuriosam habet vitam, in carne est. Hoc tamen loco in carne esse eie intellegemus, quia ante fidem in carne eramus; sub peccato enim vivebamus, hoc est carnales sensus sequentes vitiis et peccatis subiacebamus. Sensus autem carnis est non cre­dere spiritalia, id est: sine commixtione viri virginem peperisse... Manifestum est quia qui non credit eub peccato agit et captivus trahitur ad vitia admit­tenda, ut fructum faciat morti secundae; lucrum enim tunc facit mors, cum peccatur. In membris tamen dicit vitia operari, non in corpore, ne occasio eeset male tractantibus corpus». — VII, 11: «Peccatum hoc loco diabolum in- tellige, qui auctor peccali est. Hic occasionem per legem invenit, quomodo crudelitatem suam de nece hominis satiaret; ut quia Lex comminata est pecca­toribus, homo instinctu eius prohibita eemper admittens, offenso Deo, ultionem Legis incurreret; ut ab ea quae illi profutura data erat damnaretur. Quia enim invito illo data est Lex, exarsit ijividia adversus hominem, ut eum amplius vitiosis voluptatibus macularet, ne manus eius evaderet. — VII, 14: « Ego au­tem » etc. Hominem autem carnalem appellat, dum peccat. « Venditus sub peccato»: Hoc est venditum esse sub peccato, ex Adam, qui prior peccavit, originem trahere et proprio delicto subiectum fieri peccato... Adam enim vendidit se prior, ac per hoc omne semen eius subiectum est peccato. Qua- mobrem infirmum esse hominem ad praecepta Legis servanda, niei divinis auxiliis muniatur, hinc est unde ait «Lex spiritualis est, ego autem etc.»; hoc est, Lex firma est et iusta et caret culpa; homo autem fragilis est et paterno, vel proprio, subiugatus delicto, ut potestate sua uti non possit circa obedien-

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tiam Legie. Ideo est ad Dei misericordiam confugiendum ut severitatem Legis effugiat et exoneratus delictis, de caeteio Deo favente, inimico resistat. Quid est enim subiectum esse peccato, nisi corpus habere vitio animae corruptum, cui se inserat peccatum et impellet hominem quasi captivum delictis, ut faciat voluntatem eius?... Nam ante praevaricationem hominis priusquam se manci­paret morti, non eiat hie (cioè i « satellites Satanae ») potestas ad interiora hominis accedere et cogitationes adversas inserere. Unde et astutia eius fa­ctum est, ut confabulatione per serpentem hominem circumveniret. Postquam autem circurvenit eum et subiugavii, potestatem in eum accepit ut interiorem hominem pulsaret., copulans se menti eius; ita ut non poseit agnoscere quid suum sit in cogitatione, quid illius, nisi respiciat Legem ». — VII, 18: « Non dicit, sicut quibusdam videtur, carnem malam; 6ed quod habitat in carne non esse bonum sed peccatum. Quomodo inhabitat in carne peccatum, cum non sit substantia, sed praevaricatio boni? Quoniam primi hominis corpus corruptum est per peccatum ut poseit dissolvi, ipea peccati corruptio per conditionem of­fensionis manet in corpore, robur tenens divinae sententiae datae in Adam, quod est signum diaboli, cuius instinctu peccavit. Per id ergo quod facti causa manet, habitare dicitur peccatum in carne, ad quam diabolus accedit, quasi ad suam legem, et manet quasi in peccato peccatum; quia caro iam peccati est, ut de­cipiat hominem suggestionibus malis ne homo faciat quod praecipit Lex ». — VII, 24-25: « Hic quasi legem fidei tertiam inducit potiorem, quam et gratiam vocat, quae ex lege tamen spirituali originem habet, quia per hanc liberatus est homo, ut quia Moyees dedit Legem deditque et Dominus, duae dicantur, una tamen intellegatur quantum ad sensum et providentiam pertinet. Illa vero ini- Matrix est salutie, haec vero consummatrix. Sed non hanc partem Legis dico quae in neomeniis est et in circumcisione et in escis, sed quae ad sacramentum Dei attinet et disciplinam... Hanc dicit mortem quam supra ostendit in necem hominis per peccatum inventam apud inferos quae appellatur secunda,- corpus autem mortie est cuncta peccata; multa enim unum corpus sunt, singula quasi membra uno auctore inventa ex quibus homo ereptus gratia Dei per baptis­mum supradictam mortem evasit ... « Igitur ego ipse, etc. ». Legem Dei cum dicit, et Moysi significat legem et Christi. « Ego ipse » id est qui liberatus sum de corpore mortis... liberatus est a cunctis malis. Remiesio enim peccato­rum omnia tollit peccata. Liberatus ergo de corpore mortie gratia Dei per Chri­stum, « mente », vel animo, « eervio legi Dei, carne autem legi peccati », id eet diaboli qui per subiectam sibi carnem euggesticnes malas ingerit animae ... « Mente servio » etc.... Iam enim liber animus et in consuetudinem bonam re­vocatus Spiritu Sancto adiuvante, malas suggestiones potest spernere: reddita est enim illi auctoritas qua audeat resistere inimico... Caro autem quia iudi- cium non habet neque capax est discernendi (est enim bruta natura) non potest inimico aditum claudere, ne veniens introeat atque animo contraria suadeat... Cum aulem unus homo carne constet et anima, ex illa pa rte qua sapit Deo servit, ex altera autem qua stolidus est, legi peccati. Si enim homo in eo quod factus eet perdurasset, non esset potestas inimico ad carnem eius accedere et animae contraria susurrare. Ut autem totus homo minime reparatus fuisset Christi gratia ad statum pnsiinum (una specie di re&litutio in integrum) sen­tentia obstitit data in Adam; iniquum enim erat solvere sententiam iure de­promptam. Idcirco manente sententia, providentia Dei remedium inventum est, ut redhibiretur homini salus, quam proprio vitio amiserat, ut hic sanatus cre-

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deret quia adversarius eius devictus potentia Christi non auderet transpuncta eententia primae mortis hominem sibi defendere, adunato genere Adae, ne ad primae originis redderetur facturam, iam totus permanens immortalie ». Vale la pena di osservare come, pur non usando un frasario tecnicamente giuridico, l'Ambrosiastro si ispira a concezioni proprie del diritto, h remedium va in­teso come un vero e proprio « rimedio giuridico ».

(31) Una considerazione che potrà sembrare moito materiale, ma che pure ha, aggiunta alle altre, un certo peso, è questa: su poco più di 8 Colonne nel- l'ediz. dei Maurini che occupa l'intero commento dell'Ambrcsiastro a Rom. IX, poco più di 5 sono dedicate ai vss. 6-28; una e mezza ai ves. 29-33. Le consi­derazioni fatte nel testo, e del resto banali, sui motivi che ispirano l’Ambroeia- etro non implicano affatto (è appena superfluo avvertirlo) una mia presa di posizione anche larvata, nella vexata quaestio deH'identificazione di questo scrittore.

(32) Ambrostr. a Rom. VIII, 29: « Istis quoe praescivit futuros sibi devotos ipsos elegit ad promissa praemia capessenda; ut hi qui credere videntur et non permanent in fide coepta, a Deo electi negentur; quia quos Deus elegit, apud ee permanent ». — a IX, 7: « Hoc est quod vult intelligi, non iam ideo dignos esse omnes quia filii sunt Abrahae, eed eos esse dignos qui filii promiseionis sunt, id’ est quos praesciit Deus promissionem suam suscepturos... ». — IX, 11-13: «Praescientiam Dei flagitat in hie causis, quia non aliud potest evenire quam novit Deus futurum. Sciendo enim quid unusquisque illorum futurus asset, dixit: hic erit dignus, qui erit minor et qui maior erit indignus. Unum elegit praescientia et alterum sprevit; et in illo quem elegit propositum Dei manet quia aliud non poteet evenire quam quod scivit et propo6uit in illo ut salute dignus sit; et in illo quem sprevit simili modo manet propositum quod proposuit de illo quia indignus erit. Hoc quasi praesciue, non personarum ac­ceptor, nam neminem damnat ante quam peccet et nullum coronat antequam vincat. Hoc pertinet ad causam Iudaeorum, qui eibi praerogativam defendunt quod filii sint Abrahae. Apostolus autem consolatur ee... Minuit ergo dolorem euurn inveniens olim praedictum quod non omnes essent credituri; ut hie solis doleat qui per invidiam in incredulitate laborant. Possunt tamen credere, quod ex eubiectis aperit. Incredulis tamen praedictis non valde dolendum eet, quia non sunt praedestinati ad vitam^ praescientia enim Dei olim hos non salvandoe decrevit... Praescius itaque Deus malae illos voluntatis futuros, non illos habuit in numero bonorum... Sed hoc propter iustitiam, quia hoc est iustum ut unicuique pro merito respondeatur. ... De iustitia enim Deus iudicat, non de praescien­tia... Non est personarum acceptio in praescientia Dei; praescientia enim est qua definitum habet qualie uniuscuiusque futura voluntas erit, in qua man- eurus est, per quam aut damnetur aut coronetur. Denique quosecit in bono man- euros frequenter ante eunt mali et quos malos scit permansuros aliquoties prius eunt boni ». — A 14: '< Iustus eet Deus; scit enim quid faciat nec retractandum est eius iudidum. Hoc in Malachia propheta habetur: Iacob, etc. (Mai. I, 3 cfr. ve. 13). Hoc iam de iudicio dicit; nam prius de praescientia ait quia maior etc. (Gen. XXV, 23 cfr. vs. 12), sicut et de praescientia Pharaonem damnavit, sciene se non correpturum; apostoium vero Paulum persequentem elegit, praescius utique quod futurus esset bonue. Hunc ergo praevenit ante tempus quia neces­sarius erat et Pharaonem ante futurum iudicium damnavit, ut crederetur iudi-

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caturus ». — A 15: « Hoc eet " eius miserebor"; cui praescius eram quod mi­sericordiam daturus essem, sciens conversurum illum et permansurum apud me... ei misericordiam dabo quem praeecivd post errorem recto corde rever­surum ad me.'Hoc est dare illi cui dandum est et non dare illi .cui dandum non eet, ut eum vocet quem sedat obaudire, illum autem non vocet quem sciat minime obaudire. Vocare autem est non pugnare sed compungere ad recipien­dam fidem ». — A 16: « Ex hoc utique dantis Dei et non dantis iudicium se­quendum est, quia non iniuste iudicat, qui omnes ealvos vult, manente iusti­tia: inspector enim cordis scit petentem, an hac mente poscat ut mereatur acci­pere. Et... propter diffidentes, ut mens eorum medelam consequi poseit, ne putent iudicium Dei iniustum dicentes: Unum vocat et alterum negligit, sic arbitrantes excusari posee damnandos, rebus ietud potiue probemus quam ver­bis (esempi di Saul e Davide). — A 18: « Ex pereona contradicentis loquitur, qui quasi putet Deum neglecta iustitia alicui -gratiosum, ut unum e duobus pa­ribus accipiat, alterum respuat, hoc est unum compungat ut credat, alterum induret ne credat. Cui quidem ex auctoritate respondet, servata tamen iusti­tia... ». A 19: « Nec enim competit ei ut iniustus sit, cuius benevolentia tanta apparet... Qui ergo tam providus et bonus est, ambigi non debet quia iustus est». — A 21: « Manifesfum est vasa aliqua fieri ad honorem... alia vero ad contumeliam...; unius tamen eese substantiae sed differre voluntate opificis in honore. Ita et Deus, cum omnes ex una atque eadem masea eimus in substantia et cuncti peccatores, alii miseretur et alterum despicit (cfr. n. 29) non sine iu­stitia... scit enim cuius debeat mieereri, sicut eupra memoravi ». — A 22: « Ipse eensus est, quia voluntate et longanimitate Dei, quae est patientia, praepa­rantur infideles ad poenam: diu enim exspectati converti noluerunt. Ideo ergo exspectati sunt, ut inexcusabiles deperirent. Scivit enim Deus hos non credi­turos ». — A 23: « Patientia et longanimitas Dei ipsa est quae sicut malos praeparat ad interitum, ita et bonos praeparat ad coronam; boni enim sunt in quibus spes fidei est. Omnes enim sustinet, eciens exitum singulorum; ac per hoc patientia est, quae illos qui ex malo corriguntur aut in bono perseve­rante© sunt praeparat ad gloriam... Eos autem qui ex bonis fiunt mali et in coepto malo perdurant, praeparat ad interitum... Praeparare autem unum quem­que est praescire quid futurum est ». — A 24: Hoe quos vocavit praeparavit ad gloriam, sive eos qui prope erant, sive eos qui longe, sciens permaneuros in fide ».

(33) Cfr. Ambrostr. Quaest. Vei. et Novi Test., qu. 52 (II nov. 61, ed. Sou- ter p. 446), a Gal. V, 19-21, 1: « Qarnem non substantiam camis eo loco intelli- gas, sed actus malos et perfidiam significatam in carne... 2: « Hic itaque error, quem carnem appellat, concupiscit adversus spiritum, id est suggerit mala contra eundem spiritum, qui est lex Dei. Duas enim leges inducit, Dei et dia­boli... His ergo repugnantibus medius homo est, qui cum consentit spiritui, non vult caro,- cum autem manum dat carni, spernit spiritum, id est legem Dei contemnit... 3: « Ideo ergo haec apostolue publicat, ut ostendat arbitrio humano cui rei voluntatem suam .committat, non ut arbitrium libertatis inaniat, sed docet*arbitrium cui rei se coniungat. Si autem non est voluntatis arbitrium, ne­que lex diaboli quae eet caro, neque lex Dei quae est spiritus, invicem sibi adversando hominem consiliie eollicitarent. Qui enim sollicitat, suadet; qui autem suaret non vim infert, sed circumvenit; qui circumvenitur, fallaciis qui­busdam voluntas eius mutatur. Si autem non esset liberum aitoitrium, nolens

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homo traheretur ad ea quae non vult », cfr, anche Tract. in Gal., p. es. a V, 17-18: « Duae leges proponit, sicut facit et in epistola ad Romanos, quae invicem adversae sunt, unam Dei alteram peccati. Quae ideo in carne eigni- ficatur quia visibilibus oblectatur, cupida peccatorum; ut his eibi adversantibus medius homo non ea quae vult agat. Divina enim lex premit et fugat legem peccati, consulene homini ut vigorem naturae suae custodiat, ne capiatur ille­cebris; illa e contra in insidiis agens, lacessit hominem blanditiis ut spernat praeceptum legis divinae. Cum ergo consenserit homo legi Dei, contradicit lex peccati... ». E anche Tract. in Ephes., a II, 9-10: « Gratia fidei data eet, ut cre­dentes ealventur. Verum est quia omnis gratiarum actio salutis nostrae ad Deum referenda est, qui misericordiam suam nobie praestat, ut revocaret er­rantes ad vitam et non quaerentes verum iter. Ideoque non eet gloriandum nobis in nobis ipsis, eed in Deo, qui noe regeneravit nativitate caelesti per iidem Christi, ad hoc ut bonis operibus exercitati, quae Deus nobis iam rena­tis decrevit promiesa mereamur accipere ».

(34) Cfr. Tract.in Rom. a V, 12 cit. a n. 28; 14 cit. a n. 29; a VII, 11, 14f 24-25 cit. a n. 30.

(35) Che d altra parte è strettamente congiunta con la cura ch'egli ha di far rijevare il valore della Legge, a sua volta connessa con l'atteggiamento contrario al dualismo manicheo.

(36) Cfr. n. 29, in fine.(37) P. es. Agostino non spinge allo stesso punto la contrapposizione tra

il demonio e Dio — senza dubbio per una preoccupazione antimanichea — e, non avendo la mentalità giuridica dell'Ambroeiastro, non insiste affatto sul concetto di una sentenza divina vera e propria, pure parlando frequentemente di pena, ma piuttosto in senso morale. Tanto più degno di rilievo mi pare il punto in cui anche Agostino fa sua, per un momento, la dottrina del « chiro­grafo » (cfr. De lib. arb. III. 31 cit. a c. IV, n. 26).

(38) Expo9. Ep. ad Galatas, 39 (a IV, 20): «Non autem sufficit quod de libera uxore natus est Isaac ad significandum populum heredem Novi Testamenti; eed plus hic valet quod eecundum promiseionem natus est. Ille au­tem et de ancilla secundum carnem et de libera nasci potuit secundum carnem, sicut de Cethura, quam postea duxit Abraham, non secundum promissionem sed secundum carnem suscepit filios... Qui filii de libera quidem, sicut isti de ec­clesia, sed tamen secundum carnem nati sunt non spiritualiter per repromis­sionem. Quod si ita est, nec ipsi ad hereditatem iinveniuntur pertinere, id est ad caelestem Ieruealem, quam sterilem vocat Scriptura, quia diu filios in terra non genuit. Quae deserta etiam dicta est, caelestem iustitiam deserentibus ho­minibus, terrena eectantibus, tamquam virum habente illa terrena Ierusalem, quia Legem acceperat. Et ideo caelestem Ieruealem Sara significat, quae diu deserta est a concubitu viri propter cognitam sterilitatem. Non enim tales ho­mines, qualis erat Abraham, ad explendam libidinem utebantur feminis, sed ad successionem prolis. (Anche questo inciso, e il fatto di averlo inserito, non è privo di significato)... Senectus autem parentum Isaac ad eam significationem valet, quoniam Novi Testamenti populus quamvis sit novus, praedestinatio ta­men elue apud Deum, et ipsa Ierusalem caelestis antiqua est... Carnales autem qui sunt in ecclesia, ex quibus haereses et schismata fiunt, ex Evangelio quidem occasionem nascendi acceperunt, sed carnalis error quo concepti sunt et quem

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eecum trahunt non refertur ad antiquitatem veritatis; et ideo de matre adule­scentula et de patre sene sine repromissione nati sunt... Nati sunt ergo talee ex occasione antiquae veritatis in novitio temporalique mendacio. Dic.it ergo noe Apostolus secundum Isaac promissionis filios esse; et sic persecutionem passum Isaac ab Ismaele quemadmodum hi qui spiritaliter vivere coeperant a carna­libus Iudaeis persecutionem patiebantur: frustra tamen, cum secundum Scri­pturam eiciatur ancilla et filius eiue, nec heres e$se possit cum filio liberae ».

(39) Cfr. c. II, n. 16.(40) Cfr. Ambr. De Cain et Abel, I, 6, 23-24 (C. S. E. L. 32 p. 1, pp. 359-60);

Explan, in Ps. X X X V I, 61 (C. S. E. L. 64, p. 118); De Abraham, II, 72 (C. S. E. L. J2, p. 1, p. 606).

(41) De div. quaest. LXXXUI, qu. 81, De quadragesima et quinquagesima, 2: « Et ideo ea quae nunc est Ecclesia, quamvis filii Dei simus antè tamen quam appareat quid erimus, in laboribue et afflictionibus agit... Et hoc eet tem­pus quo ingemiscimus et dolemus exspectantes redemptionem corporis noetri (cfr. Rom. VIII, 23), quod Quadragesima celebratur... cum.., non solum credere quae pertinent ad fidem sed etiam perspicuam veritatem intellegere mereamur. Talis Ecclesia, in qua nullus erit moeror, nulla permixtio malorum hominum, nulla iniquitas, sed laetitia et pax et gaudium, Quinquagesimae celebratione praefiguratur ». — 3: « Haec autem duo tempora, idest unum laboris et sollici­tudinis, alterum gaudii et securitatis, etiam retibus miesie in mare Dominue noster significat. Nam ante passionem de reticulo dicitur misso in mare, quia tantum piscium ceperunt ut vix ad litus trahendo perducerent, et ut retia rum­perentur (Luca, V, 6-7). Non enim missa sunt in dexteram partem (haibet enim multos malos Ecclesia huius temporis) neque in sinistra (habet enim etiam bonos), sed passim, ut permixtionem bonorum malorumque significaret. Quod autem rupta sunt retia, charitate violata multas haereses exiisse significat. Post resurrectionem vero, cum vellet Ecclesiam futuri temporie praemonstrare, ubi omnes perfecti atque sancti futuri sunt, iussit mitti retia in dexteram partem et capti sunt ingentes piscee centum quinquaginta tres, mirantibus discipulie quod cum tam magni essent, retia non sunt disrupta ».

(42) De ag. chr., 14, 16-32, 34. Notevole l'ampiezza del c. 28, 31, contro i Donatisti, «qui 6anctam ecclesiam quae una catholica est negant per orbem esse diffusam (cfr. 13, cit. a n. 47) sed in sola Africa, hoc est in parte Donati pol­lere arbitrantur » e che i due successivi siano dedicati uno (32) ai luciferiani l'altro (33) a coloro « qui negant ecclesiam Dei omnia peccata posse dimit­tere... Isti sunt qui viduas, si nupserint, tamquam adulteras damnant et euper doctrinam apostolicam se praedicant esse mundiores ».

(43) Anche 1’Incarnazione è spiegata ora in relazione a questa lotta: « Coronam victoriae non promittitur niei certantibus. In divinis autem scriptu­lis assidue invenimus promitti nobis coronam si vicerimue... Debemus ergo co­gnoscere quis sit ipse adversarius, quem si vicerimus coronabimur. Ipse est enim quem Dominus noster prior vicit ut etiam nos in illo permanentes vinca­mus... Sed quia naturam nostram deceperat, dignatus est unigenitus Dei Filius ipsam naturam nostram suscipere ut de ipsa diabolus vinceretur et quem eemper ipee sub se habet, etiam sub nobis eum esse faceret. Ipeum significat 'Jicens (Ioh. XII, 31), non quia extra mundum missus est, quomodo quidam

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haeretici putant, sed forae ab animis eorum qui cohaerent Verbo Dei et non diligunt mundum, cuius ille princeps eet quia dominatur eie qui diligunt tem­poralia bona quae hoc mundo visibili continentur, non quia ipse dominus est huius mundi, sed princeps cupiditatum eorum quibus concupiscitur omne quod transit, ut ei subiaceant qui neglegunt aeternum Deum et diligunt instabilia et mutabilia... Per hanc cupiditatem regnat in homine diabolus et cor eius tenet. Tales sunt omnes qui diligunt istum mundum. Mittitur autem diabolus forae, quando ex toto corde renuntiatur huic mundo. Sic enim renuntiatur diabolo, qui princepe est huius mundi, cum renuntiatur corruptelis et pompis et angelis eius » (De ag. chr., 1). — Si noti 11 significato del richiamo al battesimo.

(44) De ag. chr. 2: « Habemus magistrum qui nobis demonstrare dignatus eet, quomodo invisibiles hostes vincantur... Ibi ergo vincuntur inimicae nobie invisibilee potestates, ubi vincuntur invisibiles cupiditates... Non simus terra, si nolumus manducari a serpente. Sicut enim quod manducamus in corpus no­strum convertimus, ut cibus ipse secundum corpus hoc efficiatur quod no® su­mus, sic malis moribus per nequitiam et impietatem hoc efficitur quisque quod diabolus, id eet similis eiue, et subicitur ei, sicut subiectum est nobis corpus no­strum ». — 10, 11: « Deus hominem inexterminabilem (cfr. Sap. II, 23) fecit et ei liberum voluntatie arbitrium dedit. Non enim esset optimus si Dei praeceptis ne­cessitate non voluntate eerviret ». — 11, 12: Certi che discutono l'incarnazione (cfr. 1, a η. 40) « non... intelligunt quid eit aeteinitae De1' quae hominem adsum- P«it, et quid sit ipsa humana natura, quae mutationibus euis in pristinam firmi­tatem revocabatur, ut dieceremus docente ipso Domino infirmitates, quas pec­cando collegimus, recte faciendo posse sanari. Ostendebatur enim nobis ad quàm fragilitatem homo sua culpa pervenerit et ex qua fragilitate divino au­xilio liberetur. Itaque Filius Dei hominem adsumpsit ». — 13, 14: « Subiciamus ergo animam Deo, si volumus servituti subicere corpus noetrum et de diabolo triumphare. Fidee est prima quae subiugat animam Deo; deinde praecepia vivendi quibus custoditis epes nostra firmatur et nutritur caritas et lucere in­cipit quod antea tantummodo credebatur. Cum enim cognitio et actio beatum hominem faciant, eicut in cognitione cavendus est error, sic in actione cavenda est nequitia. Errat autem quisquis putat veritatem se posse cognoscere, cum adhuc nequiter vivat. Nequitia est autem mundum istum diligere et ea quae nascuntur et transeunt pro magno habere et ea concupiscere... Itaque prius­quam mens nostra, purgetur debemus credere quod intellegere nondum vale­mus ». — 27, 29: (Ioh. III, 18): hoc dixit quia iam damnatue est praescientia Dei qui novit quid immineat non credentibus ».

(45) De ag. Chr., 6 I>opo aver citato I Cor. IX, 26-27 e XI, 1: « Quare intel­legendum est etiam ipeum apostolum in semetipso triumphasse de potestatibus huius· mundi; sicut de Domino dixerat, cuius se imitatorem esse profitetur. Imitemur ergo et nos illum ».

(46) La conseguenza di questo presupposto è che in quasi tutto il capo 7 di Romani l'apostolo parlerebbe non di se etesso, ma a nome dell’umanità non ancora sub gratia: cfr. De div. quas&i. LXXXIII, qu. 66, 5 cit. a c. IV, n. 16).

(47) De ag. chr., 12, 13: « Sed ecclesia catholica per totum orbem longe la-

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teque diffusa... criminatoree palearum euarum non curat, quia tempus messis et tempue arearum et tempus horreorum caute dili genterelle distinguit; crimina­toree autem frumenti sui aut errantes corrigit, aut invidentes inter epinae et zizania computat ».

(48) Gfr. De ag. chr. 33, cit. a n. 42..(49) Ep. 82, 5: « At enim satius eet credere apostolum Paulum non vere

scripsisse quam apostolum Petrum non recte aliquid egisse. Hoc si ita est, dicamus, quod abeit, satius esse credere mentiri evangelipm, quam negatum esse a Petro Chrietum ».

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VI

L’occasione di tornare a meditare sulla lettera Ai Romani fu offerta presto ad Agostino dalle domande rivoltegli da Simpliciano, successore sulla cattedra episcopale milanese, di S. Ambrogio, mor­to il 4 aprile del 397. A quelle domande Agostino si accinse a ri­spondere nel tempo in cui diveniva prima coadiutore, quindi suc­cessore del vescovo Valerio. Ed egli deve aver colto tanto più vo­lentieri l’opportunità che gli si presentava di spiegarsi meglio, in quanto coincideva con un suo bisogno spirituale (1). Del resto questa esigenza di chiarirsi sempre più pienamente, con iterate letture e commenti, i libri fondamentali della Bibbia, sefnbra essere stata una delle più appariscenti caratteristiche di Agostino dal giorno in cui entrò nella carriera ecclesiastica : basta pensare ai commenti alla Genesi (2).

La prima quaestio del primo libro concerne Romani, VII, 7-25. Quale sia l’indirizzo del pensiero di Agostino è rivelato fin dall’i­nizio, dove egli avverte che l’apostolo si è come travestito da uomo posto sotto la Legge (3). Il problema fondamentale è quello del va­lore che Paolo attribuisce alla Legge stessa : dopo aver parlato di « Legge di morte » (Rom. VII, 6 nel testo « occidentale ») egli si preoccupa che si possa accusarlo di averla incolpata : cosa che non intendeva affatto di fare, pur dicendo che essa ha fatto conoscere il peccato. Se prima della Legge il peccato si poteva dire « morto », cioè ignorato, dopo la Legge esso venne conosciuto (« rivisse », il che significa ch’esso era già vivo, ossia noto, nella prevaricazione di Adamo). Ma con la legge, essendo ormai conosciuto il precetto, si aggiunse il fatto della trasgressione volontaria. Bisogna dunque

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distinguere due momenti : prima della Legge, quando il peccato esisteva ma era « morto», senza la coscienza di peccare; dopo la Legge, quando il peccato viene commesso con piena coscienza ed è più grave (4). La proibizione non ha dunque fatto altro che ac­crescere il desiderio e rendere il peccato più dolce, perchè gli uomini che non hanno ancora ricevuto la grazia commettono più volentieri ciò che è vietato : così il peccato ha ingannato gli uomini, promet­tendo un piacere, che è seguito da gravi pene e inducendoli alla trasgressione, e alla morte. 11 male non è dunque nella Legge, bensì in chi ne usa male e la trasgredisce, non sottomettendosi umilmente a Dio per ottenere a grazia, si dà poter divenire spirituale, capace di adempiere la Legge. L ’uomo spirituale, quanto più si adegua alla Legge spirituale cioè si eleva a desideri spirituali, tanto più facile e dilettoso trova l’adempimento, perchè illuminato dalla Legge stessa : la grazia gli rimette i peccati e gl’infonde lo spirito di carità, per cui ama la giustizia (5).

Ma, poiché Paolo applica a se stesso il termine di « carnale », Agostino osserva che questo appellativo può essere inteso in vari sensi e applicato a diverse categorie di persone. Carnali infatti in cer­to modo si possono chiamare, come fa l’apostolo con i fedeli di Co­rinto (I Cor. Ili, 2), anche coloro che sono già sub gratia, rinati mediante la fede e redenti dal sangue di Cristo. Carnali in senso più stretto e proprio sono altresì coloro che si trovano ancora sub Lege, schiavi Jel peccato e d! quella dolcezza ingannevole, trasgressori co­stretti a servire alla passione e nondimeno consci di peccare. Co­storo riconoscono la bontà della Legge e vorrebbero conformarsi ad essa, e tiprovano ii male che fanno , ma, vinti dalla passione, ne subiscono il dominio. Paolo dunque, parlando in prima persona, si riveste della personalità di chi non è ancora sub gratia (6). Costui consente alla Legge, in quanto sa che nella sua carne non dimora il bene; eppure nelle sue azioni cede al peccato. E questo peccato, donde viene ? Agostino distingue : v’è un peccato che proviene dal­la natura dell’uomo in quanto mortale ed è la pena del peccato ori­ginale di Adamo, con cui veniamo al mondo. L ’altro deriva dalla consuetudine al piacere, è un peccato ripetuto e che noi stessi ac­cumuliamo vivendo. L una e 1 altra cosa, natura e consuetudine, si congiungono insieme e dànno forza invincibile alla passione : questo è il peccato che Paolo dice abitare nella sua carne ed esercitarvi

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un dominio dispotico (7). Alcuni, osserva Agostino, credono che esprimendosi a quel modo Paolo abbia voluto togliere all'uomo il libero arbitrio ; ma errano. L’apostolo, dicendo che il volere è a sua portata di mano, riconosce che è in suo potere ; ma l’uomo che non è ancora sub gratia non ha la facoltà di compiere il bene, e questa è la retribuzione del peccato originale, pena del delitto per cui fu mutata la natura originaria de!' uomo in mortele, quasi seconda natura, dalla quale ci libera la grazia di Dio quando ci trova- sotto­messi a lui mediante la fede. Ma chi sta ancora sub Lege è vinto dalla concupiscenza, che trae forza non solo dalla mortafità che ci è d’impedimento bensì dalla consuetudine che ci opprime. L’uomo sotto «la Legge, di cui Paolo assume la personalità, riconosce dunque che la Legge è buona, in quanto si rimprovera di contravvenirle, ma nondimeno non riesce ad ottemperare ai suoi precetti. Si vede così incolpato per la trasgressione ed indotto ad invocare la grazia del Redentore. Questo peso opprimente della condizione mortale si può c'liamare leggi delle membra: legge, perchè sanzionata da Dio con una sua sentenza a titolo di pena. Essa combatte contro la legge della mente, e prima che l’uomo sia giunto ad essere sub gratia lo tiene schiavo di se stesso e del peccato. Perciò l’uomo che è ancora in questa servitù non deve presumere delle sue forze, come i Giudei si vantavano delle opere della Legge : chi è ancora vinto, prigioniero e prevaricatore non ha altra risorsa che invocare umilmente la benevolenza di Dio e riconoscere che la liberazione non gli può venire che dalla grazia. Dunque in questa vita mortale il libero arbitrio non è capace di far sì che l’uomo possa adempiere alla giustizia, pur volendo ; ma esiste, e conserva tuttavia quel tanto di vigore che basta a ottenere che l’uomo si rivolga supplichevole a Dio, il quale gli dona la forza di adempiere (8).

Paolo dunque, ripete Agostino, non incolpa direttamente la Leg­ge ; essa impone di fare ciò di cui l’uomo è incapace, se prima non si sia rivolto a Dio. Perciò alla categoria degli uomini sub Lege, che sono da essa dominatu e puniti come contravventori, si contrappone quella sub gratia (terzo grado che si aggiunge ai due già segnalati), i quali sono sottratti al timore della legge e messi in condizione di eseguirla per amore (9). Perciò la Legge è detta legge di morte per i Giudei; i cristiani invece si possono considerare morti alla legge che condanna. Cioè, alla Legge, senz’altro : perchè il ter­

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mine si usa più comunemente in quseto senso, e d ’altra parte non ci sono due leggi, come credono i manichei (10); ma la stessa legge promulgata con Mosè affinchè fosse temuta, con Cristo è diventata grazia e verità, affinchè fosse adempiuta. Allo stesso modo la Legge si può c hiamare « tetterà che uccide >■ per i Giudei e per tutti coloro che, privi dello spirito di carità e di amore che è proprio del Nuovo Testamento, la leggono ma non la . comprendono né eseguiscono: mentre coloro che sono morti al peccato attraverso il sacrificio di Cristo sono anche morti alla lettera (11).

I motivi fondamentali sono dunque gli stessi che abbiamo sem­pre trovato fin qui : in particolare, come era naturale trattandosi di commentare il medesimo testo, nella qu. 66 del De diversis quaestio­nibus LXXXIII. Rimanee netta la distinzione dei tre stadi, ante Legem, sub Lege e in gratia caratterizzati alla stessa maniera. Agostino con­tinua a pensare che San Paolo dicendosi « carnale » indichi non la propria persona, ma l’uomo sub lege; però l’apostolo appartiene alla categoria degli spirituali, i quali ormai vincono le passioni ine­renti alla carne mortale, sebbene siano ancora soggetti a sentirle. Sotto questo aspetto (anche se non trovamo qui la metafora della massa che d ’altronde il testo commentato non suggeriva) l’umanità è veramente una con Adamo : in conseguenza del suo peccato e per effetto di una sentenza di Dio, essa eredita quella perversione della sua natura originaria, che è la mortalitas. Ma gli effetti della colpa di Adamo si limitano a questo : vi è trasmissione della pena, non del peccato. Il peccato si ha quando l’uomo di fronte alla Legge, sentendo di non potersi conformare ai suoi precetti, trascura di fare ogni sforzo per ottenere il soccorso divino che gli è necessario. Questa necessità è affermata, e quindi l’uomo non si redime da solo : è chiaro che Agostino era già arrivato a pensare che l’uomo vale non in quanto si dedichi alla ricerca della verità ma in quatito viva nella Chiesa e partecipi dei suoi sacramenti (12). Ma oltre il rilevare gli effetti che tale partecipazione ha avuto psicologica­mente sulla persona di Agostino è impossibile andare, perchè non troviamo traccia nelle sue opere di questo periodo, di una dottrina dei sacramenti, e anche l’ecclesioiogia è in uno stato ancora em­brionale, non avendo egli anccra sviluppato il concetto della per­manenza di buoni e malvagi nella Chiesa sino alla separazione finale.

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Insomma, per Agostino, in questo momento, non vi è peccato che non sia individuale; il passaggio dal secondo al terzo stadio dipende dal volere di ogni uomo, libero di commettere, non sotto­mettendosi a Dio, un peccato di superbia, o di compiere un atto di umiltà, invocando la grazia che lo metterà in grado di adempiere i precetti della Legge con amore anziché per timore, acquistando così la salvezza in ricompensa di un merito di cui Dio senza dubbio ha prescienza, anzi lo conosce eternamente, ma che è un merito dello uomo : i predestinati sono coloro dei quali Dio nella sua prescienza sa che avranno fede. Il problema dei rapporti tra prescienza e on­nipotenza di Dio non ha formato ancora l’oggetto di uno studio ap­profondito.

In questa serie di commenti a S. Paolo, Agostino ha dunque ela­borato una dottrina, di cui sembra per ora soddisfatto. E il rilevare qualche oscurità non deve farci dimenticare ch’essa non manca di coerenza. Di fronte a ogni sistema più o meno intinto di dualismo, tale dottrina salva l’unità della rivelazione e di Dio, come la sua trascendenza e la sua giustizia. Certo, può sembrare un’incrinatura nel sistema che Agostino, ricordando il testo di 7 Corinzi III, 1-2 ammetta che vi siano uomini « carnali » anche dopo aver ricevuto il battesimo. Ma egli distingue con sufficiente nettezza questa cate­goria di « carnali », così chiamati perchè non abbastanza progrediti nella fede, dai « carnali » veri e propri, ancora sub lege. E ’ anzi perchè egli ha vivissimo il sentimento della diversità tra i rimasti nel secondo stadio e coloro che sono pervenuti al terzo, che Ago­stino non vuole ammettere che ai già battezzati Paolo applichi la qualifica di « carnali » nel pieno senso del termine. Non bisogna di­menticare che, anche in gratia, l’uomo rimane mortale e ha quindi in sè, come conseguenza inevitabile della mortalitas, la concupiscenza destinata a estinguersi soltanto nel quarto grado, in pace, quando con la resurrezione l’uomo riacquisterà il corpo spirituale. Sol­tanto allora questa pena del peccato di Adamo scomparirà inte­ramente. Ma forse anche quella distinzione è fatta piuttosto per salvare il sistema ; e forse il riconoscere che si è carnali e che la con­cupiscenza sopravvive anche in gratia, e quindi l’aver continuato a riflettere sopra un testo che non potè non metterlo per un momento in imbarazzo, non fu senza conseguenze sullo spirito di Agostino e sullo svolgimento ulteriore del suo pensiero.

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Nella seconda quaestio Agostino esamina Romani IX, 10-29. Come- già nel De diversis quaestionibus LXXXÌIl (13), egli comin­cia con l’affermare che San Paolo non vuole abolire comple­tamente le opere bensì mostrare che esse seguono, non precedono, la fede : questa ottiene la grazia che pertanto è condizione del bene operare, non conseguenza di esso. La grazia poi si comincia a ricevere quando si comincia a credere, ma non sempre e non in tutti essa è sufficiente a procurare il regno dei cieli : così accade, per esempio, nei catecumeni. Si delinea dunque di nuovo la dif­ferenza tra coloro che non sono abbastanza progrediti nella fede e gli altri : infatti vi sono nella fede delle gradazioni. Vi è un’ini­zio, che assomiglia al concepimento, ma non è ancora la nascita. Nulla si ottiene senza la grazia (14).

Posto cosi il problema del rapporto tra l’azione di Dio e quella dell’uomo nella giustificazione, Agostino si prepara a risolverlo. Le difficoltà sono molte e varie. Si rischia da un lato di attribuire implicitamente a Dio anche l’origine del male o un procedere arbitrario e tirannico, contrario alla giustizia ; dell’altro, di ca­dere in un razionalismo che prescinda dai dati rivelati o li neghi. La causa profonda dei dubbi in cui si dibatte Agostino deriva ap­punto dal fatto, che egli attribuisce ora alla rivelazione un valore infinitamente più grande di quanto non facesse all’inizio della sua atti­vità di pensatore cristiano. La ferma decisione, di rimanere ade­rente ai testi biblici e di evitare al tempo stesso pericoli che conosce per penosa esperienza, lo inducono a non risparmiare gli sforzi. Ra­giona cosi, non esponendo una dottrina già fatta, ma argomentando in base ai testi che ha sempre presenti, e a contatto coi quali la fiducia nella soluzione già raggiunta viene alquanto scossa. Perciò egli procede in maniera che può apparire contorta, e rende senza dubbio difficile il seguirlo. Assistiamo al lavorio, direi quasi al travaglio, del suo pensiero che viene faticosamente maturandosi.

Alla mente di Agostino,, pur dopo quella premessa, si presenta un altro testo, Efesini II, 8-9. Ora, egli incornicia con l’osservare che Giacobbe non poteva essersi acquistato alcun merito con le opere, prima di nascere; e parimenti Isacco non s’era meritato di nascere e che Dio promettesse ad Abramo una discendenza.Il vero « Seme di Abramo », cibò i redenti in Cristo, sono dunque coloro che comprendono di essere « figli della promessa », anzi

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senza insuperbire per i loro meriti attribuiscono l’essere coeredi 'di Cristo soltanto alla chiamata di Dio. Anzi, per escludere i me­riti dei genitori, i quali avrebbero potuto avere al momento del concepimento disposizioni diverse, Esaù e Giacobbe furono ge­melli, concepiti nello stesso istante ; il che, tra l’altro, mostra quanto siano vane le speculazioni degli astrologi (15). Ma questo serve ad abbattere la superbia degli uomini, col mostrare che la diversa sorte dei due gemelli — o piuttosto l’elezione dell’uno — non può essere dovuta che a Dio, il quale fa la grazia di chiamare; chi riceve la grazia compie poi le opere buone. Ma come si con­cilia tutto ciò con la giustizia di Dio? Come si può parlare di una « scelta », che non ha potuto essere fatta in base ad alcun merito, il quale non poteva essere acquistato prima di nascere nè di poter fare alcuna opera buona, e neppure in base ad una diffe­renza di natura, trattandosi di gemelli? E d’altra parte è chiaro che, se Dio è giusto, non potè eleggere Giacobbe affine di farlo buono, prima che fosse tale.

Ed ecco presentarsi nuovamente ad Agostino la soluzione adottata altre volte : forse Dio, nella sua prescienza, previde la fede di Giacobbe prima ancora che nascesse? Sicché, nessuno è giustificato in base alle opere buone, perchè non può fare il bene se prima non sia stato reso giusto; ma, poiché Dio giustifica in virtù della fede, e credere è nel libero arbitrio dell’uomo, Dio prevede questa volontà di credere e, nella sua prescienza, elegge ancor prima della nascita, colui che giustifica. Ma la debolezza di questa risposta appare subito evidente. Infatti, se Dio previde la fede di Giacobbe, come possiamo escludere che potesse prevedere anche le opere e che non lo elesse per queste? E come si giu­stifica il detto dell’apostolo che l’elezione non è dovuta alle opere? Giacché, o diciamo che ciò fu in quanto non erano nati ancora, e dobbiamo riconoscere che mancava loro anche la fede; o ricor­riamo alla prescienza di Dio, e questa si estende certamente anche alle opere. Il problema resta dunque insoluto, se non in quanto possiamo escludere che l’apostolo volesse farci intendere che la elezione fosse fatta in base alla prescienza. Eppure, se ritorniamo al testo, dobbiamo riconoscere che non il proponimento di Dio rimane fermo in seguito all’elezione, ma che al contrario auesta dipende dal proponimento; in altre parole, Dio non si propone

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di giustificare in quanto trova negli uomini delle opere buone da eleggere, ma per il suo proposito di giustificare i credenti egli trova opere che elegge al regno dei cieli. La giustificazione p re­cede l’elezione, non ne dipende. E allora, se Dio « ci elesse prima della creazione », come si possono spiegare queste parole, se non riferendole alla prescienza? La profezia che « il maggiore ser­virà il minore » va intesa non nel senso di un’elezione di meriti,i quali si producono solo dopo la giustificazione, ma riferita alla liberalità di Dio, affinchè nessuno si vanti delle proprie opere. Agostino ripete quindi il passo Efesini II, 8, da cui ha preso le mosse (16).

E’ dunque lecito chiederci se la giustificazione sia preceduta dalla fede, che procaccia dei meriti, o no. Ora il testo di S. Paolo è chiaro : esso parla di Dio che chiama. Senza questa chiamata, non vi è fede : quindi la misericordia divina precede qualsiasi merito; Cristo è morto per uomini che non si possono chiamare altro che empi. Da Dio « che chiama » dunque Giacobbe ottenne che Esaù lo servisse. Ma la grazia consiste solo in una vocatio, che può essere accolta, o no, e che non è pertanto diversa da quella di cui Agostino ha parlato nei suoi tentativi precedenti (17).

Ma con ciò restiamo sempre allo stesso punto. Agostino se ne avvede, ed è precisamente la possibilità di opporre resistenza· alla chiamata quella che lo induce ad esaminare il problema non più dal punto di vista del giustificato, ma da quello del reietto. Perchè è stato condannato Esaù? Se dobbiamo escludere tanto i meriti delle opere quanto quelli della fede, e parimenti anche la prescien­za, per Giacobbe, dovremo fare lo stesso anche per Esaù ; ma da altra parte non possiamo ammettere che Dio abbia creato Esaù al solo fine di « odiarlo », cioè condannarlo, cosa che Dio non fa per alcuna delle sue creature. Dio non punisce che giustamente, cioè per una colpa. Ma se ammettiamo questo per Esaù, attri­buiamo anche a Giacobbe dei meriti reali. O negheremo forse che Dio sia giusto? Agostino, che ha già riaffermato la sua convin­zione della bontà del creato, si rifà ancora una volta al suo testo. Anche S. Paolo ha veduto il pericolo e perciò ha ricordato le parole di Dio a Mosè. Ma con ciò, ha egli veramente risolto il problema, o non l’ha piuttosto reso più oscuro? Ché se Dio avrà compassione di colui per il quale l’avrà avuta, possiamo ben

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chiederci perchè non l’ha avuta per Esaù, sì da renderlo buono come Giacobbe. Oppure quelle parole voglion dire che, se Dio ha per uno tanta compassione da chiamarlo, ne avrà anche tanta da fare che creda, e, una volta concessagli la fede, lo metterà anche in grado di compiere opere buone?

Sicché siamo ancora una volta avvertiti di non insuperbire per le nostre opere buone : che cosa abbiamo, che non abbiamo rice­vuto? (18). Ma resta il problema: perchè non fu concessa que­sta misericordia ad Esaù, ed egli non ricevette una chiamata tale da ispirargli la fede e renderlo capace di opere buone? Se ammettiamo che Esaù non volle credere, allora dobbiamo rico­noscere che al contrario Giacobbe volle, e la fede non fu più un dono di Dio per lui che ebbe qualche cosa senza averla rice­vuta. O il pensiero di S. Paolo è che il credere dipende dal nostro volere, il volere dall’essere stato chiamato, e quindi, tale chiamata non dipendendo da noi, il dono che Dio fa della fede consiste precisamente in questa chiamata, senza la quale non si può cre­dere contro la propria volontà? In tal caso la vocatio sarebbe condizione necessaria, ma non sufficiente, della nostra fede; e infatti molti sono i chiamati, pochi gli eletti, cioè coloro che non disprezzarono l’appello di Dio. Ma che cosa significano allora le altre parole dell'Apostolo, che il volere e il correre a nulla val­gono se Dio non usa compassione? Vuoi forse dire che non solo senza una chiamata non possiamo volere, ma che anche la nostra volontà a nulla vale, se Dio non ci aiuti a ottenere ciò che ne è l’oggetto? Dunque, Esau non volle e non corse; ma se anche avesse fatto l’una e l’altra cosa sarebbe giunto alla meta solo grazie all’aiuto di Dio, che con la chiamata· gli fornì anche il volere ed il correre ; senonchè, egli, trascurando l’appello, divenne reprobo. Bisogna dunque distinguere l’atto di Dio che ci dà il volere, da quello che ci fa ottenere l’oggetto della nostra volizione. Nel primo, si ha cooperazione tra Dio e l’uomo : egli ci chiama, ma noi lo seguiamo. Nel secondo, egli solo ci concede di fare il bene e di conseguire la beatitudine. Ma neppure così è risolta la questione, perchè, se dipende da noi il seguire o meno la chiamata di Dio, come avrebbe potuto Esaù scegliere prima di nascere? E allora perchè fu riprovato, essendo ancora nel grembo materno? Si torna sempre alle medesime difficoltà. Se infatti ricorriamo

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nuovamente alla prescienza divina, ecco che la stessa spiegazione deve valere per Giacobbe e non solo per la sua fede, ma per le opere (19).

Ma anche una cooperazione deH’uomo con Dio va esclusa, perchè l 'Apostolo stesso si è espresso chiaramente in contrario in un altro luogo, che va tenuto in considerazione nell’interpre- tare il nostro testo, e lo chiarisce : Filippesi, II, 12-13.

Dunque è Dio che opera in noi anche il buon volere ; chè se S. Paolo avesse voluto sostenere che la volontà umana non basta da sola, senza l’aiuto di Dio, a farci vivere rettamenic, avrebbe potuto esprimere lo stesso concetto mediante la proposi­zione reciproca, cioè che la misericordia di Dio essa pure non è sufficiente da sola, senza il concorso della volontà umana : cosa manifestamente assurda. Inoltre è chiaro che la volontà buona non precede la chiamata, ma questa quella, e quindi il nostro volereil bene è da attribuire interamente a Dio che ci chiama, poiché non da noi dipende Tessere chiamati (20).

Ma neppure con ciò le difficoltà sono finite. Infatti se la chiamata di Dio produce per se stessa la buona volontà, anche pre­scindendo dal problema della ragione per cui alcuni non sarebbero chiamati, v’è un testo che Agostino ha ricordato poco prima e che si ripresenta ora alla sua mente : « molti i chiamati, pochi gli eletti ». Fedele al suo principio di attenersi alla Scrittura, Ago­stino si propone ora l’obiezione implicita in questa affermazione, di cui non mette in dubbio la verità. Ma se gli eletti sono pochi per non aver risposto all’appello, e il non rispondere era in loro fa­coltà, siamo di nuovo al punto di prima. Si può tuttavia fare una altra ipotesi. Forse coloro che, chiamati così come sono, non ac­consentono, potrebbero, se chiamati altrimenti, indirizzare la loro volontà alla fede : sicché è vero che molti sono chiamati e pochi eletti, in quanto il medesimo appello non produce su tutti la stessa impressione e pertanto seguono la chiamata di Dio quelli che sono trovati capaci di accoglierla ; e non è meno vero che il bene ope­rare è da attribuire a Dio, il quale rivolse il suo appello nel modo conveniente a coloro che lo seguirono. La chiamata giunse bensì anche agli altri, ma era tale che non poterono indursi a darle ascolto (21).

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A questo punto, può sembrare già che Agostino abbia tro­vato, o almeno intravveduto, la soluzione definitiva. Infatti egli non si rivolge più le domande che ci attenderemmo, e cioè quale è la ragione per cui alcuni sono chiamati in un modo, altri in un altro ; e se la chiamata degli eletti fu efficace in quanto Dio ha saputo nella sua prescienza che essi avrebero creduto. Ma se egli non pone questi problemi in forma diretta, è perchè il suo testo, e il metodo ch’egli ha già seguito, gl’impongono di riproporli in ma­niera indiretta : relativamente cioè non agli eletti, ma ai reprobi. E’ infatti in relazione a questi che si pone con maggior chiarezzail problema della giustizia, ossia quello che gli sta particolarmente a cuore. E’ chiaro che la condanna deve essere motivata da un peccato. Perciò Agostino considera ora il caso di Esaù. Anche il Nuovo Testamento, egli osserva, ci presenta diversi esempi di fede e di incredulità, una serie cioè di* casi in cui la medesima chia­mata agì in maniera differente. Ora, non si può dire che a Dio onnipotente mancasse il modo di rivolgere ad Esaù un appello tale da indurlo alla fede. A chi osservasse che ci può essere una ostinazione tanto forte, da far rimanere sordi a qualunque chia­mata, è facile rispondere che, se non si voglia negare l’onnipotenza di Dio, bisogna ammettere che un appello rivolto in modo da non indurre alla fede — ossia, tale da provocare quella ostinazione — non può essere che effetto di un abbandono da parte di Dio. E ’ logico chiedersi allora se questo stesso indurimento di cuore non sia già di per se stesso una pena. Siamo sempre di fronte' alla medesima esigenza, che Agostino (lo ripetiamo ancora) sente sempre come un problema vitale, di non attribuire a Dio l’origine del peccato e del male. Ma con una finezza esegetica che mette a pro­fitto l’abilità acquistata in tanti anni di pratica della retorica (22), Agostino confronta ora i due versetti, che parlano l’uno della mise­ricordia divina e l’altro dell'indurimento del cuore da parte di Dio. San Paolo dice bensì che la salvezza non dipende dall’uomo e dal suo operare, ma da Dio che usa misericordia; tuttavia non soggiunge che la condanna non dipende dell’uomo che resiste o recalcitra, ma da Dio che indurisce. Dal confronto dei due testi risulta chiaro che cosa intende l’apostolo quando dice che Dio « indurisce chi vuole ». E ’ semplicemente questo : non gli usa mi­sericordia. Dio a nessuno dà qualche cosa che lo renda effet-

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tivamente peggiore ; soltanto, non gli concede ciò per cui possa divenire migliore. Ma è possibile che questo avvenga fuori della giustizia, indipendentemente da qualsiasi discriminazione di me­riti? Se ciò fosse, chi non si lagnerebbe di Dio — il quaie spes­so lamenta che gli uomini non vogliono credere e vivere secondo giustizia, dichiarando con ciò che essi sono i responsabili — e non userebbe quelle espressioni che l’apostolo respinge? (23).

Siamo così al culmine di questa lunga, faticosa, tortuosa discus­sione, che ho creduto necessario seguire nei particolari, precisamente per assistere da vicino al lento, graduale e tormentoso processo di sviluppo del pensiero di Agostino. Lo abbiamo visto più volte ritor­nare sulle medesime posizioni, sì che pare volesse mostrare coi fatti, urtando ogni volta contro lo stesso ostacolo, che le varie vie che si presentano sono in realtà vicoli ciechi, all’infuori di una. Si prova un poco, a questo punto, la stessa sensazione che in certe escursioni montane, quando dopo la lunga ed inamena ascesa su di un ver­sante ripido e monotono, si riesce infine ad infilare il vallone che conduce al colle, che tanti, pur piccoli ed incerti segni, ci fanno presagire vicino : finché s’intravedono profili di nuove vette lon­tane e già ci rinfresca e allieta la brezza che spira dall’opposto versante. Agostino, proponendosi di salvare la giustizia di Dio, che gli appare inseparabile dal libero arbitrio umano, ha cominciato con l’ammettere che l’iniziativa dell’atto di fede per cui gli eletti si sal­vano, spetti all’uomo. Ma poiché con ciò si finisce per attribuire la salvezza alle opere, ha dovuto lasciare quell’iniziativa a Dio. Gli pesa tuttavia ammettere che i reprobi siano condannati, prima d’ogni loro positivo demerito, da un atto di Dio : o una condanna la quale non sia giusta retribuzione d’una colpa. Ed ecco che l’atto divino onde agli eletti è concessa la fede si chiarisce come un dono, e il suo « in­durire il cuore » dei reprobi semplicemente come un non usare mi­sericordia, un non concedere quel medesimo dono ; quindi, se Dio è giusto e s’egli non è tenuto ad usare misericordia a tutti, vuol dire che ciò che agli uomini è dovuto è soltanto la condanna. Non volendo nè potendo concedere che Dio costringa i reprobi a peccare, ma at­tribuendo soltanto a lui l’atto di misericordia che avvia gli eletti alla fede e alla salvezza, Agostino deve riconoscere nei condannati, che sono il maggior numero, una spontanea inclinazione al male.

Dio è giusto : il suo aver compassione di chi vuole deve essere

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dunque conforme a quella giustizia. Ma precisamente perchè la giu­stizia di Dio possa essere posta fuori discussione, bisogna che in base ad essa tutti gli uomini non meritino altro che la condanna. Allora è possibile fare intervenire una distinzione : al diritto assoluto e rigido, lo strictum, ius, era stata da tempo contrapposta V aequitas; e se nel diritto classico questo termine significa soltanto « giustizia » e Vaequitas può volere decisioni più severe di quelle imposte dal ius, nel IV secolo essa ha già, sembra, incominciato ad acquistare il significato che nella compilazione giustinianea apparirà ammesso pie­namente, di mitezza, indulgenza, benignità, che permette di attenua­re, e anche eliminare del tutto i rigori della legge. E’ in virtù di que­sto sentimento di benevolenza che un creditore può rinunciare a esi­gere il pagamento da parte di uno dei debitori senza che ciò lo obblighi ad accordare il medesimo trattamento agli altri. Del resto, Agostino rileva altresì che giustizia ed equità umane non sono che un pallido riflesso di quelle di Dio. Comunque, l’atto di Dio che usa misericordia è sempre atto di equità, che dipende interamente dal suo arbitrio, senza che nessuno abbia il diritto di considerarlo come un'ingiustizia. Ché di fronte a Dio tutti gli uomini, morti — cioè peccatori — in Adamo da cui si è diffusa a tutto il genere umano come un contagio l’offesa fatta a Dio, sono come il mucchio d’ar­gilla di fronte al vasaio : una massa intrisa di peccato, debitrice di pena. Nessuna ingiustizia, dunque, da parte di Dio s’egli condona soltanto ad alcuni il castigo dovuto a tutti. Ma il voler giudicare di ciò noi uomini è pura superbia : si tratta di equità, cioè di un vero e pro­prio atto di clemenza da parte di Dio, che certamente non è arbi­trario ma trascende ogni giudizio umano; torna opportuno il ri­cordare la parabola degli operai nella vigna. Ed è vano l’argomentare in proposito, o il lamentarsi, come se Dio costringesse qualcuno a peccare : mentre egli si limita ad elargire la sua misericordia agli eletti, ed il suo « indurire » il cuore dell’uomo non è che un rifiuto di clemenza, ed egli ha dunque pienamente ragione di lamentarsi dei peccatori (24).

Se dunque qualcuno si turba, pensando al diverso trattamento fatto ad uomini che provengono dalla medesima massa peccatorum e ricordando che, se Dio aiuta o abbandona chi vuole, la sua volontà è onnipotente, a costui è appunto da replicare con le parole di S’. Paolo. Le parole sono evidentemente rivolte ai « carnali », come dimostra già

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l’immagine stessa del fango di cui fu formato il primo uomo ; e poiché « in Adamo tutti muoiono », perciò'dice l’apostolo che una è la massa da cui è tratto anche il vas in honorem. Dunque anche l’eletto co­mincia con l’essere carnale, per salire poi al grado di spirituale. Ago­stino che, come noteremo meglio in seguito, ha sin qui polemizzato contro se stesso e abbattuto con le sue mani l’edificio teologico co­struito nei precedenti commenti a S. Paolo, cerca ora di conservarne almeno una parte e di mantenere la distinzione tra i diversi gradi della vita spirituale. Correlativamente, egli si sforza ancora di man­tenere Paolo tra gli spirituali; e non è ancora disposto ad abban­donare la spiegazione che del termine di « carnali » usato a pro­posito dei fedeli di Corinto egi ha già dato precedentemente (25). Ora, dal fatto che quell’epiteto è applicato anche a fedeli, già rinati in Cristo, ma che l’apostolo considera ancora come infanti da nu­trire di latte, Agostino argomenta che molto più giustamente si pos­sono chiamare così quelli che non solo ancora rigenerai o anche i reprobi. E tuttavia deve emmettere che carnali sono detti anche quelli che sono già vasa in Jionorem (26).

Agostino è ripreso dal suo timore del manicheismo. Perciò non solo conclude la discussione precedente ripetendo ancora una vol­ta che Dio è giusto, ma vuole riaffermare anche la sua bontà. L’oc­casione gli è offerta dal riavvicinamento di due testi biblici; se­condo uno Dio non odia nulla, eppure secondo l’altro egli ha odiato Esaù. Come si possono conciliare le due affermazioni? Anche Esaù è stato creato da Dio, il quale ama tutte le cose che ha creato e che sono tutte buone secondo il posto di ciascuna nell’ordine dell’uni­verso, e non ne odia alcuna. Nell’uomo anche il corpo è buono, ma l’anima è superiore; e Dio non odia se non il peccato, che è una volontaria deviazione, per cui l’anima si dirige verso i beni infe­riori. L’origine del peccato è pertanto nell’uomo, non in Dio il quale mandò Cristo a redimere il genere umano giustificando i credenti. Nei reprobi dunque Dio odia non la propria creatura, ma l’empietà ; e se egli rifiuta loro la giustificazione concessa agli elet­ti, in base ai suoi giudizi imperscrutabili, non per questo essi non hanno una loro funzione nell’ordine del creato (27).

Come si vede, basta che le preoccupazioni antimanichee ripren­dano il sopravvento, perchè Agostino ritorni alle sue concezioni di un tempo, e faccia quasi della giustificazione un premio. Conseguen­

t e

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za, sì, di giudizi imprescrutabili, il che è conforme al testo e non contraddice formalmente al concetto di equità ; ma, in fondo, im­plica un ritorno momentaneo all’idea che anche la giustificazione sia retributiva.

Poi Agostino spiega perchè non vi è differenza, riguardo alla salvezza, tra Giudei e Gentili : chè se Dio sceglie i suoi eletti così fra gli uni come fra gli altri, vi sono evidentemente dei reprobi anche tra i Giudei e ciò significa che tanto gli uni quanto gli altri meri­tano la condanna. Unica è dunque la massa dei peccatori ed empi che proviene da Adamo. Ma se il peccato non deriva da Dio, che non fece gli uomini peccatori, quale n’è l’origine, e come s’è formata questa massa ? Ossia, come accade che si verifichi in ogni uomo quella inordinatio atque perversitas in cui consiste il peccato, per cui tutti non sono degni, in stretta giustizia, che di pena? Ora Agostino ha già osservato che la massa peccatorum et impiorum proviene da Adamo ; dopo il peccato del progenitore, gli uomini furono resi mor­tali. Egli ha cura di sottolineare che quello che importa è la mor­talità, non il corpo ; il quale, creato da Dio, è per se stesso buono e mostra nelle sue membra una tale armonia che l’apostol·) ha potuto trarne un’immagine per illustrare l’unione dei fedsli nell'amore. Il corpo, in sè, non sarebbe quindi di impedimento al>a perfezione spiritu"’e, giacché il Creatore ha disposto che le memrr;· fossero ani­mate da uno spirito vitale, e al disopra di questo dominasse l’anima, che deve a sua volta sottomettersi a Dio. Si tratta dunque della stessa teoria che Agostino ha esposto tante volte, e anche poco più sopra. Ma con la trasformazione del corpo umano in mortale, pena del peccato, s’è verificato anche un altro cambiamento : la concu­piscenza, che regnava già come pena del peccato, ha penetrato tutta la massa del genere umano, ha acquistato il dominio della carne, e con ciò ha diffuso in tutti gli uomini non soltanto la pena, ma il peccato medesimo. Trasmettendosi di generazione in generazione la sua natura mortale, l’umanità si trasmette anche questo predo­minio degli appetiti più bassi, la concupiscentia carnalis che l’allon­tana da Dio ed è lo stesso peccato d ’origine (28).

Ed ora Agostino si avvede di un altro pericolo.Anche se si afferma semplicemente — senza attribuire il pec­

cato a Dio— che alla trasmissione della pena si aoeompagna quella del peccato, la concupiscentia carnalis che impedisce all’anima

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di esercitare il suo primato e rivolgersi unicamente al Creatore, non si viene a togliere all’uomo la capacità di determinarsi al bene, non si nega cioè il libero arbitrio? Questa conclusione è quella dei manichei ed egli l’ha già combattuta. Ma per evitare l’eresia, non vi è bisogno di affermare la libertà totale di ogni singolo individuo, così come non è affatto necessario negarla assolutamente. Agostino ha già ammesso che nell’uomo, dopo il peccato di Adamo, il libero arbitrio ha subito una diminuzione (29) ; ora egli sarà portato ad accentuarla, senza con ciò arrivare alla conseguenza estrema di negare completamente la libertà umana. Bisogna ripetersi che di ogni nostra azione buona il merito va nettamente a Dio. Gi si ordina di fare il bene, ma chi può compierlo se non chi è stato reso capace, cioè giustificato, e in virtù della fede? Ci si ingiunge di credere, ma chi è in grado di farlo, se non abbia ricevuto una chiamata, che lo metta come in presenza dell’oggetto della fede stessa? E chi può far sì che la sua mente sia colpita da una rap­presentazione tale da indurre la sua volontà alla fede? La volontà umana è infatti libbra, nel senso che essa si volge a ciò che la diletta e varie sono le cose che possono attrarla ; ma chi può fare che essa incontri l’oggetto desiderabile e che questo, incontrato, susciti il desiderio? E’ dunque soltanto la grazia che ci ispira e ci con­cede di essere attratti dagli oggetti che conducono a Dio : il moto della volontà, il tendere verso il bene, il compiere opere buone, son tutti doni di Dio. Ma si presenta ora alla mente di Agostino un testo, che un tempo lo ha indotto a pensare diversamente (30) ; un testo, che sembra affermare nella maniera più recisa la priorità dell’iniziativa umana, seguita da un soccorso divino che ne è quasi condizionato : « chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto » (Matt. VII, 7). Ma il vescovo d’Ippona constata ora che anche la nostra preghiera è talvolta tiepida, anzi fredda e vana, a tal punto che in certi casi neppure ce ne ramma­richiamo : ché se sentiamo dolore di questa frigidità, allora la nostra è già una vera preghiera. Ammissione ben significativa! E’ una breve frase, ma che c’illumina forse più di ogni altra : possiamo immaginare, vediamo, Agostino in orazione. La sua preghiera è immune, ora, da ogni elemento intellettualistico, non è più tenta­tivo di riconoscere con piena evidenza l’ordine dell’universo e di inchinare la mente di fronte al Creatore e Ordinatore del tutto, in

Ιβο

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uno sforzo di intelligenza; bensì slancio di amore, che impetra di ottenere dal suo stesso oggetto la forza di amarlo e che prega di poter pregare. E ’ nella sua stessa esperienza che Agostino trova la ragione di quel monito divino. Esso significa, per poco che l’uomo vi rifletta, che anche il pregare, il chiedere, cercare e bus­sare ci è concesso da Dio, il quale ci ha imposto di farlo, affine di renderci coscienti di quella verità (31).

lnsomma, due punti vanno tenuti fermi : che vi è un’elezione e che questa, non segue la giustificazione, anzi la precede e ne è causa. Ma quanto alle ragioni di questa scelta, Agostino non sa trovarle, ed è disposto a confessare la sua debolezza di fronte a chi possa saperne di più, benché la sua opinione sia che quelle ragioni debbano rimanere nascoste agli uomini finché essi fanno parte della massa damnationis, Nessuna infatti delle ragioni che si potrebbero addurre è soddisfacente, nessuno dei valori che gli uomini apprezzano è stimato da Dio: non l’ingegno, ché vi sono fedeli certo intellettualmente inferiori agli eretici, non la moralità quale è considerata dagli uomini (del resto non può trattarsi che di un peccare meno, nessuno essendo senza peccato), ché vi sono uomini virtuosi tra gli eretici e i pagani e d’altra parte meretrici e istrioni che si convertono e valgono più di quelli per fede spe­ranza e carità. Del resto, anche a questo proposito dell’assoluta indifferenza di Dio di fronte ai valori umani, S. Paolo ha parlato chiaro (/ Cor. I, 27). E se, infine, volessimo dire che Dio sceglie la buona volontà, dobbiamo riconoscere che la volontà stessa s:. determina in base a ciò che l’attrae; e il farglielo incontrare non è in potere dell’uomo. Con tutto ciò, Dio è giusto, in manièra assoluta : egli è il creditore, che a suo talento esige o condona il debito, nella pienezza del suo buon diritto; è il creatore e l’ordi- ntore del mondo. Non resta che inchinarsi ai suoi giudizi imper­scrutabili. E la discussione, in qualche punto così tormentosa e contorta e che in uno almeno ha assunto un tono solenne, termina con un movimento oratorio, ma parenetico, con un andamento da sermone (32).

Qualche cosa è dunque profondamente mutato nel pensiero di Agostino. Ma che cosa, esattamente? Il rispondere con la mag­gior possibile precisione a questa domanda è condizione indispen­sabile per poter determinare anche il modo in cui avvenne il cam-

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biamento, cioè in virtù di quali influssi esterni e sotto l’impero di quali esigenze intime il pensiero teologico di Agostino si è venuto svolgendo fino a questo momento : che è a sua volta condizione indispensabile per un’esatta comprensione dello sviluppo succes­sivo della sua teologia.

Se ora torniamo a leggere i passi dell’Expositio quarundam propositionum e specialmente del De diversis quaestionibus LXXXI1I in cui si parla della massa luti, o massa peccati (33), e restrin­giamo il nostro esame a quelle poche frasi, può anche sembrare che non vi sia stato nessun cambiamento. Nella 68a delle « 83 questioni » Agostino dice infatti esplicitamente che dopo ii peccato di /dam o il genere umano si perpetua secondo le leggi delia gene­razione del corpo mortale e pertanto gli uomini sono diventati una sola massa di fango, massa peccaminosa, con la quale Dio opera, come il vasaio con l’argilla. Ma abbiamo anche veduto che Ago­stino riteneva che l’apostolo abbia negato il diritto di tentare di rendersi conto del procedere di Dio solo a chi fa parte di questa massa, è cioè tuttora carnale; e lo abbiamo veduto altresì conclu­dere che con l'aiuto di questa grazia l’uomo può divenire spiri­tuale e questo aiuto Dio lo concede a chi vuole, ma in base a dei meriti, benché reconditi : i quali meriti consistono nell’ascoltare la vocatio di Dio, che nella sua prescienza conosce coloro che avranno fede, e li elegge, sicché il merito vero non è loro, mentre è propria dei condannati la colpa di non avere ascoltato tale chiamata.

Ma questa è per l’appunto la concezione contro la quale Ago­stino polemizza ora, facendo osservare che se l’elezione fosse compiuta in base alla previsione relativa alla fede, non vi sarebbe ragione di non riconoscere una prescienza per quanto concerne le opere. Non solo; ma caratteristico della qu. 2 del primo libro Ad Simplicianum è il voler risolvere il problema considerando gli eletti ma anche, e soprattutto, i reietti, i dannati. In questi. Ago­stino aveva scorto una colpa particolare, quella cioè di non aver seguito l’appello divino; ora invece egli riconosce che anche in loro il libero arbitrio è sminuito, in quanto si rivolge spontanea­mente al male. A una sola vocatio. Agostino ne sostituisce ora due : una capace di indurre gli eletti al bene, in quanto presenta, e fa appetire loro, i beni di ordine superiore che li conducono a Dio ;

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l’altra incapace di sostituire altri oggetti di desiderio* a quelli cui la carne si rivolge naturalmente.

Infatti — e qui tocchiamo il punto essenziale — è mutato nel pensiero di Agostino il modo d’intendere la natura mortale dello uomo. Prima, la mortalitas gli era apparsa semplicemente una pena del peccato di Adamo, la quale aggravava bensì la condizione dello uomo ma non gl’impediva in maniera assoluta di elevarsi spiritual- mente e di passare dallo stadio sub lege a quello sub gratia. La volontà umana, per determinarsi al bene e volgersi a Dio, incon­trava, è vero, ostacoli nello stato d’ignoranza e di debolezza in cui l’essere soggetto a morire ha posto l’uomo; ma si trattava di una consuetudine, che non era impossibile vincere. Ora, il posto di questa ignorantia et difficultas è preso da una impotenza che è totale, finché consideriamo le sole forze umane; in luogo della consuetudine al peccato è subentrato un peccato autentico, quello di Adamo, che con l’atto stesso della generazione si trasmette in ogni uomo e lascia in lui la sua impronta. E’ per tale peccato che l’uomo merita soltanto la pena, sicché l’elezione è un puro atto di misericordia, da parte di Dio, il quale giustifica chi vuole, ren­dendolo atto a credere, e largendogli la fede. Ché, se l’atto iniziale di fede fosse in potestà deU’uomo, allora la logica esige che si attribuisca la redenzione non più alla sola fede — che acquista un morite — ma altresì alle opere.

Il monito dell’apostolo, che Agostino aveva inteso come rivolto agli uomini ancora carnali, ora è considerato da lui come diretto anche, almeno, ai catecumeni all’inizio della fede. Il vescovo di Ippona ritiene però che vi siano diversi gradi nella fede; non tutti ne hanno quanta è richiesta per ottenere il regno dei cieli. Egli non dice ancora esplicitamente che anche Paolo può avere applicato l’epiteto di carnale a se stesso, né si ricorda di avere attribuito a Pietro un peccato per cui considera che fu giusta­mente redarguito. Anzi, si direbbe che a quella conseguenza Ago­stino voglia sfuggire, o per Io meno che un punto gli sia rimasto ancora oscuro : ché se carnali sono i catecumeni, è ancora impre­cisato il valore del battesimo. Il riconoscimento che questo can­cella il peccato d’origine, mentre lascia sussistere la concupiscentia carnalis, non verrà che più tardi. Nè si vede per quale ragione Agostino debba parlare di una doppia vocatio, e di una inefficace.

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se non perchè di vocaiio ha parlato già altre volte e, pur mutando, vuole mantenere questo concetto. Del pari, appena accennata — ma tuttavia già presente — è un’altra concezione caratteristica; quella del non valore della moralità degli infedeli.

Il cambiamento è dunque indiscutibile e profondo. Che Ago­stino ne avesse coscienza nel momento stesso in cui si produsse, è indubbio, perchè, come abbiamo veduto, egli polemizza con sè stesso; benché probabilmente non si rendesse conto, per allora, di tutto ciò che implicava. Ma resta da vedere, nella misura in cui è possibile, quali cause contribuirono a operare questo cambio.

N O T E

(1) Il De diversis quaestionibus ad Simplicianum libri duo è indicato nelle Retractationes come la prima opera posteriore all'episcopato. Agostino dice esplicitamente (I, pr.) che le questioni su cui Simpliciano lo interroga erano state da lui trattate in opere precedenti, ma che egli ha voluto riesaminare accuratamente i testi di S. Paolo che era stato richiesto di spiegare. Sul· valore delle sue parole, v. oltre.

(2) L’A d Simplicianum differisce dai commenti alla Genesi, e anche dagli aitri sulle epistole paoline per eesere uno scritto occasionale, provocato dalle domande di Simpliciano; ma il fatto che Agostino non si contentò d'inviare all'amico una copia, o una riproduzione lievemente modificata, di uno degli scritti anteriori, prova come i problemi sollevati da Simpliciano corrispondes­sero a esigenze profondamente eentite da Agoslino stesso. Ciò sarebbe vero, anche qualora, per spiegare com'egli inviasse a Simpliciano alcune delle « 83 questioni » si volesse fare l'ipotesi che le domande rivoltegli dal successore di Ambrogio fossero provocate proprio dalla lettura di qualcuna tra le opere esegetiche di Agostino etesso.

(3) A d Simplic. I, qu. 1. 1: Dicendo « ego vivebam sine lege aliquando» [Rom. VII, 9) « videtur mihi apostolue transfigurasse in se hominem sub lege positum, cuius verbis ex persona sua loquitur »; cfr. 4, cit. a n. 4; 9, cit. a n.11, cit. a n. 8.

(4) A d Simplic. I, qu. 1 ,1: «Et quia paulo ante dixerat "Evacuati su­mus a lege mortis ” ... atque ita per haec verba quasi reprehendisse Legem pos­set videri, subiecit statina " Quid ergo dicemus? “ » etc. — 2: « Hic rursus mo­vet, si Lex non est peccatum, sed insinuatrix (var.: inseminatrix) peccati, ni­hilominus his verbis reprehenditur. Quare intelligendum est, ad hoc datam esse non ut peccatum insereretur neque ut extirparetur, sed tantum ut demon- etraretur quo animam humanam quasi de innnocentia securam ipsa peccati demonstratione ream faceret; ut quia peccatum sine gTatia Dei vinci non poe- set, ipsa reatus sollicitudine ad percipiendam gratiam converteretur. Itaque non ait. peccatum non feci nisi per Legem: sed " peccatum non cognovi (vs. 7). Unde apparet concupiscientiam per Legem non insitam sed demonstratam ». — 3: « Consequens autem erat ut quoniam, nondum accepta gratia, concupiscen­

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tiae resieti non poterat, augeretur etiam; quia maiores vires habet concupi­scentia crimine praevaricationis adiuncto, cum etiam contra Legem facit, quam si nul]a Lege prohiberetur... Erat enim et ante Legem, eed non omnis eratT quando crimen praevaricationis adhuc deerat». —: 4: «Sane quod ait (vs. 10: " revixit ”) satis significavit hoc modo aliquando νίχίβββ peccatum id eet notum (var.: natum) fuieee, sicut arbitror, in praevaricatione primi hominis quia et ipse mandatum acceperat... Non enim potest reviviscere nisi quod vixit aliquando. Sed mortuum fuerat, id est occultatum, cum mortales nati sine mandato Legis homines viverent, sequentes concupiscentias camis sine ulla cognitione, quia sine ulla prohibitione. Ergo Ego,? inquit "vivebam (vs. 9) Unde manife­stat non ex persona sua proprie sed generaliter ex persona veterie (var., ojn.) hominis se loqui. " Adveniente autem " (vss. 9-10). Mandato enim sd obe- diatur utique vita eet. Sed inventum est esse in mortem, dum fit contra man­datum, ut non eolum peccatum fiat, quod etiam ante mandatum fiebat, sed hoc abundantius et perniciosius, ut iam a sciente et prevaricante peccetur ».

(5) Ibid. 5: (vs. 11). « Peccatum... ex prohibitione aucto desiderio, dulcius lactum est et ideo fefellit, hallax enim dulcedo eet quam piures atque maiores poenarum amaritudines consequuntur. Quia ergo ab hominibus nondum spiri­talem gratiam percipientibus suavius admittitur quod vetatur, fallit peccatum falsa dulcedine. Quia vero etiam accedit reatue praevaricationis, occidit ». — 5; (vs. 12): « In malo utente quippe vilium est, non in mandato ipeo, quod bonum est. Quoniam bona est Lex, si quis ea legitime utatur (/ Tim., I, 8). Male autem utitur Lege qui non se subdit Deo pia humilitate ut per gratiam Lex possit impleri». — 7: «"Scimus enim" inquit "quia" etc. (vs. 14). In quo satie ostendit non posse impleri Legem nisi a spiritualibus, qui non fiunt nisi per ^gratiam. Spirituali enim Legi quanto fit quisque similior, id est, quanto magis et ipse in spiritualem surgit affectum tanto eam magis implet, quia tanto magis ea delectatur iam non sub eius onere afflictus sed eiue lumine vegetatus, quia praeceptum Domini lucidum eet illuminans oculos etc. (Ps. XVIII, 3-9), gratia donante peccata eit infundente epiri tum charitatis quo et non eit modesta et 6it etiam iucunda iustitia ».

(6) lbid., 7: «Sane, cum dixisset "ego autem carnalis eum" (vs. 14) contexuit etiam qualis carnalis. Appellati sunt enim ad quendam modum carna­les iam etiam sub gratia constituti, iam redempti 6anguine Domini et renati per fidem quibus idem apostolus dicit (/ Cor, IU, 1-2). Quod dicens utique oetendiit iam renatos fuisse per gratiam qui erant parvuh in Christo et lacte potandi et tamen eos adhuc carnalee vocat. Qui autem nondum est sub gratia, eed sub Lege, ita carnalis est ut nondum sit renatus a peccato, sed venumdatus sub pec­cato, quoniam pretium mortiferae voluptatis amplectitur dulcedinem illam qua fallitur, et delectatur etiam contia Legem facere, cum tanto magis libet quanto minus licet. Qua suavitate frui non potest quasi pretio conditionis suae nisi cogatur tamquam emptum mancipium servire libidini. Sentit enim se servum dominantis cupiditatis, qui prohibetur et se recte prohiberi cognoscit et tamen facit ». — 9: « (vs. 15) Hoc enim non vult quod et Lex; nam hoc vetat Lex. Consentit ergo Legi non in quantum facit quod illa prohibet sed in quantum non vult quod facit. Vincitur enim nondum per gratiam liberatus, quamvis iam per Legem, et noverit se maie facere et nolit Quod vero eequitur et dicit “ Nunc autem” (ve. 17) non ideo dicit quia non consentit ad faciendum pec­

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catum, quam vie Legi consentiat ad hoc improbandum. Loquitur enim adhuc ex persona hominis sub Lage constituti, nondum sub gratia, qui profecto tra­hi tur ad male operandum concupiscentia dominante atque fallente dulcedine peccati prohibiti, quamvis ex parte notitiae Legis hoc improbet. Sed propterea dicit ” non ego operor illud " quia victus operatur. Cupiditas quippe id ope­ratur, cui superanti ceditur. Ut autem non cedatur, eitgue mens hominis ad­versas cupiditatem robustior, gratia facit, de qua post dicturus est ».

(7) Ibid., 10: « " Scio enim ", inquit, etc. (vs. 18). Ex eo quod scit, con­sentit Legi; ex eo autem quodi facit, cedit peccato. Quod si quaerit aliquis unde ho< scit quod dicit habitare in came sua non utique bonum, id est pec­catum: unde nisi ex traduce mortalitatis et assiduitate voluptatis (var.: volun­tatis}? Itlud est ex poena originalis peccati, hoc est ex poena frequentati pec­cati. Cum illo in hanc vitam nascimur, hoc vivendo addimus. Quare duo sci­licet, tamquam natura et consuetudo, coniuncta robustissimam laciunt et in­vi ctieeimam cupiditatem, quod vocat peccatum et <licit habitare in carne sua, id €6t dominationem quandam et quasi regnum obtinere ».

(8) Ibid., 11 : « Hie verbis videtur non recte intelligentibus velut auferre liberum arbitrium. Sed quomodo aufert, cum dicit velle adiacet mihi " (vs. 18)? Certe enim ipsum velle in potestate est, quoniam adiacet nobis; sed quod perficere bonum non est m potestate, ad meritum pertinet originalis peccati. Non enim est haec prima natura hominis, eed delicti poena, per quam facta est ipsa moi talitas, quaei eecunda natura, unde noe gratia liberat conditoris sub­ditos eibi per fidem. Sed istae nunc vocee sunt sub Lege hominis constituti, nondum sub gratia. Non enim quod vult facit bonum, qui nondum est sub gratia, sed quod non vult malum, hoc agit, superante concupiscentia, non solum vinculo mortalitatis sed mole coneuetudims roborata ». — 12. « Quid enim facilius homini sub Lege constituto quam velle bonum el facere malum?... Perhibet igitur testimonium Legi, quod bona sit, homo sub ea positus et non­dum gratia liberatus; perhibet omnino eo ipso quod se reprehendit facere con­tra Legem; et invenit eam bonum sibi esse, volens facere quod illa iubet, et concupiscentia superante non valens. Atque ita se praevaricationis reatu im­plicatum videt, ad hoc ut gratiam Liberatoris imploret ». — 13 (vs, 22). « Legem appellai in membris suis onus ipsum mortalitatis, in quo ‘ ingemiscimus gra­vati" (II Cor. V, 4)... Quam sarcinam prementem et urgentem ideo Legem ap­pellat, quia iure supplicii divino iudicio tributa et impoeita esit ab eo qui praemonuit hominem dicens (Gen., II, 12)... Haec lex repugnat legi mentis... et antequam sit quisque eub gratia ita repugnat, ut et captivet eum eub lege peccati id est eub semetipsa ». — 14: « Hoc autem totum dicitur, ut demon- slretur homini captivo non esee praesumendum de viribus suis. Unde Iudaeoe arguebat tamquam de operibus Legis superbe gloriantes cum traherentu/r con­cupiscentia... Humiliter ergo dicendum est homini victo, damnato, captivo et nec saltem accepta Lege victori sed potiue praevaricatori, humiliter exclaman­dum est " miser ego homo (vse. 25-26). Hoc enim rfestat in ista mortali vita li­bero arbitrio, non ut impleat homo iustitiam, cum voluerit, sed ut se supplici pietate convertat ad Eum, cuius dono possit implere ».

(9) Ibid. 15: « Quisquis putat eensiese Apostolus quod mala sit Lek (Ronu V, 20; VII, 4-6; I Cor. XV. 56; II Cor., III, 7)... et alia si qua huiusmodi Apo­stolum dixasse invenimus, attendat ideo esse ista dicta quia Lex aug&t concu-

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piscentiam ex prohibitione et reum obligat ex praevaricatione iubendo quod implere hominse ex infirmitate non poseunt, nisi se ad Dei gratiam pietate convertant. Et ideo sub illa esse dicuntur, quibus dominatur. Eis autem domi­natur quos punit; punit autem praevaricatores omnes. Porro qui acceperunt Legem, praevaricant eam, nisi per gratiam consequantur posse quod iubet. Ita fit ut non dominetur eie qui iam sub gratia suni, implentibus eam per charita- tem, qui erant sub eius timore damnati ».

(10) Ibid., 16.(11) Ibid., 17: «Ad Iudaeoe enim dicta est lex minietratio mortis ad quos

et in lapide scripta est ad eorum duritiam figurandam, non ad eos qui legem per Charifeatem implent... Cur "mortui sumus Legi per corpus Christi ” (cfr. vs. 4) si bona est lex, Quia mortui sumus 'Legi damnanti (var: dominanti), liberati ab eo affectu quem Lex punit et damna/l. Usitatius enim vocatur Lex, quando minatur et tetfret et vindicat. Itaque idem praeceptum (timentibus Lex, est, amantibus gratia... Eadem quippe Lex quae per Moysen data eel ut for- midaretaw gratia et veritas per Iesum Christum facta est ut impleretur. Sic ergo dictum est ” Mortui estie legi", ac si diceretur Mortui eslis supplicio legie per corpus Christi ", per quod sunt delicta donata quae legitimo suppli­cio coetringebant... Lex littera est eis qui non eam implent per spiritum cha- ritatis, qruo pertinet Testamentum Novum. Itaque mortui peccato liberantur a littera, qua detinentur rei qui non implent quod' scriptum est... Lex enim tantummodo lecta et non intellecta vel non impleta utique occidit, dune enim appellatu* littjera ».

(12) Come ei vede, convengo col Ma/r-rou (o. c., p. 162) che in Ippona il cosiddetto « periodo filoeofico » di Agostino è finito. Solo mi pare impossibile, come ho già indicato, far coincidere questo termine con l'ordinazione sacer­dotale, anziché con il periodo di studio che seguì. Per di più, si notano anche nel periodo successivo evidenti sapravvivenze del precedente: le ha segna­late lo steeso Marrou in alcune pagine (357-368J che sono tra le migliori e le più equilibrate del suo importante libro.

(13) De div. quaesti. IX X XIil . qu 76, 1; su lac. II, 20; cfr c. IV, n. 23.(14) A d Simplicianum, I, qu. II, 2 « non ut opera extinguat, eed ut osten­

dat non esse opera praecedentia gratiam, sed consequentia: ut scilicet non se quisque arbitretur ideo percepisse gratiam quia bene operatus est, sed bene epenari non posse, nisi per fidem perceperit gratiam. Incipit autem homo per­cipere gratiam ex quo incipit Deo credere, vel interna vel externa admonitione motus ad fidem... Sed in quibusdam tanta est gratia fideir quanta non sufficit ad obtinendum regnum caelorum; sicut in catechumenis... In quibsusdam vero tanta est ul iam corpori Christi et sancto Dei templo deputentur... Fiunt ergo iiichoationee quaedam fidei, conceptionibus eimilee, non tamen solum concipi, sed ettiam nasci opus est ut ad vitam perveniatur aeternam. Nihil (tamen horum sine gratia misericordiae Dei » appunto perchè le opere buone seguo­no, non precedono, la grazia.

(15) libid., 3: « Nemo enim posset dicere quod operibus promeruerat Deum Iacob nondum natus, ut divinitus diceretur " et maior serviet minori Ergo " non solum ", inquit, Isaac promissus eet, cum dictum est " Ad hoc tempus veniam et erit Sarae filius": qui utique nullis operibue promeruerat Deum, ut nasciturus promitteretur, ut in Isaac vocaretur semen Abrahae, id est, illi

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pertinerent ad sortem sanctorum quae in Chrieto eet, qui se intellegerent filioe promissionis, non superbientes de meritis suis, sed gratiae vocationis (var.: gratiae vocationi) deputantee quod coherede® essem Christi. Cum enim pro­missum est ut essent, nihil utique meruerant qui nondu<m erant. '’Sed et Re- becca ex uno concubitu habens Isaac patris nostri Vigilantissime ait, ’ ex uno concubitu " (gemini enim concepti erant), ne vel paternis meritis tribue­retur si quisquam forte diceret: Ideo talis natus eet filius quia ipateT ita erat affectus illo in tempore quo eum sevit in utero matris, aut: Ita erat mater affecta cum eum concepit. Simul enim ambos uno tempore ille sevit, eodem tempore illa concepit. Ad hoc commendandum ait " ex uno concubitu ", ut nec astrologis daret locum, ve] eis potius quos genethliacos appellaverunt ».

Questo argomento contro gli astrologi, tratto dalla nascita di due ge­melli con diverso destino, è già in De div. quaest. LXXXI11 qu. 45, 2-, l’esem­pio di Esaù e Giacobbe si ritrova in C o n i e s s VII, 6, 10.

(16) ìbid., 3: « Sed... ad frangendam atque deiciendam superbiam hominum ingratorum gratiae Dei et audentium gloriari de meritis suis ista commemo- jantur. "Cum enim nondum nati fuissent...’' (vse. 11-12). Vocantie est ergo gratia; percipientis vero gratiam consequenter sunt opera bona, non quae gra­tiam pariant, sed quae gratia pariantur ». — 4: * Unde igitur ista electio, vel qualis electio, si nondum natis nondumque aliquid operatis nulla eunt mo­menta meritorum? An forte sunt aliqua naturarum?... Si enim bonus factus est Iiicob, ut placeret, unde placuit ante quam fieret, ut bonus fieret? Non itaque electus est ut fieret bonus eed bonus factus eJigi potuit... ». — 5: « An ideo "secundum electionem", quia omnium Deus praeecius etiam futuram fidem vidit in Iacob nondum nato? Ut, quamvis non ex operibus suis iustificari quis­que mereatur, quandoquidem bene operari nisi iuetificatus non potest, tamen quia ex fide iustificat gentes Deus, nec credit aliquis niei libera voluntate, hanc ipsam fidei voluntatem futuram praevidens Deus etiam nondum natum prae­scientia, quem iustificaret, elegerit. Si igitur electio per praescientiam, praesci­vit autem Deus fidem Iacob: unde probas quia non etiam ex operibus elegit eum? Si propterea quia nondum nati erant et nondum aliquid egerant bonum seu malum, ita etiam nondum crediderat aliquie eorum. Sed praescientia vide­rat crediturum. Ita praescientia videre poterat operaturum... Quapropter unde ostendit apostolus non ex operibus dictum esse ‘maior serviet minori"? Si quoniam nondum nati erant, non eolum non ex operibus sed nec ex fide dictum est: quia utrumque deerat nondum eatis. Non igitur ex praescientia voluit intellegi factam electionem minoris, ut maior ei serviret... Quamobrem unde illa electio facta sit quaeritur... unde igitur? ». — 6: « Non ergo secundum ele­ctionem propositum Dei manet, sed ex proposito electio? id est, non quia inve­nit Deus opera bona in hominibus quae eligat, ideo manet propositum iusti- ficationis ipsius, sed quia illud manet ut iustificet credentes, ideo invenit opera quae iam eligat ad regnum caelorum. Nam nisi esset electio non essent electi, nec recte diceretur: " quis accusabit " etc. [Roma. VIII, 33). Non tamen electio praecedit iustificationem, sed electionem iustificat&o... Unde quod dictum est '* quia elegit nos Deus... " [Eph. I, 4) non video quomodo eit dictum, nisi prae­scientia. Hic autem quod ait ” non ex operibus, etc. ” non electione meritorum quae post iustificationem gratiaé proveniunt, sed liberalitate donorum Dei vo­luit intelligi, ne quis de operibus extollatur. " Gratia enim Dei... [Eph. Π, 8)

(17) Ibid., 7: « Quaeritur autem, utrum vel fides mereatur hominis iustifi-

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cationem, an vero nec fidei merita praecedant misericordiam Dei, sed et fides ip sa inter dona gratiae numeretur. Quia et hoc loco cum dixiseet " Non ex ope­ribus ” non ait "eed ex fide ”... ait autem sed ex vocan/te ’* (ve. 12). Némo enim credit, qui non vocatur. Misericore autem Deus vocat, nullis hoc vel fidei meriti* largiens; quia merita fidei sequuntur vocationem potius quam piaecedunt. ' Quomodo" enim " credent quem non audierunt et quomodo eie , (Rom. X, 14)? ". Nisi ergo vocando praecedat misericordia Dei, nec credere quiisquam potest, ut ex hoc incipiat iustificari et accipere facultatem bene operandi. Ergo ante omne meritum est gratia. Etenim " Christus pro impiis m ortus eet" (Rom. V, 6). Ex vocante igitur minor accepit, non ex ullis meritis operum suorum, ut maior ei serviret ».

(18) IbicL, 8; « Si autem verum est quod non ex operibus, et inde hoc pro­bat quia de nondum natis nondumque aliqaid operatis hoc dictum, unde nec ex, fide quae in nondum natis similiter nondum erat, quo merito Esau odio habe­tur antequam nascatur? Quod enim fecit Deus ea quae diligeret nulla quaestio est... Ut autem odisset Esau, nisi iniustitiae merito, iniustum est. Quod ei con­cedimus, incipit et Iacob iustitiae merito diligi...». — 9: « Vidit itaque aposto­lus quid ex Jiis verbis posset animo audientis vel legentis occurrere, statimque subiteit: " Quid ergo dicemus?... abeit ’* (ve. 14). Et quasi docens quomodo absit: " Moysi enim dicit ", inquit " mieerebor cui misertus ero et misericordiam piaestabo cui misericors fuero " (vs. 15; Exo. XXXIII, 19). .Quibus verbis solvit quaestionemr an potius arctius colligavit? Id ipsum est enim quod maxime mo­vet... cur haec misericordia defuit Esau, ut etiam ipee per illam esset bonus quemadmodum per illam bonus factus est Iacob. An ideo dictum est (vs. 15; Exo. XXXIII, 15) quia cui misertus erit Deus ut eum vocet, miserebitur eius ut credat, et cui misericors fuerit ut credat, misericordiam praestabit, hoc est laciet eum misericordem, ut etiam bene operetur? Unde admonemur nec ipsis operibue misericordiae quemquam oportere gloriari et extolli... Quod si eam (scii.: misericordiam) credendo ee meruisse quis iactat, noverit eum sibi prae- stitisee ut caederet qui miseretur inspirando fidem, cuius misertus est ut adhuc infideli vooaiionem impertiret. Iam enim discernitur fidelis ab impio. " Quid enim habes " inquit quod non accepisti. Si autem, etc. " » (I Cor., IV, 7).

(19) lbid., 10: « Recte quidem hoc sed cur haec misericordia subtracta est ab Esau ut non sic vocaretur ut et vocato inepiraretur fides et credene miseri­cors fieret ut bene operaretur? An forte quia noluit?... An quia nemo potest cre­dere nisi velit, nemo velle niei vocetur, nemo autem sibi potest praesta®» ut vocetur, vocando Deus praestat et fidem, quia sine vocatione non poteet quis- quam credere, quamvis nullus credat invitus?... nemo itaque credit non voca­tus; sed non omnis credit vocatus. " Multi enim eum vocati, pauci vero ele­cti *' (Λία/f. XX, 16): utique ii qui vocantem non contempserunt, eed credendo secuti sunt, volentes autem sine diufrio crediderunt. Quid est ergo qued sequitur " Igitur non volentis, etc. ? (vs. 16). An quia nec velle possumus nisi vocati, et nihil valet velile nostrum, nisi ut perficiamus adiuvet Deus? Opus est ergo velle et currere... Non tamen ” valentis neque currentis sed miserentis est Dei " ut quod volumus adipiscamur et quo volumus perveniamus. Noluit ergo Esau et non cucurrit; eed et si voluisset et cucurrisset, Dei adautorio pervenisset qui ei etiam velle et currere, rooando, praeetaret, nisi vocatione contempta reprobus fieret. Aliter enim Deus praestat ut velimus, aliter praestat quod voluerimus. Ut velimus enim et suum esee voluit et nostrum, suum vo-

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cando, nostrum sequendo. Quod autem. voluerimus solus praestat, id est posse bene agere et semper beate vivere. Vérumtamen Eeau nondum natus nihil horum posset veile seu nolle. Cur ergo in utero positus improbatus est? Redi- tur enim ad illae difficultates, non solum sua obscuritate sed etiam nostra tam moiita repetitione molestiores ».

(20) Ibid., 12: «Illa etiam verba si diligenter attendas "Igitur non vo­lentis " (ve. 16) non hoc apoetolus propterea tantum dixisee videbitur (jfuod <idiutorio Dei aid id quod volumus perveniamus, sed etiam ex illa intensione qua et alio loco dixit Cum timore et tremore... pro bona voluntate " (ΡΛ/λ II, 12-13). Ubi satis ostendit etiam ipsam bonam voluntatem in nobis operante Deo fieri. N*m ei pròpterea solum diètum est (vs. 16) quia voluntas hominis sola non sufficit ut iuste recteque vivamus nisi adiuvemur misericordia Dei, potest et hoc modo dici: Igitur non miserentie est Dei sed volentis est hominis, quia misericordia Dei sola non sufficit, nisi consensus nostrae voluntatis ad­datur. At illud manifestum est, frustra nos velle nisi Deus misereatur; illud autem nescio quomodo dicatur, frustra Deum misereri nisi nos velimus... At enim, quia non praecedit voluntas bona vocationem, sed vocatio bonam vo­luntatem propterea vocanti Deo recte tribuitur quod bene volumus, nobis vero tiibui non potest quod vocamur».

(21) Ibid. 13: « " Multi vocati pauci electi ” (Mant. XX, 16). Quod si ve­rum est et non consequenter vocationi vocatus obtemperat, atque ut non obtemperet in eius est positum voluntate, recte etiam dici potesi: Igitur non miserentis Dei, sed... An forte illi qui hoc modo vocati non consentiunt, possent allo modo vocati accomodare fidei voluntatem, ut et illud verum sit '' Multi vocati... ", ut quamvis multi uno modo vocati sint, tamen quia non omnes uno modo affecti sunt, illi soli sequantur vocationem qui ei capiendae reperiuntur idonei; et illud non minue verum sit (vs. 16) qui (scii.: Deus) hoc modo vocavit, quomodo aptum erat eis qui secuti sunt vocationem? Ad alios autem vocatio quidem pervenit; eed quia talis fuit qua moveri non possent, nec eam capere apti essent, vocati quidem dici potuerunt, sed non electi; et non iam similiter verum est: Igitur non miserentis Dei, sed volentis atque currentis est hominis " quoniam non potest effectus misericordiae Dei esse in hominie potestate... Illi enim electi qui congruenter vocati; illi autem qui non congruebant neque contemperabantur vocationi, non electi, quia non secuti, quamvis vocati ».

(22) Marrou (o. c., p. 3, cc. 4 e 5) ha segnalato molto bene tutto ciò che in Agoetino l'esegeta deve al grammaticus che eopravvisse in lui sempre. Sa­rebbe forse conveniente studiare ora i possibili punti di contatto tra l'esegesi biblica, nel periodo patristico, e quella giuridica: senza dimenticare che teo- logi e giurieti avevano ricevuto la steesa formazione durante il periodo degli studi secondari, sotto la guida del grammatico e del retore.

(23) Ibid. 14: « quie audeat dicere defuisse Deo modum vocandi, quo «tiam Esau ad eam fidem mentem applicaret voluntatemque coniungeret, in qua Iacob iuetificatus est? Quod si tanta quoque potest esse obstinatio voluntatis, ut contra .oannee modoe vocationie obdurescat mentis aversio, quaeritur utrum de divina poena sit ipsa duritia, cum Deus deserit non sic vocando, quomodo ad fidem moveri potest. Quis enim dicat modum, quo ei persuaderetur ut cre­deret, etiam omnipotenti defuisse? ». — 15: « '' Ergo cuius vult miseretur et quem vult obdurat" (vs. 18); cum superius non utrumque dictum sit. Neque enim quomodo dictum est " Non volentis etc. " (vs. 16), sic etiam dictum est;

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non ηolentie neque contemnentis, eed obdurantis eet Dei. Unde datur intelligi, quod infra utrumque posuit: " Ergo etc ’* (vs. 18) ita sententiae superiori posse congruere ut obduratio Dei eit nolle mrieereri; ut, non ab illo irrogetur aliquid quo eit homo deterior, eed tantum quo sit melior non erogetur. Quod si fit nulla distinctione meritorum, quis non erumpet in eam vocem, quam eibi obie. cit «apostolus "Dicis itaque. . ' (vs. 19)? Conqueritur enim Deus #saepe de ho­minibus... quod nolint credere et re£te vivere ».

(24) Ibid., 16: Queeto è proprio « alicuius occultae atque ab humano mo­dulo investigabidie aequitatis, quae in ipsis rebue humanje terrenieque contra- ctibus animadvertenda eet in quibus nisi supernae iustitiae qtiaedam impres­sa vestigia teneremus, numquam in ipeum cubile ac penetrale sanctissimum atque caetieeimum spiritalium praeceptorum nostrae infirmitatis suspiceret at­que inhiaret intentio... <juie non videat iniquitatie argui neminem poeee, qui quod sibi debetur exegerit? nec eum certe qui quod ei debetur donare volue­rit? hoc autem non ee6e in eorum qui debitores sunt, sed in eius cui debetur arbitrio? Haec imago vel. ut supra dixi, vestigium negotiie hominum de far

etigio summo aequitatie impressum eet. Sunt igitur omnes homines, quando­quidem ut apostolus ait " in Adam omnes moriuntur " (/ Cor., XV, 22), a quo in universum genus humanum origo ducitur offensionis Dei, una quaedam massa peccati suppiicium debene divinae eummaeque iuetitiae, quod sive exigatur eive donetur, nulla eet iniquitas. A quibus autem exigendum et qui­bus donandum eit, superbe judicant debitoree: quemadmodum conducti ad il- lem vineam iniuste indignati sunt (cfr. Matth. XX, 11)... Itaque huiue impuden­tiam quaestionis ita retundit Apostolus: " O homo, tu quis es, etc/' (vs. 20)... Sic enim reepondet Deo cum ei dieplicet quod de peccatoribus conqueritur Deus, quasi quemquam Deue peccare cogat, si tantummodo quibusdam peccan­tibus misericordiam iuetificationis suae non largiatur et ob hoc dicatur obdu­rare peccantes quosdam quia non eorum mieeretur, noil quia impellit ut pec­cent. Eorum autem non mieeretur, quibue mieericordiam non eeee praebendam aequitate occultissima et ab humanis sensibus remotissima iudicat. « Inscruta­bilia ’’ enim eunt " iudicia eius, etc. ’ (Ram. XI, 33). Conqueritur autém iuste de peccatoribus tamquam de hie quoe peccare ipee non cogit. Simul etiam ut hi quorum miseretur hanc quoque habeant vocationem,- ut dum conqueritur Deus de peccatoribus compungantur corde, atque ad eius gratiam convertantur. Iuste ergo conqueritur et misericorder ». Sul concetto di .aequilas v. P. Bon- fante, Storia del diritto romano, 3a ed., Milano 1923, I, p. 370; id., Istituzioni di dir. rom., 8a ediz., Milano 1925, p. 7. Non ho trovato citato questo paeeo di Agostino, pure significativo anche dal punto di vieta della storia dei concetti giuridici, nel lavoro di M. Roberti, in San t Agostino, Pubblicazione commemo­rativa del X V centenario della sua mortef Milano 1931 (Rivista di filosofia neo­scolastica, suppiem. spec. al voi. XXIII).

Vorrei anche richiamare l'attenzione sullo stile alquanto più etudiato e 6uH’andamento oratorio almeno dei primi periodi del par. 16 in confronto del resto dell'opera. Agoetino li ha certo meditati e studiati più a lungo, foree anche preparati prima. E’ anche questa considerazione che m'induce a chie­dermi se il suo modo di argomentare in queeta quaestio non sia stato adottato ad arte.

(25) V. sopra, p. 146 e n 6.

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(26) Ibid., 17: « Sed si hoc movet quod voluntati eius nulJue reeietit quia cui vult eubvenit et quem vult deserit, cum et ille cui eubvenit et ille queam deserit ex eadem massa sint peccatorum... ei hoc ergo movet, ” O homo, etc. ’’ (vs. 20)... Eo ipso fortaeee 6atie ostendit se homini carnali loqui, quoniam hoc limue dpee eignificat, unde primus homo formatus est: et quia " omnee... in Adam moriuntur ” (/ Cor. XV, 22) unam dicit esse conspereionem omnium. Et quamvis alhià vae fiat in honorem aliud in contumeliam, tamen et ilihid quod fil in honorem nece6ee eet ut carnale e6se incipiat atque inde in 6piritualem consurgat aetatem. Quandoquidem iam in honorem facti erant et in Chiieto iam nati erant, eed tamen quoniam parvuloe adhuc alloquitur etiam ipsos carnales eppeìlat (/ Cor. III, 1-2)... Quamvis ergo carnales eos esse dicat, tamen iam in Chrielo natos et in illo parvulos et lacte potandoe... Ergo iam vaea erant in honorem facta quibus adhuc tamen recte diceretur " O homo etc. ”. Et ei talibus recte dicitur, multo rectiue eie qui vel nondum ita regenerati eunt, vel etiam in contumeliam (acti ».

(27) Ibid., 18: « Qui nodus ita solvitur, 6i intellegamue omnium creatura­rum esse artificem Deum. Omnis autem creatura Dei est et omnis homo, in quantum homo est, creatura eet, non in quantum peccator est. Est ergo creato* Deus et corporis et animi humani. Neutrum horum maJum et neutrum odit Deue; nihil enim odit eorum quae fecit. Eet autem animu6 praestantior corpo­re, Deas vero et animo et corpore, utnusque effector et conditor, nec odit in homine nisi peccatum. E6t autem peccatum hominis inordinatio atque perver­sitas, id est a praeetantiore Conditore aversio et ad condita inferiora conver­sio... hominee Dei conditione, peccatoree propria voluntate... Odit enim Deue impietatem. Itaque in aliie eam punit per damnationem, in aliis adimit per iu- stificationem, quemadmodum ipse iudicat esee faciendum illis iudiciis inscru­tabilibus. Et quod ex numero impiorum quce non lustificat facit vaea in con­tumeliam, non hoc in eis odit quod facit; quippe, in quantum impii sunt, execrabiles eunt, in quantum autem vaea fiunt, ad aliquem ueum fiunt, ut per eorum ordinatas poenas vaea quae fiunt in honorem proficiant ... Odit enim in eie impietatem, quam ipse non fecit ».

(28) Ibid., 19: « ” Quod et vocavit nos inquit ” non solum ex Iudaeis sed etiam ex gentibus" (vs. 24), id est vasa misericordiae quae praeparavit in gloriam. Non enim omnee Iudaeoe, eed ex Iudaeis; nec omnes omnino hominee gentium eed ex gentibue. Una est enim ex Adam masea peccatorum et impio­rum, in qua et ludaei et Gentes remota gratia Dei ad unam pertinent consper­sionem... et ex Iudaeis eunt alia vasa in honorem alia in contumeiliam sicut ex Gentibus: sequitur ut ad unam con6peri6onem omnee pertinere inteMigantur...». — 20: « ” et immutavit viae eourm ” (Eccles., XXXIII, 10), ut iam tamquam mortales viverent. Tunc facta e6t una massa omnium, veniene de traduce pec­cati et de poena mortalitatis, quamvis Deo formante et creante quae bona eunt. In omnibus est enim epecie6 et compago corporie in tanta membrorum con­cordia, ut inde apostolus ad charitatem obtinendam similitudinem duceret; in omnibus est etiam spiritus vitalis terrena membra vivificans, omnisque natura hominis dominatu animae et famulatu corporis conditione mirabili temperata; 6ed concupiscentia carnalis, de peccati poena iam regnans, universum genus humanum tamquam totam et unam conspersionem originali reatu in omnia per. manante confuderat ». „

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(29) CJfr. ibid , 12 cit. alla n. 20.(30) Cfr. c. I, n. 24.(31) A d Simplic., I, qu. 2, 21: «Nulla igitur intentio tenetur apostoli, et

omnium iustifiQatorum per quoe nobis intellectue gratiae demonstratus eet, nisi ut. "qui gloriatur in Domino gìorietur ". (/ Cor., I, 31). Quis enim discutiet opera Domini, ex eadem conspersione unum damnantis alterum iustificantis? Liberum voluntatis arbitrium plurimum valet, immo vero est quidem, sed in venumdatis sub peccato quid valet? '' Caro inquit '' concupiscit etc. " [Gal. V, 17). Praecipitur ut reGte vivamus, hac utique mercede proposita ut in aeternum beate vivere mereamur, sed quis potest recte vivere et bene operari, nisi iustificatus ex fide? Praecipitur ut credamus... sed quis potest credere nisi aliqua vocatione, hoc est aliqua rerum testificatione tangatur? Quis habet in potestate tali viso attingi mentem suam, quo eius voluntas moveaiur ad fidem? Quis autem animo amplectitur aliquid quod eum non delectat? aut quis habet in potestate ut vel occurrat quod eum delectare poseit, vel delectet cum oc­currerit? Cum ergo nos ea delectant quibus proficiamus ad Deum, inspiratur hoc et praebetur gratia Dei, non nutu nostro et industria aut operum meritis comparatur: quia ut sit nutus voluntatis, ut sit industria studii, ut sint opera caritate ferventia, ihe tribuit, ille largitur. Petere iubemur ut accipiamus et quaerere ut inveniamus et puleare ut aperiatur nobie. Nonne aliquando ipsa oratio nostra sic tepida est, vel potius frigida et paene nulla, immo omnino in­terdum ita nulla, ut neque hoc in nobis cum dolore advertamus? quia si vel hoc dolemus, iam oramus. Quid ergo aliud ostenditur nobis, nisi quia et (petere et quaerere et pulsare ille concedit, qui ut haec faciamus iubet? ».

(32) Ibid., 22: « Quod si electio hic sit aliqua, ut eie intelligamus quod dictum est " Reliquiae... ealvae factae sunt " (I s a X, 22-23, ofr. vs. 27) non ut iustificatorum electio fiat ad vitam aeternam, sed ut eligantur qi% iuetificentur, certe ita occulta est haec electio ut in eadem conspersione nebis prorsus ap­parere non possit; aut si apparet quibusdam, ego in hac re infirmitatem meam fateor... Restat ergo ut voluntates eligantur. Sed voluntas ipsa, nisi aliquid occurrerit quod delectet atque invitet animum, moveri nullo modo potest: hoc autem ut occurrat non est in hominis potestate... Et tamen quid dicemus? " Numquid iniquitas est a<pud Deum? " (vs. 14) exigentem a quo placet, do­nantem cui placet? Qui nequaquam exigit indebitum, nequaquam donat alie­num... Quare lamen huic ita et huic non ita? " O homo, tu quis es? " (vs. 20).. Debitum si non reddis, habes quod gratuleris; si reddis, non habes quod que­raris. Credamus tantum, etsi capere non valemus, quoniam qui universam creaturam et spiritualem et corporalem fecit et condidit, omnia in numero et pondere et mensura disponit (Sap., XI, 21). Sed inscrutabilia sunt iudicia eius et investigabiles viae eius (Rom., XI, 33). Dicamus alleluia et collaudemus canticum et non dicamus: quid hoc? vel quid hoc? Omnia enim in tempore suo creata suni (Ecclus. XXXfrX, 19 e 26) ».

(33) Cfr. c. IV, nn. 5 e 19.

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V II

Intorno a quel suo cambiamento di opinione, Agostino stesso ci ha lasciato una serie di dichiarazioni : testimonianze che dob­biamo considerare attentamente.

Un primo gruppo comprende luoghi delle Retractationes in cui egli segnala passi delle sue prime opere, che i pelagiani hanno addotto, o potrebbero addurre, in loro favore. Qui per lo più Ago­stino o cerca di dimostrare che i pelagiani s’ingannano, e talvolta rimanda il lettore ad altri suoi scritti, o fa osservare che allora la loro eresia non era ancor sorta e quindi egli non aveva da pre­occuparsi di combatterla, specialmente in opere dirette soprattutto contro i manichei (1). In sostanza, egli si sforza di dare al lettore— e a prima vista vi riesce — l’impressione che Pelagio lo citi abusivamente o lo abbia mal compreso e che in sostanza egli, Ago­stino, non abbia mai mutato opinione. Ma chi tenga presente lo scopo primo e il carattere polemico delle Retractationes, specie nei primi capitoli, non può dare a questo gruppo di dichiarazioni un peso prevalente, contro le altre.

Ché in altri testi, Agostino ammette francamente di avere cambiato e invita anzi i suoi lettori a fare, come lui, ogni sforzo per intendere la Scrittura sempre più e meglio. Nel De praedesti­natione sanctorum (2) egli vuol dimostrare che la fede per cui si diventa cristiani è dono di Dio. Coloro i quali dicono che da Dio la fede riceve solo un incremento, restano pelagiani, anzi dell’opi­nione che Pelagio stesso dovette rinnegare nel concilio di T)io- spoli ; se l’inizio della fede è nostro e da Dio essa viene solo aumentata, questo è la retribuzione di un merito nostro. Ma poco

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dopo, Agostino riconosce di avere un tempo sostenuto anch’egli le stesse idee : che cioè la fede non fosse preceduta dalla grazia ma dalla sola predicazione del Vangelo, libero l’uomo di accon­sentirvi o no. Tale opinione egli ha esposto in varie opere, scritte prima de! suo episcopato, e tra queste l'Expositio quarundam pro­positionum. che i pelagiani ora si compiacciono di citare. Ma questo errore è stato corretto nelle Retractationes, perchè Agostino è stato indotto a ricredersi, riflettendo intorno a un passo di S. Paolo stesso ( I Cor., IV, 7) che S. Cipriano ha citato nei suoi Testi­monia, in un capitolo intitolato De nullo gloriandum, quando no­strum nihil est : mostrando con ciò di pensare che la fede, quindi la giustificazione e la salvezza, è dono di Dio (3). I suoi avver­sari sono dunque rimasti a questo punto : ma se piuttosto che di leggere i suoi libri per trovare in essi argomenti a loro favore, si fossero preoccupati di procedere più innanzi neH’intelligenza della Bibbia e di seguire negli scritti di Agostino i segni del suo pro­gresso spirituale, avrebbero trovato ch’egli ha risolto la questione nel primo dei due libri a Simpliciano, di cui ha pure parlato nelle Retractationes (4).

Nel De dono perseverantiae, Agostino ammette pure di avere mutato opinione, quanto alla condizione degli infanti (5). Egli ricorda altresì come la sua dottrina della grazia si trovi esposta anche in opere precedenti di molto l’eresia pelagiana, come le Confessioni, e soprattutto VAd Simplicianum, in cui per la prima volta ha mostrato di aver compreso la questione più chiaramente (6).

La redazione del De dono perseverantiae è di non molto po­steriore a quella delle Retractationes (7). In queste, a proposito dellTExpositio quarundam propositionum, Agostino dichiara che la dottrina ivi esposta efa ancora imperfetta e insufficiente, perchè egli :non aveva ancora approfondito l’elezione della grazia e non si era preoccupato di porsi il problema se la misericordia di Dio segua e rimuneri la fede dell’uomo ovvero la preceda e la causi (8). Ma il luogo che concerne VAd Simplicianum è più importante di tutti, perchè ad esso ci riconducono le testimonianze relative a quest’opera che abbiamo esaminato finora (9). Ora, a questo pro­posito Agostino dichiara espressamente ch’egli cercò bensì di sal­vare il libero arbitrio, ma dovette venire al pieno riconoscimento del valore della grazia divina ; e di non aver potuto conclu­

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dere se non riconoscendo la verità di quelle parole di San Paolo (/. Cor. IV, 7) che S. Cipriano stesso aveva fatto sue e conden­sato nel titolo di un capitolo dei Testimonia (10).

Se esaminiamo questa serie di dichiarazioni, vediamo che Ago­stino tende generalmente a darci l’impressione che quel versetto, la cui considerazione ha illuminato la sua mente, è stato da lui ret­tamente inteso in quanto contenuto nei Testimonia ciprianei, e in un capitolo dal titolo così significativo. Tuttavia, una volta (11) egli allude soltanto alle parole dell’apostolo, tacendo di Cipriano. Con questo è in singolare contrasto il passo precedente (12), in cui il massimo rilievo è dato invece all’autorità del vescovo di Cartagine e il versetto paolino indicato soltanto come una delle testimonianze da lui addotte ; mentre di nuovo nelle Ritrattazioni è l’apostolo che viene in prima linea e l’autorità di Cipriano è invocata solo come sussidiaria.

Un caso analogo ci è presentato dal De dono perseverantiae. Qui Agostino ricorda che, molti e molti anni prima che l'eresia di Pelagio sorgesse, un potente antidoto contro di essa era stato preparato appunto da S. Cipriano, nel De dominica oratione su cui egli si sofferma a lungo ; pei poi concludere che, se non vi foa sero altre prove, il Pater noster basterebbe da solo a dimostrare vera la sua dottrina della grazia (13).

Ma all’autorità di Cipriano, e sempre a proposito di questo versetto paolino, Agostino ha già ricorso in un’opera precedente, il Contra duas epistolas pelagianorum. Pelagio, egli osserva, .ha detto di voler fare per Romano ciò che Cipriano ha fatto per Quirinio con i Testimonia. Ed ecco Agostino passare allora in ras­segna l’opera del vescovo martire, soffermandosi sul De opere et eleemosynis, sul De mortalitate, sul De bono patientiae, sull’ep. 64, e sul De dominica oratione; verso la fine, egli ricorda i Testimonia, indicando il titolo del capitolo che serve a confutare Pelagio, e nel quale Cipriano ha inserito il versetto della Prima epistola ai Corinzi (14).

Molte altre volte, invece, il medesimo versetto è usato da Ago­stino, senza la minima menzione di Cipriano (15) : il quale, anzi, nella polemica antipelagiana è ricordato da Agostino come una autorità in suo favore per la prima volta appunto nel Contra duas epistolas pelagianorum. Per contro, nel De dono perseverantiae,

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oltre i luoghi che abbiamo già esaminati. Agostino cita una volta I Cor. I, 31 e un’altra I Cor. IV, 7, in entrambi i casi ricordandoi Testimonia ciprianei; ma almeno una volta questi ultimi sono citati senza allusione a nessun versetto di S. Paolo, bensì congiun­tamente con un passo di S. Ambrogio (16). Entrambi questi tracta­tores excellentissimi divinorum eloquiorum predicarono la grazia di Dio e insieme esortarono ad adempiere i precetti divini (17).

Questo modo di designare gli esegeti sulla cui autorità Ago­stino si appoggia ci conduce a un’altra serie di tèstimonianze. Nelle Retractationes, a proposito dell 'Expositio quarundam propositio­num, Agostino avverte che egli aveva interpretato Rom. VII, 14 segg. come parole dette dall’apostolo, non in persona propria, ma come sotto le spoglie dell’uomo ancora nello stadio sub Lege. In seguito però, dopo aver letto commentatori di grande autorità, com­prese che quelle parole potevano essere riferite anche all’apostolo stesso : dottrina che Agostino ha esposto nei suoi scritti antipe- lagani. £ ’ notevole qui un certo sforzo che Agostino fa per mo­strare che la dottrina della grazia è in certo qual modo indipen­dente dall’interpretazione dei versetti su menzionati, e si può ritro­vare anche ntW'Expositio quarundam propositionum; ma subito dopo egli confessa, come abbiamo visto, che a quel tempo non si era ancora reso conto àt\Velectio gratiae (18). La medesima os­servazione circa il suo primo modo d’intendere il c. VII della lettera Ai Romani Agostino fa a proposito del De diversis quaestionibus LXXXIII e anche della prima quaestio dell’Λ<2 Simplicianum (19). Non è il caso di sottilizzare sulla diversità dell’indicazione crono­logica : « dopo » 1 'Expositio quarundam propositionum, e « molto dopo » la prima quaestio àtW'Ad Simplicianum.

Ma il cambiamento non riguarda soltanto il c. VII di Romani, bensì, come è naturale, anche Galati, V, 17. E nelle Ritrattazioni stesse Agostino ha cura di segnalarlo (20).

Queste non sono tuttavia le sole dichiarazioni che Agostino ci fa intorno al suo mutato modo d’interpretare quei passi. Nel Contra Iulianum (21) egli considera l’osservazione del suo avver­sario. Questi lo accusa di avere inteso male tutto il passo Rom. VII, 14-25. Al che Agostino- replica che nell’interpretarlo come fa ora, egli non è solo. Anzi, prima non lo aveva capito bene e gli sembrava assurdo che l’Apostolo, essendo spirituale, potesse attri-

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buire a se stesso l’essere carnale. Soltanto più tardi, egli aderì all’opinione di interpetri più acuti e alla verità stessa, che gli si manifestò chiara. E così fu indotto a intendere il passo in questione allo stesso modo di Ilario, Gregorio, Ambrogio e gli altri santi e illustri dottori.

Non solo, ma in quel medesimo Contra duas epistolas pelagia­norum a cui anche la considerazione del gruppo di testimonianze precedente ci ha riportato, Agostino ammette ugualmente di avere cambiato opinione riguardo al senso del medesimo passo di Ro­mani. Senonché, qui, non è l’influsso di alcun maestro che lo h? condotto a una migliore intelligenza, bensì una riflessione più ma­tura intorno al testo medesimo (22).

***

Insomma, la menzione o il riconoscimento di un cambiamento avvenuto nel suo modo d ’interpretare San Paolo, non appare in nessuna opera della polemica antipelagiana anteriore al Contra duas epistolas pelagianorum; in questo, troviamo le prime ammis­sioni di tal cambio, e insieme i primi richiami all’autorità di S. Ci­priano; nelle Retractationes è ricordato ancora Cipriano, insieme con alcuni esegeti non specificati ; nel De dono perseverantiae, alla autorità di Cipriano si affianca per la prima volta quella di San- t’Ambrogio; nel Contra lulianum, Cipriano non è più menzio­nato, ma in cambio, accanto ad Ambrogio, troviamo ora Ilario e Gregorio, cioè il Nazianzeno (23). E’ quindi soltanto negli scritti più recenti contro i pelagiani, che Agostino, in parte punto dai rimproveri che gli facevano gli avversari — e di cui dovette turbarlo, non tanto l’accusa d’incoerenza (contro la quale si difende asserendo il suo buon diritto a progredire nell’approfondimento del significato delle Scritture), quanto quella di aver introdotto innovazioni, sco­standosi da quella che secondo i pelagiani stessi era la dottrina tradizionale; è in questi ultimi scritti che Agostino sente il bisogno di mettere in chiaro che le migliori autorità sono con lui, e che anzi il suo cambiamento di opinione fu causato dalla lettura dei loro commenti (24).

Ora tutto ciò è pienamente conforme al modo di procedere di Agostino in questa sua polemica, il quale era già noto, ma ha avuto una nuova dimostrazione da ricerche recenti. Il Courcelle (25)

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ha provato che Agostino si mise a studiare il greco (o, se si vuote, a ristudiarlo, ma questa volta seriamente) qualche tempo prima del 416, e che di una sua conoscenza diretta delle opere dei Padri greci — Gregorio di Nazianzo, Basilio di Cesarea e Giovanni Cri­sostomo — non si trovano segni se non a partire dal Contra lalia- num (o, per le Omelie del secondo sull 'Hexaemeron, dal De Genesi ad litteram). Di fronte ai critici dei suoi commenti, e soprattutto ai suoi avversari nell’aspra polemica attorno alla Grazia (26), i quali erano sempre pronti a corroborare le loro asserzioni con la autorità di numerosi scrittori, Agostino, per evitare la taccia sia d’ignorante sia di novatore ed eretico, dovette adattarsi ad impie­gare lo stesso metodo ed a combattere anch'egli a colpi di cita­zioni. Ma quel modo di discutere era così poco consono all’indole di Agostino, che egli sembra seguirlo solo di malavoglia, e qualche volta reagisce : come quando, nel momento stesso in cui ammette di essersi arreso al parere dì interpreti più di lui dotti e sagaci, soggiunse : vel potius ipsi veritati (27).

Agostino, in altri termini, non ha dubbi quanto all’ortodossia delle proprie vedute teologiche, né sente il bisogno di andare cer­cando qua e là conferme della loro aderenza alla tradizione e ai sentire della Chiesa. Gli basta il fatto ch’esse si fondano su una interpretazione corretta delle Scritture, la quale, egli pensa, se esatta, coincide con ciò che la Chiesa universale ritiene ; e, se de­ficiente o superficiale in qualche punto, può essere corretta me­diante uno studio più approfondito delle Scritture stesse. Per di più, in Occidente, fino a Pelagio, nessuno ha messo in dubbio la crtodossia delle dottrine che egli, Agostino, ha esposto in nume­rosi scritti ; ora, Pelagio e i suoi amici, specialmente Giuliano, invocano in loro aiuto l’autorità di scrittori greci; ma Agostino ribatte che i Latini, gli Occidentali, fanno anche loro parte di quella Chiesa che è universale e la cui fede è una sola. Tuttavia, Agostino avverte la convenienza di verificare se gli autori su cui si appog­gia Giuliano dicono veramente ciò che questi vuole che essi dicano, e di mostrare che effettivamente i migliori esegeti sono d ’accordo con lui, e contrari a Pelagio.

Da questo contrasto deriva quella discrepanza tra le varie af­fermazioni di Agostino, che è facile rilevare, e crea per lo storico l ’obbligo di fare almeno un tentativo per vedere quale, tra questi

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ricordi, sia il più fedele al vero. Ora, in questo esame, conviene tener presente che, nei primi tempi della polemica, finché cioè Agostino non sentì il bisogno di ricorrere anche lui all’autorità e di giustificare il suo cambiamento di opinione, egli evidentemente non avvertiva la necessità di parlarne, e quindi di fare uno sforzo per rammentare com’erano andate precisamente le cose. Insomma, la menzione di uno scrittore nelle opere tardive non garantisce che Agostino lo avesse letto già intorno al 395-96, come il silenzio dei primi scritti antipelagiani non prova che Agostino venisse a cono­scere lo stesso scrittore soltanto tardi, nel corso della polemica. E’ impossibile e assurdo, anche in vista di quanto abbiamo notato, cioè degli sforzi che Agostino fece dopo l’ordinazione sacerdotale per conoscere meglio la letteratura ecclesiastica (28), escludere che la nuova interpretazione di San Paolo nella qu. 2 del primo libro Ad Simplicianum potesse essergli suggerita da qualche lettura.

Naturalmente, quando si parla d’influssi di questo genere, non s’intendono come una forza che avrebbe spinto Agostino su una nuova direzione, in maniera quasi necessaria. Si tratta bensì di determinare se — e, in quanto possibile, fino a che punto — tra gli autori che Agostino ha senza dubbio letto e apprezzato, ve ne sia quaicuno eh’ egli abbia conosciuto prima di redigere quella quaestio II e il cui modo d’intendere San Paolo presenti affinità di pensiero, e magari verbali, con lo scritto agostiniano, tali da indurci a considerare possibile o probabile che la lettura di questi autori contribuisse a indurlo a riesaminare le dottrine da lui pre­cedentemente accolte e sostenute, ad approfondire lo studio dei problemi che gli stavano a cuore o à modificare le proprie opinioni.

Ora, degli scrittori che Agostino nomina, Gregorio va senza altro escluso dalla nostra indagine, perché egli lo conobbe soltanto molto più tardi del momento in cui il cambio si produsse. Sant’Am­brogio è menzionato da lui due volte (29), ma, una, in maniera puramente generica e l’altra, citando un passo, la cui relazione con l 'Epistola Ai Romani è, a dir poco, assai remota, e che perciò è probabile si presentasse alla mente di Agostino soltanto allora.

Restano così san Cipriano e « Ilario » — ossia l’Ambrosiastro— ai quali indagini e discussioni moderne, avvalorate, come ve­dremo, da altre dichiarazioni di Agostino, hanno fatto aggiungere Ticonio. Ma non dobbiamo dimenticare che Agostino stesso distingue

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tra il suo mutamento d'opinione relativo al c. VII e quello che riguarda il c. IX della stessa epistola Ai Romani. Non si vuole con questa osservazione ignorare o ridurre il nesso esistente tra questi due capitoli (e, naturalmente, Calati, V, 17) e la loro inter­pretazione : anzi, va tenuto presente che il nuovo modo d’inten­dere l’uno fece sentire il suo influsso sull’interpretazione dell’altro. Ora, col mettere in rlievo che la prima manifestazione del suo nuovo orientamento è nella qu. 2 di Ad Simplicianum I (e un confrónto di essa con la qu. 1 dimostra che l’asserzione è esatta), Agostino sembra voler indicare altresi che il suo cambiamento di opinione fu causato appunto dalla riflessione intorno a Romani IX. E a pro­posito di questo capitolo, Agostino segnala anche l’influsso che circa l’interpretazione di quel capitolo esercitarono su lui passi come : I Cor. I, 31 e specialmente IV, 7.

Veniamo ora all’Ambrosiastro. E’ noto come l’aver trovato nel Contra duas epistolas pelagianorum (30) citato, sotto il nome di Ilario, un passo del Commento dell’Ambrosiastro a Rom., V, 12, e l’avervi trovato quel termine massa, che si legge nella qu. 2 di Ad Simplicianum I, portò il Buonaiuti a presentare la teoria, che ha provocato una lunga controversia. Secondo lui, l’impressionante somiglianza verbale e ideologica tra quei due passi basta a pro­vare la dipendenza di Agostino dall’Ambrosiastro, al quale l’afri­cano avrebbe attinto la sua dottrina del peccato originale e per conseguenza quella della Grazia. Inoltre, l’origine remota di queste dottrine (soprattutto la caratteristica concezione agostiniana del pec­cato d’origine) dovrebbe cercarsi in teorie dualistiche, ossia in ul­tima analisi, nel manicheismo (31).

Buonaiuti però non si pose il problema della data di composi­zione della qu. 68 del De diversis quaestionibus LXXXlll o dovette crederla contemporanea — per lo meno idealmente — &\\’Ad Sim- plicianum, mentre notò la differenza tra questo, da un lato, e dal­l'altro, il De libero arbitrio e YExpositio quarundam propositionum. E quando il Casamassa gli obiettò, indicandogli il passo di questa ultima (32), in cui pure si legge lo stesso termine massa, replicò' considerandolo come un commento fatto « in modo del tutto adia- foro e genericamente edificativo ». Il Casamassa faceva inoltre no­tare che neWExposìtio la parola massa è usata nel commentare Rom. IX, 21, e che era improbabile che l’interpretazione di questo passo

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potesse influire su quella di V, 12. Ma non ne risulta colpita la tesi della dipendenza di Agostino dall’Ambrosiastro, il quale usa quel termine anche nel commento a Rom. IX, 21 (33).

Ma le difficoltà contro cui urta la tesi del Buonaiuti sono prin­cipalmente di altro ordine, e non lievi. Infatti, la stessa maniera di pensare dell’Ambrosiastro esclude, che egli possa aver provo­cato, col suo influsso, quel cambio che abbiamo osservato in Ago­stino e che egli stesso più tardi riconobbe di aver fatto. Così, per esempio, è vero che le Quaestiones Veteris et Novi Testamenti furono per molto tempo attribuite ad Agostino ; ma, prima ancora che fossero riconosciute come indubbiamente opera dell’Ambrosia- stro, critici di fine discernimento teologico, quali i Maurini, respin­gevano tale attribuzione in base al fatto che esse seguono un indi­rizzo teologico diverso dall’agostiniano, e anzi vi si scorge una certa tendenza al pelagianesimo (34). E quanto al Commento alle epi­stole paoline, sarebbe strano che l’opera la quale avrebbe suggerito ad Agostino le posizioni teologiche da lui strenuamente — e non senza qualche esagerazione — difese contro i pelagiani, fosse la me­desima che, secondo ritengono vari critici (35), venne utilizzata dallo stesso Pelagio. E infatti, nel passo dell’Ambrosiastro citato nel Contra duas epistolas pelagianorum, è possibile bensì trovare la trasmissione del peccato di Adamo al genere umano nel senso in cui la sostiene Agostino, ma solo a patto di mantenere il passo in questione separato dal contesto. Noi abbiamo infatti veduto qual è il vero pensiero dell’Ambrosiastro ; e abbiamo altresì consta­tato che esiste un’affinità tra esso e quello di Agostino, espresso ne\VExpositio quarundam propositionum e in altri scritti ante­riori all’ d Simplicianum. Ciò che non permette più di accettare la teoria del Buonaiuti è dunque il fatto che con essa rimane inspie­gato e inspiegabile come mai, se fu l’influsso dell’Ambrosiastro quello che determinò un cambiamento radicale e profondo in Ago­stino, di tale influsso si trovano segni indubbi in opere che pre­cedono quel cambiamento. La difficoltà di attribuire l’abbandono di certe posizioni esegetiche e teologiche proprio all’esempio di un autore che le mantiene, mi pare insormontabile.

Ed- eccone una riprova. Abbiamo visto l’importanza che Ago­stino. parlando del suo cambiamento, attribuisce a I Cor., IV, 7. Ci si spetterebbe di trovare questo passo, o citato daN’Ambrosiastro

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nel commento a Romani, o per lo meno interpretato nel senso in­dicato da Agostino. Invece, non lo troviamo, e nel commento dello Ambrosiastro a I Corìnzi Agostino non potè trovar nulla che lo invitasse a riflettere intorno alla Grazia, perchè l’esegeta romano non ricava da quel versetto assolutamente nulla a questo propo­sito, e si limita a commentarlo in stretto riferimento alla situazione di Corinto (36). Inoltre, il nuovo modo d’intendere Ai Romani, VII ha tratto con sè, come conseguenza logica e naturale, una interpretazione nuova, e analoga, anche di Gai. V, 17-18. Ora, su questi versetti abbiamo non una, ma due spiegazioni dell’Ambro- siastro : nel Commento a questa epistola, e in una delle Quae­stiones della prima edizione (37), soppressa nella seconda, probabil­mente perchè resa superflua dal Commento stesso : il quale del resto non contiene nulla che non sia già nella Quaestio. Vi leg­giamo una difesa del libero arbitrio, e un esame di entrambi questi scritti ce li mostra del tutto conformi a quel modo di pensare del- l’Ambrosiastro, che abbiamo esaminato e trovato simile a quello di Agostino in quei suoi primi commenti, o abbozzi di commenti, a S. Paolo, i quali contengono le dottrine respinte appunto nella qu.2 dèi primo libro a Simpliciano.

Ciò non significa che si debba negare ogni e qualsiasi influsso dell’Ambrosiastro su Agostino. Soltanto, l’azione esercitata da quello sull’africano va posta, come si è detto, non immediatamente prima di quella che potremmo chiamare crisi definitiva di Agostino, così da potersi considerare come causa di questa, bensì in un momento alquanto anteriore. AH’Ambrosiastro, Agostino non fu direttamente debitore né della teoria della trasmissione del peccato originale nel pieno senso del termine, né delle altre dottrine connesse con auesta. Gli venne però da quel commentatore un aiuto, e soprat­tutto un impulso a studiare più seriamente il pensiero di S. Paolo e ad esaminare il problema dell’elezione dei giusti in relazione con la prescienza di Dio. La soluzione proposta dall’Ambrosiastro fu accolta da. Agostino per qualche tempo, ma poi venne da lui criticata e abbandonata. Fu pure questa, però, una tappa nel cammino che doveva condurlo alla formulazione della sua teologia caratteristica e definitiva. Può anche darsi, che quella metafora della massa facesse impressione sulla vivid? fantasia di Agostino : ma soltanto più tardi egli ne ricavò tutte le conseguenze (37 bis).

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E più tardi ancora. Agostino ricordò una volta dove aveva ietto per la prima volta quel termine che lo aveva vivamente im­pressionato. E’ cosa degna di nota, infatti, che, mentre nella po­lemica antipelagiana Agostino seguita a citare S. Ambrogio e S. Ci­priano, e anche S. Ilario, pure di questo passo di « Ilario *> egli faccia menzione una volta sola. E’ insomma più facile pensare che Agostino rammentasse queste parole di « Ilario » in un momento nel quale aveva formulato già tutte le sue dottrine, che non l’am­mettere che queste, e tutto il suo nuovo orientamento fossero effetto di una lettura del commento dell’Ambrosiastro a Romani.

E veniamo a Ticonio (38). Che questo strano scrittore abbia esercitato un notevole influsso su Agostino, è cosa nota, per am­missione di quest’ultimo (39), relativamente all’esegesi biblica, e in base a indagini di studiosi moderni (40) i quali hanno posto in rilievo questo influsso relativamente alle idee ecclesiologiche ed escatologiche, specie per l’interpretazione del millennio. Ora. nel De civitate Dei, Agostino confessa che, un tempo, è stato anche egli millenarista (41) : ma tale asserzione è stata generalmente con­siderata come generica e rrivi; d’importanza, né, che io sappia, la si è riferita a un momento preciso della sua evoluzione spiri­tuale, di cui si troverebbero segni negli scritti di lui. Ma tracce di millenarismo si trovano proprio in una delle « 83 questioni » che precisamente, secondo il criterio già adottato, dovrebbe essere stata composta press’a poco al tempo dell’ordinazione sacerdotale di Agostino (42). Per contro, in parti del De diversis quaestionibus LXXX11I che dobbiamo considerare come posteriori (43), e così pure nella Enàrratio in Ps. LIV (44) l’affinità con le idee di Ticonio è evi­dente. Potremo così delimitare, all’ingrosso, tra l’ordinazione sacerdo­tale e qualche tempo prima dell’assunzione all’episcopaio, il momento in cui Agostino conobbe gli scritti di Ticonio. Ciò trova conferma in quello che sappiamo del suo sforzo di acquistare maggior fami­liarità con le questioni ecclesiastiche e la letteratura teologica. Per mettersi in grado di meglio combattere i donatisti, Agostino avrà voluto leggere qualche opera di quel loro singolare scrittore ; così come, quando si accinge a spiegare epistole di San Paolo, volle conoscere i commenti dei suoi predecessori.

E infatti, idee affini a quelle di Ticonio si trovano anche nel- YExpositio Epistolae ad Galatas, là dove Agostino parla dei figli

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che Abramo ebbe da Cethura, e delle persecuzione che Isacco patì ad opera di Ismaele; simboli, i primi, degli uomini carnali che, pur stando materialmente nella Chiesa, non le appartengono; e la seconda, del male che gli spirituali sempre soffrono nel mondo da parte dei carnali. Abbiamo già osservato che considerazioni di questo genere rappresentano una novità in Agostino (45) e si è visto pure che non sono state suggerite da S. Ambrogio : ma ora possiamo additarne la fonte in Ticonio. Però, il fatto che nella qu. 81 del De diversis quaestionibus LXXX11I Agostino si fonda sui rac­conti evangelici della pesca miracolosa, [Luca, V ; Giovanni XXI), testi cioè che non sono citati nel Liber Regularum, permette di escludere che Agostino abbia tenuto presente questa tra le opere di Ticonio (46). Ma non molto tempo dopo, Agostino, ansioso di approfondire le sue conoscenze bibliche, si dev’essere procurato snche le Regulae, che fecero su lui profonda impressione. Ciò non è una semplice congettura, perchè trova conferma nella lettera di Agostino ad Aurelio, che i press’a poco contemporanea all'episco­pato. e da cui risulta che egli ha chiesto varie volte all’amico il suo parere su quel libro singolare (47).

Ora, l’affinità ideale tra il Liber Regularum di Ticonio e la quaestio 2 del primo libro Ad Simplicianum è impressionante. Anche Ticonio è contrario alla dottrina che fa consistere l’elezione nella semplice prescienza che Dio avrebbe avuto della fede degli eletti, determinantisi in virtù del loro libero arbitrio. Ticonio non ha dubbi : la prescienza di Dio è strettamente connessa con la sua on­nipotenza. Infatti, Dio sapeva, che vi saranno coloro che avranno fede liberamente, o che non vi saranno. Nel primo caso, non c’è più discussione, appunto perchè, nel secondo caso, Dio, che non inganna, non avrebbe promesso. In altri termini, questa promessa divina non può essere condizionata da un atto libero dell’uomo ; se Dio l’ha fatta, è perchè sapeva che l’avrebbe mantenuta : e che spazio rimane allora alla libera iniziativa dell’uomo? Non vince, se non colui per il quale vince Dio stesso; se dunque il vincere non è cosa nostra, è dovuto alla fede. E ogni opera dell’uomo si riduce appunto alla fede; e che cosa abbiamo che non ci sia stato dato? Da Dio abbiamo l’essere ; a Dio, Salomone riconosce di essere de­bitore della continenza. Ma vi è di più : in Ticonio troviamo pre-

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cisamenfe il versetto di / Cor., a cui Agostino attribuisce un’in­fluenza decisiva sullo sviluppo del suo pensiero, insieme con l’altro della medesima epistola, che leggiamo citati nella qu. 2 di Ad Sim­plicianum I. E, ciò che più importa, entrambi i versetti da Ticonio sono interpretati proprio nel senso in cui erano adatti a far riflettere Agostino e ad avviare il suo spirito in una nuova direzione (48).

Pertanto, se vi è un autore che ha potuto avere influenza su Agostino, sì da indurlo ad assumere un atteggiamento diverso circa l’interpretazione della lettera ai Romani e delle altre simili, costui è Ticonio. Ciò a me appare dimostrato sufficientemente : nella mi­sura, s ’intende, in cui influssi di questo genere possono essere og­getto di una dimostrazione.

Si presentano però due obbiezioni : La prima, ci porta a trat­tare del terzo autore, che abbiamo dovuto prendere in considera­zione. Se lo stesso Agostino, parlando dei versetti di I Cor., segnala San Cipriano e la maniera in cui questi li interpretò nei suoi Testi­monia (49), non ci sarebbe bisogno di pensare ad altri autori. Però — pur prescindendo dal fatto che questo influsso di Cipriano su Ago­stino è menzionato da questi solo nelle opere più tardive della con­troversia antipelagiana — invano si cercherebbero negli scritti del primo le altre affermazioni, in particolare circa il libero arbi­trio, che troviamo per contro in Ticonio. Non si nega, dunque, che l’aver trovato il testo I Cor. IV, 7 nei Testimonia, e «otto quel ti­tolo, possa aver fatto grande impressione su Agostino; ma non è facile ammettere che la sola lettura del versetto e del titolo del capitolo in cui è incluso, sia stata capace, da sola, di determinare il cambiamento di opinioni che ci occupa.

La seconda obbiezione, che sotto un certo aspetto si ricollega alla precedente, è che Agostino, il quale contro i pelagiani ricorda tutti gli scrittori ecclesiastici che sostengono la sua tesi, non no­mina mai Ticonio a questo proposito. Ma Agostino vuol dimostrare che, contrariamente a quanto dicono Pelagio e Giuliano, le teorie di costoro sono nuove ed eretiche, mentre le sue sono quelle orto­dosse e tradizionali. Ciò pósto, qualunque fosse stata l’importanza reale dell’influsso che Ticonio aveva esercitato su di lui, Agostino non poteva commettere l’imprudenza di nominarlo, poiché qualcuno tra gli avversari avrebbe potuto scoprire che si trattava di un dona­tista. E tanto meno avrebbe potuto farlo, dopo aver dichiarato

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che il donatismo non era più uno scisma, bensì una vera eresia. Agostino avrebbe potuto replicare : non ogni eretico è tale in tutto e un donatista, eterodosso su certi punti, poteva essere un eccel­lente testimonio della fede tradizionale per altri. Per di più, Ti­conio era un donatista sui generis, che, per difendere i suoi com­pagni, dava loro torto. Ma con tutto ciò Agostino si sarebbe trovato in una condizione di netta inferiorità, obbligato a dare spiegazioni e a difendersi. Né Ticonio era autore di tal fama, che potesse riu­scire vantaggioso il citarlo, nonostante i suoi errori, come poteva essere il caso con Origene : Ticonio in realtà, fuori dell’Africa, doveva essere del tutto sconosciuto.

Sappiamo del resto, che per Ticonio Agostino ebbe grandissima stima. Per di più, non è neppur vero ch’egli non lo abbia ricor­dato, e a proposito della dottrina della Grazia. Nel presentare le teorie di Ticonio, non ho omesso di ricordare un passo nel quale egli ricorda che Salomone chiama la continenza un dono di Dio. Ma la frase che precede questa può essere intesa nel senso che la fede, o almeno l’initium ftdei, sia opera umana (50) : sebbene, poi, un’asserzione di questo genere sarebbe diffìcilmente conciliabile con il resto. Ebbene parlando precisamente della terza tra le Re­gulae di Ticonio, a cui appartiene la frase in questione, Agostino, dopo averlo lodato, nota che egli non giunse ad affermare « etiam ipsam... fidem donum Illius esse, qui eius mensuram unicuique partitur ». Questa osservazione di Agostino risale precisamente allo inizio della sua polemica antipelagiana ; e appunto per questo egli scusa e spiega anche quell’illogicità del donatista, avvertendo che se egli, Agostino, ha potuto andare più oltre, è stato precisamente perchè la necessità di combattere la nuova eresia lo ha costretto a una ulteriore e più approfondita riflessione (51). E in queste parole potremmo trovare anche la spiegazione perchè Agostino, più che su ogni altro punto a proposito del quale mutò opinione nel-l'Ad Simplicianum, insista sulla questione de\Vinitium fidei. Ma è interessante che Agostino non omettesse di cogliere e segnalare l’unico punto debole in'tutta l’argomentazione del donatista.

***

Vari autori hanno creduto di poter segnalare una stretta affi­nità tra la concezione agostiniana delia massa peccatorum et im-

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piorum, massa peccati, ecc., e quella manichea della βώλος. Anzi, questa sarebbe l’origine di quella ; e la dottrina agostiniana del pec­cato originale e della grazia sarebbe il risultato non solo della ri­flessione sui testi biblici e della lettura di commenti, ma di un ritorno — certo non intenzionale — di Agostino al manicheismo. Tutto quel suo lavorio intellettuale attorno a S. Paolo avrebbe avuto come principale conseguenza di ridestare nello spirito di Agostino idee e sentimenti ivi deposti dal manicheismo, e che la conversione avrebbe, non eliminato, ma soltanto reso temporaneamente inattivi. Questa tesi ha avuto una notevole diffusione (52).

Ora, una vera dimostrazione di questa teoria dovrebbe poter mostrare con una certa precisione il lavorio mentale grazie al quale la metafora della massa venne ad acquistare per Agostino un valore espressivo tanto grande da influire a sua volta sul modo in cui Ago­stino si rappresentò la realtà, che quella metafora adombrava. B i­sognerebbe farci seguire sui testi le varie tappe di questo processo, per cui l'idea della massa peccati avrebbe fatto rinascere, per così dire, quella di Bólos. Questa dimostrazione non è stata data per ora, che io sappia : e così la teoria rimane una mera ipotesi, fon­data su di una semplice intuizione, brillante se si vuole e quanto si vuole ; ma nulla di più.

Inoltre, sembra a me che tra le due concezioni vi siano diffe­renze non piccole. La massa peccatorum agostiniana è formata dal genere, umano dopo il peccato di Adamo : la metafora si riferisce cioè a tutti gli uomini durante questa vita terrena : degni di condanna, ma non ancora, nè tutti, condannati. La Bólos — che, tra f altro, viene resa in latino con globus — è invece formata da tutte le << te­nebre » che dopo il lungo processo di separazione della luce e la conflagrazione finale, tornano a riunirsi. La massa agostiniana è un concetto prevalentemente soteriologico, la Bòlos prevalentemente escatologico. Riconosciamo la connessione tra questi due aspetti della religiosità. Ma bisogna pure ammettere che la concezione della Bòlos implica un dualismo di gran lunga più accentuato di quello che si possa ritenere venga presupposto da quella massa peccati.

D’altra parte, quel cambiamento, quel nuovo orientamento spirituale, che avvertiamo nella tante· volte citata qu. 2 del primo libro di Simpliciano, non dovette essere cosi brusco e violento, né sembrare ad Agostino che implicasse una rottura cosi netta col passa-

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(o, come egli forse se lo rappresentò più lardi e come noi medesimi siamo forse un po’ troppo inclini a supporre. Così si spiega che nel De agone christiano, posteriore all’episcopato, si trovano ancora dot­trine esposte negli scrìtti anteriori alYAd Simplicianum e che questa stessa opera sia stata pubblicata da Agostino senza considerare quella differenza, che a noi pare tanto notevole, tra la prima e la se­conda quaestio del primo libro. Si spiega altresì che Agostino si man­tenesse fedele alla filosofia che aveva appreso nei libri dei neo­platonici anche quando pare a noi moderni che il diverso punto di vista adottato rispetto al peccato originale e aW'iniiium fidei do- vesse indurlo a modificare tutta la sua antropologia e, di conse­guenza, anche gran parte della sua metafisica. Del resto, è fondan­dosi sulla metafisica neoplatonica che Agostino combatte il manichei­smo, e chi considera queste due correnti spirituali appoggiandosi sugli scritti di lui è portato a considerarle. come radicalmente, an­titeticamente avverse una dall'altra : ma è poi vero che la filosofia di Plotino fosse del tutto immune da ogni traccia di dualismo? (53).

Ma nella polemica contro i manichei un certo cambio si nota, però è anch’esso graduale e progressivo. Anche negli scritti ante­riori all’episcopato, vediamo Agostino da principio impiegare so­prattutto argomenti di natura schiettamente filosofica, e poi accen­tuarne sempre più altri, come il ricorrere all’autorità della Chiesa nell’ esegesi dell’ Antico Testamento : interpretazione allegori­ca, ma non senza tentativi di spiegazione puramente letterale. Nelle opere antimanichee posteriori all’episcopato sono questi ul­timi motivi che prevalgono. La questione principale viene ad es­sere l’opposizione che i manichei stabiliscono tra l’Antico e il Nuo­vo Testamento, e l’argomentazione viene sempre più ad appoggiarsi su quel principio dell’autorità della Chiesa, il quale ha trovato la sua formulazione più piena, e celeberrima, nella dichiarazione del Contro Epistulam Fundamenti circa l’autorità della Chiesa Cattolica come ragione per prestar fede allo stesso Vangelo (54).

Ora, dall’inizio della sua conversione, il pensiero di Agostino ha proceduto costantemente in questa direzione : dalla ragione alla fede. Da principio, afferma la loro indipendenza, ma concede il primato alla ragione, ché essa seguono gli spiriti più perfetti, men­tre per gl’ignoranti basta la fede ; più tardi invece la ragione — certo, non spogliata di tutti i suoi diritti — è sottomessa alla fede e al­

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l’autorità. Da principio pare ad Agostino — e i principii intellettuali si desumono bene dal suo modo di agire — che la perfezione cristiana possa raggiungersi, non di certo fuori della Chiesa o senza di que­sta, ma per mezzo di una vita ascetica in certo modo autonoma, mediante uno sforzo individuale, con la purificazione della mente e la pietà personale. Più tardi, non solo la necessità di apparte­nere alla Chiesa è formulata da lui con la più assoluta e intransi­gente rigidezza, ma vengono accentuate sempre più quelle che oggi chiameremo la pietà associata, la devozione liturgica. Certo, Agostino non parla come chi è venuto dopo di lui ; ma questo suo atteggia­mento è evidente. Chi se ne voglia fare un’idea precisa, non ha che da considerare come la stessa pietà personale, pur senza sopprimersi, si modifica, e acquista un significato così nuovo e diverso, che la sua stessa essenza ne risulta modificata. La pietà ora non ha più per fine principale la purificazione della propria anima, lo stabili­re una relazione quanto più immediata e diretta possibile tra essa e Dio, bensì la lode di Dio nella quale altre anime possano congiun­gersi con essa, e la confessione degli errori propri, che è un altro modo di lodare Dio e viene fatta perchè ha un valore esemplare, serve cioè al fine superiore dell’edificazione di tutti (55).

Quell’attribuire gradualmente sempre maggior importanza al­l’autorità procede parallelamente con i progressi di Agostino nello studio della Bibbia. A questo egli si dedicò con nuovo e alacre fervore dal giorno in cui, repentinamente e con sua sorpresa, gli venne conferito il sacerdozio. Allora egli avvertì la necessità di co­noscere a fondo la Scrittura, per poterla spiegare chiaramente e con esattezza, e commentare in maniera degna. Ma a ciò si univa il desiderio di sentirsi inserito nella tradizione, anello di quella só­rda catena, in consonanza perfetta con il sentire della Chiesa. In difesa della quale Agostino doveva ora combattere contro tutti coloro che ne minacciavano o insidiavano la compattezza, e quindi — non più libero, come prima, da scrittore privato, di scegliere i propri avversari — anche contro i donatisti. Ma per questo gli era ne­cessario conoscere bene l’origine e la natura dello scisma e l’og­getto della controversia.

Tra le opere che Agostino volle leggere, alcune lasciarono nel suo spirito un’impressione più profonda. Abbiamo cercato di deter­

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minare quali fossero, e che effetti avessero, nonchi la natura degl’influssi che esercitarono. Ma vi è un punto sul quale conviene insistere ancora. Le opere che Agostino lesse, e certo quelle che lasciarono in lui tracce durevoli e lo spinsero a riflettere ulterior­mente. o a modificare il suo modo di pensare, tutte trattano di San Paolo. Gli scritti di Agostino, negli ultimi anni del suo sacerdozio sono in enorme maggioranza, commenti a passi di San Paolo. Dopo il Genesi, a spiegare il quale si affaticò nei primi tempi dopo la sua conversione e in piena polemica antimanichea (e tornò ad affaticarvisi sopra più tardi, da vescovo) quello che fra tutti gli au­tori sacri lo attrae di più, gli presenta problemi e gli suscita diffi­coltà, quello che egli si sforza permanentemente di intendere sempre più a fondo, è San Paolo.

Ora ciò non è dovuto al caso né ad influenze esterne. In San Paolo, intorno alla risurrezione dei corpi — da lui difesa contro i manichei e i . « filosofi » — Agostino leggeva del corpo glorioso e spirituale. Da ciò era naturale arguire che il corpo umano in que­sta vita terrena, è, sì, buono, perchè creato da Dio, ma senza dubbio anche imperfetto, se non è suscettibile di essere assunto in cielo. E ciò, visto che quel corpo è stato creato da Dio, doveva attribuirsi a qualche cosa di sopravvenuto, a qualche menomazione da esso subita dopo la creazione di Adamo. Infatti, l’uomo è ora mortale, e procrea; forse i primi genitori non procreavano? (56). Comunque, questo corpo è soggetto alla morte, a tante infermità, ai sensi ; costi­tuisce una remora e un impaccio alla purificazione dell’anima. Tor­nava così a presentarsi ad Agostino quell’angosciosa domanda : Unie malumP per rispondere alla quale aveva tanto meditato, faticato e sofferto. Ma alla stessa domanda lo riconducevano tutti gli altri temi che San Paolo gli presentava : efficacia delle opere e della fede, valore della Legge, contrasto e parallelo tra Adamo e Cristo, necessità della redenzione, e così via. A questi problemi venivano ad aggiungersi, e agivano nello stesso senso, quelli suscitati proprio dalla partecipazione più intensa alla vita della Chiesa e dall’ammi­nistrare i suoi sacramenti; con l’esistenza di eresie e scismi, con le debolezze umane dei suoi fedeli, in una parola, con l’esistenza di malvagi nel mondo e dentro la Chiesa stessa. E tutto ciò a sua voltalo riconduceva a San Paolo.

Vi ritornava continuamente, ripetendo le stesse, o assai simili,

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spiegazioni, ma sotto l’assillo di una insoddisfazione intima, che a lui stesso forse sarebbe stato difficile chiarire;, finché un giorno, quello che fu poi per sempre ai suoi occhi il significato pieno e incontrovertibile del messaggio dell’Apostolo gli apparve evidente. Vi fu guidato da qualche lettura, o vi giunse da sé? Non mi atten­terei di rispondere a questa alternativa. Se un’influenza vi fu, e determinò quel cambiamento tante volte menzionato, ho indicato quella che a me pare sia la più probabile. Certo è che, sebbene costretto dalla limitazione della sua preparazione linguistica a con­tentarsi per allora soltanto di scritti latini, Agostino cercò di leggere tutto ciò che poteva essergli d’aiuto. Ma si noti che queste letture, nel suo sforzo di rendersi familiare la letteratura propriamente ec­clesiastica, non furono ispirate da mero desiderio di ampliare e arric­chire le sue cognizioni, non furono dettate da ambizioni simili a quelle del retore né da preoccupazion di erudito.

Ché parallelamente a questa evoluzione, di cui a maniera di con­clusione delle ricerche analitiche, ci sforziamo di segnalare rapida­mente, e assai imperfettamente, le grandi linee, se ne osserva un’al­tra, strettamente legata a quella, anzi parte di essa. Riguarda la stessa concezione della cultura. II cambiamento, anche a questo proposito, non poteva essere totale e non giunse, per fortuna, fino a un totale rovesciamento di posizioni. La primitiva formazione re­torica di Agostino avèva impresso in lui, tracce incancellabili : e ciò ebbe importantissime conseguenze. Ma non meno importanti l’ebbe l’altro fatto, che la cultura di Agostino, durante questo decen­nio della sua preparazione teologica, tra il battesimo e l’episcopato, si fece decisamente, coscientemente cristiana. Ebbe cioè come suo fondamento la Bibbia e ricevette lo spirito animatore dal Vangelo.

Il De doctrina christiana è evidentemente un tentativo di sin­tesi, uno sforzo fatto per offrire quell’opera di educazione totale, di έγκύκλιος παιδεία che Agostino, all’inizio della sua conversione e con mentalità differente, aveva cercato di realizzare a Milano e, con qualche diversità, nei primi tentativi dopo il suo ritorno in Africa. Con un titolo, che rivela già per se stesso il cambiamento operatosi in Agostino durante questo periodo, il De doctrina chri­stiana rappresenta, in questo'momento, uno sforzo analogo a quello già fatto da lui con i Disciplinarum libri prima e con il De vera religione poi. Per la data della sua composizione è evidente che

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il De doctrina chriStiana, manuale di formazione del cristiano colto, è un prodotto di questo sviluppo che stiamo cercando di esporre. Ma il De doctrina Christiana rimase per molti anni incompiuto. Il secondo libro era finito, quando Agostino scriveva il Contra Faustum ; anzi la sua composizione era giunta già oltre la metà del terzo (57). Solo una trentina d’anni dopo, mentre redigeva le Retractationes, Agostino si decise a riprendere quela sua vecchia opera : terminò il terzo libro, inserendovi le regole esegetiche di Ticonio, e vi aggiun­se il quarto. Molto probabilmente, però, riprese in mano tutta l’o­pera, correggendo, riscrivendo, facendo cioè quella che merite­rebbe d’essere chiamata una « seconda edizione » (58). Quello che interessa noi, però, è il vedere ancora una volta un’opera teorica di Agostino, in cui doveva manifestarsi una nuova tendenza del suo autore, rimanere interrotta. Questa volta, però, il nuovo orienta­mento è il definitivo. Non si può dunque attribuire l’interruzione a stanchezza o a insoddisfazione o a dubbi sortigli nell’animo durante la composizione stessa; e neppure alla difficoltà del tema, che non ne presentava più dal punto di vista teorico, e nemmeno pratiche : tra le altre cose, Agostino non si proponeva più il gravoso com­pito di compilare manuali di tutte le discipline. L’ipotesi più naturale, per spiegare tale interruzione, è dunque che nel frattempo Agostino avesse posto mano a un’altra opera la quale, in maniera diversa, servisse allo stesso ideale, ubbidisse allo stesso fine, e in modo che a lui dovette sembrare più efficace. E quest’opera, che nelle Retrac­tationes va cercata nelle vicinanze immediate del De doctrina Chri­stiana, non sarà certamente il Contra partem Donati; sarà invece, con tutta sicurezza, le Confessioni (59).

In luogo di occuparsi soltanto di doctrina, cioè di cultura nel senso intellettuale, Agostino giudicò più efficace, più opportuno, e forse anche più conforme alla sua qualità di vescovo trattare della formazione spirituale. Nulla è più significativo, nulla esprime me­glio la personalità di Agostino, del fatto che il cambio di orientamento teologico si rifletta quasi immediatamente in un modo nuovo di concepire la cultura e l’educazione intellettuale ; e che, poi, lo scritto composto con questo proposito rimanga interrotto, per lasciare il posto alla redazione dell’opera destinata a inculcare i principii della formazione più propriamente spirituale ; dell’opera che ha per fine l’edificazione dei fedeli.

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Abbiamo visto che le Confessioni furono scritte realmente poco dopo l’assunzione di Agostino all’episcopato (60) e sono quindi an­che di poco posteriori a quel cambiamento nell’interpretazione di San Paolo, al quale dobbiamo continuamente riferirci. E chi cerchi di penetrarne e sentirne veramente lo spirito, si rende conto che le Confessioni sono appunto il prodotto di una profonda crisi spi­rituale. Benché in grandissima parte autobiografiche, esse non sono però autobiografia, né altro di simile : perché, oltre a tutto quanto si possa osservare a tale proposito dal punto di vista letterario, c’è il fatto che nulla è più estraneo allo spirito di Sant’Agostino che il raccontare la sua vita per mettere in mostra la propria personalità, o giustificarsi di fronte agli uomini o ribattere accuse diffamatorie e ingiuste. E se, giudicandole sempre da un punto di vista letterario, anzi retorico, si potrà trovare che « mancano di unità », (61) pure è impossibile dubitare dell’intimo spirituale legame tra le varie parti : il racconto autobiografico, la confessione di Agostino nel suo stato presente, e il commento del primo capitolo del Genesi, con le que­stioni filosofiche che vi si riconnettono. Vi si deve aggiungere quel­la che forma il tema dominante dell’ammirevole e varia sinfonia : la confessio laudis, che forma un tutto indivisibile con la confessio pec­cati. Esse si integrano a vicenda : confessare i propri peccati e la de­bolezza causata dalla concupiscentia carnis è al tempo stesso lodare Dio, che con la pena stabilì la redenzione. Ma il Creatore non può essere veramente lodato dalla creatura, se questa non riconosca ap­pieno il suo essere nulla. Così questi due aspetti della confessio si completano e servono allo stesso proponimento. Infatti, la celebre invocazione iniziale a Dio, in cui trova finalmente quiete il cuore in­quieto, ha il suo parallelo in quella ch’é al principio del libro X ; eil fine delle Confessioni ci si manifesta evidente in quelle parole, nelle quali Agostino riconosce che. essendo peccatore, confessarsi a Dio è un dispiacere a se stesso, ed essendo pio, è un non attri­buire questo a se stesso, perchè il Signore è colui che bene­dice il giusto, dopo di averlo reso tale da empio che era. La con­fessione dei peccati proprii ha come risultato che si sveglino anche altri cuori, e si rendano conto del loro stato e della misericordia di Dio ; e si uniscano nella preghiera in favore di Agostino, così come

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Agostina scrive le sue Confessioni a gloria di Dio e per l’edificazione dei fratelli (62).

Tale è dunque il fine principale delle Confessioni : e il ricono­scerlo ci chiarisce quel senso corale, associato, liturgico della Chiesa a cui Agostino è pervenuto. Ma ci ammonisce altresì contro l’er­rore di intendere quella sua evoluzione come puramente intellet­tuale. Essa fu sviluppo continuo e graduale, ancorché non uniforme : e credo aver segnalato i momenti nei quai il movimento appare più celere e si nota un cambiamento di rotta. Ed essa fu soprat­tutto tormento, lotta e discussione affannosa con se stesso, per rag­giungere la verità non solo nell’ordine logico, ma in quello morale e religioso. Fu sforzo di purificazione ed elevazione interiore. Abbia­mo visto come pregasse ancora nei primissimi tempi dopo a con­versione : e in che modo egli parafrasasse, poco dopo il « Padre no­stro » ; e anche quella sua osservazione posteriore circa la freddezza, a volte, della preghiera (63) ; e come prega poi, nelle Confessioni. Teniamo pur conto, quanto è giusto e necessario, degli elementi intel­lettualistici e anche delle influenze altrui che poterono avere, che eb­bero di fatto, importanza notevole nel determinare quell’evoluzione ma facciamo ora la parte dovuta anche ai fattori propriamente ed esclusi­vamente reliigosi. I quali si associano a quelle preoccupazioni morali, a quell’ansia verso il bene e la purezza, che appare dominante in tuta la vita di Agostino e si manifesta, intellettualmente, con la in­vestigazione appassionata del problema del male. Agostino non fu un puro filosofo, intento alla conquista esclusivamente intellettuale d ’una verità capace d’imporsi per il rigore cogente della dimostra­zione, e per la coerenza tra le varie parti del sistema ; quella verità ch ’egli cercava doveva essere per lui anche luce e calore dell’anima, doveva parlarle e confortarla. Agostino cercava sopra tutto Dio e la salvezza dell’anima. Non intende Agostino e non si rende conto <jel suo sviluppo spirituale chi non consideri che il termine di questo suo periodo di formazione è segnato da un’opera nella quale la sua fede e la commozione per la riconosciuta verità si manifestano in espressioni liriche. Non intende Agostino chi non ravvisi in lui, in ogni momento — anche se le esigenze dell’indagine critica costringa­no a prescindere da ciò nel momento deH’analisi, il che rende tanto

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più doveroso ridare a questo elemento il suo posto nel momento ulteriore della sintesi — il mistico. Nascono così l’inno e l’abbandono a Dio delle Confessioni, con il loVo linguàggio poetico nuovo, fog­giato sui Salmi, e con il loro intento duplice, personale ed edificativo. Termine e conclusione di questa evoluzione che abbiamo cercato di spiegare è l’alta opera di poesia e di preghiera in cui Agostino con­fessa i suoi peccati e rende grazia a Dio.

NOTE

<1) Re traci. I, 6, (7), (De moribus); 8 (9), (De libero arbitrio), 2: « De gra­tia vero Dei» qua suoe electos eie praedestinavit, ut eorum qui iam in eis utun­tur libero arò torio ipse etiam praeparet voluntates .nihil in hie lib rie disputa­tum eet propter hoc proposita quaestione », etc.; 3. « Quapropter novi haere. tici pelagiani... non se extollant quasi eorum egerim causam, quia muHa in his libris dixi pro libero arbitrio quae illius disputationis causa poccebat... Quo testimonio meo in quodam libro suo Pelagius usus est. Cui libro cum respon­dissem, titulum lihri mei esse volui De naiura et gratia »; 4: « quod in alile opusculis nostris salis egimus, istos inimicos huius gratiae, novos haereticos, refellentes; quamvis in his libris, qui non contra illos omnino, quippe illi non­dum erant, «ed contra maniChaeos conscripti sunt De libero arbitrio, non omni modo de ista Dei gratia reticuimus »; 9 (10) (De Genesi c. man.), 2-3; 14 (15), (De duabus animabus), 2; 4, 8: « spiritalia diligere et iustitia iubemur et na­tura possumus ». Ibi quaern potest. cur natura, et non gratia, possumus dixe- rm. Sed contra manichaeos de natura quaestio versabatur ».

(2) De praed. sanet., II, 3.(3) Ibid., 3r 7: «Non ede pius atque .humilie doclor ille sapiebat, Cypria­

num beatissimum loquor, qui dixit: In nullo gloriandum, quando nostrum nihil sit (Testimonia, III, 4). Quod ut ostenderet, adhibuit apostolum testem dicen­tem ” Quid autem, etc. Quo praecipue testimonio etiam ipse convictus sum, cum similiter errarem, putans fidem qua in Deum credimus non eese donum Dei sed a nobis esse in nobis... Quem meum errorem nonnulla opuscula mea satis indicant, aiite episcopatum meum ecripta. In quibue est illud quod com­memorastis in litteris vestris ubi est Expositio quarundam propositionum ex Epistola ad Romanos ». Quindi cita RGlract., I, 22 (23), 2.

(4) Ibid. 4, B: κ quia non sicut legere librce meos, ita etiam in ei« cura­verunt proficere mecum. Nam ei curassent. inveniseent istam quaestionem se­cundum veritatem divinarum Scripturarum solutam in primo libro duorum, quos ad beatae memoriae Simplicianum scripsi, episcopum mediolanensis ec­clesiae, sancti Ambroeii successorem, in ipso exordio epiecopatus mei. Nisi forte non eos noverunt; quod si ita est, facile ut noverint. De hoc primo duo­rum illorum litro in secundo Retractationum pnimum locutus sum. (Retr. II,1, U. Eoce quare dixi superius hoc apostolico praecipse testimonio etiam me ipsum luisse convictum, cum de hac re aliter sapere?» ».

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(5) De dóno persev., 12, 30: «Si enim quando libros De lìbero arbitrio laicys coepi, presbyter explicavi, adhuc de damnatione infantium non rena- scentium et de renascentium liberatione dubitarem, nemo, ut opinor., esset tain ini ustus atque in vidue, qui me proficere prohiberet atqiie in hac du­bitatione remanendum mihi eeee iudicaret ».

(6) Ibid., 20, 52: «miror eos... nec attendere, ut de aliis hic taceam,'ipsòs libros nostros-et ante quam Pelagiani apparere coepissent conecriptoe et editos, et videre quam multis eorum locis, futuram nescientes, pelagianam haeresim caedebamus, praedicando gratiam, qua nos Deus liberat a malis erroribus et moribus nostris, non praecedentibus bonie meritis nostris, faciens hoc secun­dum gratuitam misericordiam suam. Quod plenius sapere coepi in ea disputa­tione, quam scripsi ad beatae memoriae Simplicianum episcopum mediolanen- sis ecclesiae, in mei epiecopatus exordio, quando et initium fidei donum Dei esse cognovi et asserui ». — 21 r 55: « Videant t^men ii... videant, inquam, utrum in primi libri posterioribus partibus eorum duonlm quos mei epiecapatus ini­tio, ante quam pelagiana haeresis appareret, ad Simplicianum inediolaiieneem episcopum scripsi, reinanserit aliquid quo vocetur in dubium, gratiam Dei non secundum merita iiostra dari et utrum ibi non satis egerim etiam initium fidei eese donum Dei et utrum ex iis quae ibi dicta eunt non consequenter eluceat, etsi non sit expressum, etiam usque in finetìa perseverantiam non nisi ab eo donari, qui nos praedestinavit in suum regnum et gloriam ». — Cfr. XX, 53 pe r le Confessioni. Λ

(7) De dono pers., 21, 55: « Quamvis neminem velim sic amplecti opera mea, ut me eequatur nisi in iie in quibus me non errasse perspexerit. Nam propteafea nunc facio libros, in quibus opuscula mea retractanda suscepi, ut nes me ipsum in omnibus me secutum fuisse demonstrem, sed proficienter me existimo Deo miserante ecripsiese ». In 11, 27 cita Retract, l, 9. Quanto all'Ad Simplicianum, il paeso del De praed, sanet, che vi si riferisce (cfr. n. 4) cita esplicitamente Retract. II, 1, e ne dipende; quello del De dono persev (n. 6) omette tale riferimento forse perchè contemporaneo.

(8) Rèlract., I, 22 (23), 3, 2: « Nondum diligentius quaesiveram nec adhuc iiiveneram qualis sit electio gratiae... 7 (3): « sed fidei meritum etiam ipsum esse donum Dei nec putavi quaerendum esse, nec dixi »; 8 (4): «sed adlruc quaerendum erat utrum et meritum fidei de misericordia Dei veniat, id est utrum ista misericordia ideo tantummodo fiat m homine quia fidelis est an eliam facta fuerit ait fidehs esset ».

(9) Cfr. n. 8. . .(10) Reiract. II, 1, 3: « In cuius quaestionis solutione laboratum est qui­

dem pro libero arbitrio voluntatis humanae, sed vicit Dei gratia; nec nisi ad aliud potuit perveniri, ut liquidissima veritate dixisse intelligatur Apostolus: " Quis enim te discernit? etc. Quod volens etiam martyr Cyprianus ostendere hoc totum ipso titulo definivit, dicens: In nullo gloriandum quando nostrum nihil sit " ». ' ;

(11) De praedest, sanci , 4, 8 (cfr. n. 4)(12) De praedest. sanet., 3, 7 (cfr. n. 3). '(13) De dono persev. 2, 4: « legete aliquanto intentius eius (scii.: oratio,

nis dominicae) expoeitionem in beati Cypriani martyrie libro ... De Dominica oratione, et videte ante qiiot annos còntrà ea quae futura érarit Pelagianòrum

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venena zuale eit antidoium praeparatum» e fino a. 5, 9; 7r 13: «Si ergo alia documenta non eseent, haèc dominica oratio nobis ad causam gratiae quam defendimus sola sufficeret »,

(14) Contra duas ep. Pelag., IV, 8, 21 — 9, 26 e spec. 9, 25: « Item ad Qui­rinum^ in quo opere ee Pelagius vult eius imitatorem videri, ait in lihro tertio:, "In, nullo gloriandum, quando nostrum nihil eit". Cui proposito testimonia divina subiungens, inter cetera posuit apostoJicum illud, quo istorum maxime ora claudenda sunt: " Quid enim habes, etc. "; 9, 26: « nostrum nihil esee asse­rens, propter hoc apostolum dixiese commemorat ” Quid enim, etc."» . (C. S. E. L. 60, p. 552).

(15) P. e.: De gestis Pelagii, 34; De peccatorum me r. et remisis.,. II, 18, 28 e 30; De spiritu e t litt., 31, 54, 33, 57; 34, 60; anche nello steseo C. duos epist , peìag. II, 7, 15; IV, 6, 14).

(16) De dono persev., 14. 36; « " qui gloilatur, m Domino glorie tur 'In nullo” enim " gloriandum quando nostrum nihil sit*’. Quod vidit.fidelie-

eime Cyprianus et fidentissime definivit, per quod utique praedestinationem certissimam pronuntiavit... hie Cypriani verbis procul dubio praedestinatio praedicata eet; quae 6i Cyprianum a praedicatione obedientiae non prohibuit, nec nos utiqiie debet prohibere ». — 17, 43: « Hic procul dubio contradicitur Apostolo dicenti: " Quid enim habes etc. ". Contradicitur et martyri Cypriano dicenti ” In nullo gloriandum, etc. "». — 19, 48: « Quid ergo nos prohibet, quan­do apud aliquòe verbi Dei tractatores legimus Dei praescientiam, et agitur de vocatione electorum, eandem praedestinationem intellegere?... Puto tamen eis qui de hàc re sententiae tractatorum requirunt, sanctos... viros, Cyprianum et Ambrosium.,,, debere euifficere... quia et isti viri, cum eie praedicarent Dei gratiam, ut unus eorum diceret " In nullo gloriandum etc. ", alter autem. " Non eet in potestate noetra cor no6trum et nostrae cogitationes " (Ambr., De fuga saeculi, 1), non tamen hortari et corripere destiterunt, ut fierent praecepta divina ».

(17) De dono persev. 19, 49.(18) Retraat., I, 22 (23), 2: « In quo libro " quod autem ait, inquam, Sci­

mus quia etc. (Rom. VII, 14), satie ostendit non posse impleri Legem nisi a spiritualibus, quales facit gratia Dei Quod utique non ex persona Apostoli accipi vodui, qui iam spiritualis erat, sed hominis sub Lege positi, nondum eub gratia. Sic enim prius haec verba eapiebam; quae postea lectie quibusdam divinorum tractatoribus eloquiorum, quorum me moveret auctoritas, consi­deravi dildgentiue et vidi etiam de ipeo apoetolo posee intelligi quod ait " Scimus etc. " »; quod in ei6 libris quos contra pelagianoe nuper scripei quan­tum potui diligenter oetendi. In isto ergo libro et hoc quod dictum est "ego autem, ptc. " et deinde cetera... (vee. 14-25) dixi hominem describi adhuc eub Lege, nondum eub gratia constitutum, bene facere volentem, sed victum con­cupiscentia carnis male facientem. A cuius concupiscentiae dominatu non li­berat iiisi gratia Dei... Unde quidem iam evertitur haeresis pelagiana... ^ed in illis librie quoe adversus eo6 edidimus etiam spiritualis hominis iamque sub gratia constituti melius intelligi verba ista monstravimus ». Per il seguito, cfr. η. 19. .

(19) Retraci. I, 25 (26) η. 67: «quod (Rom/ VII, 14) non 6Ìc accipiendum ejsLquaei spiritualis homo iam sub gratia constitutus etiam eie se ipso non

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poesit hoc dicere et cetera usque ad eum locum ubi dictum eet " Mieer ego homo etc. " (vs. 25), quod poetea didici, slcut sum ante confeeeus ». — Reirad.,Il, 1, 2: «In qua illa Apoetali verba ‘Lex epiritalie eet, etc." quibue caro contra «pi ri tum confligere ostenditur, eo modo exposui, tamquam hòmo de- ecribatur adhuc sub Lege, nondum eub gratia, conetitutus. Long e enim postea etiam epiritalis hominie (et hoc probabiliue) eese posse illa verba cognovi ».

<20) Retract. I, 23 (24), 5: «eeroLiebam id quod dictum eet ’* caro concupi­scit, etc. ’’ ad eoe pertinere qui eub Lege sunt, nondum eub gratia. Adhuc enim non intellexeram haec verba et illie qui sub gratia sunt, non eub Lege, pro­pterea convenire, quia et ipei concupiecentias c arnie, contra quas epiritu con­cupiscunt, quam vie eis non consentiant, nollent tamen illae habere si pos­sent ».

(21) C. Iuiian. pel. VI, 23, 70: « Quod autem verba apostolica (Rom. VII, 14-25) ... ” me ** affirmae " aliter intellegere, quam totum ip6um capitulum debet intelligi", neeciene mihi plurimum, tribuie. Non enim ego eoius aut pri- xmi6 sic ietum locum intellexi, quo evertitur haereeis veetra, quemadmodum vere intellegendus est; imo vero ego prius eum aliter intellexeram, vel potiu6 non intellexeram, quod mea quaedam illius temporie etiam ecripta testantur. Non mihi enim videbatur apostohie e»l de 6e ipso dicere potuisse " ego autem carnalis 6um ", cum eeset spiri talie... ego enim putabam dici ieta non poeee, niei de iie quos ita haberet carnis concupiscentia subiugatoe, ut facerent quid­quid illa compelleret, quod de Apostolo dem enti est credere... Sed poetea me* lioribue et intelligentioribue ceesi, vel potiue ίρβί, quod fatendum eet, veritati ut viderem in illis apostoli vocibus gemitum eeee sanctorum contra carnale6 concupiscentiae dimicantium... Hinc factum eet ut eie ieta intellegerem, que^ madmodum intellexit Hilarius, Gregorius, Ambrosius et coeteri Eccleeiae sanctj notique doctores qui et ipeum apostolum advereue camalee concupiscentiae quas habere nolebat, et tamen habebat, strenue conflixi66e, eundemque confli· ctum suum illis suie verbi6 contestatum fuiese eenecrunt ».

(22) C. duas epist. pelag., I, 10, 22: « Vieum autem aliquando etiam n rh i fuerat hominem eub Lege ieto apoetoli sermone (Rom. VII, 23-25) deeeribi, Sed vim mihi poetea ista verba fecerunt, quod ait "nunc autem iam non ego operor illud '* (ve. 17). Ad hoc enim pertinet quod ail et poetea (Rom., VIII, 1) et quia non video quomodo diceret homo eub Lege " condelector" etc. (Rom., VII, 22), cum ipsa delectatio boni, qua etiam hon coneentit ad malum non timore poenae 6ed amore iustitiae, hoc est enim condelectari, non niei gratiae deputanda eit ". Cfr. anche 11, 23 a proposito di Rom. VII, 24.

(23) Agoetino lo confondeva con Gregorio di Elvira ancora nel 413 (Ep. 148, 10), poi conobbe i 6ermoni tradotti da Rufino-, ma sembra noi* distin­guerlo dal Nisseno (C. Iui. I, 5, 15; II, 3, 7, I, 5, 19): .cfr. Coufffcelle, ò. c., p. 189 sg.

(24 Non mi occupo qui di altri paeei, in cui Agoetino cita vari Padri, ma non allude al 6uo cambiamento di opimione: p. e. C. luì. I, 3; II, 6; Op. im­peri. c. Iui, U, 36 e 164.

(25} Courcelle, o. c., pp. 137-153 e 183-194. Queeta indagine accurata e giudiziosa riguarda tuttavia ι eoli autori greci; e d'altra parte ed s* che diffi­cilmente rilevamenti del genere riescono completi. Perciò continuo a credere che una raccolta quanto più possibile completa di tutte le citazioni patristiche

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(eeplicite e implicite) nelle opere di/Agostino, disposta secondo l'ordine cro­nologico di queste (coca che ha omesso di fare il Marrou), e previa un'attenta verificazione della Ιοτο esattezza, condurrebbe senza dubbio a risultati inte­ressanti.

(26) In questo senso mi pare si debbano modificare le conclusioni del Courcelle, il quale (pp. 145 e 151) sembra attribuire alla polemica contro Pe­lagio e i suoi Γimportanza di un fattore solo secondario, in confronto alle cri. tiche suscitate dai primi libri De Trinitate e alle prime Enarrationes in Psoì- m os ; cfr. però p. 191.

(27) C. lu i VI, 23, 70 c it alla n. 21.(28) Cfr. c. III, pp. 69 sgg.(29) Cfr. note 16 e 21.(30) C. duas episn. petag., IV, 4, 7: « Nam sic et sanctus Hilarius .infette*

xit quod scriptum est in quo omnes peccaverunt; ait enim: in quo, idest Adam, omnes peccaverunt, deinde addidit: « manifestum in Adam omnes peccasse, quasi in massa; ipse enim per peccatum corruptue, omnes quos genuit nati sunt sub peccato ». Haec scribens Hilarius sine ambiguitate commoluit, quo modo intelligendum esset in quo omnes peccaverunt ». Cfr. cap. V n. 26.

(31) E. Buonaiuti, Agostino e la colpa ereditaria, in Ricercke Religiose. Il (1926) p. 401 sgg.: « sant’Agostino ha conosciuto, verso il 395, i Tractatus oell'Ambrosìastro e vi ha attinto la metafora pregnante della massa peccati, da cui a sua volta ha ricavato, con un riferimento spontaneo alla massa di fango da cui il ceramista ricava i vasi che vuole (Rom., IX, 21), corroborato anch'esso del resto dai medesimi Tractatus, la concezione -della insindacabile e imperscrutabile libertà di Dio nell'elezione dei santi »; Pelagio e ΓAmbrosiastror ibid, IV (1928) p. 11. Cito questi ultimi scritti, che rappresentano la formula­zione definitiva del pensiero del Buonaiuti, e nei quali si troverà la bibliografia dei suoi lavori e della polemica che suscitarono.

(32) Expos. quarr. propoj., 62; cfr. c. IV, n. 5. ^(33) « Ita et Deus, cum omnes ex una atque eadem massa simus in sub-

stantia et cunct peccatores, alii miseretur et alterum despicit non sine insti, tia » Cir. cap. V n. 32.

(34) « Praeterea pelagianam haeresim quaestiones aliquot resipiunt... ve- luti Quaest. 79, 80, 83 etc. » (dall*Admoniùo dei Maurini, P L. 35, 2205-06).

(35) Cfr. A. I. Smith, The Latin sources of thè commentary ot Pelagius on thè Epistle of St. Pani lo thè Rajnans, in Journal of Theological Studies, XIX (1917-18) p. 162 segg.; XX (1918-19), p. 55 sgg.; contro, l'articolo del Buo­naiuti del 1928, cit. alla n. 31. Ma ammette l'influenza deH'Ambros^aster su Pelagio G. Plinval, Pélage, ses écrits, sa vie et sa ré forme, Lau&anne (1943), pp. 86-92, il quale tra l’altro scrìve: « Hilarius n'a pae été autant qu'on le dit parfois un des champions du péché originel, et il ne faut prendre dane le sens absolu que leur prète saint Augustin les deux lignee souvent citées du Commentaire de l’Epitre aux Roma ine sur le péché que " tous, quasi in massa, on commis en Adam De ce péché... Hilarius ne nie pas certaines conséquen. ces, mais il en restreint l'influence et en limite la durée », etc. (p. 91). Non n i convincono invece certe ipotesi di B. Leeming. Augustine, Ambrosiaster and thè "m ono perditionis ", in Gregorianum, XI, 1930, pp. 58-91.

(36) Ambrstx. a / Cor. IV, 7 (P. L. 17, col. 215): «"Q uid enim ha-

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bee etc.? Nihil illum boni ultra dicit coneecutum, ab aliisf qu-am alj eo acce­perat, ideo frustra queri; quod enim habebant, ab Apostolo acceperant. Ad unum autem videtur loqui, quia ad partem plebis loquitur. " Si autem acce-* pisti, quid etc.? Hoc quasi insultatores Apoetoli agebant per imperitiam; ut eadem audientee, qua© ab Apostolo iam didicerant, illum evacuantes, de horum magisterio gloriarentur ».

(37) Quaest. Veter, et N ovi Testamenti, qu. L.. App., 2, ed Souter, p. 447: « Duas enim legee inducit, Dei et diaboli. Unde spiritum dicit... contra car-

’nem, hoc est contra vitia, repugnare..* Lex autem diaboli, qui est error, contra­dicit per oblectamenta luxuriae et mundana dulcedine. His ergo repugnantibus medius homo est, qui cum consentit epiri tui, non vult caro; cum autem ma­num dat carni, spernit spiritum, id est legem Dei contemnit ». — 3: « Ideo ergo haec apostolus publicat, ut oetendat arbitrio humano cui rei voluntatem euani committat, non ut arbitrium libertatis inaniat, sed docet arbitrium cui rei se coniungat. Si autem non est voluntatis arbitrium, neque lex diaboli, quae est caro, neque lex Dei, quae est spiritus, invicem sibi adversando hominem con- eiliie sollicitarent. Qui enim sollicitat, suadet; qui autem suadet, non vim infert, sed circumvenit; qui circumvenitur, fallaciie quibusdam voluntas illi mutatur. Si autem non esset liberum arbitrium, nolens homo traheretur ad ea quae non v u l t » . Tract. in Gal. a V, 17*18 P. L. 17, coi. 388): «Duas leges proponit,... quae invicem adversae sunt, unam Deif alteram peccati. Quae ideo in carne significatur, quia visibilibus oblectatur, cupida peccatorum; ut his sibi adversantibue, mediue homo non ea quae vult agat. Divina enim lex premit et fugat legem peccati, consulens homini ut vigorem naturae suae custodiat, ne capiatur illecebris; illa e contra in insidiis agens lacessit hominem blandi­tiis, ut epernat praeceptum legis divinae. Gum ergo consenserit homo legi Dei, contradicit lex peccati, euadens homini ne faciat quod imperat lex divina; e diverso autem lex Dei revocat hominem, ne faciat quod suggerit lex peccati. Quod quidem homo non videt esse absurdum: scit enim naturae suae con­gruere, si faciat quod imperat lex Dei. Denique gaudet #quando haec agii, cum ea operatur quae suggerit lex peccati, videt se turpem et horret poet faotum. Ideoque legis spiritus praecepta servanda sunt et carnalia fugienda? ipsa enim conscientia accusat si ei consentiat, sciens horrori esse quae suggerit lex peccati ».

(37 bis) Cfr. aruche l’insdslere sulla giustizia divina dèi?Ambrosiastro (cfr. cap. V n. 32) e quello di Agostino nei primi commenti .a Romani (cfr. cap. IV). ..

(38) Su lui, mi permetto rimandare ai miei articoli, L’ecclesiologia nella controversia donatista e Da Ticonio a Sant'Agostino, in Ricerche Religiose, I (1925) pp. 41 sgg. e 443 sgg.; quest'ultimo modificato dal presente lavoro. £Jon credo, invece di avere sbagliato nello sforzo di stabilire i principi sui quali dovrebbe basarsi una ricostruzione del Commento aH'Apocalisee; alla quale ha dato un valido contributo la dissertazione di laurea r(Roma) del Dr. Francesco Lo Bue, mentre viene facilitata ora dalla pubblicazione delle « Omelie pseudo-agostiniane » fatta da Ò. Germain. Morin. Sancti Caesarii episcopi Arelatensis Opera , II, 1942.

• (39) E’ superfluo ricordare che le regole di Tiòonio furono da Agostino incorporate nel De doctrina Christiana, III, 30, 42—37, 56. Sorprende che il Marrou (o. c., pp. 384, 444, 480) si occupi di questo scrittore cosi, brevemente.

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(40) V. tra l'altro. T. Hahn/ Tychoùius*Studien; Leipzig 1900 {Sdudien iur Gesch. der Theologie und der Kircfoe, VI, 2); Scholz, Gfaube und U àg la u te in der Weltgeschichte, ein Kommentar zu A ugm tins De civitate Dei, Leipzig 1911; P. Batiffol, Le catholidsm e de S t Augustin, Paris 1910, I, p. 110; P. Monceaux, Hist. littér. de l'Afr. chrét., V, Parie 1920, p. 174 egg. A. Dempf, Sacrum Impe­rium (tr. it., Messina 1933) per queeto riguardo dipende interamente da Hahn.

(41) De civ. Dei, XX, 7, 1: « Qui propter haec huius libri (Apoc. XX, 1 <e*gg.) verbà primam resurrectionem futuram suspicati eunt corporalem; inter ce­tera, maxime numero annorum mille permoli eunt, ... Quae opinio essfet utcum­que tolerabilis si aliquae deliciae spiritales in illo sabbato adfuturàe sanctis per Domini praesentiam crederentur. Nam etiam nos hoc opinati fuimus ali­quando ». -

(42) De div. quaeat. LXXXII1, qu. 57. 2 (cfr. per il tempo, c. IV, n. 12) « Fit autem separatio in fine saeculi... cum regnant iusti primo temporaliter, «icut in Apocalypei ecriptum est, deinde in aeternum in illa civitate quae ibi describitur ». Cfr. anche De musica, VI, 13. Si oeservi altresì che, contraria­mente a Ticonio, e come Agostino in questa quaestio, anche l'Ambrosiastro è «chiliastic in tendency»: cfr. A. Souter, A study of Ambrosiaster, Cambridge 1-905, p. 155; id., in Journ. of Theolog. Stud. V (1904), pp. 611-615.

(43) De div. quaest. LXXXIII, qu. 69 (a I Cor., XV, 28), 4: « Regnum enim eius (6cii: Ghri6ti) sunt, in quibus nunc regnat per fidem. Aliter » enim dicitur regnum Chrieti 6ecundum potestatem divinitatis, secundum quod’ ei cuncta crèatuxa subiecta est, et aliter regnum eiue dicitur ecclesia, secundum pro­prietatem fidei quae in illo est»; 10: «Sane quod dictum est "Tunc et iipse Filius etc. *' quamvis secundum susceptionem hominis dicatur... tamen recte quaeritur utrum eecundum ipeum tantum dictum sit, quod est caput Ecclesiae (cfr. Ephès. V, 23) an eecundum universum Christum, annumerato corpore et membris eiue (Gai. III, 16, 28, 29; I Cor. XII, 12)... Non dixit: ita et Ohristi, sed ita et Chrisius, ostendens Chri6tum recte appellari etiam universum, hoc est, caput cum corpore suo quod est Ecclesia. Et multis Scripturarum locis inveni­mus Christum etiam hoc modo appellari ut cum omnibus suis membris intel- ligatur, quibus dictum est ’ Vos estis e tc .' (/ Cor. XII, 27). Non ergo ab­surde sic intelligimus " Tunc etc. '* ut Filium non solum caput Eccleeiae sed et omnee cum eo sanctos intelligamus, qui sunt unum in Christo, unum ee- men Abrahae ». Chi abbia presenti le Regole di Ticonio, avverte subito la profonda parentela 6pirituale, anche nel metodo. Altro passo caratteristico è in* De div. quaest. LXXXIII, qu. 81 (cfr. c. V, n. 50).

(44) Enarr. in Ps. LIV, 4: « Hominee malos quos patitur commemoratu­rus est, eandemque paeeionem malorum hominum exercitatiotiem suam dixit. Nfe putetie gratis esse mailos in hoc mundo et nihil boni de illis agere Deum. Omnis malus aut ideo vivit ut corrigatur, aut ideo vivit ut per illum bonus exerceatur ». Con idee già di Agostino (bontà e ordine del creato, ecc.) je col concetto del Salmo, si mescola qui, e soggiace a queste espressioni, l'idea ticoniajia che i buoni devono soffrire nel mondo ad opera dei malvagi. Questo sermone, da P. Monceaux (Hist. littér. de l'Afr. chrét., VII, pp. 148 n. 4, 153- 155, 287) è collocato negli anni 394r96 per la mancanza di accénni àila* ri­conciliazióne di Felicranò é Pretestato con i PHmianieti (397) mentre vi si ilititóe àì -concilio di* Bagai (394):' Tra questi limiti, sarei incline ; a d -aceo1

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glieie «Mudata aiquanto tardiva. Zarb, in Angelicum , XXiV (1947) pp. 47-69 pone questa Bnariatio circa la Pasqua del 395.

(45) Cfr. c. V, p. 126 6g. e note 47-50.(46) Potrebbe trattarei piuttosto delle Expositione® diversarum causai

rum: cfr. l’art. Da Ticonio a S. Agostino , cit.(47) Ep. 41, 2, del 396 o. 397 (efr. P. Monceaux, o. c., p. 297): «De Ty-

chonii eeptem regulis vel clavibus, sicut saepe iam ecripei, cognoscere quid tibi videadirt expecto ».

(4β) T5can., Liber regni. Ili e VII « Etenim impossibile eet eine grafia Dei habere aliquem gloriam. Una eet enim gloria et uno genere semper tuit. Nemo enim vicit, nisi cui Deus vicerit, quod non esi in Lege, eed qui fecerii; in fide-autem infirmum facit Deu6 adversarium no6trum- propterea "ut qui glo*. riatur in Domino glorietur” (/ Cor., I, 31). Si enim quod vincimus noetrum non est, non eet ex operibue eed ex fide, et nihil eet quod ex nobis glorie- murr. Nihil enim habemue quod non accepimus (cfr. / Cor., IV, 7). Si eu. mue, ex Deo sumue, ut magnitudo virtutie eit Dei et non ex nobis. Omne opus noetrum fidee eet, quae quanta fuerit tantum Deue operatur nobiscum. In boc gioriatur Salomon scieee se non ex homine eed ex Dei dono eese continentiam (S a p VIII, 21). Iudicio Salomonis credendum est non ex ope­ribus eed gratia Dei omnee iuetificatoe, qui scierunt opus legie a Deo impe­trandum quo poesent gloriari » — « Putant enim euperbi et beneficiorum om- mpotentie Dei ingrati sua virtute aliquid posse et eapientia ditari... Et non quidem prudentibus divitiae et non scientibue gratia. Haec enim non 6unt in noetra potestate, eed a Deo conferuntur *’ Quid enim habes etc., ” ». — « Dicunt enim quidam, qui promissiorum firmi talem et quae ex Lege eet tran­sgressionem nesciunt, promieisse quidem Deum Abrahae omnes gentes, sed «alvo libero arbitrio, ei Legem cuetodiesent. Et si pericula imperitiae quorun- dam in eofum ealutem patefacere prodeet, sed cum de Deo omnipotente sermo eet moderari dicenda debemue, ne silenda refutando memoremus et ex ore nostro aliena licet audiantur. Quare cum tremore loquentes 6ua cuique pe­ricula coneideranda relinquimus. Manifeetum eet praescisse Deum futuros de libero arbitrio quos Abrahae promieit, aut non futuroe. Alterum eet duorum: si futuroe finita quae6tio eet, ei non futuroe fidelie Deu6 non promitteret. Aut ei hoc e6t etatutum apud Deum tunc promieeos daie ei promiesi velint, pro­fecto diceret, ne eervue eiue ” credens quia quod promieit ” Deue " potene est et facere ” (Rom. IV, 21) ludificaretur Abraham. Promiseio autem illa eet quae nihil conditionis incurrit, ein minus nec promieeio est firma nec fides integra. Quid enim 6tabile remanebit in Dei promissione aut in Abrahae fidef si quod promissum et creditum eet in eorum qui promiesi sunt penderet arbitrio? ergo et Deue alienum promisit et Abraham incaute credidit » (ed. Burkitf pp. 19-20, 79, 22).

(49) Cir. nn. 3, 10, 14, 15, 16.(50) « Omne opue noetrum fides est, quae quanta fuerit tantum Deus

operatur nobiecum » cfr. n. 48.(51) « Non erat (Ticonius) expertus hanc haereeim, quae nostro tempore

exorta nuUtum nos... exercuit, etc. ... multo vigila&tioree diligenti or aeque

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ieddidit, ut adverteremus in Scripturis Sanctis quod istum Ticonium minuer at­tentum minusque eine hoete sollicitum fugifl * (De doctr. chript. Ili, 33, 46).

(52) E. Buonaiuti, Manichaeism and Augustine’s idea of massa perditionis , in Harvard theological Review, XX (1927); F. C. Burkitt, The ReUgion of thè Manìchees, Cambridge 1925.

(53) Cfr A H. Armstrong. The Architecture of thè inteìììgibìe Universe in thè Phi)osophy of Ploiinus, Cambridge 1940, p. 86: He (Piotino) varies between regarding it (la materia) as a purely negative conception, abeolute potency, and as a poeitively evil, anarchie force with a power of resisting form. The two ideas are often found combined... "; p. I l i : " When he is considering matter by itself Plotinus seems irresistibly drawn to regard it as thè principle of evil ».

(54) Su questo cambiamento, v. lè consdderazioni di E. Krebe,Sankt Augustin , Colonia 1930, p. 125 sgg. Contra ep. Fund., 5: « Promfcttebae ©nkn scientiam veritatis,et nunc quod nescio cogis ut credam. Evangelium mihi fortasse lecturus es... Si ergo invenires aliquem, qui Evangelio nondum cre­dit, quid faceres dicenti tibi: non credo? Ego vero Evangelio non crederem* nisi me Catholicae Ecclesiae commoveret auctoritas ».

(55) Da questo punto di vista si dovrebbero, mi pare, confrontare le pre­ghiere dei Soliloquia con quelle delle Confessioni, tutte intessute di teeti biblici, specialmente dei Salmi. A parte le considerazioni propriamente stili­stiche, già fatte da molti, vorrei segnalare questa tendenza spontanea alla salmodia, forma di preghiera collettiva, che viene mettendo sempre più pro­fonde radici nello spirito di Agostino.

' (56) Cfr. Retract. L 9 (10), 2; 12 (13), 8 (12) Q proposito di De Gen. c. man., I, 19, 30 e di De vera rei., 46, 88.

(57) Precisamente a III, 25, 36.(58) Cfr. c. II, η. 1.(59) Il De doctrina christiana è la quarta opera composta dopo la con­

sacrazione; le Confessioni, la sesta, secondo l ordine delle Retraotationes.(60) Per la data delle Coniessioni, v. c. ITI n. 15.(61) Marrou, o. c.f p. 64: « Naturellement il reste possible d'affirmer

qui; exisle entre ces troie parties des Confeszions une unité profonde et ee- crète. Mais ceux-là ’ mème qui ont réuesi à la montrer sont les premiere à convenir que cette unité est d'ordre psychologique et non littéraire ». E’ inutile che indichi il mio dissenso.

(62) Confess., I, 1-3; X, 1-4; XII, 38,(63) Cfr. c. VI, n. 31.

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I N DI C E

A vvertenza , ....................................................... . pag. 5CAPITOLO I:La conversione di S. Agostino - Dai Dialoghi di Cassiciaco al De

magistro , ........................................................................ > » 9Note al Cap. I r . ..............................................» 2 8

CAPITOLO II:Dal De vera religione al 1. II De libero arbitrio . » 37 Note al Cap. II , , r ...................................................... » 51

CAPITOLO III:Dall’Ad Fortunalum al Psalmus abecedarius; le conoscenze patristiche

lo studio della Bibbia e l'inizio della polemica antidonatieta . » 67 Note al Cap. Ili ...................................................... > 7 5

CAPITOLO IV:Dall’ Expositio quarundam propositionum ex Epistola aci Romanos

aìYEpistolae ad Galatas e x p o s t i io ...................................................... » 85Note al Cap. IV , .................................................................................. » 9β

CAPITOLO V:L ·< incidente di Antiochia » e la polemica con S. Girolamo; Agostino,

l’Ambrosiastro e Mario Vittorino circa l’episftola Ai Galati; il commento delTAmbrosiastro a Romani; carnali e spirituali nella

Chiesa, eresia e scisma ................................................................» 1 1 5Note al Cap. V .......................................................................................... » 128

CAPITOLO VI:L'Ad S i m p l i c i a n u m ..................................................................................» 145Note al CJap. V I .......................................................................................... » 164

CAPITOLO VII:Le testimonianze di Agostino circa il suo cambiamento; l’intfluseo del-

Ambrosiastro, di Ticonio e di S. Cipriano,· « maesa » e «bóloe»; ragione e fede; il De dooirina Christiana e le Confessioni . » 175

Note al Cap. VIH , , , . . . » 197